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giovedì 22 novembre 2018

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CON LE SUE LACRIME DI COMPASSIONE CRISTO RISORTO HA INAUGURATO PER NOI LA VIA DELLA PACE
Quando ancora non era che un pugno di uomini, il cristianesimo veniva chiamato semplicemente la “via". Tutto cominciava dalla "visita" degli apostoli itineranti nelle sinagoghe, nelle case e nelle piazze, dove annunciavano la Buona Notizia. Le loro parole erano l'eco di quelle del Maestro risorto: "Pace a voi!". Lo stesso saluto scambiato infinite volte, sulle labbra degli apostoli diveniva realtà sin dentro la vita, come era accaduto la sera di Pasqua. E tutto cambiava: l'esistenza era sradicata dalle vecchie abitudini e posta in cammino alla sequela del Signore sulla "via della pace". Ma accadeva anche che molti non “riconoscevano” nell’annuncio della Chiesa la “visita” del Signore, e il rifiuto diveniva spesso persecuzione. Come fu per “Gerusalemme” nei giorni del Messia, e poi molte volte nei secoli. E Gesù “piange” il rifiuto, “giorno” dopo “giorno”, insieme ai suoi apostoli, in ogni angolo della terra, mentre potrebbe lasciar sfogo alla sua ira. Le lacrime, infatti, segnano sempre l'annuncio del Vangelo. Esse recano il sapore di Cristo, della sofferenza con la quale ha redento il mondo. Lacrime di misericordia davanti a tutto quello che ancora non è stato “visitato” e “salvato”. In esse impariamo a guardare ai fratelli con pazienza e amore, per annunciare il Vangelo attraverso il dono silenzioso di noi stessi, quando la Parola non è accolta, come Gesù ha fatto nella città che lo rifiutava. Egli, infatti, di generazione in generazione, freme di compassione nel cuore della Chiesa, fissando profeticamente le rovine in cui si ridurrà la vita di chi non lo può "comprendere" perché ingannato dalla menzogna del demonio. Vede in anticipo i "giorni in cui i nemici” dell’anima che lo rifiuta, “cingeranno di trincee, circonderanno e stringeranno da ogni parte" pensieri e sentimenti per indurci a scappare nel peccato; Gesù sa che chi non lo accoglie rimane preda dell'orgoglio che "abbatte" genitori e figli, amici, parenti e colleghi, distruggendo ogni relazione senza "lasciare pietra su pietra". E’ quando la “via della pace” scompare dall’orizzonte e le guerre, le inimicizie, le gelosie, le invidie, i divorzi, i tribunali segnano il cammino doloroso dell’uomo. E Cristo con la sua Chiesa non può far altro che amare di nuovo “sino alla fine”, andando a prendere il peccato del mondo in ogni città che rifiuta il Vangelo e perseguita i suoi apostoli. Anche per noi "oggi" è il "kairos" della “visita” di Gesù, il momento favorevole nel quale, attraverso i fatti e le persone, Egli si fa presente per accoglierci nel suo movimento di pace e libertà. Ma spesso ci accade, come fu per Gerusalemme, di non saper "riconoscere" nella carne la "visita" del Signore; ci sembra impossibile che Egli possa indossare i panni della suocera o del capo ufficio, e rifiutiamo l’annuncio della Chiesa che illumina la storia con il Vangelo… La "via della pace" allora si "nasconde ai nostri occhi", che si spengono a poco a poco nei rancori e nei giudizi, suscitando l'incontenibile commozione di Gesù. Eccolo infatti, ancora una volta alla nostra porta come a quella di ogni uomo, a confondere le sue lacrime con le nostre, con il sale aspro del suo dolore ad accogliere il nostro, quasi implorando d'essere, finalmente, "riconosciuto" e accolto. Le sue lacrime solcano dolcemente le nostre ferite come un cammino di pace per schiuderle al suo perdono risanatore, e suscitare in noi, come accadde a Pietro, lacrime sante di pentimento. Lasciamolo entrare allora "in questo giorno" nella nostra Gerusalemme, perché torni ad essere la Città della Pace che Lui ha "scelto come sua dimora per sempre", un segno di speranza da annunciare ad ogni uomo intingendo nelle nostre lacrime la misericordia di Dio.

mercoledì 21 novembre 2018


                        SOLA A SOLO






Fate attenzione, vi prego, a quello che disse il Signore Gesù Cristo, stendendo la mano verso i suoi discepoli: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,49-50). Forse che non ha fatto la volontà del Padre la Vergine Maria, la quale credette in virtù della fede, concepì in virtù della fede, fu scelta come colei dalla quale doveva nascere la nostra salvezza tra gli uomini, fu creata da Cristo, prima che Cristo in lei fosse creato? Ha fatto, sì, certamente ha fatto la volontà del Padre Maria santissima, e perciò conta di più per Maria essere stata discepola di Cristo, che essere stata madre di Cristo. Lo ripetiamo: fu per lei maggiore dignità e maggiore felicità essere stata discepola di Cristo che essere stata madre di Cristo. Perciò Maria era beata, perché, anche prima di dare alla luce il Maestro, lo portò nel suo grembo. Maria proprio per questo è beata, perché ha ascoltato la parola di Dio e l’ha osservata. Ha custodito infatti più la verità nella sua mente, che la carne nel suo grembo. Cristo è verità, Cristo è carne; Cristo è verità nella mente di Maria, Cristo è carne nel grembo di Maria. Conta di più ciò che è nella mente, di ciò che è portato nel grembo. Santa è Maria, beata è Maria, ma è migliore la Chiesa che la Vergine Maria. Perché? Perché Maria è una parte della Chiesa: un membro santo, un membro eccellente, un membro che tutti sorpassa in dignità, ma tuttavia è sempre un membro rispetto all’intero corpo. Se è membro di tutto il corpo, allora certo vale più il corpo che un suo membro. Il Signore è capo, e il Cristo totale è capo e corpo. Che dire? Abbiamo un capo divino, abbiamo per capo Dio. Perciò, o carissimi, badate bene: anche voi siete membra di Cristo, anche voi siete corpo di Cristo. Osservate in che modo lo siete, perché egli dice: «Ecco mia madre, ed ecco i miei fratelli» (Mt 12,49). Come potrete essere madre di Cristo? Chiunque ascolta e «chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50).



 (Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo)



Non voglio ammassare meriti per il cielo; 
voglio lavorare solo per il tuo Amore, 
nell'unico desiderio di farti piacere, 
di consolare il tuo sacro Cuore 
e di salvare anime che ti ameranno per sempre.
Al tramonto di questa vita, 
mi presenterò a Te, o Signore, 
con le mani vuote, 
perché non voglio domandarti di cantare le mie opere... 
Tutta la nostra giustizia si presenta macchiata ai tuoi occhi. 
Voglio rivestirmi dunque della tua Giustizia 
e ricevere dal tuo Amore il possesso eterno di Tè. 
Non voglio altro Trono o altra Corona se non Tè, o mio Diletto!...

S. Teresa di Lisieux

martedì 20 novembre 2018

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LA NECESSITA' DELL'AMORE SINO ALLA FINE DOVUTA AI NOSTRI PECCATI SENZA FINE
Oggi è speciale: per ciascuno di noi è come fu quel giorno per Zaccheo, "l'Arci-pubblicano, arci-peccatore" e ricco e perduto.Oggi non si può indurire il cuore, il sole è sorto per ascoltare la sua voce e farci entrare in Paradiso, come fu quel pomeriggio per il ladrone crocifisso accanto a Gesù: in un istante si vide spalancare le porte del Cielo, per uno sguardo, per una parola. Oggi è speciale, il Signore deve passare proprio dalle nostre parti, deve fermarsi a casa nostra, come fu per Zaccheo. Quel giorno Gesù era entrato in Gerico, come Giosuè; l'aveva conquistata guarendo un povero cieco: al suo grido di dolore s'era fatta risposta una parola del Signore, e le mura erano crollate; aveva votato allo sterminio ogni demonio, la città era ormai bonificata; Gerico era "purificata", come Zaccheo, il cui nome significa "puro". La città degli uomini era divenuta, per amore di Zaccheo, la Città di Dio; scriveva Sant'Agostino: "Due amori hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. Quella trova la sua gloria in sé stessa, questa nel Signore. Quella cerca la gloria tra gli uomini, per questa la gloria più grande è Dio, testimone della coscienza. Quella solleva il capo nella sua gloria, questa dice al suo Dio: Tu sei la mia gloria e sollevi il mio capo... Ambedue tuttavia ugualmente si servono dei beni temporali e ugualmente sono afflitte dai mali temporali, distinte solo da diversa fede, diversa speranza, diverso amore". Gesù era entrato in Gerico, la attraversava, e così preparava Zaccheo ad essere cittadino della Città di Dio, a vivere nel diverso amore seminato dal suo passaggio.
Zaccheo non lo sapeva. Non poteva immaginare che Gesù, entrando nella sua città, aveva fatto scendere la sua Grazia tutto intorno a lui, perchè potesse correre, e cercarlo, e incontrarlo. Aveva conquistato una città intera per salvare lui, per dare compimento alla sua primogenitura, alla sua vita, per farlo puro, come già era scritto nel suo nome. Così oggi Gesù entra e conquista la nostra "città" per farne il luogo di Grazia dove poterlo incontrare, dove possa dirci come alla Vergine Maria: "Ti saluto o piena di Grazia, il Signore è con te!". Nel luglio del 529, durante il Concilio omonimo, fu sottoscritto nella città di Orange, vicina ad Avignone, un testo di fondamentale importanza, che nel gennaio 531, Papa Bonifacio II approvò con una sua lettera. Nella conclusione del documento, non a caso, si trovano le figure evangeliche del buon ladrone, del centurione Cornelio e di Zaccheo, a testimonianza che «quella fede così mirabile non proviene dalla natura ma è dono della bontà divina». Nella sua lettera il Papa si rallegra del sensus fidei cattolico apparso ad Orange e ne conferma le ispirazioni scrivendo che "la retta fede in Cristo e il sorgere della buona volontà viene ispirata, per grazia preveniente di Dio, alle facoltà proprie dei singoli individui.... è evidente che la fede per cui crediamo in Cristo, così come ogni bene, proviene ai singoli uomini dal dono della grazia divina, non dal potere della natura umana".
Zaccheo aveva saputo qualcosa di Gesù e tentava di precederlo, spinto dalla Grazia che previene; intuiva che l'amore di quell'Uomo lo avrebbe condotto sino a lui. Di una cosa sola era certo: era un peccatore pubblico e ricco: oggetto di disprezzo e invidia; e poi quei "guai" annunciati da quel Rabbì di Galilea e che risuonavano, sinistri, anche da quelle parti: guai a chi ride, a chi è sazio, guai ai ricchi perchè sono già consolati... Ma Zaccheo aveva certamente ascoltato anche dell'originalità di quel Nazareno: andava a mangiare dai peccatori come lui, dai pubblicani e dai ricchi come lui, e non temeva di contaminarsi come tutti gli altri rabbini che lo guardavano con odio e disprezzo. Chissà, forse con un po' di fortuna, avrebbe potuto averlo come ospite.
Certamente, non era felice; era una vita scomoda la sua, con tutti quegli occhi sprezzanti e pieni di odio addosso. Per questo, anche la curiosità di Zaccheo, come la nostra, accesa dall'eco della fama di Gesù, è già opera della Grazia. Dentro quella curiosità si addensava anche l'insoddisfazione e l'eco di una promessa che ogni uomo reca sigillata nel cuore: è Gesù la risposta, la salvezza, la felicità vera. Così Zaccheo corre per vederlo, e noi con lui, e non sospettiamo che quella corsa ci sta portando dritti a un appuntamento che non abbiamo preso; ma che ha preso Gesù, e lo tiene annotato da sempre sull'agenda del suo zelo. E saliamo sul sicomoro, immagine della nostra storia, incapaci di accettare la nostra piccolezza e inadeguatezza, e che ci sembra soffocare in mezzo agli altri.
Eppure, anche questo arrampicarsi per paura di non poter vedere e capire, diviene un luogo santo, il Sinai dove vedere Dio e non morire. Ogni sicomoro allora è, misteriosamente e paradossalmente, pienezza del tempo e dello spazio; siamo quel che siamo, ci arrampichiamo, sgomitiamo, vogliamo emergere, siamo affamati di senso e compiutezza, e combiniamo di tutto. Ma in questo tutto così meschino e ridicolo sul quale ci issiamo, è già inscritta la salvezza. L'oggi che ci vede sul sicomoro è l'oggi dell'incontro con la salvezza. Il sicomoro è piantato nella città purificata, è debolezza innestata sulla potenza di Dio. Dobbiamo imparare a guardare con occhi diversi le nostre debolezze, come quelle di chi ci è accanto. I moralismi che vorrebbero sradicare i sicomori della fragilità e della precarietà, possono precludere il cammino incontro al Signore. Chi non guarda alla propria vita e a quella dei figli, di ogni prossimo, con la certezza che il Signore è già entrato nella città e la sta attraversando e purificando nel suo amore, dirigendosi proprio verso quel sicomoro, ha già chiuso le porte alla misericordia. Il luogo dell'incontro con Gesù è, come la grotta di Betlemme e il Calvario, il katalyma - lo stesso termine usato nelle tre circostanze - il seno benedetto dove si rinasce a vita nuova.
Ma Gesù sa tutto. Lui conosce il nostro nome, la nostra storia, il nostro cuore, come conosceva quello di Zaccheo: "Puro", scendi subito, che devo fermarmi a casa tua. Così ci chiama oggi, e non importa se non siamo puri, i suoi occhi intrisi di misericordia ci vedono così... Gesù sa perfettamente dove ci siamo issati, e alza lo sguardo per incontrarci proprio lì. Lui ci ama, sempre e comunque, a prescindere. Per questo, spinto da un'irrefrenabile esplosione d'amore, Lui deve venire, e restare a casa nostra. Noi a cercare di vederlo, e Lui a cercare e a salvare quello che era perduto. E non c'è tempo di mettere ordine, di spazzare, non c'è tempo di prepararci all'incontro. Lui ci anticipa sempre. E' solo la Sua Parola a cambiare, anche oggi, la nostra vita: "scendi". Torna in te, rientra nella verità e non temere. Scendi i gradini del cammino che ti conduce al battesimo, perchè Gesù vuole stare con noi, con me, con te. Altro non conta. Passato, presente, futuro, tutto è racchiuso in una Parola d'amore: "Non temere, scendi, il ti amo così come sei".
Gesù anche oggi è ai nostri piedi, come nella notte prima di morire sulla Croce, e si mette in ginocchio davanti a ciascuno di noi; ci guarda dal basso, lavandoci i piedi, perdonando ogni nostro peccato. Gesù è il Maestro, ha autorità, non come gli scribi e i farisei che insegnavano senza compiere nulla di quello che dicevano. Il Signore ha autorità perché ci chiama a raggiungerlo dove già Lui è arrivato. Se ci dice di scendere è perché Lui è già sceso, e ci aspetta lì, nella verità della nostra vita, dove ha deposto il suo amore. È questo un principio educativo molto importante, decisivo, per i genitori, per i presbiteri, per i catechisti, per qualunque educatore. Stare già dove si vuole chiamare e condurre i giovani, i figli, il gregge. È l'autorità dell'autenticità, quella di Gesù, alla quale Zaccheo ha ubbidito rapidamente e naturalmente. L'autorità che non è moralismo, se non misericordia e verità, amore infinito che compie già quello che annuncia chiamando all'obbedienza. Per entrare a casa sua Gesù non pone condizioni, non esige che cambi vita: la conversione sarà un frutto, perchè l'agire segue sempre l'essere, e l'essere deve essere prima rinnovato.
La pedagogia di Cristo è questa, preparare tutto, purificare l'ambiente, fare bella ogni cosa, attraente, perchè laddove Lui è e si ferma, tutto acquista uno splendore, una luce, una bellezza nuova, che è impossibile resistergli. Perchè non scendiamo mai dai nostri sicomori? Perchè, mentre ci ripetiamo che sarebbe bello seguire Gesù, restiamo chiusi nei nostri progetti, nei criteri, e continuiamo la nostra vita? Perchè cadiamo sempre negli stessi peccati? Per debolezza? Certo, siamo piccoli come Zaccheo. Ma c'è una ragione più profonda, ed è quella che, in controluce, emerge dall'incontro di Gesù con Zaccheo.
La spiega S. Agostino: "Se il poeta ha potuto dire [cita Virgilio, Ecl. 2 ]: “Ciascuno è attratto dal suo piacere”, non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo». Per convertirci, per obbedire alla grazia che ci previene e lasciare quello che abbiamo oggi tra le mani, per seguire Gesù occorre essere guardati da Lui, è necessario incontrare una bellezza che ci ferisca e ci rapisca il cuore. Bisogna innamorarsi al punto che tutto il resto, ma proprio tutto, divenga secondario rispetto a Cristo, spazzatura ed impedimento, come diceva San Paolo; "La vita dell’uomo" infatti, scriveva San Tommaso, consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione" (San Tommaso d’Aquino, Secunda secundae, in Summa Theologiae, q. 179, art. 1.).
Zaccheo ha incontrato lo sguardo di Cristo e se ne è innamorato; ha trovato l'affetto che sostiene la vita, la sua più grande soddisfazione. Commenta S. Agostino: "E il Signore vide proprio Zaccheo. Fu visto e vide; ma se non fosse stato veduto, non avrebbe visto... Siamo stati veduti perché potessimo vedere; siamo stati amati affinché potessimo amare" (S. Agostino,Discorso 174). Zaccheo è stato guardato, e per questo ha visto lo sguardo nel quale ha potuto specchiarsi, e vedersi bello, compiuto, realizzato. Zaccheo, piccolo, certamente nevrotico e sempre in lotta con se stesso e con i suoi complessi, in cerca di un sicomoro per raggiungere e superare gli altri, ha incontrato gli occhi di Gesù, e ci è potuto entrar dentro, e vedersi come non si era mai visto: innanzi tutto conosciuto, e per questo cercato, accolto e amato; e poi, in quello sguardo profondo come l'infinito che non puoi neanche abbracciare, ha trovato la pace, la statura ideale per la sua vita, l'amore di Cristo. In quello sguardo sono evaporati i complessi, e Zaccheo ha raggiunto l'equilibrio, si è riconciliato con se stesso; per lui, quegli occhi erano divenuti una piscina battesimale dove annegare l'uomo vecchio, schiavo delle menzogne, attaccato alla corruzione dei quattro denari sottratti per rubare spazio, dignità, statura, e da dove risorgere come una creatura nuova.Zaccheo incontrando Cristo si è ritrovato uomo, debole, piccolo, eppure perfetto e bello, perchè raggiunto e trasfigurato nell'amore: infatti, "noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore" (2 Cor. 3,18).
Zaccheo, cercato e perdonato senza condizioni, vede il suo cuore trasformato in una sorgente d'amore. Liberato da se stesso si dona senza misura. E' questa l'esperienza che ha cambiato la vita a San Francesco nella notte di Spoleto: "Appena giunto nella città più vicina (Spoleto), udì nella notte il Signore, che in tono familiare gli diceva: Francesco, chi ti può giovare di più: il signore o il servo, il ricco o il poverello? Il signore e il ricco, rispose Francesco. E subito la voce incalzò: E allora perché lasci il Signore per il servo; Dio così ricco, per l'uomo, così povero? Francesco, allora: "Signore, che vuoi che io faccia? Il Signore rispose: Ritorna nella tua terra, perché la visione, che tu hai avuto, raffigura una missione spirituale, che si deve compiere in te, non per disposizione umana, ma per disposizione divina. Venuto il mattino, egli ritorna in fretta alla volta di Assisi, lieto e sicuro. Divenuto ormai modello di obbedienza, restava in attesa della volontà di Dio". Francesco, come Zaccheo, torna nella sua terra, nella sua storia, perchè "laddove è abbondato il peccato ha sovrabbondato la Grazia".
E vi torna pieno di gioia accogliendovi Cristo. Ecco la sorgente della gioia! Accogliere Cristo che si è "auto-invitato" nella nostra casa, per legare l'uomo forte, il demonio, e strappargli i beni che aveva rubato. Accogliere la salvezza e vedere tutto con occhi nuovi, gli occhi di Cristo. "Io lo guardo ed egli mi guarda diceva il contadino di Ars in preghiera davanti al Tabernacolo. Questa attenzione a lui è rinuncia all’«io». Il suo sguardo purifica il cuore. La luce dello sguardo di Gesù illumina gli occhi del nostro cuore; ci insegna a vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini" (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2715). Riconciliato con Dio e con se stesso e la propria storia, Zaccheo e ciascuno di noi, è ormai libero e può riconciliarsi con tutti, e di tutti avere compassione. Un cuore amato, toccato e abitato da Cristo già vive in un altro mondo, sua Patria è il Cielo, dove sono infrante le dure leggi della carne e del profitto. Olivier Clément ha scritto che i cristiani autentici sono riconosciuti nel mondo perché si sente che tali persone "hanno scoperto qualcos'altro, che si radicano in un altrove così reale da esser pronti a dare la propria vita per esso. Un altrove che non fa vivere in un altro posto, come una droga, ma che consente di amare in maniera disinteressata". Nessuna difesa, l'uomo nuovo Zaccheo, ricreato in Cristo, non si appartiene più, è del suo Signore, e, in Lui, di ogni fratello. L'incontro con Lui fa scaturire la comunione, rompe le barriere dell'egoismo e apre orizzonti nuovi: nasce la Chiesa, il Popolo che gratuitamente riceve e gratuitamente dona.
Accogliendo “oggi” Cristo che si auto-invita nella nostra casa, possiamo vivere in pienezza ogni giorno come Yom Kippur, il grande giorno del perdono, nel quale ogni ebreo era invitato a visitare coloro con i quali aveva qualche cosa in sospeso per riconciliarsi. Ed è proprio quello che ha fatto Gesù con Zaccheo; Lui, senza peccato, si è fatto peccato e ha preso l'iniziativa andando a cercare in Zaccheo ogni peccatore per offrirgli il perdono e la riconciliazione. Ecco perché era “necessario”, come recita il greco originale, che Cristo si “fermasse” nella casa di Zaccheo, doveva sciogliere l'inganno che lo aveva separato da Dio! Come anche "oggi" è necessario che ci visiti, con la Parola o con gli eventi attraverso i quali sempre Dio ci parla, e così si possa fermare nella nostra vita, per salvarci, e non solo. E' necessario che ci faccia una cosa con Lui, nella nostra casa, nei pensieri, nelle parole, nei gesti, perché noi si possa finalmente restituire “quattro volte tanto” quanto abbiamo sottratto ingiustamente a chi ci è accanto, l’amore di cui avevano diritto moltiplicato dalla misericordia di Dio. E per fare di noi altrettanti Gesù che devono fermarsi a casa di ogni uomo, sino al più lontano, per farvi entrare la salvezza e trasformare ogni oggi nel giorno di Pasqua, offrendo la riconciliazione con il Padre e issare in Cielo questa generazione.
Subito, infatti, la casa di Zaccheo è trasformata da Gesù in viscere di misericordia. Laddove si ferma il Signore regna infatti la misericordia, e anche le cose più ordinarie divengono occasioni nelle quali si compie una missione straordinaria: annunciare l'amore infinito di Dio compiuto in un peccatore, un traditore, un ladro. Zaccheo, con San Paolo, può ben dire che "lo stesso Iddio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo. Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi" (2 Cor. 4, 6 ss.).
Il volto di Cristo è davvero rifulso nel cuore malato e perduto di Zaccheo, come su quello di ciascuno di noi; resteremo quello che siamo - carattere, fisico, debolezze, non cresceremo e resteremo piccoli di statura - e la Grazia abiterà sempre in un vaso di creta; ma proprio perchè è così, la nostra vita sarà un riverbero dello sguardo di Cristo offerto al mondo perchè la salvezza entri in ogni casa; la vita di Zaccheo è divenuta un annuncio di speranza, nonostante le mormorazioni e lo scandalo che sempre provoca la conversione impensata, magari proprio di chi ci ha frodato e ingannato. Ma, come scriveva Sant'Agostino, "per quanto sia lodata e per quanto sia esaltata la virtù, che senza la vera pietas è utile alla gloria degli uomini, non la si può nemmeno paragonare ai primi piccoli passi dei santi, cioè di coloro la cui speranza è posta nella grazia e nella misericordia del vero Dio". Siamo chiamati infatti - attraverso i nostri piccoli passi che ad ogni oggi ridiventano i primi - a rivelare a tutti che in ogni desiderio di felicità è inscritto il desiderio di Dio. E che, prima ancora di essere desiderato, Lui è già lì, pieno di misericordia, a guardarci con amore infinito.

lunedì 19 novembre 2018

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MENDICANTI DELL'AMORE AUTENTICO CHE DISCHIUDE GLI OCCHI SUL VOLTO DI CRISTO INCARNATO NEI FRATELLI
"Gerico era saldamente sbarrata dinanzi agli Israeliti; nessuno usciva e nessuno entrava" (Gs. 5,13). Gerico, "città della luna", è la porta di accesso alla Terra Promessa. La sua conquista, narrata nel capitolo 6 del libro di Giosuè, appare come una liturgia con suoni di tromba e il grido assordante del popolo. Per comprendere il segno di Gesù descritto nel Vangelo, occorre rileggere l'episodio della conquista di Gerico: "Disse il Signore a Giosuè: «Vedi, io ti metto in mano Gerico e il suo re. Voi tutti prodi guerrieri, tutti atti alla guerra, girerete intorno alla città, facendo il circuito della città una volta. Così farete per sei giorni. Sette sacerdoti porteranno sette trombe di corno d’ariete davanti all’arca; il settimo giorno poi girerete intorno alla città per sette volte e i sacerdoti suoneranno le trombe. Quando si suonerà il corno dell’ariete, appena voi sentirete il suono della tromba, tutto il popolo proromperà in un grande grido di guerra, allora le mura della città crolleranno e il popolo entrerà, ciascuno diritto davanti a sé»... Al popolo Giosuè aveva ordinato: « Non urlate, non fate neppur sentire la voce e non una parola esca dalla vostra bocca finché vi dirò: Lanciate il grido di guerra, allora griderete ». L’arca del Signore girò intorno alla città facendo il circuito una volta... Così fecero per sei giorni. Al settimo giorno si alzarono al sorgere dell’aurora e girarono intorno alla città in questo modo per sette volte; soltanto in quel giorno fecero sette volte il giro intorno alla città. Alla settima volta i sacerdoti diedero fiato alle trombe e Giosuè disse al popolo: «Lanciate il grido di guerra perché il Signore vi dà in potere la città...». Allora il popolo lanciò il grido di guerra e si suonarono le trombe. Come il popolo udì il suono della tromba ed ebbe lanciato un grande grido di guerra, le mura della città crollarono; il popolo allora salì verso la città, ciascuno diritto davanti a sé, e occuparono la città".
Sino al momento in cui passa Gesù, il cieco era rimasto a mendicare. Silenzioso, come intimato da Giosuè al Popolo. Come ciascuno di noi, forse inconsapevolmente, si trova a mendicare silenzioso, senza sussulti o grida, sulla strada dei giorni, dove scorrono le relazioni, le cose da fare, e i pensieri e le decisioni. Chiediamo, semplicemente, vita, felicità, affetto, dignità. Mendichiamo l'essere, chiediamo di entrare a prendere possesso della Terra che ci è stata promessa; tutti abbiamo dentro un desiderio inappagato che ci muove a mendicare: "L’uomo aspira ad una gioia senza fine, vuole godere oltre ogni limite, anela all’infinito" (J. Ratzinger, Luce del mondo, p. 95).
Il Catechismo rintraccia il fondamento del desiderio: “Mediante la creazione Dio chiama ogni essere dal nulla all’esistenza… Anche dopo aver perduto la somiglianza con Dio a causa del peccato, l’uomo rimane ad immagine del suo Creatore. Egli conserva il desiderio di colui che lo chiama all’esistenza.” (n. 2566). Si tratta del desiderio che muove il cieco, immagine dell'uomo ferito dal peccato, incapace di tutto eppure spinto a superare la sua situazione, il limite imposto da quegli occhi chiusi sul mondo. Il suo mendicare ogni giorno lungo la strada definisce il suo desiderio. Malamente, accontentandosi forse, cedendo a compromessi grossolani, eppure, in quella mano tesa, si fa presente il gemito di un cuore che, custode del seme divino deposto dal Creatore, conserva il desiderio, balbetta la nostalgia della perfezione e pienezza di Colui che lo ha chiamato all'esistenza dal nulla.
Il nostro mendicare di ogni giorno è la traccia di questa nostalgia fattasi desiderio. Per questo i sacerdoti ed il popolo girano per sei giorni intorno a Gerico: è l'immagine della nostra vita alle porte della Terra Promessa, della pienezza della vita, della corrispondenza unica e autentica al nostro desiderio. Sei giorni, la ferialità della vita trascorsa mendicando. Ma, conservata e custodita, al centro dei giorni, del lavoro, della famiglia, delle amicizie che sembrano tirate via elemosinando lo straccio di un senso, vi è l'Arca, la presenza di Dio. La mendicanza è positiva, è già una liturgia! E' attesa, inconsapevole eppure struggente, di Lui, del suo passaggio risanatore. Ogni nostro giorno, anche se mendicante, è creativo, perché Dio, con amore, continua a creare dal nulla la nostra storia per farci felici. Dio crea durante i primi sei giorni "cose buone", in attesa della "cosa molto buona", dell'uomo a sua immagine. Così noi mendichiamo nell'attesa dello Shabbat, del giorno del Messia, di Cristo e della sua risurrezione, del riposo di chi, affaticato e oppresso, può trovare solo nella sua umiltà e mitezza. Mendichiamo, e in questo, Dio alimenta e sostiene il nostro desiderio, accompagnandoci, perdonandoci e tirandoci su quando, deboli e feriti, ci volgiamo a idoli e menzogne.
Ogni nostro giorno è già lanciato alla presa di Gerico! Anche se ce ne stiamo seduti a mendicare, Dio sta preparando lo scrigno dove depositare la fede. Per questo anche quanto, nella nostra vita, ci sembra fallimentare, meschino e abietto ha un valore immenso. La stessa Grazia donata al cieco: trovarsi in quel luogo, su quella strada alle porte di Gerico, in quel momento, a quell'ora. Quel suo mendicare protrattosi da non si sa quanto tempo, lo aveva condotto, misteriosamente, ad esser lì, dentro a quell'appuntamento che, di certo, non aveva fissato lui. Così è per ciascuno di noi. Desideriamo e mendichiamo, e non ci rendiamo conto che tutta la storia spesa a stendere la mano, ci ha preparato e condotto ad essere puntuali ad un appuntamento che Lui ha preso, da sempre, con noi.
Il Vangelo di oggi ci annuncia dunque una buona e inaspettata notizia: ogni giornata della nostra storia, ogni evento, ogni persona, ci accompagnano ad entrare in possesso dell'oggetto autentico del nostro desiderio. Anche attraverso la debolezza e le cadute intrecciate al nostro povero mendicare. Anzi, proprio attraverso l'esperienza dell'estrema indigenza, Dio scrive, lettera dopo lettera, la sua dichiarazione d'amore, il suo invito all'appuntamento nel quale donarsi totalmente. Possiamo guardare con fiducia a questa nostra vita mendicante. Il Signore è in cammino, è vicino a noi, passa proprio accanto a quel metro quadro di strada che definisce la nostra vita di oggi. Esattamente in questo momento. Giunge il settimo giorno, la Pasqua della Vita e del perdono, nel quale prorompere in grida altissime. L'Arca è, da sempre, con noi. Le trombe dei sacerdoti, la preghiera incessante della Chiesa, lo zelo di chi ha a cuore la nostra sorte, hanno custodito la presenza di Dio in noi. Passa Gesù, è arrivato il Messia. Ce lo annunciano quelli che "camminano avanti", il Popolo in procinto di entrare in Gerico, coloro che vanno "ciascuno diritto davanti a sé".
Certo, lo stupore è grande, come la tentazione di star zitto e non disturbare. Dentro e fuori di noi i pensieri, i consigli, il buon senso, il "religiosamente corretto", ci vogliono indurre a tacere. Un mendicante cieco è sempre, agli occhi legalistici e moralistici, un indegno: reca impresso nella sua cecità il segno del disordine del peccato; è un fallito, un pigro, preferisce starsene seduto aspettando da fuori l'aiuto che dovrebbe procurarsi da sé. Non si impegna, non si sforza, mendica.... E invece il cieco continua, "ancora più forte" del moralismo, dei sensi di colpa, dei rimorsi. Prende forza dalla sua debolezza e dalla fede accolta attraverso l'ascolto della predicazione - "Passa Gesù Nazareno!" - che innesca la scintilla capace di schiudergli la salvezza. Tutto è Grazia! Perfino quel suo stare là... E' bastato il passaggio di Gesù ad accendere la fede donata dalla predicazione, a decodificarla in un grido, a professarla con semplici parole, umili perché vere: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". Abbi pietà tu di me: la mano tesa del mendicante, la nostra mano, ha trovato la pietà vera, cercata come la può cercare un cieco, nel matrimonio, nei figli, nel prestigio, nell'amicizia, nel lavoro; spesso nei peccati...
E quel grido ferma il passaggio di Gesù. E' il potere della fede fatta preghiera. Attraverso di essa, cifra della libertà orientata alla Verità, l'appuntamento diviene realtà. La preghiera ha il potere di far compiere la volontà di Dio: il suo pensiero di bene circa quel cieco si realizza grazie a quel grido. Occorre che Gesù si accorga di lui e si fermi. Occorre che la scintilla della fede raggiunga Cristo, lo tocchi, scenda al suo cuore e "liberi"la sua commozione, la sua pietà. Come hanno fatto l'emoroissa, il centurione, il buon ladrone sulla croce. Perchè l'appuntamento cui siamo destinati si traduca in un avvenimento reale, è necessario dare del "tu" a Gesù: la mia preghiera mendicante lo rende un "tu" per me, Qualcuno che ha relazione con me, con la mia vita. La preghiera gli consegna l'autorità per fare quello che ha pensato, per compiere la volontà del Padre in noi. "Si trovano l’uno di fronte all’altro: Dio con la sua volontà di guarire e l’uomo con il suo desiderio di essere guarito. Due libertà, due volontà convergenti: "Che vuoi che io ti faccia?", gli chiede il Signore. "Che io riabbia la vista!", risponde il cieco. "Va’, la tua fede ti ha salvato". Con queste parole si compie il miracolo. Gioia di Dio, gioia dell’uomo" (Benedetto XVI).
Così la preghiera, a partire dall'umile riconoscimento della propria realtà di mendicante, divine la professione di fede più genuina: Sì, il cieco, in una frase condensa la fede della Chiesa. Il tu e l'io descritti nel suo grido, dicono tutto, professano la fede e attirano la salvezza. Io, mendicante bisognoso, Tu, Figlio di Davide, il Messia, l'unico Salvatore. E la pietà, la misericordia, la salvezza, Gerico, la Terra Promessa, il riposo, la vita piena ed eterna. Si comprende allora perché tutta la tradizione orientale abbia come fondamento la preghiera di questo cieco, la "preghiera di Gesù". Benedetto XVI sintetizza magistralmente tutto questo: "Nell’esperienza della preghiera la creatura umana esprime tutta la consapevolezza di sé, tutto ciò che riesce a cogliere della propria esistenza e, contemporaneamente, rivolge tutta se stessa verso l’Essere di fronte al quale sta, orienta la propria anima a quel Mistero da cui si attende il compimento dei desideri più profondi e l’aiuto per superare l’indigenza della propria vita. In questo guardare ad un Altro, in questo dirigersi “oltre” sta l’essenza della preghiera, come esperienza di una realtà che supera il sensibile e il contingente" (Benedetto XVI, Catechesi nell'Udienza Generale dell' 11 maggio 2011).
Il grido del cieco lo orienta verso quell'oltre al quale è chiamato da Gesù e condotto dai discepoli. Ora è "vicino" a Lui e si accorge che, come nella bellissima scena del film "Marcellino pane e vino", pur senza vederlo ancora, quell'Uomo era un mendicante come lui. Marcellino vede Cristo nudo, e pensa che abbia fame. Nella sua innocenza gli porta del pane. E quel pane gli aprirà il cuore di Cristo, che lo accoglierà nella sua intimità. E' Cristo che mendica la fede del cieco, il suo bisogno, come il nostro; come sulla Croce, ha sete del nostro abbandono, ha sete di donarci l'acqua viva; mendica il poter offrire la pietà mendicata. Diceva Mons. Giussani che "L’esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo". "Che vuoi che io faccia per te?".
Questa domanda è oggi rivolta a ciascuno di noi. Possiamo riacquistare la vista per vedere Lui, il "tu" che dà compimento ad ogni nostro desiderio. Crollano le mura di Gerico che impediscono l'ingresso alla Terra, si aprono gli occhi e si può, finalmente contemplare il volto di Cristo, e scoprire che, da sempre, era impresso in noi e nella nostra storia. E da questo incontro nasce un discepolo ebbro di gioia e di lode. Il cieco lascia quel lembo di terra sul quale ha passato la vita mendicando. Ma non smette di mendicare. E' afferrato in una relazione nuova e sorprendente, che lo attrae e lo seduce. Ora il cieco segue Cristo, con il cuore rivolto a Lui, origine e compimento di tutto: famiglia, lavoro, amicizie. Ora egli sa a Chi mendicare; lo seguirà in un cammino di fede e di illuminazione che durerà per tutta la vita, per imparare ad andare "diritto davanti a sé".

domenica 18 novembre 2018

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LA PRECARIETA' E LA CROCE CI ANNUNCIANO CHE LO SPOSO E' ALLE PORTE
La nostra vita subisce costantemente l’attentato di milioni di parole che cercano di prendere possesso dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti, delle nostre azioni. Fuori e dentro di noi si scatena una guerra ogni volta più cruenta tra le parole più disparate. E, normalmente, ne portiamo le tristi conseguenze: stanchezza psicologica, stordimento, incapacità di orientarsi e di comprendere.
Uno sterminato esercito di sentenze, di opinioni, di idee si affaccia ai nostri padiglioni auricolari e si spintona violentemente per entrare. E siamo ogni volta più confusi. Politica, morale, vita, sport, parole a volontà su ogni aspetto della vita. Parole che dicono tutto e l’esatto contrario.
Ma è proprio dentro l’estrema confusione che accompagna gli stravolgimenti del mondo, in noi e fuori di noi, che possiamo ritrovare un segno, un’ancora di salvezza. Tutto passa. Tutto è destinato ad essere cancellato dal tempo. Un sms cancella immediatamente il contenuto, la “verità” del precedente.
Così ogni parola è fagocitata dalla successiva, rivelandone l’assoluta provvisorietà con un ritmo incalzante. Così nella nostra vita. Affetti, lavoro, svaghi, ideali, salute, ogni cosa è precaria.
Eppure proprio dentro la transitorietà di quel che viviamo alberga una certezza, qualcosa che fonda, tra i marosi, la nostra esistenza. In ogni istante della nostra vita è nascosto il Mistero Pasquale del Signore, il suo passaggio dalla morte alla vita.
Per questo proprio le rivoluzioni, i fallimenti, le sofferenze della vita, anche le esperienze più drammatiche che ci lasciano tramortiti, forse moribondi, sono un segno dell’opera di Dio. Il cielo e la terra passeranno, ma le Parole del Signore non passeranno. Mai.
La sua Parola d’amore, capace di ri-crearci nella misericordia, è una Parola eterna. Lui non mente. Non tradisce. La sua Parola si compie nella nostra vita. Proprio mentre tutte le altre parole segnano il passo rivelandosi effimere e transitorie.
Così, se nella vita ogni cosa è destinata a passare, a sfuggirci, è per lasciar posto all’unica Parola che non passerà in eterno: la Parola fatta carne, il nostro Signore Gesù.
Per questo, anche quello che sembra scivolare via è misteriosamente ricapitolato, risanato e come reso eterno dal suo amore. Il passare di tutto riverbera il passaggio pasquale del Signore nella storia. Il fluire delle cose è cristallizzato nel passaggio del Signore, e, misteriosamente, ciò che è corruttibile è assorbito dall’incorruttibile.
Questo è il mistero della nostra vita, fatta di eventi, relazioni, storie che apparentemente scorrono via inesorabilmente e senza ritorno, mentre invece tutto è assorbito e santificato dal “passaggio che non passa”; silenziosamente, e spesso nascostamente, tutto di noi è innestato nella Pasqua del Signore nella quale ogni istante è un diadema incastonato nella corona della storia di salvezza che Dio fa con ogni uomo.
In Lui la vita perduta, e tutto quello che sembra smarrito, è ritrovato e trasfigurato. Santificato. Non si butta nulla della nostra vita, perché dove c’è il Signore vi sono frutti che rimangono.
Tutto di noi è Grazia, dono di Lui, che proprio nell’estrema precarietà rivela la nostra unica Roccia: il suo amore infinito. Le sofferenze, i problemi, le angosce, il fallire dei progetti, sono i germogli che spuntano sui rami della nostra croce, preannunciano l’estate, non la morte!
Nelle parole del Signore si ode l’eco del Cantico dei Cantici; dure e crude, sono parole d’amore. È lo Sposo che incede, e vuole destare la sposa, accendere in lei il desiderio di Lui, e schiudere i suoi occhi in un discernimento capace di intercettare i segni del suo avvento imminente.
***
Una voce! Il mio diletto!
Eccolo, viene
saltando per i monti,
balzando per le colline.
Somiglia il mio diletto a un capriolo
o ad un cerbiatto.
Eccolo, egli sta
dietro il nostro muro;
guarda dalla finestra,
spia attraverso le inferriate.
Perché, ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n’è andata;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna.
Il fico ha messo fuori i primi frutti
e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni!
***
Commentando il Cantico dei Cantici, San Gregorio di Nissa scrive: “Il fico è una pianta che, per effetto del calore, succhia in modo straordinario l’umidità che è nel profondo della terra. E siccome nelle midolla del fico si raccoglie molto umore, per necessità la natura, cuocendo gli umori nella pianta, depone giù dai rami tutta la parte inutile e terrena dell’umore. E questo processo è ripetuto parecchie volte, perché la pianta possa al momento opportuno produrre il suo frutto genuino e nutriente, purificato di tutto quello che era inutile. Orbene, questo prodotto, che spunta in forma di frutto dalla pianta del fico prima che si formi il vero frutto, dolce e maturo, si chiama “grosso”; anch’esso è commestibile talvolta, per chi lo vuole; ciò nonostante quello non è il frutto: i grossi sono, infatti, preannuncio dei fichi commestibili, e il testo dice che il fico li aveva fatti spuntare… Poiché il testo rappresenta alla sposa la primavera spirituale, e questa stagione sta al confine tra i due tempi, cioè tra quello della mestizia invernale e quello del godimento dei frutti nell’estate, per questo motivo si annuncia esplicitamente che i mali sono passati, anche se non si sono mostrati ancora nella loro pienezza i frutti della virtù, ma essi sono riservati a tempo debito, allorquando sarà stabile l’estate…
Dal momento che la natura umana, in modo analogo al fico di cui qui si parla, ebbe raccolto in gran copia umore dannoso a causa di quell’inverno da noi inteso in senso spirituale, giustamente colui che produce per noi la primavera della nostra anima e con conveniente coltivazione della terra fa sì che la sostanza umana faccia spuntare i suoi alberi, innanzi tutto caccia fuori dalla nostra natura tutto quello che è terrestre e inutile… Quindi, in tal modo, fa spuntare nella nostra vita una certa impronta della beatitudine in cui speriamo per mezzo del comportamento più onesto, e preannuncia per mezzo dei “grossi” la futura dolcezza dei fichi” (Omelie sul Cantico dei cantici, Omelia V).
Gli eventi descritti dal Signore nei brani precedenti ci aiutano a riconoscere in essi i germogli che preannunciano la dolcezza dell’incontro con Lui, il premio sperato e atteso.
La Croce che ci accompagna ogni giorno attraverso gli sconvolgimenti della storia, purifica gli umori assorbiti dall’inverno degli inganni, e ci prepara ad accogliere l’estate, il Regno dei Cieli ormai vicino. Non a caso il suo avvento è descritto dal Signore come una mietitura: etimologicamente, in greco, therismós (mietitura) è collegato a theros (estate). Come scriveva San Gregorio, la nostra vita è nella primavera, nel cuore della Pasqua.
Ci troviamo, ogni istante, al confine tra i due tempi, cioè tra quello della mestizia invernale e quello del godimento dei frutti nell’estate; come Natanaele, israelita in cui non vi è inganno, possiamo riposare all’ombra del fico, accogliendo, scrutando e meditando la Parola che non passerà mai. E così, mossi da essa, passare dall’inverno all’estate, entrare nel Regno preparato per noi.
Sì, ogni evento è un germoglio che ci ricorda l’elezione che ci ha presi dal mondo, perché il fico è anche immagine di Israele: “guardai ai vostri padri come ai primi frutti di un fico” (Os 9,10). La storia concreta, le persone che ci sono date, tutto di noi e in noi segna la primo-genitura, il senso stesso della nostra vita, che è essere i primi frutti dell’umanità.
È il Signore che ci chiama, giorno dopo giorno, da dietro il muro che sembra impedirci la felicità. Il muro che ci oppone il coniuge, l’amico, il collega, o la nostra debolezza fisica, la precarietà economica, la fragilità del carattere o i suoi difetti; il muro dei nostri peccati.
Dietro a tutto si cela lo Sposo, innamorato e appassionato, che ci chiama ad alzarci; ci guarda con tenerezza, e ci annuncia oggi che è passato l’inverno, che la morte è vinta, che possiamo entrare negli eventi dai quali siamo sempre scappati terrorizzati. Bruciato il passato di morte nel fuoco del suo amore, possiamo correre verso l’estate che ci attende, liberi, e attirare con noi questa generazione.

sabato 17 novembre 2018


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LA PREGHIERA INSTANCABILE DELLA CHIESA CI DONA LA FEDE NELLA QUALE ATTENDERE IL RITORNO DELLO SPOSO
Sperare contro ogni speranza, il fondamento ultimo e primo della preghiera. Vedova, con un avversario a stringerle la gola, e un giudice terribile da cui aspettarsi tutto meno che giustizia. Speranze umane praticamente nulle. Questa vedova si confonde nell' immagine dell'inerme colomba che simboleggia Israele, la sposa del Signore come appare nel Cantico dei Cantici: "O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole" (Ct. 2,14). La tradizione di Israele interpreta questo versetto alla luce della notte di Pasqua: "Quando il Faraone malvagio inseguì il popolo d'Israele, questo era simile a una colomba che era in fuga da un falco ed è entrata nella fessure delle rocce, e il serpente sibilava contro di lei. Se entrava, ecco il serpente, se usciva, ecco, c'era il falco" (Targum Shir Ha-Shirim 2:14). Il rabbino Rashi è ancora più esplicito: "Questo è detto in riferimento al tempo che il Faraone e il suo esercito inseguirono e raggiunsero gli israeliti accampati presso il mare, e non c'era nessun posto dove fuggire di fronte a loro a causa del mare, né vi era posto per passare al lato a causa della bestie feroci".
La preghiera della vedova è, essenzialmente, la voce dell'amata in difficoltà suscitata dall'Amato: è Lui che, innamorato e attirato dalla sposa, desidera ascoltare la sua voce, la chiama e la invita a pregare e a mostrare il suo volto. La preghiera è l'amore che spalanca il mare, che ci introduce nella Pasqua, e fa della nostra vita un esodo verso la libertà. Forse non abbiamo mai pensato che è proprio il Signore a desiderare il nostro grido, la nostra preghiera incessante. Anche quando sembra sparire dalla nostra vita, quando ci sentiamo come questa vedova, è Lui che ci ripete: "fammi udire la tua voce, mostrami le tue lacrime, dimmi quello che vi è al fondo del tuo cuore".
Crediamo sforzarci per pregare, e a volte è così, ma la necessità di pregare sempre e senza stancarsi è la necessità dell'amore. Prega con fede e senza stancarsi solo un cuore innamorato, raggiunto dalla voce del suo Amato. Pregare non è follia o rifugio alienante: "L’impegno della preghiera sembra, a tutta prima, un estraniarsi dalle lotte della vita. Sembra una rinuncia a combattere. Ma chi pensa così, non conosce la potenza della preghiera" (Giovanni Paolo II, Firenze, Omelia del 19 ottobre 1986). Pregare è sperare contro ogni evidenza, sospinti dall'impulso che sorge da un cuore ferito d'amore. Ancor prima di metterci a pregare, Lui conosce quello di cui abbiamo bisogno, e lo tiene già pronto per donarcelo, secondo la sua volontà; ma desidera ascoltare la nostra voce, che gli esprimiamo il nostro amore, perché solo chi ama è davvero felice, anche nelle difficoltà.
Il nostro amore verso di Lui non può che essere il povero balbettio di una vedova che cerca giustizia; parole ripetute con insistenza al giudice, come le lacrime della peccatrice versate copiose sui piedi di Gesù, perchè ama molto solo colui al quale molto è stato perdonato. Sì, per amare Cristo, non abbiamo che l'insistenza delle lacrime e della preghiera. E' necessario amare per vivere, e chi ama davvero non si stanca mai; come in qualunque relazione, non mancano certo i momenti di difficoltà, ma è proprio allora che l'amore rivela la sua definitività e la sua autenticità. Amare è cosa di tutta una vita, e così pregare. Per questo il Signore conclude la parabola chiedendosi se, tornando, troverà ancora la fede sulla terra, ovvero se troverà ancora amore nel cuore della Chiesa sua amata.
Spesso dunque la fede deve accompagnarci nel deserto, come la vedova del Vangelo; radicata in altre passate esperienze, accese per Grazia dallo Spirito Santo ad illuminare la ragione incastrata nel dubbio e nell'incomprensibilità, la fede muove il cuore a pregare e ad amare nonostante l'aridità e la tentazione. Quando tutto sembra congiurare contro di noi, sul lavoro, in casa, la salute, i soldi che non bastano mai, quando siamo con la lingua di fuori, stremati dagli insuccessi e accerchiati dal nemico, la fede è sperare al di là di ogni ragionevolezza. La preghiera è il "linguaggio" della fede adulta di chi ha fondato la propria vita sull'amore di Dio, sperimentato e conosciuto. "E’ chiaro infatti che la preghiera dev’essere espressione di fede, altrimenti non è vera preghiera. Se uno non crede nella bontà di Dio, non può pregare in modo veramente adeguato. La fede è essenziale come base dell’atteggiamento della preghiera (Benedetto XVI, Omelia del 17 ottobre 2010).
La fede è questa speranza, la preghiera d'una vedova che non ha nessuno, niente altro che la propria insistenza. Giorno e notte senza stancarsi. L'insistenza dell'amore, mossa dalla certezza di essere esaudita; questa vedova sa che l'unica arma per scardinare la porta blindata del giudice è la sua insistenza. Laddove non potrebbero le ragioni umane, neppure i migliori avvocati - e comunque la vedova non ne ha - può l'insistenza spinta al limite della resistenza altrui; molestare e prendere il giudice per sfinimento.
Come fanno i bambini quando si mettono in testa di farsi regalare il gelato o un nuovo giocattolo: non c'è nulla da fare, si piantano accanto alla madre, e chiedono e piangono e non smettono sino a quando, esausta, non esaudisce i suoi desideri. Il bambino sa che quella è la chiave, la sua furbizia dettata dall'esperienza e neanche troppo ragionata, lo muove a fare così. Il figlio è certo della "vittoria", perchè i suoi capricci, la sua insistenza petulante, hanno sempre avuto ragione dei primi dinieghi dei genitori. Così è per questa vedova: con l'insistenza sfianca il giudice, il quale, pur di non averla più tra i piedi, le accorda giustizia. E non era assolutamente scontato, visto che in quella società, nonostante quanto prescritto dalla Torah, la vedova contava ben poco, e meno contro un avversario potente in mezzi e avvocati.
La vedova sa che le è stata fatta un'ingiustizia dall'avversario. Ha coscienza di aver subito un'ingiustizia, che qualcuno ha turbato l'equilibrio della sua vita, prendendola tra il Faraone e il mare, tra il falco e il serpente. Si è dovuta ingiustamente rifugiare nella cavità di una roccia, è già in prigione, ha perduto la propria libertà. E per questo, accesa dall'amore, certa di essere esaudita, affamata di giustizia, insiste senza stancarsi. Il verbo enkakein tradotto con "senza stancarsi", ha il significato di cominciare a trascurare qualcosa o tralasciare un impegno a cui si è obbligati. La coscienza di avere un avversario le impedisce di trascurare la preghiera, la supplica, l'amore.
Chi invece ha perduto questa coscienza e non si rende più conto di avere un avversario che gli sta facendo un ingiustizia si stanca, comincia a tralasciare l'impegno costitutivo della propria vita. Solo chi ha conosciuto la Giustizia misericordiosa di Dio ha coscienza dell'avversario, ha timore di perdere per sempre la giustizia vera, e di precipitare in una vita mutilata, a metà, come è quella di una vedova.
La Giustizia nella Scrittura descrive il rapporto pieno e autentico con Dio, il permanere nella Verità di cui parla spesso S. Giovanni. Questa vedova ha un avversario che le ha strappato o le vuole strappare questa vita santa, bella, giusta. E' l'attacco più grave, non può stancarsi nel chiedere che le sia riconosciuto, protetto o ridato il diritto di vivere nella giustizia, nella comunione con il suo Sposo. La vedova rivendica la misura di vita che le corrisponde; vuole che essa sia piena, traboccante come le spetta per diritto, e implora che le sia versata in grembo. Insiste perchè vuole vivere secondo giustizia, la giusta misura di verità, amore, pace e letizia che corrisponde alla sposa di Cristo!
Questa insistenza si manifesta, essenzialmente, attraverso i gemiti inesprimibili dello Spirito Santo che gridano dentro ciascuno di noi. Non sappiamo quello che dobbiamo domandare, solo sappiamo, come la vedova, che c'è una giustizia, una misura alta di vita per la quale siamo stati creati ed eletti! Come, quando e dove essa si compirà è affare dello Spirito Santo. Esso attesta al nostro intimo che siamo figli, coeredi di Cristo di una vita giusta, secondo la volontà di Dio, che non possiamo trascurare.
Per questo è necessario pregare sempre, ne va della nostra felicità. Non possiamo abbassare la guardia, c'è l'avversario. Questo termine indica il demonio, l'accusatore che ci accusa giorno e notte davanti a Dio, come già fece con Giobbe, e poi con gli eletti di Dio. Sbandiera i nostri peccati e ci vuole condannati. E quante volte sentiamo queste accuse penetrarci dentro, tramortirci, e gettarci nello sconforto, nel vederci sempre uguali, sempre gli stessi peccati... Le accuse di colui che prima ci ha ingannati, sedotti e spinti a peccare, e poi ci trascina davanti al Giudice.
E' l'esperienza che, ad esempio, facciamo in famiglia, quando discutiamo con il coniuge, con i figli o con i genitori, e ci alteriamo e, alla fine, vomitiamo ingiurie che non avremmo mai voluto pronunciare. E ci ritroviamo come questa vedova, che non può appellarsi né alla giustizia umana - il giudice non ha riguardo di nessuno - né al sentimento religioso - il giudice non teme Dio - Soli con i nostri peccati, soli con i rimorsi e quell'orgoglio ferito che ci fa impazzire. L'avversario ci ha resi vedovi, ci ha strappato lo Sposo. Per i nostri peccati, per il male che si abbatte su di noi, l'avversario ci ha tolto ingiustamente lo Sposo, e non lo vediamo più, e la vita s'e spezzata, perde di senso, scivola via privata della gioia.
"Ma ecco, fin d'ora il mio testimone è nei cieli, il mio mallevadore è lassù; miei avvocati presso Dio sono i miei lamenti, mentre davanti a lui sparge lacrime il mio occhio" (Gb. 16,19-20). E' proprio dall'abisso nel quale siamo precipitati che possiamo elevare il grido, lasciare che lo Spirito Santo elevi i gemiti che siano i nostri avvocati presso Dio. I lamenti dello Spirito Paraclito, l'avvocato presso il Padre che perora la nostra causa. Lo Spirito del Signore Gesù che si è offerto per noi come mallevadore ed è ora alla destra di Dio: Lui che, secondo il significato del termine, impegnando sé stesso ed il proprio patrimonio, presta garanzia per ciascuno di noi, diventandone obbligato in solido, con i suoi stessi beni, con la sua vita. L'avversario non poteva immaginarlo: al solo pregare, Gesù si fa prontamente garante per noi presso Dio. Il Giudice non può non ascoltare prontamente dinanzi ad un Avvocato che garantisce mostrando al Padre le sue stesse piaghe, la sua vita offerta in riscatto.
Per questo possiamo insistere, pregare senza stancarci: quello che chiediamo non è altro che il compimento in noi della Giustizia della Croce, il perdono dei nostri peccati, poter lavare e rendere candide le nostre vesti, le nostre anime, nel sangue dell'Agnello, per vivere la vita giusta, il matrimonio giusto, l'amicizia giusta, il lavoro giusto. Siamo chiamati a vivere ogni istante implorando la Giustizia che smaschera la menzogna dell'avversario e il suo impianto accusatorio; pur essendo schiaccianti le prove contro di noi - abbiamo trascurato e siamo stati infedeli, quel giorno a quell'ora in quel posto, non ci sono attenuanti: la moglie ha sofferto, i figli si sono sentiti perduti, l'amico è scappato, il fidanzato ferito... - per un miracolo impensato, la folle Giustizia di Dio ci scagiona facendo ricadere la colpa sull'Innocente che ha confessato un delitto mai commesso. "O immensità del tuo amore per noi! O inestimabile segno di bontà: per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio!" (Exultet di Pasqua).
E' questa la Giustizia che trasforma un assassino in un santo, una vedova nella sposa più felice, colei alla quale è stato ridonato lo Sposo sottratto, per vivere con Lui una vita autentica. Con fede occorre saper riconoscere i nostri avversari, i pensieri e la mediocrità che ci appare la via più semplice alla felicità, le concupiscenze d'ogni genere. La grandezza e la bellezza della vita alla quale siamo chiamati ci svelano i pericoli che si nascondono dietro l'angolo, gli avversari che attentano alla nostra vocazione. Abbiamo bisogno della fede che, senza stancarsi, ci spinge a lottare e cercare prima di ogni cosa il Regno di Dio e la sua giustizia, la nostra vera patria già su questa terra.
La fede è il fondamento delle cose che si sperano, la certezza della "pronta" Giustizia di Dio, nel tempo necessario che si rivelerà breve un fulmine, se sarà colmato con l'attesa, il grido, la preghiera, l'amore. S. Basilio Magno afferma che "chi prega, ha le mani sul timone della storia". Si tratta della preghiera che sussurra senza posa il dolce Nome di Gesù, secondo l'interpretazione che la Chiesa Orientale ha dato al versetto sulla necessità di pregare senza stancarsi. Il Pellegrino russo ha imparato che la "preghiera del cuore" recitata al ritmo dei respiri e dei battiti del cuore, è l'unica cosa necessaria nella vita.
Attraverso di essa si imprimono il desiderio di giustizia e perdono, della vita piena e santa, il grido, l'abbandono, l'amore e la fede su ogni passo posato nella storia. La preghiera della vedova che trasferisce tutta intera la propria vicenda umana ai piedi del Trono di misericordia del Padre. Forse nulla cambierà secondo i nostri umani desideri, ma sarà mutato il nostro sguardo sui fatti e le persone, la vera Giustizia che giudica tutto trapassando le apparenze e giungendo diritto al cuore d'ogni cosa, l'amore infinito di Dio che avvolge e impregna tutto di una dolcissima misericordia.
"Il Signore è giudice e non v'è presso di lui preferenza di persone. Non è parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell'oppresso. Non trascura la supplica dell'orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare? La preghiera dell'umile penetra le nubi, finché non sia arrivata, non si contenta; non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto, rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l'equità. Il Signore non tarderà... finché non abbia fatto giustizia al suo popolo e non lo abbia allietato con la sua misericordia. Bella è la misericordia al tempo dell'afflizione, come le nubi apportatrici di pioggia in tempo di siccità" (Sir. 35,2ss).
La bellezza risplendente in Maria, che è rimasta ferma nella fede nel tempo del dolore, anche dinanzi al Figlio Crocifisso, contemplando in Lui la Giustizia che Ella stessa - Figlia di Sion e Madre della Chiesa, vedova sola senza nessun avvocato, abbandonata come Gesù anche dagli amici - implorava per noi suoi figli, per ogni uomo. in Lei, come scriveva Benedetto XVI, Gesù troverà la fede sulla terra, nella Chiesa radicata in essa, ai piedi della Giustizia crocifissa e per questo eterna e capace di salvare i peccatori. La Giustizia che il mondo non conosce e che ha diritto di conoscere.
Per questo il Signore conclude la Parabola chiedendo se "il Figlio dell'Uomo quando tornerà, troverà la fede sulla terra?" L'esperienza della Giustizia misericordiosa di Dio non può che farsi annuncio, evangelizzazione. La missione della Chiesa infatti è quella della Vedova che ha trovato prontamente giustizia. Il mondo chiede giustizia, i tribunali sono pieni, la politica si gioca nelle aule giudiziarie, da sempre nel mondo si cerca un capro espiatorio per le proprie pene, per i fallimenti, le ingiustizie, i peccati. Tutti cercano giustizia ma nel posto e nel modo sbagliati. E' missione unica e irrinunciabile della Chiesa illuminare il mondo e annunciargli la vera Giustizia; per questo occorre custodire la fede e camminare in essa.
La fede che il Figlio "spera" di trovare alla fine dei tempi, e nel suo quotidiano ritorno incamminato alla nostra ricerca sulle strade di questa terra, è il nostro abbandono tra le sue braccia; la fede di Abramo, la "fede sulla terra" come canta un midrash sul sacrificio di Isacco, che ha sperato contro ogni speranza nella sterilità prima, e salendo il Moria poi, sommerso dai flutti di disperazione di una morte incipiente, nella quale ha "visto" il giorno di Cristo, la risurrezione impensabile, la Giustizia della Croce. Solo questa fede incarnata nella vedova può schiudere le labbra alla predicazione, all'annuncio del Vangelo. Così la domanda del Signore può anche essere letta: "Il Figlio dell'Uomo quando tornerà, troverà chi annunci il Vangelo? Chi mostri al mondo che sul Monte il Signore provvede? Chi custodisca e trasmetta la fede?".
Diceva infatti San Giovanni Paolo II: "Le parole pronunziate da Cristo in questa sua domanda, contengono una specie disfida alla Chiesa di tutti i tempi. E questa sfida ha un carattere missionario. Se il Figlio dell’uomo alla sua venuta definitiva deve trovare “la fede sulla terra”, è necessario che tutta la Chiesa sia costantemente missionaria (“in statu missionis”), così come è stato sottolineato dal Concilio Vaticano II. La Chiesa è missionaria, quando accoglie con fede, con speranza e con carità, la parola di Dio: questa Parola che è “viva, efficace, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4, 12). La Chiesa vive nella luce di questa Parola. Vive e si rinnova nella sua potenza. La potenza della parola di Dio si fonda sulla Verità, sulla Verità definitiva, perché è anche la prima. Sulla Verità assoluta, cioè tale per cui in essa “si risolvono” tutte le verità che ne derivano, le verità umane. Sulla verità perciò, assolutamente semplice e limpida, che è accessibile ai “piccoli”, che si rivela a tutti gli uomini “puri di cuore” e di buona volontà, come Gesù ci ha insegnato nel suo Vangelo. La potenza della parola di Dio è nella verità ed è nella missione!" (Giovanni Paolo II, Omelia del 19 ottobre 1986).