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martedì 31 marzo 2020

αποφθεγμα Apoftegma


“L’innalzare” mediante la Croce
costituisce in un certo qual senso la chiave 
per conoscere tutta la verità, che Cristo proclamava.
La Croce è la soglia, attraverso la quale
sarà concesso all’uomo di avvicinarsi 
a questa realtà che Cristo rivela.

Giovanni Paolo II, Messa con gli universitari, 30 marzo 19

INNALZATI CON CRISTO NELLA VERITA'


Spesso e senza rendercene conto guardiamo a Cristo come a un suicida. Magari non elaboriamo il concetto in maniera così cruda, ma, se ci guardiamo dentro quando appare la croce nella nostra vita, scopriremo che è proprio ciò che pensiamo. Si tratta della scelta imposta da Pilato alla folla tumultuante: "Volete che vi liberi Gesù o Barabba?". La giustizia umana fondata sulla violenza, o l'agnello di Dio che si carica di ogni ingiustizia? Per noi la via intrapresa dal Servo di Yawhè, l'agnello muto che non apre bocca e si lascia umiliare sino ad offrire la propria vita, è puro suicidio: "Il Dio in croce è una maledizione scagliata sulla vita, un dito levato a comandare di liberarsene" (F. Nietzsche). Quando la storia frappone ostacoli al compimento dei nostri desideri e alla realizzazione dei nostri progetti guardiamo al crocifisso come a una maledizione, e sentiamo, irrefrenabile, l'impulso a liberarci dalla sofferenza. Scegliamo Barabba e ci incamminiamo sul sentiero opposto a quello della Croce. "Apparteniamo al mondo, siamo di quaggiù", le logiche "di lassù"  non le comprendiamo. Quante volte "lo abbiamo cercato" senza trovarlo? Perché lo abbiamo cercato nelle nostre concupiscenze, mentre ci facevamo giustizia, increduli che "Io sono" è amore sino alla fine, sino al nemico. Per questo il Signore ci dice che "non possiamo andare dove egli va". Non possiamo seguirlo sulla via della Croce, l'assurdo ci spaventa, il dolore ci annichilisce. La nostra esistenza sembra basarsi sulle tragiche parole riportate nel libro della Sapienza: "La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio, quando l'uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati" (Sap. 2, 1-2). Dietro a ogni rifiuto della Croce vi è sempre l'incredulità cinica di chi non ha conosciuto Colui che libera dagli inferi: "se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati". La tomba ci fa paura, e, se una lapide decreta la fine, siamo condannati a lottare con tutte le forze per allontanare il più possibile la morte. Per questo non possiamo accettare un figlio che uccida i nostri progetti su di lui; che la moglie o il marito entrino in crisi e distruggano affetto e dolcezza, polverizzando l'immagine di matrimonio che abbiamo coltivato; la suocera che ci guarda di traverso obbligandoci sempre sulla difensiva; un lavoro che ci umilia senza un briciolo di rispetto; una malattia che sconvolga i ritmi e inchiodi la vita alla precarietà. Non accettiamo, e ci dimeniamo, cercando ragioni, soluzioni, vie di fuga, ma senza successo: la vendetta non ci consola, farci giustizia non ci placa, accaparrare tutto per offrire ogni cosa alla nostra carne ferita non ci sazia. "Moriamo nei nostri peccati", perché non sappiamo rispondere alla domanda cruciale: "Tu chi sei?". 




Ma ancora una volta si avvicina la Pasqua per rinnovare il prodigio: i peccati nei quali siamo morti, quelli che si ripetono giorno dopo giorno come gocce che scendono da un rubinetto mal chiuso, "innalzano" per noi Cristo davanti ai nostri occhi. E' questo l'assurdo che può trasformare la nostra vita: nell'amore sconvolgente di Dio, il peccato diventa lo strumento per conoscere e sperimentare che Gesù è "Io sono", ovvero Dio Onnipotente. I nostri fallimenti, le paure, la Croce che abbiamo preparato per Lui sono anche oggi il modo folle attraverso il quale Dio ci viene incontro per offrirci una roccia su cui appoggiare la nostra fede: morti nei peccati, nei peccati possiamo incontrare la vita. La maledizione che tante volte abbiamo lanciato contro la nostra storia ha crocifisso "Io sono". E Lui era lì, a lasciarsi "innalzare", perché sapeva bene che solo "allora" lo avremmo riconosciuto. Guarda bene la tua vita, e conta quanti giudizi, quante menzogne, quante porcherie nascoste nel cuore ti ha perdonato. Perché sei ancora vivo? Perché oggi puoi ancora ascoltare una Parola che ti chiama a conversione? Perché hai ancora una possibilità per non distruggere del tutto il matrimonio, per riconciliarti con tuo figlio? Perché c'è ancora una Pasqua che ti aspetta per ridarti la vita? Perché il Signore "non ha mai fatto nulla da se stesso, ma come gli ha insegnato il Padre ha parlato" annunciandoci la verità. A differenza di tutti noi "ha sempre fatto le cose gradite al Padre", sino a donarsi sulla Croce. Convertiamoci allora, e fissiamo il crocifisso. Non è stato suicidio, ma il dono più grande; su quel legno erano scritti i peccati nei quali siamo andati a morire, noi sì suicidandoci... ma se alziamo gli occhi - che significa pregare, digiunare, fare elemosina, accostarsi ai sacramenti e ascoltare umilmente la Parola di Dio, e andarci a riconciliare con i fratelli - scopriremo Gesù "innalzato" al centro della nostra vita per strapparci alle cose di quaggiù e insegnarci a pensare a quelle di lassù. Proprio dove più dura è la sofferenza e più forte è il desiderio di sfuggirla, sperimenteremo allora che Lui è Dio, e che il suo amore è più forte del peccato che ci schiavizza. "Io sono" ci attende sulla Croce per farci "essere" con Lui. Rinneghiamo noi stessi e lasciamoci "innalzare" con Lui. Solo allora, nella nostra umiliazione per amore, chi ci è accanto "saprà" che Dio è amore, che in Lui si può ricominciare. Così, crocifissi con Cristo, potremo finalmente "andare dove Lui" ci ha preceduto per prepararci un posto, compiendo la volontà di Dio. Al Padre, infatti, è gradita una famiglia santa, sposi, genitori e figli che si amano, come una comunità cristiana che vive nella comunione, sperimentando che con Cristo "non siamo mai soli".

lunedì 30 marzo 2020


Oggi, 22 ottobre, è il giorno di Papa Giovanni Paolo II: le sue ...
LA LETTURA TEOLOGICA E PROFETICA DELLA STORIA E IL SUO LEGAME CON LA SOFFERENZA E LA FAMIGLIA.
La "NECESSITA'" della sofferenza personale di San Giovanni Paolo II illumina la quarantena in famiglia come una "necessità nella necessità", per offrire tutto insieme alle nostre famiglie per la salvezza della famiglia. E la necessità della nostra sofferenza di oggi e di ogni giorno, e di quella di tanti fratelli soli, malati o che sono già passati all'altra riva. E' il mistero tremendo della necessità per Gesù di soffrire e prendere la Croce, necessità dovuta ai nostri peccati. La necessità della sofferenza di Cristo in noi oggi è la prospettiva salvifica e celeste che ci dona S. Giovanni Paolo II.
TUTTO PER IL VANGELO, PER DIVENTARNE PARTECIPI CON QUESTA GENERAZIONE.
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E io vorrei che, attraverso Maria, sia espressa oggi la mia gratitudine per questo dono della sofferenza nuovamente collegato con il mese mariano di maggio. Voglio ringraziare per questo dono. Ho capito che è un dono necessario. Il Papa doveva trovarsi al Policlinico Gemelli, doveva essere assente da questa finestra per quattro settimane, quattro Domeniche, doveva soffrire: come ha dovuto soffrire tredici anni fa, così anche quest’anno.
Ho meditato, ho ripensato di nuovo a tutto questo durante la mia degenza in ospedale. E ho trovato di nuovo accanto a me la grande figura del Cardinale Wyszynski, Primate della Polonia (del quale ricorreva ieri il 13 anniversario della morte). Egli, all’inizio del mio Pontificato, mi ha detto: “Se il Signore ti ha chiamato, tu devi introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio”. Lui stesso ha introdotto la Chiesa in Polonia nel secondo millennio cristiano.
Così mi disse il Cardinale Wyszynski. E ho capito che devo introdurre la Chiesa di Cristo in questo Terzo Millennio con la preghiera, con diverse iniziative, ma ho visto che non basta: bisognava introdurla con la sofferenza, con l’attentato di tredici anni fa e con questo nuovo sacrificio. Perché adesso, perché in questo anno, perché in questo Anno della Famiglia? Appunto perché la famiglia è minacciata, la famiglia è aggredita.
Deve essere aggredito il Papa, deve soffrire il Papa, perché ogni famiglia e il mondo vedano che c’è un Vangelo, direi, superiore: il Vangelo della sofferenza, con cui si deve preparare il futuro, il terzo millennio delle famiglie, di ogni famiglia e di tutte le famiglie.
Volevo aggiungere queste riflessioni nel mio primo incontro con voi, carissimi romani e pellegrini, alla fine di questo mese mariano, perché questo dono della sofferenza lo devo, e ne rendo grazie, alla Vergine Santissima. Capisco che era importante avere questo argomento davanti ai potenti del mondo. Di nuovo devo incontrare questi potenti del mondo e devo parlare. Con quali argomenti? Mi rimane questo argomento della sofferenza. E vorrei dire a loro: capitelo, capite perché il Papa è stato di nuovo in ospedale, di nuovo nella sofferenza, capitelo, ripensatelo!
Domenica, 29 maggio 1994

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PER CANCELLARLI E DONARCI LA VITA NUOVA E LIBERA, GESU' SCRIVE I NOSTRI PECCATI NELLA SUA CARNE CROCIFISSA
Una "donna", senza nome, puoi mettere il tuo, posso mettere il mio. Un peccato, l'adulterio, il mio e il tuo. Sembrava amore e invece era solo passione, gli ormoni a dettare legge per fuggire da un matrimonio che non aveva più nulla da dire; magari il marito è da un secolo che la stava trascurando, chiuso nella sua banale superficialità. E una "donna", si sa, ha bisogno d'essere considerata, corteggiata, ne va della sua femminilità. Forse l'aveva tradita, e non poteva sopportarlo, doveva fargliela pagare. O forse era stata solo una sbandata, un fremito, di quelli che ti prendono quando qualcuno ti fa sentire importante; quelle parole che nessuno le aveva mai detto, e sembrava capire tutto di lei, s'era accorto addirittura che aveva cambiato rossetto. L'occasione aveva bussato, e l'aveva trovata indifesa, incapace di resistere. Quel volto, e quella voce d'uomo, proprio in quel momento, proprio sulla soglia della depressione, una vita spesa tra lavoro, fornelli e bucati; e lo dicono anche gli psicologi, e poi i film, le canzoni, la televisione, non si può perdere così la dignità, da troppo tempo aveva dimenticato d'essere una "donna", di quelle vere, autodeterminate; non era mica nata per fare solo la madre e la moglie, altro che sottomissione... Ecco, quell'uomo che le si avvicinava le aveva improvvisamente incendiato l'orgoglio. E' lì, nel fondo melmoso del cuore, dove s'agita il demone più feroce, che sempre tutto ha inizio. Di colpo s'era trovata dinanzi all'albero, come la prima delle "donne", con un futuro di libertà e felicità da cogliere senza pensarci troppo. E' vero che qualcosa le diceva che no, non era proprio così, che s'era sposata perché lo aveva desiderato e deciso, che, pur tremando, la fedeltà l'aveva promessa felice per tutti i giorni della sua vita; che quei bambini erano la luce dei suoi occhi, e che era orgogliosa che portassero il nome di suo marito, che le piaceva perfino che gli assomigliassero. Ma sottomessa no; quello sguardo dolce, quelle parole a pranzo, quella presenza improvvisa le stavano finalmente indicando la ragione del sottile malessere che l'aveva afferrata da tempo: il limite, il sacrificio, l'obbedienza e il dono di sé, tutto era troppo, si sentiva frustrata, quanto era che non usciva con un'amica per fare shopping? In fondo lui non era neanche bello; intelligente e comprensivo si dice, ma nulla di più. Non era di lui che s'era invaghita accidenti, non era passione per un uomo, checchè ne dicesse la sua collega. Di se stessa s'era innamorata, e questo si chiama superbia. Lui era solo uno sguardo e una voce prestate al serpente; lei desiderava un'altra se stessa, perché quegli occhi e quelle parole che l'avevano turbata, i complimenti e le gentilezze che le scompensavano gli ormoni, in fondo la stavano disprezzando senza pietà. Quell'uomo stava stracciando e buttando nella spazzatura ciò che lei era stata sino a quel momento: donna, sposa e madre. Insinuandole una menzogna la stava spingendo a tradire se stessa, perché ciò che era non valeva, non serviva. Doveva essere la sua amante per valere. Come fece con Eva, il demonio le stava dipingendo il quadro della "donna" che non sarebbe mai stata: servita, obbedita, valorizzata, rispettata, amata, non perché "donna", e sposa, e madre, non perché immagine della Chiesa per la quale Cristo ha offerto se stesso, ma perché sarebbe divenuta come dio. A questa menzogna aveva legato il suo cuore, e ogni abbraccio, ogni bacio, ogni amplesso, ogni parola e ogni istante passato con l'amante era un frammento di morte che si impadroniva di lei. E ora era lì, come Eva, "sorpresa in flagrante adulterio"; e "Mosè, nella Legge, ha comandato di lapidare donne come questa". Era giusto così, perché la pioggia di pietre le avrebbe solo dato pubblicamente la morte che il suo cuore e la sua carne avevano scelto e consumato nel segreto. Per questo era lì "nel mezzo", come un esempio per quanti avevano in animo di peccare. Gli "scribi e i farisei", del resto, avevano già condannato l'adultera; ma avevano bisogno di lei per condannare il Signore. Il suo adulterio, infatti, sarebbe servito per "mettere alla prova Gesù e avere di che accusarlo". Ma proprio qui appare la Pasqua, il mistero che ci stiamo preparando a celebrare. La Pasqua che stravolge tutto: proprio il desiderio di accusare Gesù avrebbe salvato quella donna! Gesù stava "insegnando" la Torah, la Legge sulla quale venivano a metterlo alla prova: "tu che ne dici?". Forse stava spiegando perché in Galilea aveva predicato che bastava uno sguardo di concupiscenza per commettere adulterio con una donna nel proprio cuore. Che è da lì che iniziamo a tradire Dio, noi stessi e gli altri... Ma ora, misteriosamente, non dice nulla, "si china", e comincia a "scrivere in terra con il dito". Fa un segno, e nessuno lo capisce. Il suo dito sembra sfiorare così la debolezza di quella donna, fatta di "terra" come tutti quelli che erano lì, il popolo giustiziere, gli scribi sapienti e i farisei integerrimi. Il suo dito era una carezza che annunciava la verità: la Legge, la libertà, l'amore, il cammino della vita, tutto è scritto sulla polvere che è il cuore di ogni uomo. Un po' di vento cavalcato dalla tentazione, e la vita scappa via. Per questo Gesù ci dice oggi: "chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei". Tutti hanno peccato. Tutti hanno commesso adulterio con il demonio separandosi da Dio. Tutti hanno creduto alla menzogna e hanno pensato di poter essere diversi, come Dio. E tutti sono morti. Allora, che fate? Vi cominciate a prendere a sassate fino a che non vi ammazzate tutti? E' questo che diceva Mosè? No, perché la Torah parla di me, in ogni sua pagina. Annuncia che davvero i vostri peccati sarebbero stati la mia accusa e la mia condanna, scritti tutti sulla Croce. Annuncia il perdono per ogni peccato, l'unico giudizio capace di estirpare il male e scrivere la Legge nel cuore. Guardiamoci dentro allora, e non potremo far altro che "tornare a casa", a cominciare dai più "vecchi", arrugginiti nei peccati. E convertirci e chiedere perdono a quanti abbiamo giudicato, anche alla moglie adultera, anche al marito assente che ha tradito. "Dove sono gli accusatori?" Dov'è il documento che ci condanna? Quando, ogni giorno, vibra nel cuore il giudizio inclemente verso se stessi e verso gli altri, emerge il giudizio di Dio che è la misericordia. Dove tutti ci abbandonano, dove tutto, giustamente e ragionevolmente, ci condanna, il suo amore è l'ultima Parola. Gesù, il comandamento del Padre scritto sulla terra della nostra esistenza, il Cielo inciso sul nostro cuore, la misericordia nella nostra debolezza; Gesù, che ci ripete oggi: "neanche io ti condanno". Chi ha incontrato l'amore gratuito di Cristo, chi ha sperimentato che "nessuno" l'ha condannato, "va, cammina nella Chiesa in una vita nuova, la vita di Cristo, e per questo non pecca più"; guarda l'altro con gli occhi e il cuore di Cristo, e gli ripete le stesse parole: neanche io ti condanno. Una "donna" che incontra Cristo cesserà di tradire Dio, se stessa, suo marito e suoi figli. In Lui che consegna se stesso per lei ha, infatti, trovato lo Sposo che la ama così come è. In Lui può essere "donna", moglie e madre sino in fondo, sottomessa per amore a Cristo al marito che non sa più condannare... E come lei ciascuno di noi in questa Pasqua, perdonati per accogliere tutti nella misericordia.

domenica 29 marzo 2020

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L'AMORE PER NOI SUOI AMICI CI RISUSCITA DALLA MORTE PER DONARCI UNA VITA NUOVA NELLA FEDE
Siamo alle porte di Gerusalemme, la Pasqua è ormai vicina, tra pochi giorni vi entreremo anche noi con Gesù. Vivremo il suo mistero Pasquale accogliendolo ancora nella nostra vita rinnovando le promesse battesimali.
Ma prima dobbiamo passare da Betania, che è come la “presentazione” del Libro sulla Pasqua: Gesù vi scrive le parole e vi compie i gesti con cui prepara e spiega l’opera che avrebbe compiuto di lì a poco a Gerusalemme.
A Betania c’è la malattia, e poi la morte, il dolore e le domande. A Betania c’è il limite di ogni vita, è come la riva su cui si arrestò la corsa di Mosè e del popolo, il mare oscuro dinanzi, i carri del faraone alle spalle. A Betania ci sei tu e ci sono io.
E vicino c’è Gesù. A un passo dalla “casa del povero afflitto” che è la tua famiglia, il tuo lavoro, la tua stessa vita, c’è un “amico” che “desidera ardentemente mangiare la Pasqua con te”. Tutto quello che accade nell’episodio del Vangelo scorre su questo desiderio incontenibile di Gesù di fare Pasqua con noi, di rivelare “l’amore più grande, dare la vita per i propri amici”.
E la vita si dà innanzitutto lasciando libero l’amico. Anche di morire. E questo Gesù fa quando sente che “Colui che Egli ama è infermo”. Gesù sa che la malattia dei suoi amici “non è per la morte, ma per la Gloria di Dio. Perché attraverso di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Per questo “rimane due giorni nel luogo dove si trovava”.
Questo ci scandalizza, non riusciamo a comprendere come Dio possa, tante volte, non intervenire: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva far sì che costui non morisse?”. Dio non mi ascolta, quando serve il suo aiuto non c’è mai: ho perso il lavoro, mio padre è ammalato, e quella sera, non poteva far sì che mio figlio non avesse quell’incidente?
Per vivere la Pasqua abbiamo bisogno che queste domande vengano alla luce e scoprire che, proprio “restando” lontano, Gesù si fa più vicino che mai. Lui è l’amico che non ci abbandona mai, l’unico che, lasciandoci liberi, ci accompagna nei suoi esiti più dolorosi, nel limite che il male fissa alla nostra esistenza.
Gesù, infatti, non guarendo Lazzaro prima che morisse anticipa profeticamente il suo cammino verso il compimento del mistero pasquale. Gesù non tocca nulla, si umilia scendendo nella stessa impotenza di Lazzaro; lascia che muoia esattamente come farà con se stesso, nonostante le tentazioni del Getsemani e le parole provocatorie che gli avrebbero rivolto da sotto la croce.
E’ lì che “doveva” arrivare, nella verità che è la realtà di ogni cuore. Il suo cammino nelle “dodici ore del giorno” conduceva alla “notte” di Lazzaro e di ogni uomo. Doveva operare “finché c’era la luce”, per illuminare il senso della sua missione, rivelare profeticamente il destino che ci attende; e offrire a tutti noi la chiave per entrare “nella notte” camminando senza “inciampare” alla “luce” del “giorno” senza tramonto, la fede adulta radicata nella Pasqua.
E la chiave è una parola sconvolgente: “Lazzaro, il nostro amico si è addormentato. Ma io vado a svegliarlo”. Gesù offre così al Padre lo sguardo umano perché si posi su ogni Lazzaro illuminandolo di speranza. Come il Padre del figlio prodigo, Dio non ha mai smesso di guardare ogni uomo, anche il più grande peccatore, come la sua opera più bella.
La fede è entrare in questo fascio di luce che scaturisce dagli occhi di Gesù, lasciarsi abbracciare dallo scorrere veemente delle sue parole per giungere a guardare il limite, la morte, perfino il peccato che contrista lo Spirito e ricaccia l’uomo nella corruzione della carne, con gli occhi di Dio.
Ma per arrivare a questa fede occorre passare per la porta che ci separa da Gerusalemme, la stessa che ha varcato Gesù prima di giungere a Betania. E’ dove gli vengono incontro prima Marta e poi Maria. E subito lo affrontano con un’affermazione che è un embrione di fede chiuso nel bozzolo del dolore.
Questo abbozzo di fede delle sorelle è come un controllo dei passaporti, Gesù sta andando da Lazzaro ed esibisce il suo documento: “Io sono”, cioè il nome di Dio. Solo io posso scendere da Lazzaro perché solo “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”.
Sulla soglia del più grande dolore, quell’amico svela finalmente la sua identità. E’ uomo, ma è anche Dio. La resurrezione si fa carne, ossa, sguardo e voce; è a un passo, non serve lanciarsi in un vuoto assurdo.
Sono amici, immagine della Chiesa che sempre si prende cura di noi; si sentono amate. Per questo, dicendo “Credi tu questo?” è come se chiedesse: “ti fidi ancora di me? Abbiamo mangiato, parlato, scherzato, sofferto, vissuto tante cose insieme. Mi avete accolto e sono diventato di casa. Ora è diverso, lo so; ora è accaduto l’irreparabile, ma se mi hai conosciuto un pochino, sai che puoi credermi”.
Con questo dialogo Gesù estrae dal bozzolo il seme di fede delle sorelle per poter passare alla risurrezione di Lazzaro: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. La Chiesa che ci accompagna ha professato la fede, ora Gesù può “passare” e scendere da Lazzaro.
E comincia dicendo di fare una cosa che nessuno vorrebbe mai: “Togliete la pietra”. Ma come, “è morto da quattro giorni! Manda già cattivo odore”… da Quattro giorni e manda cattivo odore.
E’ carne in via di putrefazione come il nostro matrimonio, il nostro rapporto con I figli. Ma è necessario che la verità venga alla luce. Quell’odore è dove Cristo desidera ardentemente celebrare la sua Pasqua.
Per questo chiede alla Chiesa di togliere la pietra, di non aver paura di far uscire l’odore di morte, perché se non c’è questa consapevolezza perdura l’inganno, che è l’autostrada per precipitare nella morte ultima e definitiva.
E piange con noi lo spettacolo della nostra vita ridotta in macerie. Chi ha pianto con noi i nostri peccati? Nessuno! Li hanno giudicati, ci hanno fatto moralismi per indurci a liberarcene, ci hanno esclusi. Forse hanno pianto le conseguenze. Ma piangere gratuitamente, solo per raggiungerci con la misericordia, nessuno tranne Gesù e il suo corpo che è la Chiesa.
Per questo Dio si è fatto uomo: per poter piangere i nostri peccati! Ma come, aveva detto che dormiva e che sarebbe andato a svegliarlo, si era presentato come la risurrezione e la vita, aveva chiesto fede in Lui, e ora, davanti alla pietra, scoppia in pianto?
Bene, senza quelle lacrime non ci sarebbe stato il miracolo. Senza la sua umanità non ci sarebbe stata per noi la possibilità di rivestirci della natura divina. Dio si è dovuto piegare a quelle lacrime per liberarci dalla fonte di ogni lacrima.
Per ridestare Lazzaro doveva infondere il potere alle uniche parole che avrebbe ascoltato: quelle umanissime del dolore e delle lacrime. Lacrime che, come le acque del battesimo, giungevano a bagnare di misericordia quel morto, per abbracciarlo nella sua vita. “Lazzaro vieni fuori!”, ha gridato Gesù, come sulla Croce quando ha sperimentato l’abbandono, la solitudine di ogni peccatore.
E Lazzaro sente, perché dorme. E tu, hai parlato mai con un morto? No, ecco il punto, hai dato per scontate tante, troppe cose. Con tua moglie non parli più perché per te, dentro il tuo schema, è morta!
Non hai speranza, hai giudicato, hai chiuso l’altro nella tomba da quattro giorni; sai che manda cattivo odore. Ti ha insultato proprio un minuto fa. Si è fatto l’ennesima canna rubandoti i soldi. Sono dieci anni che tua cognata, quell’arpia, ha rapito tuo fratello e lo ha messo contro di te, per quel pezzettino di terreno, neanche le galline ci potresti tenere, ma è il principio, e quella strega per me è morta, ha distrutto la mia famiglia.
Invece l’amore dell’amico parla ai morti che mandano cattivo odore. L’amore autentico, infatti, ci vede tutti addormentati, non morti. Credere nella risurrezione è allora amare con l’amore di Cristo che ci ha risuscitati.
E’ aprire il sepolcro, togliere la pietra, lasciarsi avvolgere dal fetore dell’altro per gridarci dentro, perché le parole si facciano largo nelle conseguenze dei peccati, e annunciare le semplici parole di fede che ha detto Gesù: Amore mio, vieni fuori! So che dormi, so che mi puoi ascoltare, ti ho perdonato, puoi uscire allo scoperto, non hai nulla di cui vergognarti, ero lì anch’io mille volte e il Signore con misericordia mi ha destato strappandomi alla paura. Coraggio, non temere, puoi ricominciare con Lui.
Allora davvero ogni sepolcro della nostra vita diviene un “memoriale”, secondo la radice della parola in greco. Possiamo allora entrare nella Pasqua accostandoci ai peccati, alle sofferenze, alle situazioni più dolorose come a un memoriale, ai luoghi dove il Padre compie di nuovo il miracolo del mare, e ci introduce nella notte in cui ha risuscitato il Figlio.
Per questo chiediamoci “dove è stato posto” il fratello, e, in questa Pasqua, andiamoci con Cristo. Togliamo la pietra e gioiamo, alziamo gli occhi al Cielo e gioiamo con Lui perché il Padre ci dà sempre ascolto, aspetta solo la nostra fede per farci passare dalla morte alla vita, “slegare le nostre bende”, cioè perdonare i peccati, e “lasciarci andare” liberi nella vita nuova.

sabato 28 marzo 2020

Il testo della preghiera del Papa sul coronavirus

Il testo integrale dell’omelia di papa Francesco, pronunciata durante il momento di preghiera straordinario per la pandemia di coronavirus il 27 marzo 2020

Il testo della preghiera del Papa sul coronavirus
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Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata da papa Francesco venerdì 27 marzo, in una piazza San Pietro deserta e silenziosa, nel corso di un momento straordinario di preghiera durante la pandemia di coronavirus. Qui il commento di Aldo Grasso (“Immagini che entreranno nella Storia”), qui il testo della preghiera, qui la spiegazione di che cosa sia l’indulgenza plenaria.
«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme. È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati. La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai. Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza. Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt