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mercoledì 24 novembre 2021

 


24 novembre SANT’ANDREA DUNG LAC E 117 COMPAGNI MARTIRI VIETNAMITI
« ...Dal 1533, cioè dall’inizio della predicazione cristiana nel sud-est asiatico, la Chiesa in Vietnam ha subito, nel corso di tre secoli, diverse persecuzioni che si sono succedute, con qualche tregua, come quelle che hanno colpito la Chiesa in Occidente nei primi tre secoli di vita. Ci furono migliaia di cristiani mandati al martirio, e moltissimi sono coloro che sono morti sulle montagne, nelle foreste, nei territori insalubri dove erano stati esiliati.
Come ricordarli tutti? Anche se ci limitassimo a quelli canonizzati oggi, non potremmo soffermarci su ciascuno di loro. Sono 117, tra cui otto vescovi, cinquanta sacerdoti, cinquantanove laici, e tra di essi troviamo una donna, Agnese Le Thi Thành, madre di sei bambini.
È sufficiente richiamare una o due figure, come quella del padre Vincent Liem, domenicano, mandato al martirio nel 1773; è il primo di 96 martiri di nazionalità vietnamita. E poi un altro sacerdote, Andrè Dung-Lac, i cui genitori, pagani, erano poverissimi; affidato dall’infanzia ad un catechista, diventa prete nel 1823, e fu parroco e missionario in diverse località del Paese. Salvato dalla prigione più di una volta, grazie ai riscatti generosamente pagati dai fedeli, desiderava ardentemente il martirio. “Chi muore per la fede” diceva “sale in cielo; al contrario, noi che ci nascondiamo continuamente, spendiamo del denaro per sottrarci ai persecutori! Sarebbe molto meglio lasciarci arrestare e morire”. Sostenuto da un grande zelo e dalla grazia del Signore, subì il martirio della decapitazione ad Hanoi il 21 dicembre 1839. ...
... I martiri vietnamiti “seminando fra le lacrime”, in realtà iniziarono un dialogo profondo e liberatore con la popolazione e la cultura della loro nazione, proclamando prima di tutto la verità e l’universalità della fede in Dio, proponendo inoltre una gerarchia di valori e di doveri particolarmente adeguata alla cultura religiosa di tutto il mondo orientale. Sotto la guida del primo catechismo vietnamita, diedero testimonianza del fatto che è necessario adorare un solo Dio, come Dio unico che ha creato cielo e terra.
Di fronte alle disposizioni coattive delle autorità riguardo alla pratica della fede, essi affermarono la propria libertà di credo, sostenendo con umile coraggio che la religione cristiana era l’unica cosa che non potevano abbandonare, poiché non potevano disobbedire al supremo sovrano: il Signore. Inoltre proclamarono con forza la loro volontà di essere leali nei confronti delle autorità del Paese, senza contravvenire a tutto ciò che fosse giusto e onesto; insegnarono a rispettare ed a venerare gli antenati, secondo gli usi della propria terra, alla luce del mistero della resurrezione.
La Chiesa vietnamita, con i suoi martiri e mediante la propria testimonianza, ha potuto proclamare il proprio impegno e la propria volontà di non rifiutare la tradizione culturale e le istituzioni legali del Paese; al contrario ha dichiarato e dimostrato che vuole incarnarsi in questa, contribuendo con fedeltà alla vera crescita della patria. ...
... Sanguis martyrum, semen christianorum”. “Semen christianorum”. Oltre alle migliaia di fedeli che, nei secoli passati, hanno camminato sui passi di Cristo, vi sono ancora oggi coloro che lavorano, talvolta nell’angoscia e nell’abnegazione, con la sola ambizione di poter perseverare nella vigna del Signore come fedeli che comprendono i beni del Regno di Dio.
“Semen chrstianorum”, sono tutti coloro che, ancora oggi, in mezzo al loro popolo e per la causa di Dio si sforzano di comprendere il senso del Vangelo di Cristo e della sua croce, con il dovere che ciò comporta di lavorare e di pregare per la venuta del Regno del nostro Padre in tutte le anime, e particolarmente nel Paese dove il Signore li ha chiamati a vivere. Questo dovere, questa attività interiore costante e rigorosa, esigono la pazienza e l’attesa fiduciosa di chi sa che la Provvidenza di Dio lavora con loro per rendere efficaci i loro sforzi e anche le loro sofferenze.
“La vita dei giusti è nella mani di Dio” (Sap 3, 1).
Il libro della Sapienza proclama questa splendida verità che inonda con tanta luce l’avvenimento che oggi celebriamo.
Sì. “La vita dei giusti è nella mani di Dio e non patiranno tormenti”. Potrebbe sembrare che queste parole non corrispondano alla realtà storica: in effetti i martiri patirono tormenti, e in che misura!
Ma l’autore ispirato sviluppa maggiormente il suo pensiero:
“La gente insensata pensava che morissero,
consideravano il loro trapasso come una disgrazia,
la loro dipartita da noi come una distruzione;
ma loro sono in pace.
La gente pensava che fossero stati castigati;
ma loro aspettavano sicuri l’immortalità” (Sap 3, 2-4).
Santi martiri! Martiri vietnamiti! Testimoni della vittoria di Cristo sulla morte! Testimoni della vocazione dell’uomo all’immortalità. ...
... Colui che è venuto nel mondo - non per “giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3, 17).
Questo Cristo!
Come avete partecipato alla sua sofferenza e alla sua croce, così abbiate parte nella salvezza del mondo, da lui operata.
La vostra messe duri nella gioia! »
San GiovanniPaoloII, Dall’ Omelia per la Canonizzazione di 117 martiri vietnamiti, 19/06/1988

domenica 21 novembre 2021

 


NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL'UNIVERSO
Al termine dell’Anno liturgico si celebra la 34a domenica del cosiddetto «Tempo ordinario». La solennità, che cade di norma negli ultimi dieci giorni di novembre, è dedicata a Gesù Cristo Re dell’universo. In tal modo si vuole sottolineare che Cristo redentore è il Signore della storia, l’inizio e la fine del tempo.
L’istituzione della festa fu decisa da papa Pio XI, l’11 dicembre 1925, a conclusione del Giubileo che si celebrava in quell’anno. Come ha scritto lo studioso padre Francesco Maria Avidano, la relativa devozione si pone in riparazione del grido blasfemo contro Gesù, riportato dai Vangeli: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Nei tre giorni precedenti la solennità di Cristo Re i devoti recitano uno specifico Triduo. Le invocazioni domandano in particolare che il Cuore di Gesù trionfi su tutti gli ostacoli al regno del suo amore. Mediante l’intervento della Madonna, poi, si auspica che tutti i popoli – disuniti dalla ferita del peccato – si sottomettano all’amore di Cristo.
Papa Leone XIII, l’11 giugno 1899, consacrò la Chiesa, il mondo e tutto il genere umano a Cristo. La formula dell’orazione, se viene recitata pubblicamente nella solennità di Gesù Cristo Re dell’universo, fa acquisire l’indulgenza plenaria.
L’atto di consacrazione è ricco di richiami all’amore di Cristo per l’intera umanità. Un amore che si è reso visibile proprio nella totale donazione di se stesso sulla croce. La preghiera è anche una richiesta di perdono collettivo e recita fra l’altro: «Molti, purtroppo, non ti conobbero mai; molti, disprezzando i tuoi comandamenti, ti ripudiarono. O benignissimo Gesù, abbi misericordia e degli uni e degli altri e tutti quanti attira al tuo sacratissimo Cuore. O Signore, sii il re non solo dei fedeli che non si allontanarono mai da te, ma anche di quei figli prodighi che ti abbandonarono».
Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l'umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo – scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 – “in senso pieno, proprio e assoluto, … è re”.
Il suo regno, spiegava ancora Pio XI, “principalmente spirituale e (che) attiene alle cose spirituali”, è contrapposto unicamente a quello di Satana e delle potenze delle tenebre. Il Regno di cui parla Gesù nel Vangelo non è, dunque, di questo mondo, cioè, non ha la sua provenienza nel mondo degli uomini, ma in Dio solo; Cristo ha in mente un regno imposto non con la forza delle armi (non a caso dice a Pilato che se il suo Regno fosse una realtà mondana la sua gente “avrebbe combattuto perché non fosse consegnato ai giudei”), ma tramite la forza della Verità e dell'Amore.
Gli uomini vi entrano, preparandosi con la penitenza, per la fede e per il battesimo, il quale produce un’autentica rigenerazione interiore. Ai suoi sudditi questo Re richiede, prosegue Pio XI, “non solo l’animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce”.
Tale Regno, peraltro, già mistericamente presente, troverà pieno compimento alla fine dei tempi, alla seconda venuta di Cristo, quando, quale Sommo Giudice e Re, verrà a giudicare i vivi ed i morti, separando, come il pastore, “le pecore dai capri” (Mt 25, 31 ss.). Si tratta di una realtà rivelata da Dio e da sempre professata dalla Chiesa e, da ultimo, dal Concilio Vaticano II, il quale insegnava a tal riguardo che “qui sulla terra il Regno è già presente, in mistero; ma con la venuta del Signore, giungerà a perfezione” (costituzione “Gaudium et spes”).
Con la sua seconda venuta, Cristo ricapitolerà tutte le cose, facendo “cieli nuovi e terra nuova” (Ap 21, 1), tergendo e consolando ogni lacrima di dolore e bandendo per sempre il peccato, la morte ed ogni ingiustizia dalla faccia della terra. Sempre il Concilio scriveva che “in questo regno anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio” (costituzione dogmatica “Lumen Gentium”).
Per questo i cristiani di ogni tempo invocano, già con la preghiera del Padre nostro, la venuta del Suo Regno (“Venga il tuo Regno”) ed, in modo particolare durante l’Avvento, cantano nella liturgia “Maranà tha”, cioè “Vieni Signore”, per esprimere così l’attesa impaziente della parusia (cfr. 1 Cor 16, 22).

lunedì 15 novembre 2021

 


MENDICANTI DELL'AMORE AUTENTICO CHE DISCHIUDE GLI OCCHI SUL VOLTO DI CRISTO INCARNATO NEI FRATELLI
"Gerico era saldamente sbarrata dinanzi agli Israeliti; nessuno usciva e nessuno entrava" (Gs. 5,13). Gerico, "città della luna", è la porta di accesso alla Terra Promessa. La sua conquista, narrata nel capitolo 6 del libro di Giosuè, appare come una liturgia con suoni di tromba e il grido assordante del popolo. Per comprendere il segno di Gesù descritto nel Vangelo, occorre rileggere l'episodio della conquista di Gerico: "Disse il Signore a Giosuè: «Vedi, io ti metto in mano Gerico e il suo re. Voi tutti prodi guerrieri, tutti atti alla guerra, girerete intorno alla città, facendo il circuito della città una volta. Così farete per sei giorni. Sette sacerdoti porteranno sette trombe di corno d’ariete davanti all’arca; il settimo giorno poi girerete intorno alla città per sette volte e i sacerdoti suoneranno le trombe. Quando si suonerà il corno dell’ariete, appena voi sentirete il suono della tromba, tutto il popolo proromperà in un grande grido di guerra, allora le mura della città crolleranno e il popolo entrerà, ciascuno diritto davanti a sé»... Al popolo Giosuè aveva ordinato: « Non urlate, non fate neppur sentire la voce e non una parola esca dalla vostra bocca finché vi dirò: Lanciate il grido di guerra, allora griderete ». L’arca del Signore girò intorno alla città facendo il circuito una volta... Così fecero per sei giorni. Al settimo giorno si alzarono al sorgere dell’aurora e girarono intorno alla città in questo modo per sette volte; soltanto in quel giorno fecero sette volte il giro intorno alla città. Alla settima volta i sacerdoti diedero fiato alle trombe e Giosuè disse al popolo: «Lanciate il grido di guerra perché il Signore vi dà in potere la città...». Allora il popolo lanciò il grido di guerra e si suonarono le trombe. Come il popolo udì il suono della tromba ed ebbe lanciato un grande grido di guerra, le mura della città crollarono; il popolo allora salì verso la città, ciascuno diritto davanti a sé, e occuparono la città".
Sino al momento in cui passa Gesù, il cieco era rimasto a mendicare. Silenzioso, come intimato da Giosuè al Popolo. Come ciascuno di noi, forse inconsapevolmente, si trova a mendicare silenzioso, senza sussulti o grida, sulla strada dei giorni, dove scorrono le relazioni, le cose da fare, e i pensieri e le decisioni. Chiediamo, semplicemente, vita, felicità, affetto, dignità. Mendichiamo l'essere, chiediamo di entrare a prendere possesso della Terra che ci è stata promessa; tutti abbiamo dentro un desiderio inappagato che ci muove a mendicare: "L’uomo aspira ad una gioia senza fine, vuole godere oltre ogni limite, anela all’infinito" (J. Ratzinger, Luce del mondo, p. 95).
Il Catechismo rintraccia il fondamento del desiderio: “Mediante la creazione Dio chiama ogni essere dal nulla all’esistenza… Anche dopo aver perduto la somiglianza con Dio a causa del peccato, l’uomo rimane ad immagine del suo Creatore. Egli conserva il desiderio di colui che lo chiama all’esistenza.” (n. 2566). Si tratta del desiderio che muove il cieco, immagine dell'uomo ferito dal peccato, incapace di tutto eppure spinto a superare la sua situazione, il limite imposto da quegli occhi chiusi sul mondo. Il suo mendicare ogni giorno lungo la strada definisce il suo desiderio. Malamente, accontentandosi forse, cedendo a compromessi grossolani, eppure, in quella mano tesa, si fa presente il gemito di un cuore che, custode del seme divino deposto dal Creatore, conserva il desiderio, balbetta la nostalgia della perfezione e pienezza di Colui che lo ha chiamato all'esistenza dal nulla.
Il nostro mendicare di ogni giorno è la traccia di questa nostalgia fattasi desiderio. Per questo i sacerdoti ed il popolo girano per sei giorni intorno a Gerico: è l'immagine della nostra vita alle porte della Terra Promessa, della pienezza della vita, della corrispondenza unica e autentica al nostro desiderio. Sei giorni, la ferialità della vita trascorsa mendicando. Ma, conservata e custodita, al centro dei giorni, del lavoro, della famiglia, delle amicizie che sembrano tirate via elemosinando lo straccio di un senso, vi è l'Arca, la presenza di Dio. La mendicanza è positiva, è già una liturgia! E' attesa, inconsapevole eppure struggente, di Lui, del suo passaggio risanatore. Ogni nostro giorno, anche se mendicante, è creativo, perché Dio, con amore, continua a creare dal nulla la nostra storia per farci felici. Dio crea durante i primi sei giorni "cose buone", in attesa della "cosa molto buona", dell'uomo a sua immagine. Così noi mendichiamo nell'attesa dello Shabbat, del giorno del Messia, di Cristo e della sua risurrezione, del riposo di chi, affaticato e oppresso, può trovare solo nella sua umiltà e mitezza. Mendichiamo, e in questo, Dio alimenta e sostiene il nostro desiderio, accompagnandoci, perdonandoci e tirandoci su quando, deboli e feriti, ci volgiamo a idoli e menzogne.
Ogni nostro giorno è già lanciato alla presa di Gerico! Anche se ce ne stiamo seduti a mendicare, Dio sta preparando lo scrigno dove depositare la fede. Per questo anche quanto, nella nostra vita, ci sembra fallimentare, meschino e abietto ha un valore immenso. La stessa Grazia donata al cieco: trovarsi in quel luogo, su quella strada alle porte di Gerico, in quel momento, a quell'ora. Quel suo mendicare protrattosi da non si sa quanto tempo, lo aveva condotto, misteriosamente, ad esser lì, dentro a quell'appuntamento che, di certo, non aveva fissato lui. Così è per ciascuno di noi. Desideriamo e mendichiamo, e non ci rendiamo conto che tutta la storia spesa a stendere la mano, ci ha preparato e condotto ad essere puntuali ad un appuntamento che Lui ha preso, da sempre, con noi.
Il Vangelo di oggi ci annuncia dunque una buona e inaspettata notizia: ogni giornata della nostra storia, ogni evento, ogni persona, ci accompagnano ad entrare in possesso dell'oggetto autentico del nostro desiderio. Anche attraverso la debolezza e le cadute intrecciate al nostro povero mendicare. Anzi, proprio attraverso l'esperienza dell'estrema indigenza, Dio scrive, lettera dopo lettera, la sua dichiarazione d'amore, il suo invito all'appuntamento nel quale donarsi totalmente. Possiamo guardare con fiducia a questa nostra vita mendicante. Il Signore è in cammino, è vicino a noi, passa proprio accanto a quel metro quadro di strada che definisce la nostra vita di oggi. Esattamente in questo momento. Giunge il settimo giorno, la Pasqua della Vita e del perdono, nel quale prorompere in grida altissime. L'Arca è, da sempre, con noi. Le trombe dei sacerdoti, la preghiera incessante della Chiesa, lo zelo di chi ha a cuore la nostra sorte, hanno custodito la presenza di Dio in noi. Passa Gesù, è arrivato il Messia. Ce lo annunciano quelli che "camminano avanti", il Popolo in procinto di entrare in Gerico, coloro che vanno "ciascuno diritto davanti a sé".
Certo, lo stupore è grande, come la tentazione di star zitto e non disturbare. Dentro e fuori di noi i pensieri, i consigli, il buon senso, il "religiosamente corretto", ci vogliono indurre a tacere. Un mendicante cieco è sempre, agli occhi legalistici e moralistici, un indegno: reca impresso nella sua cecità il segno del disordine del peccato; è un fallito, un pigro, preferisce starsene seduto aspettando da fuori l'aiuto che dovrebbe procurarsi da sé. Non si impegna, non si sforza, mendica.... E invece il cieco continua, "ancora più forte" del moralismo, dei sensi di colpa, dei rimorsi. Prende forza dalla sua debolezza e dalla fede accolta attraverso l'ascolto della predicazione - "Passa Gesù Nazareno!" - che innesca la scintilla capace di schiudergli la salvezza. Tutto è Grazia! Perfino quel suo stare là... E' bastato il passaggio di Gesù ad accendere la fede donata dalla predicazione, a decodificarla in un grido, a professarla con semplici parole, umili perché vere: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". Abbi pietà tu di me: la mano tesa del mendicante, la nostra mano, ha trovato la pietà vera, cercata come la può cercare un cieco, nel matrimonio, nei figli, nel prestigio, nell'amicizia, nel lavoro; spesso nei peccati...
E quel grido ferma il passaggio di Gesù. E' il potere della fede fatta preghiera. Attraverso di essa, cifra della libertà orientata alla Verità, l'appuntamento diviene realtà. La preghiera ha il potere di far compiere la volontà di Dio: il suo pensiero di bene circa quel cieco si realizza grazie a quel grido. Occorre che Gesù si accorga di lui e si fermi. Occorre che la scintilla della fede raggiunga Cristo, lo tocchi, scenda al suo cuore e "liberi"la sua commozione, la sua pietà. Come hanno fatto l'emoroissa, il centurione, il buon ladrone sulla croce. Perchè l'appuntamento cui siamo destinati si traduca in un avvenimento reale, è necessario dare del "tu" a Gesù: la mia preghiera mendicante lo rende un "tu" per me, Qualcuno che ha relazione con me, con la mia vita. La preghiera gli consegna l'autorità per fare quello che ha pensato, per compiere la volontà del Padre in noi. "Si trovano l’uno di fronte all’altro: Dio con la sua volontà di guarire e l’uomo con il suo desiderio di essere guarito. Due libertà, due volontà convergenti: "Che vuoi che io ti faccia?", gli chiede il Signore. "Che io riabbia la vista!", risponde il cieco. "Va’, la tua fede ti ha salvato". Con queste parole si compie il miracolo. Gioia di Dio, gioia dell’uomo" (Benedetto XVI).

martedì 9 novembre 2021

 

IL "FLAGELLO" DI CRISTO CHE, PURIFICANDO CUORE, MENTE E CARNE, CI "DEDICA" A CRISTO E AI FRATELLI
Si avvicina la Pasqua dei Giudei, il compimento della missione, la testimonianza della Verità. E, profeticamente, il Vangelo di oggi rivela quello che Gesù farà nella sua Pasqua, quale martire della Verità. Il Tempio, il luogo della presenza di Dio, era divenuto un luogo di mercato: all'adorazione e all'amore era subentrato l'interesse. Il Tempio, centro e fondamento dell'universo, era profanato. Gesù, divorato dallo zelo divino, vi entra per riprenderne possesso, per tornare a dedicarlo a Dio. E, per questo, compie un gesto che è insieme segno dell'avvento del Messia e profezia dell'autentica dedicazione che realizzerà nella sua Pasqua. In ebraico, il termine hebel, tradotto con "sferza di cordicelle", il flagellum romano dal greco phragellion che compare nel vangelo, significa allo stesso tempo corda e dolori, in particolare quelli del parto. Gesù prende un flagello e comincia a seminare terrore, come annunciato dai Profeti e come anche la tradizione rabbinica immaginava l'avvento del Messia. Esso infatti sarebbe stato un vero e proprio flagello brandito dal Messia, e che avrebbe provocato dolori frutti della purificazione dei vizi e dei peccati. Per questo i Giudei non si indignano per il gesto in sé, ma chiedono a Gesù il segno che legittimi il suo "fare queste cose". Il punto su cui verte il Vangelo di oggi non è il Tempio ma la figura di Gesù. E non è un caso che, per celebrare la Dedicazione della Cattedrale di Roma, "madre e capo di tutte le chiese dell’Urbe e dell’Orbe" si proclami questo brano. Non celebriamo un Tempio di mattoni, per quanto bello e importante. Celebriamo Cristo, l'autentico Tempio di Dio, la sua dimora tra gli uomini. In Lui e nel suo amore infatti, siamo chiamati proprio a dimorare, per vivere la vita come un'interrotta liturgia di lode.
E Gesù, nel rispondere all'obiezione dei Giudei, rivela se stesso profetizzando la sua Pasqua. Essa non sarà più quella dei Giudei, un rito ormai vuoto compiuto in un luogo di mercato. Sarà la Pasqua dell'Agnello senza macchia, puro, che libererà le pecore dalla mano del nemico. Sarà la Pasqua di Gesù che dedicherà il suo Tempio all'autentica lode nell'unico e valido sacrificio. Il flagello che ha brandito durante la loro Pasqua, lacererà le sue carni, e sarà perdono per ogni uomo. Il flagello che avrebbe dovuto percuotere noi, mercanti avidi e avari che hanno pervertito la santità del tempio facendone un luogo di traffici, compromessi e adulteri, ha raggiunto il corpo senza peccato del Signore. Il nostro corpo donatoci per amare, ridotto ad una sentina di vizi, di perversioni, dove commerciare affetto, prestigio, potere, non avrebbe potuto schivare il flagello dello zelo geloso di Dio se il corpo benedetto del Signore non ne avesse catalizzato i colpi. "Non fu per appagare la rabbia dei demoni, la ferocia dei giudei, la brutalità dei pagani che il corpo di Gesù fu scarnificato ed infranto, ma per servire da medicina alla nostra salute. Oh mistero, dunque! Quanto più orribile fu per parte degli uomini, altrettanto più tenero fu per parte di Dio, il quale — nell'eccesso della sua misericordia — dispose che tutto servisse per la salvezza del genere umano!" (Sant'Agostino, Sermone CXIV, De tempore).
Gesù usa termini inequivocabili: "sciogliete" il "Santo dei Santi" e lo farò "sorgere" in "tre giorni". In una frase rivela la sua missione e la sua identità. Egli è il cuore del Tempio, il Luogo della Presenza dove era custodita l'Alleanza. In esso aveva accesso una volta all'anno il solo Sommo Sacerdote, nel giorno solenne dello Yom Kippur, il giorno del perdono e dell'espiazione. Vi entrava pronunciando il Nome del Dio Altissimo, nel quale ogni peccato era perdonato. Il velo che divideva il Santo dei Santi dal resto del Tempio precludendone l'accesso sarà squarciato in due, sciolto, al momento della morte del Signore. "Cristo invece... non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna... Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso" (Eb. 9-10). Gesù è il Nome di Dio che ci è dato per essere perdonati, oggi, come sempre. Nella sua Pasqua ciascuno di noi è riconciliato con Dio, può accedere al Santo dei Santi, ed offrire la propria vita a Colui che l'ha riscattata. Per mezzo di Cristo siamo così nuovamente dedicati a Dio; come nel Rito della dedicazione di una Chiesa, anche noi, unti dello Spirito nel quale Gesù si è offerto al Padre, diveniamo altari consacrati per dedicare a Dio la nostra vita. Ogni giorno possiamo allora celebrare un'anticipo della liturgia celeste che canta la vittoria di Cristo sulla morte. Ogni evento, ogni persona, tutto ciò che costituisce la nostra storia è attratta in questa liturgia dove, in noi, il Signore offre il suo corpo ed il suo sangue per salvare questa generazione. Portiamo infatti nel nostro corpo lo stesso morire di Cristo che scioglie la carne perché si doni senza riserve. La carne trasfigurata e deposta nel Santo dei Santi, nell'intimità di Dio, nel cuore di Cristo, può donarsi, può essere Tempio dello Spirito Santo. Così possiamo vivere secondo l'esortazione di San Paolo ai fratelli della comunità di Roma: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm. 12, 1-2).
Siamo chiamati a vivere il matrimonio, il fidanzamento, il lavoro, le amicizie, lo studio come un culto spirituale, elevando al Cielo la lode e il rendimento di grazie: ogni relazione, ogni attività è come un'eucarestia che ci conduce a offrirci e prendere su di noi il peccato degli altri, e a portare tutti e tutto nel Santuario del Cielo. “Voi siete pietre del tempio del Padre, destinate alla costruzione di Dio Padre, portate in altro dall’argano di Gesù Cristo, che è la croce, usando per fune lo Spirito Santo... La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio. Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo". (S. Ignazio di Antiochia, Agli Efesini, 9,1). La Chiesa è il Corpo benedetto di Cristo dedicato a Dio che si offre come barriera a raccogliere i flagelli destinati ad ogni generazione. Nell'insulto che oggi ci toglierà l'onore; nella calunnia che ci metterà alla berlina; nella ribellione del figlio; nell'incomprensione del coniuge; nella tentazione della concupiscenza; nella malattia che ci indebolisce; nei fallimenti della missione; in tutto, si nasconde il flagello geloso di Dio che, da un lato ci purifica giorno dopo giorno, e dall'altro lacera il nostro corpo perché il mondo, il prossimo e anche il nemico, abbia accesso alla vita. La Chiesa completa nel suo corpo quello che manca alla Passione di Gesù, e proprio per questo è dedicata a Dio. L'autentica dedicazione infatti si realizza attraverso i colpi della flagellazione che rendono la Chiesa, paradossalmente, bella e senza macchia; ma è proprio attraverso le ferite profonde inferte dai flagelli che i flagellatori possono trovare un pertugio per il quale entrare nel Cielo. La vita della Chiesa, la nostra vita, è racchiusa nei tre giorni del mistero di Cristo, tra il flagello che strazia la carne, il dolore del parto, e la nascita di una vita nuova. Dedicati a Dio sin dal seno materno siamo chiamati a vivere in pienezza il mistero che dedica a Dio ogni uomo, anche il più lontano, perduto, dedicato al demonio e alle sue menzogne.

giovedì 4 novembre 2021

 

L'AMORE AUTENTICO CERCA E RAGGIUNGE CHI E' PERDUTO 'CARICANDONE SOFFERENZE E PECCATI
L'invidia corrode i cuori. Non potevano accettare che «tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinassero a Gesù per ascoltarlo». Loro quella gente la scansavano, erano perduti... E invece si avvicinavano a Lui, come le api al miele. Avevano compreso che quella era la fonte viva e gratuita dell'acqua che non avevano mai bevuto. Mentre ci capita spesso di ritrovarci in un angolo, come un pugile stonato, e non riusciamo a tirarci su. Contempliamo una palese ingiustizia e precipitiamo un un abisso di tristezza. Qualcuno molto peggio di noi, qualcuno che ne ha fatte di cotte e di crude è lì a gustarsi l'amore di Dio, perdonato, salvato, risuscitato. E noi invece, siamo incapaci di accettare l'amore di Dio che si «protende ad accogliere» «tutti» i peccatori gratuitamente. Appare in questo Vangelo la gioia incontenibile di Dio per aver salvato una pecora perduta. Tutto contento è Dio se può perdonare un uomo! Diciamolo senza ipocrisia: è proprio il nostro esatto contrario.
Certo ci prodighiamo anche noi per aiutare, salvare, come bravi volontari al servizio degli altri. Ma vi è sempre un prezzo, una promessa strappata al beneficiario dei nostri sforzi, almeno di non essere più come prima, almeno di cambiare, in fondo per contraccambiare. La gratuità ci spaventa. Il nostro cuore, confessiamolo, è una banca con bilanci dalle regole ferree. Ma Dio no. Dio ha sempre i conti in rosso, lascia il successo, la fama, i guadagni sicuri di 99 pecore ben custodite e si lancia alla ricerca di una, una sola pecora che s'è smarrita. Probabilmente la peggiore, la più egoista, persa in se stessa, una di quelle che è meglio perderla che trovarla. E giosce per lei. Non per le altre.
Ma per noi è assurdo e ingiusto, non lo possiamo sopportare. Quante volte i genitori si avvitano cercando verso i figli una giustizia distributiva di attenzioni e cure impossibili, con il risultato, ovvio, di scontentare tutti. Come un professore, o un prete, quando dimenticano il modo unico e irripetibile, perfettamente su misura, con il quale Dio ha amato ciascuno.
Proprio i peccati, infatti, e le loro conseguenze ci hanno resi «unici» agli occhi di Dio, come il suo Figlio, l’unico che doveva morire per tutti, perché «tutti hanno peccato». Nella pecora smarrita della parabola, infatti, è adombrato Lui, l’Agnello di Dio, l’unico «perduto» nella morte per riscattare le altre novantanove che si credevano «giuste», mentre invece vagavano «sperdute» nel «deserto». Nel sepolcro il Padre ha «ritrovato» suo Figlio, lo ha risuscitato «prendendolo sulle sue spalle» e lo ha riportato «a casa»; qui, nella gioia straripante e coinvolgente della Pasqua, è apparso agli «amici» che lo avevano tradito con il perdono di ogni peccato nella carne, e li ha inviati ad annunciare ai «vicini» lo stesso perdono e la «conversione», la gioia di lasciarsi amare. Così la Chiesa è chiamata ogni giorno a «cercare» la «dramma perduta», il fratello più debole e difficile, che la carne vorrebbe dimenticare. Con la «lucerna» della fede accesa nelle tenebre della menzogna, possiamo «cercarlo con cura» e pazienza, senza temere di scendere dove lui è caduto, e sporcarci della stessa terra impura, per «spazzare» via la polvere e l’immondizia che il tempo perduto nei peccati ha lasciato in lui, perché Cristo possa far risplendere il suo volto.
Questo è il folle cuore di Dio: attraverso la Chiesa, ci ha amato senza condizioni, pecore perdute dentro le nostre stesse invidie, forse scappate dal gregge perché non comprese, tradite, ingannate. E sporche, ferite, perdute. Arriva oggi il nostro Pastore, che ci conosce e non può star tranquillo sino a che non ci ritrova e ci carica sulle sue spalle. Questo è il cielo, una curva esultante ad ogni gol del Signore, uno di noi strappato alla solitudine dell'inganno del nemico. Anche se alla fine sembra che il Signore perda 99 a 1 fuori casa. In questa sua sconfitta è la nostra vittoria. Siamo suoi. La gioia, la vera gioia, è questo amore. La gioia del Cielo, la gioia di Cristo. Non ve ne sono altre. La gioia piena di restare uniti a Lui e, nascosti nel suo cuore, vivere tutto con Lui, per Lui, in Lui. Ritrovati, amati, trasformati. Solo questa gioia di Dio che ti avvolge mentre sei nelle tenebre più nere può cambiare il cuore.
Questa gioia è il segreto dell'evangelizzazione. In essa si toccano il Cielo e la terra: la gioia è il compimento della volontà di Dio, la realizzazione di ciò che chiediamo nel Padre Nostro. Chi può restare indifferente alla sua esplosione contagiosa? Come può non restare coinvolto dalla tua gioia il collega, quando in ufficio, mentre stai vivendo la stessa sua precarietà, con il posto di lavoro appeso a un esile filo in attesa delle strategie aziendali? Sei stato salvato gratuitamente, e hai potuto offrirti un pochino per la salvezza degli altri. Hai appena "ritrovato" tuo figlio, ti sei caricato sulle spalle tuo marito, e per questo non puoi restartene chiuso, ma devi uscire, come predica Papa Francesco, e vai a "chiamare" ogni "vicino" e "amico" che incontri per farli partecipi della tua gioia! La missione è sempre madre di una missione più zelante. La gioia genera sempre altra gioia.
In queste parabole Gesù illumina la vita interiore ed esteriore della Chiesa: inviata a "chiamare" annunciando il Vangelo è una seminatrice inesausta della gioia di cui vive. Se non c'è vuol dire che sta perdendo lo zelo, che ha dimenticato lo Sposo, vivacchiando tra regole e moralismi ai quali chiede certezze per non sprofondare nell'incredulità. Gli apostoli erano pieni di gioia anche nelle persecuzioni sofferte per il nome di Gesù. E tu, ed io, e i parroci, i vescovi, siamo seminatori di gioia? Tuo figlio, ti ha mai visto felice dell'amore di Dio, mentre sei crocifisso con Cristo nelle difficoltà? Altrimenti, hai voglia a rimproverarlo, ad annunciargli la verità. Non ti crederà, le tue parole suoneranno come quelle di un cembalo che tintinna. Fumo senza arrosto....
Perché i pagani, o quelli in crisi e adirati con Dio o presi nei lacci mondani, dovrebbero credere al nostro annuncio? Perché nei nostri occhi, nelle nostre parole, nei gesti semplici di ogni giorno traspare la gioia dell'apostolo che cerca, e trova, la pecora perduta. Che non "pettina le pecore" (Papa Francesco) già al sicuro, ma esce, esce, esce sempre a sporcarsi per riportare a casa quella perduta. Non c'è gioia più grande sulla terra che ritrovare la parte di noi che manca all'appello, il fratello allontanatosi dalla comunità.
Con Lui si vive ogni istante alla ricerca della dramma perduta, ogni nostro fratello dentro le sue debolezze, caduto nei propri peccati. Posare su ciascuno lo sguardo di Cristo, e cercare, sperare senza stancarsi, sperare che tutti siano ritrovati da Cristo. E' questo il cuore di Dio, e, nel suo, il cuore rinnovato d'ogni madre, padre, amico, fidanzato, prete o suora. Il cuore di Dio, unica fonte dell'unica gioia. Il suo sguardo su ciascuno di noi, perduti, non cattivi. La sua speranza laddove nessuno osa sperare, invincibile dinanzi ad ogni nostro smarrimento. Nei suoi occhi, nei suoi passi alla ricerca dei nostri incerti cammini, "la più profonda contraddizione insita nella nostra esistenza perde la sua importanza assoluta" (Althaus). La sua ostinata ricerca di ciò che è perduto, vite e persone, spezza la catena di giudizi e rancori, e apre la porta su di un orizzonte nuovo di relazioni. Compassione e misericordia, la vita nuova dei "ritrovati", di tutti noi cercati, portati, riaccolti. Noi, la gioia di Dio.

martedì 2 novembre 2021

 


LA MORTE CREMOSA E LA VITA ETERNA NELL'ASPREZZA DELLA CARNE
Accanto alla società liquida e al genere sessuale fluido, questa generazione sta assorbendo anche l'evaporazione della morte, il suo addomesticamento nella "dolce morte" (eutanasia) e nella pratica ormai maggioritaria della cremazione. Le parole hanno un peso, così come i segni. Ridurre la morte a qualcosa che, nella parola, rimanda alla crema e, visivamente, alla polvere, costituisce un passo in più, e tra i più decisivi, verso la completa distruzione di una società e delle sue radici per far spazio ad una che con questa non ha nulla in comune. La stessa follia con la quale hanno deciso di cremare e seppellire le persone morte lo scorso anno in relazione più o meno certa con il virus è stato un segnale inequivocabile e molto potente. Se si riesce a trasformare la morte e a renderla da un lato un mostro da sfuggire con tutti i mezzi e dall'altro una caricatura mielosa e "cenerosa", indolore e addirittura auspicabile, si può attestare che la società cresciuta sulla e intorno alla fede cristiana è bella che andata. Perché la morte esiste, ed è la questione decisiva sulla quale si gioca il destino presente ed eterno delle persone. La questione che ha spinto sino ai confini della terra, da duemila anni, i missionari del Vangelo ad annunciare la risposta che ogni uomo attende. E su questa risposta la Chiesa ha offerto al mondo il fondamento per costruire città, case, scuole e ospedali; a dipingere, a comporre musica, a scrivere perchè la sua splendente bellezza illuminasse i giorni. La risposta che è divenuta la carne e il sangue di relazioni nuove che hanno rivoluzionato il modo barbaro e inumano di stare nel mondo. Impedire di porsi questa domanda cruciale, e quindi di scoprire di non avere risposte, è l'obbiettivo travestito con cui il demonio vuol rapire questa generazione, e plasmare la sua società in un inferno senza speranza. Se da un lato mira ad impedire che la Chiesa parli in libertà e annunci il Vangelo perché il demonio sa che la fede viene alle persone attraverso la predicazione, da un altro lato mira alla anestetizzazione della realtà attraverso una sua mistificazione e a una sua falsa rappresentazione virtuale, perché sa che Dio ha salvato gli uomini nella realtà e non in una sua proiezione ideale e irreale. Invece, ostinatamente, la Chiesa commemora i defunti, i morti. La Chiesa è l'unica che può e sa guardare senza paura la morte in faccia, perché ha conosciuto la sua sconfitta definitiva. La Chiesa sa per esperienza che Cristo è risorto e ha distrutto il peccato da cui scaturisce la morte. La Chiesa sa infatti che il contrario della morte è l'amore di Dio fatto carne e sangue proprio per morire d'amore. Carne e sangue come quelli di ogni uomo, amore dentro un corpo, dentro i pensieri, dentro il cuore e l'anima, amore infinito che neppure il peccato e la morte di croce ha potuto inchiodare, fermare, distruggere. L'amore che ha disintegrato il sepolcro e ha accompagnato la carne e il sangue di Gesù nella risurrezione, nella vita che non muore più. Questo amore è l'unica risposta alla domanda cruciale e ineludibile. E' l'unica risposta alla morte. Questo amore è annunciato e testimoniato dalla Chiesa nel sangue offerto gratuitamente dai suoi apostoli e martiri, conosciuti e sconosciuti, dai santi e dai nostri fratelli, genitori, nonni. Questo amore è per noi oggi, e per ogni uomo, come lo è per i nostri cari che sono già passati attraverso la soglia della morte. In questo amore possiamo essere tutti perdonati, purificati e ricreati in Cristo per la vita celeste, in attesa del giorno in cui, come quella di Cristo Gesù, anche la nostra carne risorgerà trasfigurata. Nell'attesa di questa beata speranza, ne sperimentiamo le primizie qui sulla terra, ogni volta che la morte aprirà le sue fauci a causa dei nostri peccati e di quelli di chi ci è accanto. E' allora che potremo sperimentare la dolcezza autentica dell'amore di Dio capace di perdonare e tirarci fuori dalla tomba per condurci nella vita nuova che abbraccia nel perdono e nell'amore anche il nemico che ci ha appena dato la morte

lunedì 1 novembre 2021

 

SANTI PERCHÈ AMATI, PERDONATI E LIBERATI COME UNA PRIMIZIA DEL CIELO OFFERTA AD OGNI UOMO
Una speranza invincibile e la forza infinita d'una chiamata: la santità è un'elezione, un esser messi a parte per qualcosa di speciale, per abitare la Terra. I santi sono gli eredi della Terra dove scorre latte e miele. Il Cielo. Tra le pieghe della festa di oggi, dietro la santità si scorge la storia di un Popolo. Ad ogni beatitudine si odono le eco dei passi degli umili, dei piccoli, di un resto. I riscattati che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti e le hanno rese candide nel sangue dell'Agnello.
E' Lui che, vittorioso sul peccato e sulla morte, precede i suoi nella Galilea che è il mondo in attesa del Regno. E' Lui il Santo che ci fa santi. Oggi siamo tutti dinanzi alla Terra, come Giosuè. Le parole del Signore ci invitano a non aver paura, ad essere coraggiosi e forti, a non scoraggiarci dinanzi alle difficoltà, ai popoli che abitano la nostra eredità.
A non aver paura di noi stessi, dei nostri peccati, dei nostri limiti, delle nostre debolezze, dei nostri difetti. Sono tanti e numerosi come i Popoli che abitavano la Terra che si dischiudeva dinanzi agli occhi di Giosuè. "Forza e coraggio" gli ripeteva il Signore sull'erta di quel monte, "perché il Signore è con te ovunque tu vada". Forza e coraggio sono l'altra metà della povertà.
Come Giacobbe dinanzi al guado dello Jabbok, solo e in trappola, e quel fiume oscuro che lo aspettava, come un presagio di morte. Giacobbe era un peccatore, ha mormorato e giudicato, ha ingannato e rubato, ma portava sigillata nel fuoco la sua primogenitura; ha lottato con Dio, non ci stava a «perdere la vita». Poi un colpo secco all’anca e non era più quello di prima. Umiliandolo a zoppicare Dio ne aveva fatto un santo. Ora Giacobbe conosceva la propria debolezza benedetta con un nome nuovo, «Israele», che significa «Forte con Dio». Ecco dunque un santo, il più debole con il Più forte.
Tu ed io che trasciniamo i piedi, incapaci di tutto ma aggrappati alla sua misericordia. Lo abbiamo visto anche un istante fa, quando per nulla abbiamo sbranato il fratello, per poi chiedergli balbettanti perdono. Ma solo chi ha conosciuto davvero, come Giacobbe, la propria debolezza, può abbandonarsi con una sconfinata fiducia in Colui che lo chiama.
E' la fede che coniuga nei santi la forza e il coraggio. Essi vivono aggrappati a Colui che ha legato il demonio, ha sconfitto uno ad uno i Popoli che usurpavano l'eredità, e con Lui entrano a prenderne possesso. Un Popolo santo, separato, consacrato in Colui che lo ha amato di un amore unico, gratuito, infinito.
Il Signore ci annuncia oggi la beatitudine di chi abita, felice, nella sua Terra. Che ci è data, come primizia, nella Chiesa, il mistero d'amore e comunione che supera ogni nostro limite carnale. Anche oggi, come ad ogni mattino che si apre dinanzi a noi, ci troviamo sul monte con il Signore. E su quel monte ammantato dalla rugiada d'ogni alba della nostra vita, Lui ci chiama ad entrare nella Sua eredità. Ogni aurora che ci accoglie ci dona il Suo Spirito Santo che ci fa figli, coeredi di un Destino meraviglioso.
Lo Spirito di fortezza perché non cediamo al timore dinanzi alla Croce che ci attende. Ecco la nostra vita santa che ci fa santi. Ogni evento in cui ci imbattiamo, ogni persona che incontriamo è la Terra preparata per noi, la nostra eredità. Nostra moglie oggi, così come si sveglierà; nostro marito è la terra che ci farà sante quando tornerà nervoso e intrattabile dal lavoro; nostro figlio che si è appena messo un orecchino; nostra figlia che ha sbattuto la porta e se ne è andata in discoteca; nostra suocera che non ce ne fa passare una, con quel sorrisetto ironico che dice tutto; il collega che ci ha infilzato calunniandoci con il capo reparto. E il cancro che ci ha visitato, la cassa integrazione, lo sfratto.
Ogni fatto della nostra vita ci fa santi, perché in ciascuna ora che segna le nostre esistenze Lui ci precede, combatte per noi come già ha fatto innumerevoli volte nel passato; anche quando eravamo schiavi del peccato in Egitto dove ci ha salvati, redenti, amati d'un amore eterno. Lui ci precede nella camera operatoria e nel dialogo serrato con i figli; allora, perché temiamo di vivere e chiamare gli altri a vivere una vita santa, piena, compiuta nell’amore? Perché ci accontentiamo di galleggiare mentre possiamo essere santi?
La sola possibilità per essere felici, noi e la nostra famiglia, i fratelli, gli amici è lasciare che Dio ci faccia santi, conducendoci nella Terra dove consegnarci per amore, nel compimento della promessa che ci ha chiamati alla vita. Desideri la santità per tuo figlio? O piuttosto un lavoro, la salute e altre cosette così? Non desideri che conosca l’amore che lo perdona e lo trasforma in figlio di Dio, in un santo offerto al mondo?
Chi di noi, oggi, non sta vivendo almeno una delle situazioni descritte dalle “beatitudini”? Ma forse non pensiamo d’essere “beati”. Sfortunati, vittime di un’ingiustizia, ma “beati” perché “piangiamo, abbiamo fame, siamo perseguitati, ci insultano e calunniano”? Per favore, chi pensa che tutto questo sia la felicità è da rinchiudere in un manicomio criminale.
Ma Gesù ci annuncia proprio questo. Non solo, ma ci svela che siamo “noi” questi “beati”. Sei beato e non te ne stai rendendo conto. Guarda bene tuo marito, tua moglie; fissa tuo figlio. Guarda te stesso, ma guardati bene. E lascia che le parole di Gesù illuminino i volti, e raggiungano le storie di ciascuno, scovando anche nella tua i momenti in cui hai visto Lui operare in te. L’hai sperimentata la beatitudine, ma forse non ci hai fatto caso o il demonio te l’ha cancellata dalla memoria. La stai sperimentando, ma forse ti sembra la cosa più naturale del mondo.
Quando? Ora, che sei ancora sposato, ed è in virtù della sola Grazia di Dio che ha reso “vita” possibile, e anche felice, quello che il mondo, la carne e il demonio dicono essere un assurdo. Hai gustato la beatitudine quando hai perdonato chi ti aveva tolto l’onore. Di certo la tua beatitudine si specchia nel sorriso di tuo figlio, che è la vittoria di Cristo sui tuoi peccati, sull’egoismo, l’avarizia e la concupiscenza.
Ciò significa che la “beatitudine” per la quale siamo nati sgorga dalla gratitudine. Chi oggi non è grato a Dio, sta perdendo la propria felicità, quella che gli spetta. E’ frustrato, vive contro se stesso. Ma la gratitudine non si compra al mercato. E’ il frutto di un lungo cammino di “purificazione” dello sguardo “del cuore”; è la meta di un serio percorso di conversione alla verità per diventare “poveri in spirito”.
E’ il figlio di Dio gestato nel seno della Madre Chiesa, che, illuminato dalla Parola spalmata sui fatti della propria storia, ha sperimentato l’amore di Dio e per questo lo vede in tutto. E per tutto è grato, rende grazie, vive in pienezza l’eucarestia, che non a caso era l’ultimo evento vissuto da un catecumeno la notte di Pasqua, dopo aver ricevuto il battesimo e la cresima.
Era entrato nella terra della gratitudine, immagine del Paradiso. Gustava le delizie dello Shabbat, del riposo che è la contemplazione dell’opera di Dio nella propria vita. Poteva cantare e far festa, “rallegrarsi ed esultare” perché sapeva che proprio la persecuzione certificava la sua appartenenza a Cristo, che stava vivendo la sua morte e la sua resurrezione.
Come non essere grati, ed esplodere in una liturgia di ringraziamento per essere stati “separati” dal mondo per vivere la vita di Cristo! Come non essere felici per essere stati strappati dal peccato e dall’infelicità per gustare il perdono che ricrea! Come non desiderare questa “beatitudine” per chi ci è accanto, per il mondo intero? Come non perdere la vita per annunciarla sino agli estremi confini della terra perché nessun uomo ne resti escluso?
Il Signore ha pensato a te e a me, ai nostri figli per condurci per mano al possesso della nostra eredità, la sua stessa santità. Lui, il Santo, ci ha scelti. Lui nella Chiesa illumina gli occhi della nostra mente per comprendere a quale speranza siamo chiamati, "quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi" . La speranza di esserne partecipi purifica i nostri cuori e le nostre menti e ci fa ogni giorno santi come Lui: poveri con Lui, afflitti con Lui, miti con Lui, affamati e assetati con Lui, puri, operatori di pace, perseguitati con Lui. Piccoli, deboli, pieni di difetti e di contraddizioni. Eppure santi.
Sino al giorno in cui saremo “eletti” a far parte del “Paradiso”. Nel tempo e nello spazio, sulla terra, ci prepariamo a vedere trasformata la chiamata in elezione attraverso il cammino che ci offre la Chiesa. Perché è pur vero che molti sono i chiamati e pochi gli eletti. La santità è una cosa seria, è soprattutto una missione per salvare i peccatori.

Per passare all’altra riva, alla “terra celeste”, abbiamo bisogno di fratelli maggiori che ci confortino, ci mostrino le tracce disseminate sulla strada della santità. Di testimoni della fedeltà di Dio, come lo fu Elisabetta per la Vergine Maria. Per questo celebriamo oggi la santità di tutti coloro che ci hanno preceduto in questo cammino, che hanno gustato le primizie della Terra promessa nelle pieghe dell'esistenza quotidiana. Celebriamo la comunione con i santi, nella quale possiamo, in un certo senso, “approfittare” della loro santità per imparare a viverla nella nostra storia.

 





Ma come possiamo divenire santi, amici di Dio? 
Per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie, 
né possedere carismi eccezionali. 
E' necessario innanzitutto ascoltare Gesù 
e poi seguirlo senza perdersi d'animo di fronte alle difficoltà
"Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. 
Se uno mi serve, il Padre lo onorerà" (Gv 12, 26). 
Chi si fida di Lui e lo ama con sincerità, 
come il chicco di grano sepolto nella terra, 
accetta di morire a sé stesso. 
Egli infatti sa che chi cerca di avere la sua vita per se stesso la perde, 
e chi si dà, si perde, trova proprio così la vita. 
L'esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, 
pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce
la via della rinuncia a se stesso. 
L'esempio dei santi è per noi un incoraggiamento 
a seguire le stesse orme, 
a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, 
perché l'unica vera causa di tristezza 
e di infelicità per l'uomo è vivere lontano da Lui.

Benedetto XVI, 1 Novembre 2006