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lunedì 30 novembre 2020

 


INCONTRO A GESU' VERO DIO E VERO UOMO CHE VIENE A FARCI FIGLI DI DIO E PER QUESTO VERI UOMINI
Sono tante le "reti" con le quali ogni giorno cerchiamo di guadagnarci da vivere. Le gettiamo sperando di pescare un branco di amici, di quelli che ci potrebbero saziare d'affetto, stima e comprensione. Ma troppo spesso ne restiamo impigliati. La rete, non si chiama così quel pozzo senza fondo che, attraverso lo schermo di un computer, ci afferra nell'illusione d'essere in contatto col mondo intero e di farci un mondo di amici che ci seguano? Internet, la rete, una piroetta virtuale che sfiora la realtà senza viverla, anche se dicono che ci fanno le rivoluzioni. Social networks, chat, video e notizie, sono le maglie di una rete che rapisce il cuore, sottrae il tempo, evapora i profili, scolora le relazioni in una menzogna travestita di vuota pienezza. Giovani e meno giovani come pesci indifesi, pescati e sottratti all'acqua autentica della volontà divina. Sempre connessi, è il mantra ripetuto ovunque, perché la rete ci insegue con il wifi che si insinua nei computer di casa, nei portatili, nei tablet e negli smartphone, sempre più piccoli, sempre più veloci, sempre con noi. Sempre connessi per dimenticare d'essere disconnessi dal vero, dal bello e dal buono, l'essenziale che ci fa vivi, felici e realizzati. Sempre connessi eppure profondamente soli, con il cuore che naviga lontano da Cristo, scappando dalla Croce, l'unico Link autentico che connette alla vita piena che non si corrompe, come tralci staccati dalla vite. Viviamo, soprattutto i più giovani, definiti ormai come i "nativi digitali", nell'illusione che basti un click per parlare, relazionarsi, amare; un secondo e i desideri sembrano realizzarsi, e tutto il mondo, cose e persone, giungono a portata di mano; immagini e parole prese nella rete, spesso con la violenza della curiosità e della concupiscenza, senza renderci conto d'essere stati "pescati" noi per primi per consumare sempre di più, sempre peggio, accendendo nella carne una compulsione insaziabile che confonde la realtà con il sogno, ed esige da essa l'impossibile. Tutto in un click, dimenticando la fatica e il sudore dell'amore autentico, il sacrificio del donarsi, i chiodi che trafiggono il link eterno, l'amore che non può essere che crocifisso. Il mondo di internet è, come il mare di Galilea con le sue barche e le sue reti, la metafora della nostra vita affondata nella spirale che ci irretisce mentre ci sforziamo di irretire, come quando buttiamo ore ed energie a sporcare occhi, cuore e mente davanti a un tablet, uno smartphone o un PC. Non a caso i siti in assoluto più visitati sono quelli pornografici...
Ma, nel fondo di tutto questo "gettare reti e riassettarle", si cela un unico desiderio, il grido strozzato in gola al termine di giornate avare di pesce e di gioia. Non può nulla neanche nostro "padre"; come quello di Giacomo e Giovanni, è sempre lì, accanto a noi, a ricordarci la nostra storia, il passato che, spesso, è un peso che ci distrugge. Ma Gesù "cammina" anche oggi sulle rive del "mare" nel quale cerchiamo vita e felicità: sul corridoio di casa, in ascensore mentre giungiamo in ufficio, sulla metropolitana e in ambulatorio, al supermercato e in classe. Gesù passa e la sua voce mette a tacere ogni altra voce, il suo sguardo fulmina lo schermo del computer, e il suo amore ci attira irresistibilmente a seguirlo, strappandoci dalle maglie della rete. Come accadde ad Andrea, spinto da quelle parole che erano calamite, a "lasciare barca, reti e padre" per "seguire" senza indugio il Signore. Lasciare e seguire, perché è Lui che il cuore di ogni uomo desidera ardentemente, magari cercandolo maldestramente su Google; solo nelle sue parole, infatti, c'è una forza così dirompente da cambiare la vita nello spazio di un istante. Proprio ora, che stiamo rincorrendo sogni e utopie, piaceri virtuali che vorremmo esigere da chi ci è accanto. Passa Gesù a sgonfiare la menzogna che sovrappone illusione alla realtà e ci fa vivere sempre lontano dalla storia, dai pensieri e criteri del coniuge, dalla debolezza dei figli, dai peccati dei colleghi. Da noi stessi. Gesù passa e ci chiama e la sua voce percuote e perfora la pietra del nostro cuore, impegnato in giudizi e mormorazioni, incapace di aprirsi alla verità che ci attende nella realtà. Gesù "vede" Andrea, Giacomo, Simone, Giovanni, tu ed io, e li riconosce: sono i suoi "fratelli", "chiamati" ad essere "pescatori di uomini" come Lui, che avrebbe gettato la propria vita come una "rete" nel mare della morte. L'incontro con il Signore e la sua sequela, infatti, portano a compimento la vita di ciascuno. Andrea e gli altri "erano pescatori" e per questo "gettavano le reti in mare"; chiamandoli a seguirlo, Gesù li ha riportati alla vocazione originaria, trasfigurando ogni aspetto della loro esistenza: hanno continuato ad essere pescatori ma nella libertà di chi, pescando, "getta" non più una rete per saziare i propri appetiti, seguendo sogni e chimere servendosi degli altri, ma la sua stessa vita per la salvezza degli "uomini". Il Signore "chiama" anche noi oggi per trasfigurarci, e volgere all'amore la nostra vita; non dovremo lasciare d'essere quello che siamo, solo accogliere la Parola di Gesù che trasforma quello che siamo in un dono per chiunque. Avvocati, operai, medici e infermieri, professori e studenti, casalinghe e pensionati, mamme e papà, tutti siamo chiamati a vivere quello che facciamo perché siamo amati, istante dopo istante. Chiamati a a seguirlo per imparare ad amare in tutto; a offrire tutto quello che abbiamo messo al servizio della carne, nell'amore che cerca la felicità dell'altro, "lasciando" le reti sulla barca, come un computer abbandonato e disconnesso.

venerdì 27 novembre 2020

 L'appello di Clermont

L'immagine può contenere: una o più persone



L’#ALMANACCO DEL GIORNO
Il 27 Novembre, si ricorda il celebre "Appello di #Clermont" pronunciato da papa Urbano II, al secolo Oddone di Lagery (1040-1099), nel 1095, nel corso del Concilio di Clermont-Ferrand, nel settimo anno del suo pontificato.
LA LETTERA
Urbano II a Clermont lesse la lettera inviatagli dall'imperatore Alessio I Comneno (1056-1118), che chiedeva soccorso poiché i #Turchi erano ormai a poche decine di miglia da #Costantinopoli, mentre i pellegrini in Terra Santa erano perseguitati, torturati, sterminati.
La Città Santa era caduta sotto il controllo di potenze musulmane sin dalla prima metà del VII Secolo, ma gli Arabi non avevano mai impedito i pellegrinaggi verso i luoghi sacri di #Gerusalemme, limitandosi a tassare i pellegrini. La calata dei Turchi, nell'XI Secolo, aveva invece peggiorato ogni cosa.
DEUS VULT
Alle parole latine "Deus vult", secondo la tradizione pronunciate dal pontefice, fece eco la folla, che rispose in occitano "Dieu lo volt", mentre iniziavano a cucire croci di stoffa sul petto dei primi volontari e lo stesso Papa prometteva la remissione dei peccati per chi si fosse armato per compiere un pellegrinaggio volto a soccorrere i cristiani di Costantinopoli e a liberare la Terra Santa dall'odioso dominio musulmano.
A seguito di questo appello, sarebbe stata organizzata la Prima Crociata (1096-1099).
La spedizione principale, la “Crociata dei Baroni”, sarebbe stata tuttavia preceduta dalla cosiddetta “Crociata dei Pezzenti”, i primi partiti immediatamente dopo l’appello di papa Urbano II, sotto la guida del predicatore Pietro l’Eremita (1050-1115) e del Signore di Boissy, Gualtiero Senza Averi (†1096). Essi sarebbero stati sterminati dai Turchi appena superato il Bosforo e Pietro l’Eremita avrebbe a stento unito i superstiti ai #crociati guidati dai baroni, che sarebbero sopraggiunti alcuni mesi più tardi.
LA PRIMA CROCIATA
La “Crociata dei Baroni”, partita nei mesi successivi, avrebbe messo in marcia oltre 30.000 persone verso la Terra Santa, al comando di importanti e carismatici baroni, ma nella totale assenza di sovrani, considerato che i due più importanti – l'Imperatore del Sacro Romano Impero e il Re di Francia – erano all’epoca in lite con il Papato. Il primo a causa della lotta per le investiture, il secondo per una contesa matrimoniale.
L'adesione popolare fu notevole, ma non altissima: si stimano venti milioni di abitanti nell'Europa cristiana dell'epoca, di cui, al netto di donne, vecchi e bambini, almeno quattro milioni di uomini potenzialmente abili alle armi, quindi partì meno di un centesimo di costoro. Non furono certamente solo poveri, cadetti o nullatenenti. Anzi, è stato stimato che, per finanziarsi il viaggio fino in Terra Santa, un uomo dovesse investire, tra armi, viveri ed equipaggiamento vario, circa quattro volte il proprio reddito annuale: molti furono infatti gli atti di alienazione di beni immobili o di preziosi, atti nei quali ampio spazio fu dato, più che alle clausole, alle sacre motivazioni del dante causa.
I PROTAGONISTI
I principali e più carismatici baroni della Prima Crociata furono: il Duca della Bassa Lorena Goffredo di Buglione (1060-1100), che dopo la presa di Gerusalemme sarebbe stato scelto dagli altri baroni come primo Difensore del Santo Sepolcro; suo fratello Baldovino I di Buglione (1058-1118), che sarebbe prima divenuto Conte di #Edessa e poi sarebbe succeduto al fratello, assumendo però il titolo di Re di Gerusalemme; il Conte di Boulogne Eustachio III di Buglione (1056-1125), fratello maggiore dei precedenti, che dopo la presa di Gerusalemme avrebbe fatto ritorno nelle Fiandre; il Conte di Tolosa e Marchese di Provenza Raimondo IV di Saint-Gilles (1045-1105), che sarebbe divenuto Conte di #Tripoli; il Principe di Taranto Beomondo I d’Altavilla (1054/1058-1111), che sarebbe divenuto Principe d’#Antiochia; il cugino di quest’ultimo, Tancredi d’Altavilla (1072-1112), che sarebbe diventato Conte di Galilea; il Duca di Normandia Roberto II Cosciacorta (1052/1054-1134), che dopo la presa di Gerusalemme e la battaglia di #Ascalona sarebbe rientrato in Normandia; il Conte delle Fiandre Roberto II di Fiandra (1065-1111), che dopo la battaglia di Ascalona avrebbe fatto ritorno nelle Fiandre; il Conte di Vermandois e di Valois Ugo I il Grande (1057-1101), che avrebbe abbandonato la Crociata per lo scoramento a causa delle difficoltà riscontrate ad Antiochia, ma poi – preso dal rimorso, soprattutto dopo aver saputo della presa di Gerusalemme – sarebbe ripartito per la Terra Santa, salvo rimanere ferito gravemente in uno scontro sul fiume #Halys e morirne poco dopo, a Tarso; il Conte di Blois, Châteaudun, Chartres e Meux Stefano II Enrico, meglio conosciuto come Stefano II di Blois (1045-1102), che sarebbe fuggito ignominiosamente con Ugo di Vermandois, poi sarebbe tornato per difendere il neonato Regno di Gerusalemme pur senza feudi in Terra Santa, salvo venire catturato e decapitato nella seconda battaglia di #Ramla; il Vescovo di Le Puy-en-Velay Ademaro di Monteil (†1098), partito con il ruolo di legato apostolico, ma ucciso da un’epidemia di tifo o di colera poco dopo la definitiva presa di Antiochia.
L'ESITO
Degli oltre 30.000 uomini partiti, che per alcuni furono fino al doppio, con al seguito anche monaci e donne, tra morti in battaglia, morti di fame, morti di sete, morti di malattie e diserzioni nei momenti di maggior scoramento, sotto le porte di Gerusalemme sarebbero arrivati meno della metà.
Il mondo musulmano, all'epoca lacerato da profonde divisioni interne e del tutto impreparato a ricevere un'invasione di questa portata, avrebbe visto la caduta delle principali città e fortezze della costa mediterranea di Siria e Palestina. Avrebbe inoltre dovuto constatare l'arretratezza delle proprie tecniche di combattimento, con la sola eccezione degli arcieri a cavallo turchi, e — almeno in questa prima fase, nel mondo arabo — la debolezza di quelle sacre motivazioni che quattrocento anni prima avevano reso invincibili le orde ismaelite.
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[Nell'immagine: in alto, papa Urbano II al Concilio di Clermont, in una miniatura tratta dal "Livre des Passages d'Outre-mer" di Jean Colombe (1430-1493); in basso, carta geopolitica raffigurante l'Europa e il Bacino del Mediterraneo al tempo della Prima Crociata, con indicazione del percorso seguito dai vari corpi di spedizione]
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 Racconti di un pellegrino russo

Secondo racconto

 Pellegrinai a lungo, di luogo in luogo; unica mia compagna la Preghiera di Gesù che mi incoraggiava e mi consolava in ogni mio viaggio, in ogni incontro, in ogni evento. Alla fine cominciai a sentire la necessità di fermarmi in qualche luogo per godere di maggiore solitudine e studiare la Filocalia. La leggevo sì durante le soste notturne o il riposo pomeridiano, ma avevo un desiderio grandissimo di approfondirne la lettura per attingervi il vero insegnamento sulla salvezza della mia anima. Decisi di andare verso la Siberia perchè ero convinto che nei boschi e nelle steppe di quella desolata regione avrei trovato una solitudine e un silenzio perfetti, così da potermi dedicare alI'orazione e alla lettura con maggiore profitto. Cominciai dunque questo lungo viaggio, camminando soprattutto di notte e passando le giornate quasi interamente a leggere la Filocalia, seduto sotto gli alberi della foresta. A volte mi appariva in sogno il defunto starets che mi spiegava molte cose e guidava sempre più la mia anima verso l'unione con Dio. Passai così più di due mesi dell'estate. Camminavo specialmente per i boschi e quando giungevo in un villaggio mendicavo un sacchetto di pane, una manciata di sale, riempivo d'acqua la mia borraccia e riprendevo a camminare. Un giorno, sul far della sera, fui raggiunto da due individui che mi chiesero denaro. Quando risposi loro che non avevo una sola copeca, non mi credettero, si misero a urlare che i pellegrini raccolgono sempre molti soldi e uno dei due con il bastone mi colpì sul capo così forte che caddi privo di sensi. Non so quanto rimasi svenuto, ma quando rinvenni mi ritrovai nel bosco vicino alla strada, tutto pesto e lacero e senza la mia bisaccia. Grazie a Dio, non mi avevano portato via il passaporto che tenevo nel mio vecchio berretto di pelliccia per mostrarlo più in fretta quando me lo richiedevano. Mi alzai e cominciai a piangere amaramente, non tanto per il dolore quanto perché mi avevano privato dei miei libri: la Bibbia e la Filocalia che erano nella bisaccia. Per due giorni trascinai a stento i piedi, e il terzo caddi, del tutto privo di forze, accanto a un cespuglio e mi addormentai. Ed ecco che in sogno mi apparve il mio starets. Era nella sua cella, all'eremo, e mi consolò dicendo: «Ti serva di lezione per staccarti dalle cose terrene e procedere più facilmente sulla via del cielo. Questo ti è accaduto perché Dio vuole che il cristiano rinunci del tutto alla propria volontà e ai propri desideri per affidarsi completamente alla sua volontà divina. Ogni avvenimento è predisposto da Lui per il bene e la salvezza dell'uomo. Perciò sii forte e credi che Dio, insieme con la prova ti darà anche la forza per superarla». A queste parole mi svegliai col cuore colmo di pace e mi rimisi in cammino. Di nuovo la Preghiera cominciò ad agire nel mio cuore e per tre giorni camminai tranquillo. Improvvisamente raggiunsi sulla strada una colonna di forzati sotto scorta. Riconobbi tra loro i due uomini che mi avevano derubato, e li scongiurai di dirmi che ne avevano fatto dei miei libri. In un primo momento non mi prestarono alcuna attenzione, poi uno di loro, sotto promessa che gli avrei donato un rublo d'argento, disse che i miei libri erano nel carro insieme con altra roba rubata. Mi precipitai dall'ufficiale di scorta che mi promise di restituirmi i libri alla prossima tappa, non potendo fermare tutto il convoglio per me. Rasserenato, mi misi a camminare al suo fianco e a chiacchierare con lui. Vidi che era un uomo buono e onesto, non più tanto giovane. Quando arrivammo alI'izba dove i deportati avrebbero pernottato, il capitano andò a cercare i miei libri e me li diede invitandomi a passare la notte con lui. Poi mi disse: «Si vede che ami leggere la Bibbia. Anch'io, fratello, leggo attentamente ogni giorno il Vangelo». Si sbottonò la giacca della divisa e ne tolse un piccolo Vangelo rilegato in argento. «Siediti - disse, - ti racconterò come ho preso quest'abitudine». Ci sedemmo a tavola e il capitano cominciò a raccontare: «Fin dalla giovinezza ho sempre servito nell'esercito. Ero abile e i superiori mi stimavano come un ufficiale modello. Per disgrazia mi misi a bere e mi abbandonai del tutto a questo vizio. Quando non bevevo ero un ufficiale perfetto, ma appena cominciavo non valevo più nulla. Mi sopportarono per molto tempo, ma alla fine, per avere insultato un superiore durante una delle mie sbornie, fui degradato a soldato semplice e condannato a prestar servizio per tre anni in guarnigione. Ma anche in quella miserabile situazione, per quanto mi sforzassi di trattenermi, non riuscii a guarire dal mio vizio. Un giorno ero in camerata quando entrò un monaco a questuare per la chiesa. Ognuno dava quello che poteva. Arrivato vicino a me, mi domandò perché fossi così triste ed io gli raccontai i miei guai. Il monaco, impietosito, mi disse che la stessa cosa era capitata a suo fratello, e l'aveva salvato il suo padre spirituale dandogli un Vangelo con l'ordine di leggerne un capitolo ogni volta che avesse sentito il bisogno di bere; e se il desiderio tornava, doveva leggere il capitolo successivo. Mio fratello cominciò a seguire questo consiglio e in breve tempo il vizio di bere scomparve. Sono quindici anni che non assaggia più un goccio d'alcool. Prova anche tu. Io ho un Vangelo, te lo porterò». Udendo ciò, gli chiesi che aiuto potesse darmi il suo Vangelo se né i miei sforzi né le cure mediche mi avevano distolto dal bere. Dissi questo perché non avevo mai letto il Vangelo. Quando il giorno seguente me lo portò, lo gettai in un piccolo baule con la mia roba e me ne dimenticai completamente. Qualche tempo dopo mi prese una gran voglia di bere, una voglia da morire che mi spinse ad aprire il bauletto per prendere i soldi e correre all'osteria. Ma la prima cosa che mi venne sott'occhio fu il Vangelo, e ricordai ciò che il monaco mi aveva detto. Apersi il libro e lessi il primo capitolo del Vangelo secondo Matteo. Lo lessi tutto, fino in fondo, senza capirci nulla. Ma ricordavo che il monaco mi aveva detto: «Non importa se non capisci, basta che tu legga con attenzione». Via,- dissi fra me - ne leggerò un altro capitolo. Lo leggo e comincio a capire quacosa. Allora attacco il terzo, ma in quel momento suona la ritirata. Troppo tardi per uscire dalla caserma, non era più permesso. Cosi restai dov'ero. E per quella volta non bevvi. Il mattino dopo mi alzai e stavo per andare in cerca di un buon bicchiere di vino quando mi venne il pensiero: «E se leggessi un altro capitolo del Vangelo?». E così ogni volta che la voglia di bere mi riprendeva, mi mettevo a leggere un capitolo e più passava il tempo, più diventava facile resistere. Quando ebbi terminato di leggere tutti e quattro gli Evangelisti, il vizio del bere mi era passato. Ora sono venti anni che non bevo più un goccio d'alcool. Tutti si stupirono di un simile mutamento: dopo tre anni mi restituirono il grado di ufficiale e da allora feci carriera finché diventai capitano. Mi sposai: ebbi la fortuna di trovare una buona moglie; abbiamo messo da parte qualcosa e ora, grazie a Dio, viviamo bene, aiutiamo i poveri per quanto possiamo e ospitiamo i pellegrini. Anche mio figlio ormai è già ufficiale ed è un bravissimo ragazzo. Quando guarii dal vizio dell'alcool giurai di leggere ogni giorno, per tutta la vita, uno dei quattro Vangeli, qualsiasi cosa fosse accaduta. E così ho sempre fatto». Ascoltai con infinita tenerezza il racconto del capitano, poi ci congedammo per andare a riposare. Al mattino mi diede la mia Filocalia e un rublo d'argento, mi salutò, ed io ripresi con gioia il mio cammino.

mercoledì 25 novembre 2020



 Racconti di un pellegrino russo 

 Primo racconto

 Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino errante di luogo in luogo. I miei beni terreni sono una bisaccia sul dorso con un po' di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null'altro. Una domenica entrai in una chiesa, durante la Liturgia, per pregare. Stavano leggendo il passo della prima lettera ai Tessalonicesi in cui è detto: «Pregate senza interruzione». Queste parole si incisero profondamente nel mio spirito, e cominciai a chiedermi come fosse possibile pregare senza posa quando ciascuno è necessariamente impegnato a lavorare per il proprio sostentamento. Cercai nella mia Bibbia e lessi proprio quello che avevo udito, e cioè: «Pregate senza interruzione per mezzo dello Spirito in ogni tempo». Pensavo e pensavo, senza trovare alcuna soluzione. Volendo che qualcuno mi chiarisse il senso di quelle parole, decisi di recarmi nelle chiese dove si trovano predicatori di grande fama; chissà che da loro non mi sarebbero giunte parole illuminanti. E così feci. Udii molte prediche bellissime sull'orazione in generale: che cos'è, perché è indispensabile, quali sono i suoi frutti; ma nessuno mi spiegava come pregare incessantemente. Insomma, nelle prediche che udii non trovai la risposta che cercavo, sicchè decisi di cercare, con l'aiuto di Dio, un uomo sapiente ed esperto che mi spiegasse il mistero dell'orazione ininterrotta e continua che tanto mi attraeva. Vagabondai a lungo per diversi luoghi; leggevo sempre la mia Bibbia e mi informavo se ci fosse nei dintorni un padre spirituale, un maestro saggio e ricco d'esperienza. Una volta mi dissero che in un villaggio viveva da tempo un signore dedito totalmente alla salvezza della sua anima; aveva una piccola chiesetta privata, non usciva mai e non faceva che pregare. Mi precipitai da lui e gli chiesi cosa si intende per "preghiera incessante" e come la si può realizzare. Quel signore rimase un istante in silenzio, poi mi guardò fisso e mi disse: «Prega di più e con sempre maggior fervore: l'orazione stessa ti indicherà in che modo essa diventa incessante; ma per questo ci vuole molto tempo». Detto ciò, mi fece mangiare, mi donò qualcosa per il viaggio e mi congedò. Ma non mi aveva spiegato niente. Ripresi il cammino e dopo parecchia strada giunsi ad un monastero dove c'era un abate molto caritatevole, devoto e ospitale con i pellegrini. Andai da lui. Mi accolse amichevolmente, mi fece sedere e mi offrì del cibo. «Padre», gli dissi, «non mi occorre il cibo: desidero da voi un insegnamento spirituale. Ho sentito dire che occorre pregare senza interruzione ma non so come si possa fare; anzi, non riesco neppure a capire che cosa significhi l'orazione ininterrotta. Vi prego, spiegatemelo». Mi diede un libro dove si diceva che le parole dell'Apostolo si riferiscono alla preghiera che nasce da una mente sempre immersa in Dio. Ma non aveva spiegato niente. Passai la notte da lui e al mattino, ripresi il cammino senza saper bene dove andare. Camminai per circa cinque giorni lungo la strada maestra, finché una sera incontrai un monaco che viveva in un eremo poco lontano. Era uno starets (= un maestro spirituale). Mentre lo accompagnavo gli esposi il mio problema. Allora mi invitò nella sua cella e mi disse: «Per "preghiera continua" non si intende altro che la cosiddetta "Preghiera di Gesù" o "preghiera del cuore", che consiste nella continua ed incessante ripetizione del Nome di Gesù con le labbra, con la mente e con il cuore, durante ogni occupazione, in ogni luogo e tempo, anche nel sonno. La Preghiera si compone di queste parole: " Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!". Chi si abituerà a questa invocazione proverà una tale consolazione e un tal bisogno di pronunciarla di continuo, che non potrà più vivere senza di essa, ed essa fluirà spontaneamente dentro di lui. Ora hai capito che cos'è l'orazione ininterrotta?». «Ho capito padre mio, ma ora insegnatemi come arrivarci!». Poichè avevo finalmente trovato il mio maestro e non potendo restare per lungo tempo suo ospite nell'eremo, decisi di trovare una sistemazione lì vicino. Fui assunto in un villaggio poco lontano per tutta l'estate da un contadino per curare il suo orto: potevo vivere tutto solo in una capanna. Avevo così trovato un posto tranquillo dove avrei potuto viverci, esercitarmi e studiare l'orazione interiore. Tornai quindi dallo staretz che mi disse: «D'ora in poi devi accettare la mia direzione con fiducia. Prendi questo rosario. Per cominciare, dirai ogni giorno almeno tremila volte la Preghiera. In piedi, seduto, camminando o coricato, dirai senza posa: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!". Dilla a voce bassa, lentamente; ma siano tremila volte al giorno, né più, né meno». Tornai alla mia capanna e cominciai ad eseguire fedelmente ciò che mi aveva ordinato. Per due giorni non mi fu facile, ma poi divenne così piacevole che appena smettevo sentivo come un bisogno di riprendere la Preghiera ed essa mi sgorgava facilmente e lievemente, senza costringermi allo sforzo di prima. Ne riferii allo starets che mi ordinò di recitare la Preghiera seimila volte al giorno: «Stà tranquillo, cerca solo di recitare il numero esatto di preghiere che ti ho prescritto: Dio ti darà la sua grazia». Passai tutta la settimana nella solitudine della mia capanna a recitare ogni giorno per seimila volte la Preghiera di Gesù, senza preoccuparmi di nulla e senza dar corso alle distrazioni, per insistenti che fossero. Cercavo solo di eseguire fedelmente l'ordine dello starets. Che avvenne? Mi abituai talmente alla Preghiera che se mi interrompevo anche per poco tempo, avevo la sensazione che mi mancasse qualcosa. Non appena riprendevo a recitarla, subito ritornava la gioia. Quando incontravo qualcuno, non desideravo parlare: desideravo solo trovarmi nella mia solitudine e recitare la mia Preghiera, tanto mi ci ero abituato in una sola settimana. Non vedendomi per dieci giorni, lo starets stesso venne a sentire mie notizie ed io gli spiegai quel che mi accadeva. Mi ascoltò e disse: «Ora che ti sei abituato alla Preghiera, fa' in modo di conservare e rafforzare quest'abitudine. Non perdere tempo, dunque, e con l'aiuto di Dio, impegnati a recitarla dodicimila volte al giorno. Resta nella solitudine, alzati un po' prima, coricati un po' dopo e vieni a consigliarti con me ogni due settimane». Continuai a mettere in pratica i suoi consigli. Il primo giorno riuscii a mala pena, a notte inoltrata, a terminare le dodicimila invocazioni. Il giorno successivo portai a termine il mio compito facilmente e con gioia. Da principio sentivo una sorta di fatica a pronunciare ininterrottamente la Preghiera. Poi, a forza di sgranare il rosario, provai un leggero indolenzimento al pollice della mano sinistra, ma tutto ciò non faceva che spronarmi più che mai a recitare la Preghiera. Così per cinque giorni la recitai fedelmente dodicimila volte al giorno, e all'abitudine si aggiunsero ben presto la gioia e la soddisfazione. Un mattino venni, per così dire, svegliato dalla Preghiera. Appena la cominciai a recitare ne ebbi sollievo e la lingua e le labbra si muovevano da sole senza sforzo da parte mia. Passai tutta la giornata in grande letizia. Ero come distaccato da tutto, come se mi trovassi in un altro mondo. Terminai con facilità le mie dodicimila preghiere prima di sera. Avrei voluto continuare ancora, ma non osavo superare il limite stabilito dallo starets. Quando andai da lui gli raccontai tutto e mi disse: «Ringrazia Dio che ti ha dato il desiderio e la facilità di recitare la Preghiera. E' un effetto naturale derivante dal frequente e attivo esercizio. La stessa cosa succede a una macchina alla cui ruota motrice si imprima una spinta: essa corre a lungo da sé, ma per prolungare il suo moto occorre imprimerle una nuova spinta di tanto in tanto. Ora ti permetto di recitare la Preghiera quanto vuoi. Cerca di dedicarle ogni attimo nel quale non dormi, invoca il Nome di Gesù senza più contare, rimettendoti umilmente alla volontà di Dio e aspettando da Lui l'aiuto. Egli non ti abbandonerà e ti guiderà nel cammino». Seguendo i suoi consigli, passai tutta l'estate a recitare senza posa la Preghiera di Gesù e sperimentai l'assoluta pace dell'anima. Durante la notte sognavo spesso di recitare la Preghiera e di giorno, se mi capitava di incontrare qualcuno, tutte quelle persone senza distinzione mi parevano altrettanto amabili che se fossero state della mia famiglia. I pensieri si erano spontaneamente acquietati e quando andavo in chiesa la lunga funzione monastica mi sembrava breve e non mi stancava più come in passato. Ma non potei giovarmi a lungo degli insegnamenti del mio ispirato starets: alla fine delI'estate morì. Gli dissi addio con le lacrime agli occhi, ringraziandolo per l'insegnamento paterno che mi aveva dato e gli chiesi come suo ricordo il rosario sul quale aveva sempre pregato. Ero rimasto solo. L'estate finì e si raccolsero i frutti dell'orto. Non avevo più dove vivere. Il contadino mi congedò, dandomi due rubli d'argento e riempiendomi il sacco di pane secco per il viaggio. Ripresi a peregrinare da un luogo all'altro, ma non avevo più l'ansia di prima: I'invocazione del Nome di Gesù mi rallegrava durante il cammino e tutta la gente mi trattava con maggiore bontà, quasi che tutti avessero preso ad amarmi. Un giorno decisi di comperare la Filocalia per continuare a studiare su di essa l'orazione interiore. Entrai in una chiesa e per due rubli ne trovai una molto vecchia e sciupata. Ne fui felice. La aggiustai come meglio potei, la ricoprii con un pezzo di stoffa e la riposi nella bisaccia con la mia Bibbia. Ora cammino e incessantemente ripeto la Preghiera di Gesù. A volte percorro più di sessanta verste in un giorno e non me ne accorgo nemmeno. Quando le gambe e la schiena cominciano a dolermi, concentro il pensiero sulla Preghiera e non sento più il dolore. Se qualcuno mi offende penso alla dolcezza della Preghiera di Gesù: umiliazione e collera scompaiono, dimentico tutto. Non ho preoccupazioni nè interessi. Vorrei solo restare nella mia solitudine, con un unico desiderio: recitare incessantemente la Preghiera e sentirmi colmare di gioia. Dio sa che cosa mi sta succedendo. Così, anche senza essere ancora pervenuto alla ininterrotta e spontanea orazione del cuore, per grazia di Dio ho capito chiaramente il significato dell'insegnamento di S. Paolo: "Pregate incessantemente".

 



Dalle «Omelie» attribuite a san Macario, vescovo

​L'anima che non è dimora di Cristo è infelice
 
 Una volta Dio, adirato contro i Giudei, diede Gerusalemme in balia dei loro nemici. Così caddero proprio sotto il dominio di coloro che essi odiavano e si trovarono nell'impossibilità di celebrare i giorni festivi e di offrire sacrifici. Nello stesso modo, Dio, adirato contro un'anima che trasgredisce i suoi precetti, la consegna ai suoi nemici, i quali, dopo averla indotta a fare il male, la devastano completamente. Una casa, non più abitata dal padrone, rimane chiusa e oscura, cadendo in abbandono; di conseguenza si riempie di polvere e di sporcizia. Nella stessa condizione è l'anima che rimane priva del suo Signore. Prima tutta luminosa della sua presenza e del giubilo degli angeli, poi si immerge nelle tenebre del peccato, di sentimenti iniqui e di ogni cattiveria.
   Povera quella strada che non è percorsa da alcuno e non è rallegrata da alcuna voce d'uomo! Essa finisce per essere il ritrovo preferito di ogni genere di bestie. Povera quell'anima in cui non cammina il Signore, che con la sua voce ne allontani le bestie spirituali della malvagità! Guai alla terra priva del contadino che la lavori! Guai alla nave senza timoniere! Sbattuta dai marosi e travolta dalla tempesta, andrà in rovina.
   Guai all'anima che non ha in sè il vero timoniere, Cristo! Avvolta dalle tenebre di un mare agitato e sbattuta dalle onde degli affetti malsani, sconquassata dagli spiriti maligni come da un uragano invernale, andrà miseramente in rovina. 
   Guai all'anima priva di Cristo, l'unico che possa coltivarla diligentemente perché produca i buoni frutti dello Spirito! Infatti, una volta abbandonata, sarà tutta invasa da spine e rovi e, invece di produrre frutti, finirà nel fuoco. Guai a quell'anima che non avrà Cristo in sè! Lasciata sola, comincerà ad essere terreno fertile di inclinazioni malsane e finirà per diventare una sentina di vizi.
   Il contadino, quando si accinge a lavorare la terra, sceglie gli strumenti più adatti e veste anche l'abito più acconcio al genere di lavoro. Così Cristo, re dei cieli e vero agricoltore, venendo verso l'umanità, devastata dal peccato, prese un corpo umano, e, portando la croce come strumento di lavoro, dissodò l'anima arida e incolta, ne strappò via le spine e i rovi degli spiriti malvagi, divelse il loglio del male e gettò al fuoco tutta la paglia dei peccati. La lavorò così col legno della croce e piantò in lei il giardino amenissimo dello Spirito. Esso produce ogni genere di frutti soavi e squisiti per Dio, che ne è il padrone. 

 

 


PERSEVERANTI NELL'AMORE PERSEVERANTE E FEDELE DI DIO, NONOSTANTE LE NOSTRE CADUTE
Tutta la nostra vita è una magnifica occasione. Permeata di Grazia, ogni nostra parola può sgorgare dalle stesse labbra di Dio. Ovunque e in ogni circostanza, tutto di noi e della nostra vita è l'occasione di una testimonianza. Siamo martiri, sempre in trincea. La nostra vita è uno specchio dove l'amore di Dio ha scelto di rifrangersi per la salvezza d'ogni uomo. Non v'è un istante della nostra vita, non v'è un aspetto, anche il più nascosto e segreto, che non sia irripetibilmente importante.
La perseveranza, rimanere abbandonati nel suo amore, è la chiave che apre la nostra vita al proprio compimento. Essa è come una saetta che preannuncia un temporale. La verità sfregia irreparabilmente la menzogna e ne svela l'effimera sostanza. Dove ha messo radici la menzogna, la verità nel suo incedere crea sconquassi, rompe equilibri acquisiti, l'agognato quieto vivere se ne va a carte e quarantotto. Perseverare, dal latino per - a lungo - e severus - rigoroso. La perseveranza è una virtù per la quale, dice San Tommaso d'Aquino, è necessaria la Grazia santificante, come tutte le "virtù infuse". Essa ci viene data attraverso un cammino di conversione lungo e severo, rigoroso. La perseveranza si impara sperimentando i frutti del combattimento sulla via della Croce, la preparazione del catecumenato che ogni cristiano è chiamato a compiere, perché all'uscita delle acque del battesimo ci attende l'arena del martirio.
La vita che ha preparato il Signore per noi non è propriamente una vita di pace, quella dell'elettroencefalogramma piatto, dell'assenza di conflitti. Gesù ci ha lasciato una pace diversa da quella soffice e avvelenata del mondo. La pace del mondo stringe in un abbraccio mortale, narcotizzando a poco a poco la vita sino a renderla insopportabile, mentre la pace del Signore è il frutto della sua personale guerra vittoriosa con il demonio e con la morte. La pace di Cristo è quella che ci traghetta dentro le persecuzioni che si scatenano in noi e contro di noi dai rantoli del mondo, della carne e del demonio. "Anche noi dunque, circondati da un così gran numero di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede" (Eb. 12, 1-2). La perseveranza è l'attitudine dell'amore. E' tenere fisso lo sguardo su Cristo, come un atleta fissa il traguardo, anche quando non lo può ancora vedere con gli occhi. Se non c'è traguardo non c'e amore, e quindi neanche la perseveranza. Per tagliare un traguardo si superano gli ostacoli, si soffre, ci si sacrifica, si combatte.
Quando nella vita viene a mancare lo scopo, il telos, il compimento, tutto diviene pesante, svuotato di senso, e la carne, il mondo e gli inganni del demonio prendono facilmente il sopravvento. Così ad esempio nello studio, o nei rapporti con le persone amate, gli amici, i fidanzati, gli sposi. Tutto è una corsa, un agôna, una lotta nella quale tenere fisso lo sguardo su Gesù nell'altro: questa è la chiave.
Il traguardo di ogni mia parola, di ogni pensiero, di ogni azione è Cristo, è l'affermazione e la vita di Lui in chi mi è di fronte, come anche nelle cose che faccio, nello studio, nel lavoro, nelle faccende domestiche, nello svago. Perseverare nelle fiamme della fornace ardente significa non smettere di contemplare il volto di Cristo, l'unico che è insieme autore e perfezionatore; fissare Colui che ha dato forma e vita a chi ho dinanzi, alla mia attività, e che, solo, può portare a compimento, al traguardo, al destino per il quale tutto è dato. Se il traguardo è Cristo, fissando Lui contemplo anche il mio tagliare il traguardo, perché in Lui il destino è già compiuto. Non batto l'aria, come dice San Paolo, perché il mio traguardo non consiste in qualcosa di corruttibile, ma è la corona che Gesù ha conquistato per me. Trattare duramente il proprio corpo per ridurlo in schiavitù, la perseveranza unita alla temperanza che fa combattere contro le concupiscenze e l'avidità idolatrica, non è un masochismo per privarsi di qualcosa di bello e buono; è invece l'abito di chi fissa Cristo, di chi ama anelando all'autenticità, al destino eterno, al desiderio più profondo del proprio cuore. E', secondo l'accezione di perseverare che si trova in Omero, "rimanere indietro, arrestarsi e non deviare, tenere duro, resistere" per non cadere e dimenticare il traguardo.
Ma è anche attesa, un protendersi come quello di una corda tesa, "qaw" in ebraico, da cui qawāh (aspettare, sperare) tradotto dalla versione greca della LXX proprio con hypomonê - perseveranza. Perseverare è dunque vivere in una tensione carica di attesa, l'amore che desidera il ben dell'altro in tutto, il compimento della Verità in ogni momento, e per questo il cuore e la mente sono sempre desti, fissi su Cristo.
Se fisso Lui nella fidanzata, persevero nell'amore, perché non mi perdo in quello che, in lei, non c'entra con Lui; e così posso portare il peso dell'odio di quella parte dell'altro e di me che non c'entra nulla con Cristo. Senza preoccuparsi di nulla, perché per chi ha il cuore retto, perseverante, lo Spirito Santo provvederà a tutto, a parole colme di sapienza, capaci di resistere ai sofismi della carne.
Parole spirituali, che non cadono nel sentimentalismo, nella gelosia, nell'invidia, buone solo per ferire e mostrarsi indifesi; parole e pensieri dettati dalla Sapienza della Croce, capace di dare ragione, e perseverare in essa, degli atteggiamenti santi ispirati dallo Spirito Santo. E' Lui che ci fa stare saldi nella castità, nella verità che rifugge l'ipocrisia, nella sobrietà e nella purezza. E' Lui che persevera in noi, che ci attesta che nessun capello del nostro capo perirà, e che tutto di noi è custodito per essere trasfigurato e consegnato a Cristo.
Scriveva San Benedetto nella sua Regola: "Come c’è uno zelo amaro che allontana da Dio e conduce all’inferno, così c’è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna. È a questo zelo che i monaci devono esercitarsi con ardentissimo amore: si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore, sopportino con somma pazienza a vicenda le loro infermità fisiche e morali… Si vogliano bene l’un l’altro con affetto fraterno… Temano Dio nell’amore… Nulla assolutamente antepongano a Cristo il quale ci potrà condurre tutti alla vita eterna" (capitolo 72). La perseveranza di cui parla il Signore è un combattimento intriso d'amore, per non anteporre nulla a Lui, assolutamente.
Da questo assoluto scaturisce l'odio! Non possiamo far finta che non esista in un buonismo che uccide. Il Signore non fa giri di parole: "Chi non odia ... non può essere mio discepolo"; l'odio è l'altra faccia dell'amore, e la perseveranza nell'amore ci rende paradossalmente oggetto di odio da ciò che il nostro amore non abbraccia, anzi, da ciò che è raggiunto dal nostro stesso odio. Chi è amico del mondo è nemico di Dio. L'amicizia di Dio che ci ha raggiunti, e coinvolti in un cammino di reale conversione alla Verità, al Bello, al Buono, sovverte ogni dato acquisito nella nostra esistenza spesa a mettere faticosamente a posto, tra un compromesso e un'impennata d'orgoglio, ogni tessera del mosaico.
Chiaro che tutto si ribelli, si rivolti contro Chi tenta di rimettere le cose nel proprio ordine autentico. Come accadde ai fratelli di Giuseppe, che non riuscivano a gestire la profezia che egli annunciava con la sua sola presenza, con i suoi sogni e la sua vita. Erano carne della sua carne, e lo odiavano. Ma proprio quell'odio, ferendo il fratello, apriva misteriosamente la via alla loro salvezza. Ma doveva colpire Giuseppe, l'eletto di Dio, immagine dell'agnello che non avrebbe resistito all'odio del mondo intero. Giuseppe, profezia della Chiesa, e di ogni suo figlio, apostolo della misericordia che dissolve l'odio, dell'amore al nemico che disintegra il peccato nel sangue di Cristo.
Siamo quindi traditi da chi si sente da noi tradito. Da chi è sconvolto dalla Verità che ci fa liberi. Siamo tacciati di integralismo e fondamentalismo, perché abbiamo incontrato l'integrità della vita abbandonando la dissipazione, il fondamento che resiste alla dissoluzione. E siamo messi a morte, dai parenti, i più stretti, i più vicini. E forse dovremo salutare gli amici più cari, tagliare con il fidanzato, opporre una ineludibile durezza a nostro figlio. Saremo odiati anche dal nostro stesso uomo vecchio, quello che si corrompe dietro alle passioni ingannatrici, spesso vestite di luce, come lo studio, il lavoro, gli affetti.
Odiati da tutti. Esattamente come il nostro cuore ha sempre orgogliosamente odiato tutti e tutto, quando questi ci hanno sconvolto l'esistenza annunciandoci, con un fatto o una parola, la verità. Ma la Verità, Cristo, è il compimento della nostra vita. La sua pienezza qui ed ora è la Verità che si traduce in libertà. Per questo saremo consegnati ai tribunali, ai parenti, agli amici, ai colleghi di lavoro, a chiunque incontreremo. Perché in noi sarà consegnato Cristo. La nostra vita sconvolta e rovesciata dal suo amore come un cassetto ricolmo di oggetti da buttare, ci è donata per sconvolgere il piano del demonio, per essere un segno di contraddizione. Come lo fu Cristo con Giuda. Chi lo avrebbe immaginato che quel sangue sarebbe ricaduto sugli assassini per lavare ogni loro peccato? Chi lo può immaginare che il tuo sangue offerto per la moglie, il marito, i figli, i colleghi, per chi odia Cristo e la Chiesa, ricadrà su di loro anche oggi per scagionarli e socchiudergli il cammino al Cielo?
Nulla è per caso. Ogni persona che appare al nostro orizzonte non è un incontro fortuito, ma un dono di Dio per il quale noi stessi, e Lui in noi, siamo dono. Spesso un regalo rifiutato e odiato. Sì, saremo odiati perché il mondo sia salvato. E sarà odio benedetto perché sarà odiato Cristo in noi, e si incarnerà e svelerà la sua Croce che salva, la maledizione che dona la vita. Il suo sangue "ricaduto" sui suoi assassini come un lavacro di misericordia e di rigenerazione. Il suo mistero d'amore e di salvezza vivo e attuale sacramentalmente in noi.
Questo sono, ovunque e nel corso dei secoli, la Chiesa e i suoi figli: "sacramento di salvezza", come i tre giovani gettati nella fornace che, prendendo l'odio e il peccato su di sé, lo distruggono uniti a Cristo nella misericordia, per donare in cambio il perdono e la Vita nuova ed eterna. Questo siamo noi, odiati e rifiutati in questo mondo per servire e salvare la generazione che lo abita. La nostra vita è l'avvento di speranza nella quale ogni uomo può essere destato alla Verità. Siamo la carne di Cristo offerta ad ogni uomo, che si sta formando nel seno della Chiesa. Con amore infinito, come Stefano, il nostro sguardo fisso su Cristo e il volto come quello di un angelo, saremo ogni giorno testimoni credibili e fecondi dell'amore contemplato e sperimentato.

martedì 24 novembre 2020

 


Dall'epistolario di san Paolo Le-Bao-Tinh agli alunni del Seminario di Ke-Vinh nel 1843

​La partecipazione dei martiri alla vittoria
del Cristo capo
 
  Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perchè infiammati dal divino amore, innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna è la sua misericordia (Sal 135, 3).
   Questo carcere è davvero un'immagine dell'inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza.
   Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna è la sua misericordia.
   In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perchè non sono solo, ma Cristo è con me. Egli, nostro maestro, sostiene tutto il peso della croce, caricando su di me la minima e ultima parte: egli stesso combattente, non solo spettatore della mia lotta; vincitore e perfezionatore di ogni battaglia. Sul suo capo è posta la splendida corona di vittoria, a cui partecipano anche le membra.
   Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani che bestemmiano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini (cfr. Sal 79, 2) e i Serafini?
   Ecco, la tua croce è calpestata dai piedi dei pagani! Dov'è la tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell'ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore.
   Mostrami, Singore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza si è manifestata e glorificata la tua forza davanti alle genti; e i tuoi nemici non possono alzare orgogliosamente la testa, se io dovessi vacillare lungo il cammino.
   Fratelli carissimi, nell'udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna è la sua misericordia. L'anima mia magnifichi il Signore e il mio spirito esulti nel mio Dio, perché ha guardato l'umiltà del suo servo e d'ora in poi le generazioni future mi chiameranno beato (cfr. Lc 1, 46-48): eterna è la sua misericordia.
   Lodate il Signore, popoli tutti; voi tutte, nazioni, dategli gloria (Sal 116, 1), poiché Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole, per confondere i forti; ciò che è spregevole, per confondere i potenti (cfr. 1 Cor 1, 27). Con la mia lingua e il mio intelletto ha confuso i filosofi, discepoli dei saggi di questo mondo: eterna è la sua misericordia.
   Vi scrivo tutto questo, perché la vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta, getto l'àncora fino al trono di Dio: speranza viva, che è nel mio cuore.
   E voi, fratelli carissimi, correte in modo da raggiungere la corona (cfr. 1 Cor 9, 24); indossate la corazza della fede (cfr. 1 Ts 5, 8); brandite le armi del Cristo, a destra e a sinistra (cfr. 2 Cor 6, 79), come insegna san Paolo, mio patrono. È bene per voi entrare nella vita zoppicanti o con un occhio solo (cfr. Mt 18, 8-9), piuttosto che essere gettati fuori con tutte le membra.
   Venite in mio soccorso con le vostre preghiere, perché possa combattere secondo la legge, anzi sostenere sino alla fine la buona battaglia, per concludere felicemente la mia corsa (cfr. 2 Tm 4, 7).
   Se non ci vedremo più nella vita presente, questa sarà la nostra felicità nel mondo futuro: staremo davanti al trono dell'Agnello immacolato e canteremo unanimi le sue lodi esultando in eterno nella gioia della vittoria. Amen.

 

 


LA GELOSIA DELLO SPOSO AFFOGA NARCISO NELLE ACQUE DEL BATTESIMO PER FARLO RINASCERE CON LUI NELL'AMORE CHE LO RENDE LIBERO E SAPIENTE
Mancano pochi giorni all'Avvento, e oggi la Chiesa ci prepara a questo tempo così importante mettendoci davanti la figura di Narciso. Era un giovane molto bello, del quale si innamorò perdutamente Eco, una ragazza splendida ma troppo loquace. Gli dei vollero punire questo suo difetto e la resero muta. Era capace di ripetere solo le ultime parole che le rivolgevano. Narciso non resistette a questo difetto della sua innamorata. Non la ritenne degna di lui e si chiuse nel suo egoismo, decidendo che non le avrebbe mai rivolto le parole "ti amo". Per questo Eco morì di crepacuore. Gli dei, quando si accorsero del dramma, condannarono Narciso a chiudersi sempre più in se stesso, e a innamorarsi della sua immagine. Al punto che, vedendola specchiata in un laghetto, volendola abbracciare rimase annegato nel fondo dello specchio d'acqua. Narciso è immagine di tutti quelli che non sanno che farsene dell'Avvento perché non aspettano niente e nessuno. Narciso in fondo non vive neanche per se stesso, ma per la sua immagine. E' un drogato che si ciba del suo ego mascherato e poi idolatrato. Esattamente come accade a noi quando il demonio riesce a spiaccicarci sullo specchio d'acqua che riflette la nostra immagine, inducendoci a pensare esclusivamente a noi stessi, ai pregi o ai difetti, e dimentichiamo Dio, che ci ha creati belli e perdonati mille volte per annunciare la bellezza del suo amore. Ci siamo innamorati del tempio dimenticando il suo illustre Ospite, perché, ingannati dal demonio abbiamo creduto fosse opere delle nostre mani. E così anneghiamo nell'immagine falsa di noi, come il Tempio rovinato su stesso. Per questo non sappiamo più dire a nessuno "ti amo": invece di abbeverarci alla fonte dell'amore che è Dio, ci specchiamo nel nostro nulla sino a morirci affogati tra depressioni e crisi esistenziali. Non può dire "ti amo" a nessuno chi non sa dirgli prima "Dio ti ama". Così un marito o una moglie, un genitore, un fidanzato, un amico. Una cattedrale (leggi anche parrocchie e seminari) costruita in tanti anni, può essere distrutta da un terremoto, o divenire un museo o auditorium per concerti, come ve ne sono tante, segno profetico e drammatico del narcisismo di cui soffrono in tanti nella Chiesa contemporanea. Il tanto specchiarsi ha trasformato la bellezza degli edifici che esprimeva il contenuto di fede e che aiutava a entrare in comunione con Dio, in merce da esporre in vetrina, immagini stampate su tazze nelle quali turisti sbadati prenderanno il caffè una volta tornati a casa dalla vacanza. Ecco, questo sguardo profetico e celeste sulla storia, che sa vedere e interpretare alla luce della fede ciò che sta accadendo nel mondo, nella Chiesa, nelle nostre famiglie e nella nostra vita, è il discernimento che distingue i cristiani. Discernere è "separare" per distinguere e comprendere ogni persona, fatto o cosa in relazione all'altra; se non si distingue non si può legare, se non si scopre la diversità non può emergere l'amore. Capite allora come Narciso sia proprio colui che, incapace di amare perché incapace di distinguere l'altro dalla sua immagine che vede riflessa in tutto (è il sintomo dell'esigenza parossistica di autoaffermazione che portiamo dentro tutti, specie in questa generazione, e che emerge prepotente nell'uso egolatrico dei social networks). Non a caso, infatti, il modo con cui Dio ha creato l'universo è stato proprio il discernere, separando cioè ogni elemento perché, nella loro distinzione, uscissero dal dal caos. Il discernimento dunque ci fa partecipi dell'opera creatrice di Dio; per questo, l'amore, che nasce dal discernimento, dal riconoscere cioè la diversità dell'altro che lo separa e distingue da me per potermi donare gettandomi in lui, è pura creatività. L'amore non è mai routine, ma è storia nuova ogni giorno, perché sorge dal pensiero di Dio per farsi carne e vita attraverso la mia carne offerta per accogliere e perdonare.
Questo è il senso più profondo dell'Avvento fratelli: Narciso non aspetta perché non ama, mentre un figlio di Dio ha gli occhi del cuore aperti e capaci di discernere in ogni evento e relazione l'occasione per accogliere l'opera creatrice di Dio che fa nuove tutte le cose. Per questo il Signore ci chiama oggi a discernere i segni dei tempi con “attenzione” per “non lasciarci ingannare” dal pensiero del mondo che, infiltrandosi spesso anche nella Chiesa, pretende di parlare “nel suo nome”; esso legge il “tempo” che viviamo come “prossimo” a chissà quali “rivoluzioni” morali e “guerre” culturali, destinate ad inaugurare un mondo nuovo di pace e tolleranza. “Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo”, ammoniva l’allora Card. Ratzinger. Per questo non siamo “terrorizzati” davanti alla storia e ai terroristi, e non ci lasciamo “prendere dal panico” per “seguire” la menzogna dei falsi profeti. Sappiamo, per esperienza, di vivere nel “prima” dove Dio parla e agisce con i “segni” della Croce che, come un aratro, dissoda il terreno della storia perché vi sia seminata la salvezza. Per questo “è necessario che accadano” gli sconvolgimenti nella vita degli uomini: i “terremoti, le carestie e le pestilenze” sono certo i frutti del peccato, ma Dio non vi si oppone proprio perché ci ama e vuole svegliarci. Così i problemi in famiglia, al lavoro, a scuola; così la crisi del figlio e della fidanzata, così la malattia e il licenziamento. Il male “deve” emergere “di luogo in luogo”, come il pus da una ferita, perché possa incontrare ancora e sempre il Medico che lo assuma trasformandolo in misericordia. Nelle “sollevazioni di popoli e regni” gli uni contro gli altri, appare la divisione seminata dal demonio, il peccato che ha reso nemici Adamo ed Eva, e poi, come un fiume in piena, tutti i loro figli da Caino e Abele per ogni generazione, sino a “distruggere” il vero Tempio, il corpo benedetto del Signore. Vi è una fine che non è il fine che aspetta ogni cosa, ed è la fine che dischiude la vita celeste. Non siamo nati per una "fine", ma per il "compimento" della nostra vita nell'amore. Per questo quando tutto crolla nella nostra vita significa che essa sta per "compiersi". Il rumore sordo delle “pietre” che cadono le une sopra le altre, annuncia infatti il mistero Pasquale di Gesù che “distrugge” ogni “spelonca di ladri”, esteriormente “bella” e degna di “ammirazione”, ma “piena di rapina e iniquità” al suo interno. Quelle pietre ci ricordano la pietra grande deposta sul pozzo di Sichem, che impediva a Rachele di far abbeverare il suo gregge, pesante come quella che serrava il sepolcro del Signore. Un midrash ci racconta che "una rugiada di risurrezione discese dai cieli su Giacobbe rendendolo coraggioso e forte. Grazie a questa potenza, rotolò la pietra dalla bocca del pozzo, e le acque salirono dalle profondità, traboccarono e inondarono. I pastori stavano in piedi, stupefatti, perché non era più necessario il secchio per attingere". Con la stessa potenza il Signore è risorto dal sepolcro facendone rotolare via la pietra. Dietro ad ogni “fatto terrificante” e ai “segni grandi dal cielo” che sconvolgono la storia e la nostra vita, vi è il Signore "forte e coraggioso" che sta rovesciando di nuovo la pietra che ci tiene prigionieri nella tomba, per aprire un varco affinché la sua vittoria sulla morte giunga sino a noi come acqua che "trabocca" di vita. E’ Lui che, a tutti noi assetati d’amore e verità, attraverso la forza dei fatti che per il mondo significano solo distruzione, rivela il potere del suo amore che dischiude, come fece Giacobbe innamorato di Rachele, il pozzo dove “dissetarci con gioia dell’acqua viva dello Spirito Santo che zampilla sino alla vita eterna”.

domenica 22 novembre 2020

     


SULLA TERRA CRISTO REGNA NEI SUOI DISCEPOLI CROCIFISSI CON LUI PER ATTIRARE A SE' OGNI UOMO
“Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti”: il Re che celebriamo in quest’ultima domenica dell’anno liturgico è dunque una primizia. Ciò significa che non regna da solo. Che quello che si riferisce a Lui è comune a quanti lo seguono. Proprio come dice nella Parabola del Vangelo: “ogni volta che lo avrete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli lo avrete fatto a me”. Il Re si identifica con i sudditi, il più grande con i più piccoli.
E questo significa che l’intera Scrittura non è altro che una porta dischiusa; che tutta l’opera di Dio compiuta in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito Santo è un inizio che abbraccia il compimento; che l’esistenza e la vita della Chiesa, con i suoi tempi e le sue liturgie, la predicazione e i sacramenti, sono la mano tesa di Dio all’uomo perché varchi la soglia di questo inizio.
Su di essa torna e tornerà il Signore nella sua Gloria per accogliere ogni uomo, oggi nell’annuncio della Chiesa, e definitivamente l’ultimo giorno. Il Re che ha vinto la morte, cancellando per sempre la parola fine dall’esistenza dell’uomo. Forse non riusciamo a cogliere la portata di questo annuncio di San Paolo. Ci sembra scontato, è la fede della Chiesa, è quello che crediamo.
Ma nella vita di ogni giorno che senso ha? Siamo davvero i frutti maturi della risurrezione di Cristo? E’ facile scoprirlo, basta porsi dinanzi a tutto ciò che, nella vita, ci presenta una parete su cui si infrangono i progetti e le speranze.
Il carattere del marito, ad esempio, che, come una barriera insormontabile, si erge ogni mattina e proprio non ce la facciamo a superare la sua superficiale ironia. O la stanchezza della moglie, che è troppo tempo ormai che si rifiuta di concedersi e unirsi, e ci sembra che ci sbatta in faccia una porta blindata ogni sera.
O proprio la sessualità, così importante per il nostro matrimonio, ma che il viverla in pienezza secondo l’insegnamento della Chiesa rivelato nell’Enciclica Humanae Vitae ci si presenta come una montagna impossibile da scalare. O le crisi dei figli, la precarietà economica, le nevrosi e i complessi mai risolti, i punti oscuri della nostra storia che spargono pus velenoso e non riusciamo a guarirne, le malattie e, infine, la morte. Tutte pietre deposte sul sepolcro nel quale siamo discesi.
Perché se non siamo risorti con Cristo e non abbiamo dentro la sua vita, siamo morti, qualunque cosa facciamo. Ma se è così e la Parola ci ha illuminato, allora vuol dire che San Paolo parla proprio di noi! Siamo morti, e lo siamo oggi, perché i fatti e le persone regnano incontrastati su di noi, con il potere di toglierci la pace e la gioia.
Eppure questa morte ci parla di conversione e battesimo. In essa possiamo lasciare l’uomo vecchio perché Cristo vi è entrato a prendere possesso del suo Regno. Nessuno ci era riuscito prima, non i sapienti di questo mondo, non la cultura, neanche i nostri genitori e le persone che ci vogliono bene. Solo Cristo è “andato in cerca” di noi, “pecore smarrite”, scendendo nel sepolcro dove la menzogna del demonio ci aveva gettato.
E di lì ci vuol far risorgere, per “ricondurci all’ovile” attraverso un cammino serio di conversione nella Chiesa, dove “trovare pascolo e riposare”. Così Cristo, la Primizia, dà inizio al suo Regno, radunando i suoi “fratelli più piccoli”, “fasciandoli e curandoli” in ogni loro sofferenza.
Nella nostra situazione di oggi, di nuovo, il Regno di Dio vede il suo principio. Gesù regna sulla Croce, ed estende il suo territorio nei sepolcri dell’umanità, così che si possa ricominciare sempre. Sulla terra, infatti, il Regno comincia di nuovo ogni giorno, perché “bisogna che Gesù regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi”. Il perdono che ci rialza sempre, ecco la resurrezione che ci attende!
Come intorno ad Israele si affacciano anche alla nostra vita nuovi nemici ogni mattina. Non ci abbattiamo e non temiamo! Camminiamo insieme alla comunità cristiana stringendoci a i fratelli e ai pastori, ascoltiamo e obbediamo alla Parola di Dio, uniamoci a Cristo con i sacramenti: sperimenteremo così che nulla più avrà potere di annientarci. Regneremo con Lui, frutti maturi perché fratelli della Primizia che ha vinto il peccato.
Certo, non è facile accettare la precarietà; eppure è proprio essa che definisce il Regno dei Cieli sulla terra. La debolezza che ci fa mendicanti della vittoria di Cristo è parte del disegno di Dio su tutte le Nazioni. La “piccolezza”, infatti, ci rende a nostra volta una <em>primizia di speranza offerta al mondo.
Dio ci ha chiamati nella Chiesa per essere una stirpe santa in mezzo alle nazioni. Piccoli, indifesi, disprezzati, gli ultimi di questa terra. Soffrendo la stessa precarietà, le medesime ingiustizie di tutti gli uomini. Ma come fratelli del Re. Nel nostro DNA è scolpita la sua immagine, quella del Servo di Yahwè, il Giusto che si offre per avere in premio le moltitudini.
“Fratelli più piccoli” di Gesù, il Primogenito della nuova creazione “preparata” per ogni generazione, i cristiani hanno la patria nei Cieli e sono ovunque “forestieri”; senza borsa e denaro seguono il Signore sino agli estremi confini della terra “affamati e assetati”. Amano senza difendersi, “nudi” come Adamo ed Eva prima della caduta, perché la misericordia di Dio li ha liberati dal peccato rivestendoli di gloria.
Crocifissi con Cristo, prendono su di sé i peccati degli altri, sino ad “ammalarsi” e soffrirne le stesse conseguenze. Annunciano il Vangelo con zelo, nei momenti opportuni e in quelli non opportuni, quando per esso sono perseguitati e gettati “in prigione”, in Siria come in Germania.
Non a caso il testo evangelico di oggi descrive quale sarà il giudizio dei popoli al di fuori di Israele; l’espressione greca “panta ta ethné” (tutte le Nazioni), infatti, in Matteo designa sempre i Gentili, i popoli pagani, in contrapposizione a “laos” che indica Israele.
Per essi è “preparato dal Padre un Regno fin dalla fondazione del mondo”, ovvero la benedizione di Dio, l’intimità significata dalla chiamata a stare “alla destra di Gesù”. Per i pagani è pronta la stessa eredità promessa ai cristiani.
Per ogni uomo, infatti, “la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo» (Dei Verbum, n. 82). La grazia che li conduce all’incontro con Cristo attraverso i suoi “fratelli più piccoli.
La salvezza e il Regno dipenderanno così da un incontro, il misterioso “quando” nel quale i pagani – forse il tuo collega, forse tuo figlio che ha abbandonato la Chiesa, forse tuo padre – vedranno Cristo nei cristiani: “I Saggi ci hanno insegnato una grande regola: la misericordia non inizia con il dono ma con la vista” (Siftè Chajm III, 154).
Un piccolo atto d’amore e di misericordia fatto ai piccoli di Gesù proprio quando saranno più deboli, sarà la chiave che schiuderà a chi non fa parte della Chiesa le porte del Cielo. Grande lè a nostra responsabilità! Essa inizia con l’accogliere Cristo perché regni nella nostra vita, accettando umilmente ciò che ci rende i suoi “fratelli più piccoli”.
La missione della Chiesa, infatti, comincia dalla sua debolezza. Come l’educazione, che parte dall’inadeguatezza, e il ministero di un pastore, che sboccia dalla precarietà. Come quella notte a Betlemme, quando il Re bambino fu deposto nella mangiatoia, per essere “visto” e adorato. Il più
piccolo era già cibo dei più poveri, e così in quella grotta il Regno iniziava a vedere la luce nella carne.
Ogni giorno è preparata anche per noi una mangiatoia, un “quando” decisivo per la salvezza nostra e di chi Dio ci pone accanto. Ogni istante della nostra vita è prezioso: non disprezziamo nessuna sofferenza e debolezza che ci crocifigge con Cristo, perché a chi è misteriosamente legato alla nostra vita non sia negato il “quando” nel quale “vedere” Cristo.
Sì, i cristiani regnano quando sono “affamati, assetati, nudi, ammalati, in prigione”. Non può essere diversamente, perché così è stato per Cristo. Così ci ha salvati, così ci invia a salvare il mondo. “Piccoli” dinanzi a tutti, autentici e umili, indifesi e senza arroganza, per suscitare nei cuori un balbettio di misericordia.
Per qualcuno, il più piccolo gesto di accoglienza nei nostri confronti sarà la chiave che schiuderà le porte del Cielo. Forse non andrà mai in Chiesa, perché il Regno di Cristo lo avrà accolto nella nostra carne crocifissa. Per qualcun altro, invece, sarà il primo passo per convertirsi e non abortire, perdonare e non divorziare. A noi è chiesto di essere lì, uniti a Cristo, nulla di più.