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giovedì 28 febbraio 2019

Baobab, come ragionano gli avvocati azzecca-migranti

Sono gli avvocati che forniscono assistenza legale agli immigrati irregolari. I loro clienti non spendono un euro: paghiamo noi contribuenti. Baobab experience, una di queste associazioni, che chiede il risarcimenti per gli immigrati della Diciotti, è un concentrato di ideologia immigrazionista (e nel mentre parla male degli italiani)

Lo sbarco dalla Diciotti
Qualcuno li ha soprannominati avvocati azzecca-migranti. Sono gli avvocati che forniscono assistenza legale agli immigrati irregolari, dal momento in cui compilano la richiesta di asilo fino alla sentenza definitiva, inclusi eventuali ricorsi nel caso di un primo parere negativo. I loro clienti non spendono un euro, non perché questi avvocati lavorino pro bono, ma perché usufruiscono del gratuito patrocinio: a pagarli ci pensa lo Stato italiano.

Molti non si limitano alla difesa legale perché fanno parte di associazioni che svolgono diverse attività. L’Asgi, ad esempio, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, oltre ad assistere gli immigrati, si batte per “rafforzare la tutela dei migranti”, partecipa con altre associazioni a campagne contro le normative illegittime o discriminanti, pubblica insieme a Magistratura democratica una rivista trimestrale intitolata “Rivista Diritto Immigrazione e Cittadinanza”. La CILD, Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili, è una rete di organizzazioni nata nel 2014 per difendere “i diritti e le libertà di tutti” con attività di advocacy, campagne pubbliche e azione legale. I loro grandi temi, si legge nella sua pagina web, sono “la lotta al razzismo e alla xenofobia, il contrasto a ogni forma di discriminazione basata sul sesso o sull’orientamento di genere, del superamento di ogni pregiudizio nei confronti delle popolazioni rom, sinti e camminanti. Un cambio di visione sull’immigrazione, non più da vedersi come questione criminale ma di diritto all’asilo e di dovere dell’accoglienza per i profughi, fino all’allargamento della cittadinanza. La costruzione di un sistema penale e penitenziario meno selettivo e più rispettoso dei diritti, con la legalizzazione delle droghe come scelta etica e di politica criminale”.

Baobab experience, diventata famosa per la richiesta di risarcire con decine di migliaia di euro 41 emigranti illegali della nave Diciotti, è un caso esemplare. È nata nel 2016, ma i suoi soci sono attivi dal 2015 quando hanno costruito a Roma la prima tendopoli per emigranti. Tre sono i loro settori di intervento: Baobab care, Baobab rights e Baobab jobs. Baobab care fornisce accoglienza agli emigranti: tende, cibo, abiti, medicinali. “Sono per la maggior parte profughi di guerra – spiega la pagina web dell’organizzazione – provati e preoccupati per le loro famiglie”. È falso, ormai lo sanno tutti. La quasi totalità degli immigrati illegali non arriva da territori in guerra e difatti una percentuale minima dei richiedenti asilo ottiene lo status giuridico di rifugiato. Sommando ai rifugiati i richiedenti che ottengono protezione sussidiaria non si arriva comunque al 20%. Baobab rights fornisce pertanto aiuto legale per far sì che, ciononostante, riescano a rimanere in Italia: informazione sui diritti che possono rivendicare, avvio della procedura di asilo, assistenza individuale, aiuto per i ricorsi e in caso di ordine di espulsione …. Baobab jobs, infine, sembrerebbe affrontare il problema dell’integrazione, ma si limita ad assistere gli immigrati nella compilazione di moduli, in procedure quali la richiesta del certificato di inoccupazione e il riconoscimento del titolo di studio dichiarato.

D’altra parte aprendo la pagina dedicata alle attività si capisce che Baobab non ritiene che la prima, indispensabile condizione per l’integrazione di un immigrato siano il lavoro, l’indipendenza economica, che l’autosufficienza sia necessaria alla dignità di una persona giovane e sana. Le attività di integrazione di Baobab experience sono “laboratori, corsi, visite guidate, incontri sportivi e momenti di svago”. La pagina annuncia un laboratorio di fotografia, Phototandem, in programmazione. Le offerte sportive sono una “propedeutica calcistica e partita amichevole” ogni sabato alle 10.30, e “lezioni e torneo di basket”, sempre il sabato mattina. I corsi sono di italiano, inglese e glossario legale.    

Una visita al sito web dell’associazione vale la pena. Sullo schermo compaiono, sotto la scritta “Protect people not borders”, una serie di riquadri ognuno dei quali introduce a un tema, un evento, una attività con titoli come: “Un vento razzista soffia sulla città di Roma. Sta a noi fermarlo”, “Non abbiamo intenzione di abituarci alle barbarie, fossero anche quotidiane”, “Diciotti, sequestro di persona. C’è un complotto dei giudici: pensano che migranti sono persone”.

Tra i tanti danni che l’ideologia dell’accoglienza produce, c’è anche questo: presentare sistematicamente gli italiani come razzisti, xenofobi, egoisti, instillando negli immigrati risentimento, diffidenza, alla fine odio nei confronti del paese in cui si trovano, favorendo quindi la creazione di comunità di emigranti chiuse, impermeabili, in altre parole di ghetti sociali e culturali. Dovrebbero invece suggerire sentimenti di gratitudine e confidenza. È superfluo dire che Baobab experience, come tutte le organizzazioni e le associazioni pro migranti, non usa mai i termini “migrante illegale” e “migrante irregolare” e considera emigranti e profughi la stessa cosa, tutte persone “costrette” per qualche motivo a intraprendere un viaggio clandestino per raggiungere l’Europa. 











































































































Vogliamo essere credenti, non credibili
Sulla questione degli abusi sessuali sentiamo spesso dire che la Chiesa si gioca la sua credibilità. Ma questa espressione in realtà è il segno più evidente di un pensiero ormai completamente secolarizzato. La Chiesa è credibile oggettivamente perché voluta da Cristo.



Negli ultimi mesi, e soprattutto in questi giorni, abbiamo sentito ripetere molte volte da cardinali, vescovi e opinionisti vari che sulla lotta agli abusi sessuali la Chiesa si gioca la sua credibilità. Vale a dire che, se continuasse la piaga degli abusi sui minori, da parte dei sacerdoti, e delle varie complicità e coperture, la Chiesa non avrebbe neanche più titolo di proporsi al mondo, non avrebbe neanche più l’autorità di dire qualcosa di vero e definitivo sull’uomo e sul suo destino.

Ad un primo impatto potrebbe dare l’idea della serietà con cui si affronta il tema degli abusi, in realtà è il segno più evidente di un pensiero ormai completamente secolarizzato. Perché la credibilità della Chiesa non dipende dal comportamento degli uomini ma dall’essere voluta da Cristo. È l’elemento divino che fa la Chiesa santa e perciò credibile, non l’elemento umano. La credibilità della Chiesa, la sua santità, è oggettiva, non dipende dal comportamento dei cattolici. La mancanza di credibilità riguarda soltanto i singoli uomini di Chiesa quando non corrispondono al compito che Dio ha affidato loro.

Diceva il compianto cardinale Giacomo Biffi: «La Chiesa non deve essere credibile, deve essere credente». È triste invece notare quanti vescovi, quanti cardinali si preoccupano soprattutto di essere credibili: così la speranza di prevenire o fermare  gli abusi sui minori viene fatta poggiare su una serie di misure, protocolli e procedure; ed è giocoforza che nella formazione dei seminaristi diventino decisivi gli psicologi. Non che non ci debba essere anche questo impegno e che non ci si debba avvalere del contributo delle scienze umane; ma quel che sta avvenendo è che tutto sembra essere affidato a uno sforzo umano, alla capacità degli uomini di gestire l’azienda Chiesa che, come ogni altra azienda di questo mondo, per affermarsi ha bisogno di avere una buona reputazione. Ci si preoccupa dell’etica – e alla fine dell’immagine pubblica – invece che della salvezza.

Ben vengano anche delle procedure quando sono necessarie, ma ci si preoccupi soprattutto di guardare a Cristo che ci ha creati per essere santi; avvaliamoci anche del contributo degli psicologi quando necessario, ma in seminario preoccupiamoci soprattutto di avere dei formatori santi.

Il peccato degli uomini di Chiesa rende loro poco credibili, crea scandalo, cioè rende più difficile per le persone incontrare e seguire Cristo, ma non mette in discussione la credibilità della Chiesa.

Diceva il cardinale Robert Sarah in una conferenza tenuta a Trieste due anni fa: «La morale cristiana non coincide con il volontarismo, con il senso del dovere, con il puro impegno solidale; cose spesso lodevoli ma che rimangono su un piano naturale. Per noi cristiani la morale parte da Dio, dal suo dono di santità in noi; ci vuole Santi come Lui, nostro Padre, è Santo: uno splendido e libero dono al quale il Signore ci invita a corrispondere liberamente».  E ancora: «Nella dottrina e nei sacramenti ci viene sempre di nuovo ridonata quella santità oggettiva della Chiesa, che partecipata a noi diventa santità soggettiva dei credenti».

In altre parole: la santità, la credibilità della Chiesa, non è la somma della santità – o del comportamento irreprensibile - dei singoli cristiani. È il contrario: è la santità oggettiva della Chiesa che permette ai cristiani di parteciparvi personalmente. Prosegue il cardinale Sarah: «Siccome nonostante i nostri peccati la Chiesa rimane sempre Santa, dobbiamo sforzarci, con l’aiuto di Dio, di non rovinare in noi ciò che non può essere scalfito in se stesso. Cioè, dobbiamo custodire la nostra santità personale, per evitare che la santità oggettiva della Chiesa, la quale non è toccata dalle nostre mancanze, sia cionondimeno messa in dubbio da coloro che, vedendo la nostra pochezza, sono tentati di attribuirla alla Chiesa in quanto tale».

Ci sarebbe piaciuto che dal vertice in Vaticano sugli abusi sessuali fosse emersa questa prospettiva, l’unica che può dare una speranza agli uomini. Vogliamo credere che almeno nel dibattito qualche vescovo abbia parlato in questo modo, purtroppo nella comunicazione ufficiale sono passate soltanto le relazioni fondamentali, preoccupate soprattutto di dare la “linea” politica.

Ma se qualcosa cambierà veramente nei prossimi mesi e anni è solo laddove ci saranno pastori preoccupati di essere credenti, più che credibili.

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Il grido di Gesù sulla croce, "Ho sete" (Gv 19, 28),
che esprime la profondità del desiderio di Dio dell'uomo,
è penetrato nell'anima di Madre Teresa e ha trovato terreno fertile nel suo cuore.
Placare la sete di amore e di anime di Gesù in unione con Maria, Madre di Gesù,
era divenuto il solo scopo dell'esistenza di Madre Teresa,
e la forza interiore che le faceva superare sé stessa
e "andare di fretta" da una parte all'altra del mondo
al fine di adoperarsi per la salvezza e la santificazione dei più poveri tra i poveri

Giovanni Paolo II, Omelia per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta, Domenica 19 ottobre 2003


Gesù è in cammino verso Gerusalemme, il suo destino, e sullo sfondo, si distinguono i tratti della Croce, disegnati sin dalle sue prime parole: il bicchiere d'acqua per i discepoli assetati, la sete di coloro che sono di Cristo, la sete di Cristo crocifisso. Con essa si compie la passione del Signore e la croce brilla in tutto il suo splendore: "In Gesù, la sete è il desiderio di comunicare i suoi doni, lo Spirito Santo" (Ignace de la Potterie, Il mistero del cuore trafitto). La sete di Gesù è un desiderio d'amore, di salvezza per ogni uomo. Lo aveva compreso sino in fondo Madre Teresa di Calcutta: "Il grido di Gesù sulla croce, "Ho sete" (Gv 19, 28), che esprime la profondità del desiderio di Dio dell'uomo, è penetrato nell'anima di Madre Teresa e ha trovato terreno fertile nel suo cuore. Placare la sete di amore e di anime di Gesù in unione con Maria, Madre di Gesù, era divenuto il solo scopo dell'esistenza di Madre Teresa, e la forza interiore che le faceva superare sé stessa e "andare di fretta" da una parte all'altra del mondo al fine di adoperarsi per la salvezza e la santificazione dei più poveri tra i poveri" (Giovanni Paolo II, Omelia per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta, Domenica 19 ottobre 2003). Il desiderio di una santa coincide così con il desiderio del Signore, il desiderio di amare. La sete di Gesù, sulla croce come al pozzo di Sicar, dove si fa mendicante presso la donna samaritana, immagine dell'umanità idolatra. La sua sete nel sole caldo di mezzogiorno accende nella donna la sete di un'acqua che zampilli per la vita eterna: la sete di Gesù accende la sete di Vita, come il desiderio di Gesù di salvare ogni uomo, innesca il desiderio di Lui nell'uomo. La sua sete suscita quello che un filosofo contemporaneo, René Girard, chiama l'imitazione di Gesù, l'imitazione del suo desiderio. Collegando mirabilmente cristianesimo e antropologia, Girard indica come le verità più fondamentali dell'uomo siano contenute nei vangeli; la situazione dell'uomo, che in forme diverse appare in ogni cultura, si fonda sul desiderio: "quando Gesù dice "Imitatemi", egli non intende certo suggerire che noi dovremmo imitare le sue maniere , il suo aspetto.... Ciò che egli vuole che noi imitiamo è qualcosa di più accessibile a noi, qualcosa di cui egli parla ampiamente: il suo desiderio. Tuttavia il paradosso del desiderio di Gesù è che esso non è il suo desiderio.... si tratta invece di un desiderio in se stesso imitativo o mimetico. Gesù imita il Dio invisibile che egli chiama Padre" (René Girard, La vittima e la folla). Attraverso Gesù, i discepoli sono condotti a desiderare ciò che Dio Padre desidera. I discepoli, come in una "cascata" gettata nel corso della storia, imitano Gesù, "la sua imitazione del Padre... Questa cascata di desideri imitativi o mimetici contrasta in modo netto con la passione per l'assoluta singolarità e autonomia dell'individuo che caratterizza la nostra epoca moderna... Tutti gli attuali guru ci consigliano di "realizzare noi stessi", di essere "ciò che vogliamo": la sola via per raggiungere la grandezza, così ci assicurano, è rigettare qualsiasi influenza, e lasciarci andare in qualunque momento a qualunque desiderio si impossessi di noi" (Ibid.). E' l'attualità folgorante del Vangelo: Gesù conosce bene il cuore dell'uomo, specie dei suoi apostoli, gli intimi a cui si rivolge nel brano odierno. Gesù parla a ciascuno di noi, a noi che "siamo di Cristo", riscattati, comprati al caro prezzo della sua vita. Siamo stati infatti lavati, santificati, giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio (cfr. 1 Cor. 6,11). Sono le Parole per i suoi santi, chiamati secondo il suo disegno: "Quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere immagine del Figlio suo, perchè egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati" (Rom. 8, 29-30). Parole di un Primogenito per i suoi fratelli, chiamati a portarne l'immagine. Il quadro del Vangelo di oggi è dunque la totale identificazione, imitazione secondo Girard, dei discepoli con il loro Maestro. E' il fattore decisivo degli ammonimenti di Gesù: Coloro che non conoscono Gesù hanno il diritto di incontrarlo nei suoi fratelli. Lo ribadisce tutta l'ecclesiologia del Vaticano II. Per questo basta "un bicchiere d'acqua" donato ai discepoli nel Nome di Cristo, perchè sono suoi, per non perdere la ricompensa. Il Cielo, Gesù stesso si fa ricompensa, proprio attraverso la sete dei discepoli, la stessa sua sete, lo zelo d'amore che lo divora, così potente da accendere in chiunque si imbatta in Lui una sete inestinguibile di Lui. Il suo desiderio imitato dai discepoli è la porta del Cielo, della ricompensa dischiusa dinanzi ad ogni uomo. La sete dei discepoli è l'occasione, la possibilità donata ad ogni uomo di partecipare dei beni che essi incarnano nel loro desiderio.




Ma esso suppone anche una mancanza, una povertà, una nudità: la sete dei discepoli costituisce, infatti, anche l'immagine della loro vita crocifissa con Cristo: il suo l'amore sprigionato in loro attraverso il loro vivere crocifisso. La sete è il segno di un amore che genera stupore e tenerezza in chiunque si incontri. Non a caso i discepoli sono chiamati da Gesù i piccoli, i bambini. Non a caso San Paolo qualifica gli apostoli come la spazzatura del mondo, messi all'ultimo posto, spettacolo per il mondo e per gli angeli. I discepoli crocifissi, portano ogni giorno nel loro corpo il morire di Gesù, perchè, a beneficio di tutti, possa essere manifestata in loro la resurrezione del Signore. Ogni discepolo vive come San Paolo con una spina nel fianco. Come un assetato è sempre debole e bisognoso, eppure proprio in questa condizione si fa presente la potenza di Dio. La Croce è il mezzo concreto perchè si faccia visibile Dio: "Affinchè su di me stia la potenza di Cristo: il verbo usato da Paolo è quello stesso che, nell'Antico Testamento esprimeva la presenza della gloria del Signore sopra l'Arca dell'Alleanza.... e poi sul Tempio di Gerusalemme, l'unico luogo in cui abitasse Dio sulla terra; ed infine nel Nuovo Testamento la presenza incarnata della Parola di Dio, come è detto nel Prologo di Giovanni 1,14: " Il Verbo si è fatto carne ed ha abitato tra noi". L'apostolo cosciente della sua debolezza, e nella misura in cui lo è, diviene un'incarnazione della potenza stessa di Cristo Gesù" (Stanislas Lyonnet, La vita secondo lo Spirito, Roma 1967, pag 319). La debolezza indicata dalla sete è dunque una condizione indispensabile del discepolo, funzionale alla sua missione. La debolezza che scaturisce dalla Croce, con le sofferenze, le persecuzioni, gli affanni tipici dell'apostolo, ovvero il sale di cui parla Gesù. Per questo le parole di Gesù sono molto più che semplici ammonimenti. Esse, per un verso, ci illuminano su quello che identifica i suoi più intimi, l'essere crocifissi con Lui; per un altro verso ci mettono in guardia sui pericoli molto concreti che si addensano su coloro che sono di Gesù: lo scandalo e perdere il sapore, aspetti diversi di un'unica possibilità, rinnegare Cristo. Sono molti i piccoli che hanno iniziato a credere, gli stessi che forse hanno mosso i primi passi proprio commuovendosi di fronte a un discepolo assetato, crocifisso. I piccoli che hanno appena visto in un cristiano Colui che lo ha inviato, e, mossi intimamente dalla testimonianza, hanno iniziato a desiderare un'altra vita in un cammino di conversione, sono ancora molto deboli nella fede. Ma piccolo, lo abbiamo visto, è comunque anche chiunque sia di Cristo, chi vive nella debolezza e nella precarietà della vita la propria fede. "Piccoli" sono i cristiani, e possono subire scandali dai grandi, da chi ha cambiato casacca e appartenenza, da chi non è più di Cristo ma dell'avversario. Infatti, scrive Girard che "non c'è niente in noi che sia definibile come un "istinto" o un "sesto senso" capace di dirigerci infallibilmente verso il vero oggetto del nostro autentico desiderio.... L'autenticità nel regno del desiderio è il mito romantico moderno per eccellenza. Una volta che i nostri bisogni essenziali sono soddisfatti....usciamo a "far compere", andando alla ricerca del desiderio più allettante" (Girard, ibid.). Vengono qui alla mente le immagini pubblicitarie, dirette e indirette, nelle quali affoghiamo lo sguardo ogni giorno. Le carni femminili in mostra sul tram, al lavoro, a volte perfino in chiesa. E le nostre mani protese, i nostri piedi lanciati, i nostri occhi rapiti. Oggetti, merce, modelli, ideali, culture, pensieri, ideologie, parole, un fiume in piena travolge i nostri giorni, e siamo assediati: "Ma sono proprio i nostri desideri più intensi i primi ad essere presi in prestito da qualche modello, e perfino quando i modelli sono in se stessi migliori di noi possono diventare un pericolo, semplicemente a causa della loro vicinanza. Allorché noi imitiamo il desiderio del nostro vicino, ne nasce un secondo desiderio che vuole afferrare l'oggetto già desiderato o posseduto da questo modello, e ciò che ne risulta è la rivalità mimetica... Il desiderio non è una relazione lineare fra noi e l'oggetto che desideriamo, ma un triangolo al cui vertice sta il nostro prossimo" (Girard, ibid.). Quante rivalità anche tra i discepoli, desiderando un bene persino difficilmente biasimabile come è la vicinanza al Maestro. Le rivalità, lo scandalo per eccellenza secondo San Paolo: "c'è una parola nel Nuovo Testamento per indicare la rivalità mimetica, skandalon, che vuol dire ostacolo. Essa si riferisce ad un ostacolo straordinario, assai difficile da evitare perché, dal momento che continuiamo a scontrarci con esso, ne veniamo sempre più attratti.... Gli scandali accadono quando la nostra fascinazione per il modello-ostacolo aumenta, tramutandosi dapprima in indignazione, poi in gelosia, invidia, odio e, alla fine, in illimitata vendetta, la più ripetitiva e mimetica delle violenze.... Liberarsi dagli scandali è tanto più difficile quanto è facile scivolare in essi... Più fiduciosa è l'imitazione, più l'imitatore sarà vulnerabile, e il peggior crimine che possiamo commettere a tale proposito è esporre i bambini innocenti alla trappola degli scandali. Con una parola sola Gesù mette il dito sulla reale dinamica dei nostri più pericolosi conflitti, spiegando il motivo per cui essi sono così frequenti, ostinati, contagiosi e incontrollabili" (Girard, ibid.). 




Gesù conosce il nostro cuore, la fonte da dove nascono gli scandali, e ci mostra la via per combatterli. Il cuore è affar suo, perché ai suoi intimi ha donato il suo cuore, il suo pensiero. Gesù ammonisce quanti hanno percorso, e stanno percorrendo con Lui, il cammino della Kenosis, dell'abbassamento, dell'umiliazione. Parla a chi è crocifisso con Lui. A loro compete il permanere nel suo amore, legati alla Croce, come Isacco sul Moria, il timore di vedere perduta la missione affidata, la lotta quotidiana per dare morte alle membra che ancora appartengono alla terra: mani, piedi, occhi. Demonio, carne, mondo. La cupidigia soprattutto, che è idolatria, liturgia offerta agli idoli, desideri mimetici con l'idolo di turno: sesso, potere, denaro e tutti gli altri. Crocifiggere le membra asservite alla cupidigia, la pleonexia, che significa, secondo l'etimologia, voler possedere, sempre di più, usurpando e rubando, l'esatto contrario dell'agape. Ecco allora il cammino di ogni giorno, il combattimento a volte cruento così indispensabile ad ogni missione. Il cammino di Giacobbe al guado del Jabbok, tappa obbligata verso la terra che aveva abbandonato. Una notte di lotta, le nostre notti che attraversano misteriosamente ogni nostro giorno. Le tentazioni, l'angoscia, ma anche il seno che gesta il giorno. Senza notte, senza combattimento, non si entra nel Regno, come fu la notte oscura per S. Giovanni della Croce e tanti altri santi. Come Israele, anche il discepolo è un eletto, contrassegnato per una missione: per questo sarà schiacciato, ferito. Per questo, quasi come un'eco delle parole di Gesù sulla violenza da fare alle proprie membra occasione di scandalo, Giacobbe sarà oggetto della violenza dell'angelo di Dio. E ne uscirà zoppo, per entrare nella terra. Meglio zoppo che con due piedi, meglio potersi appoggiare a Dio ed assolvere alla propria missione, che perdere la propria vita. Zoppo, cieco, monco, ma forte con Dio, ecco il mistero della debolezza del discepolo. San Paolo tratta duramente il proprio corpo, e lo riduce in schiavitù, e lo scrive in un contesto di missione, quando dice di far tutto per il Vangelo, d'essersi fatto tutto a tutti. Si tratta di sottomettere, nella Grazia di chi è "di Cristo", tutto ciò che si pone come scandalo, ostacolo al cammino verso Gerusalemme, la missione di Cristo, la missione dei suoi. "Essere discepolo senza rinunciare, senza soffrire, è una contraddizione tanto manifesta quanto un sale che ha perduto la sua qualità di sale. La qualità costitutiva del discepolo è inseparabile dal ruolo che egli deve compiere nel mondo... Si vede allora come colui che deve avere il sale può egli stesso essere identificato con il sale. La stessa immagine... invita a prolungare la linea del senso del discorso della montagna: voi siete il sale della terra. Infatti da una parte il sale non ha ragion d'essere se non per la funzione che deve svolgere sulla terra. D'altra parte.... in Palestina si conosce un sale - sia che si tratti di un miscuglio depositato dal Mar Morto o delle piastre di sale utilizzate nei forni - del quale si può dire che deve rinchiudere la forza del sale, poichè in teoria si può perdere.... Così i discepoli che non sapranno sacrificare tutto potranno ancora chiamarsi discepoli, ma mancherà loro ciò che fa il discepolo" (O. Cullmann , La fede e il rito). Tutti, infatti, saranno salati con il fuoco. C'è un fuoco che rimanda allo Spirito Santo, ed un fuoco che è immagine dell'amore e della gelosia divina. La storia di ogni uomo, e, in modo particolare dei discepoli, di tutti noi, sarà dunque percorsa da queste fiamme che divorano ogni scoria, ogni scandalo. La croce ne sarà lo strumento incandescente. L'amore di Dio non permetterà la rivincita del demonio e le tenterà tutte per salvare quelli che sono di Cristo. La croce, la prova, la persecuzione, la sofferenza, i viatici che Dio ci dona per condurci a Gerusalemme, per non essere gettati fuori di essa, come un rifiuto nella Geenna. Il fuoco del suo amore per non cadere nel fuoco eterno della sua assenza. Così, come ogni sacrificio dell'antica alleanza, il discepolo deve essere salato con la croce, la porta stretta che si apre su Gerusalemme. Per entrare nel Regno e fuggire l'inferno è necessario andare a Gerusalemme, e ricevere il sale, salire con Cristo sulla la croce. Gerusalemme, la nostra vocazione, la nostra Patria, il nostro destino, alla cui dimenticanza è preferibile che si paralizzi la mano destra, che sia tagliata direbbe Gesù. Gerusalemme preziosa, nostra autentica dimora, per lei tutto il resto è nulla, spazzatura. Per Cristo, per essere trovato eternamente in Lui il discepolo lascia tutto, ed è una liberazione, non un'effettiva rinuncia. E' un lasciare qualcosa di effimero per Qualcuno che è tutto. Per Cristo. L'abbandono di ogni sicurezza che fa passare per la sofferenza purificatrice, le vampe di fuoco dell'amore geloso di Dio, è il nostro cammino d'ogni giorno. Per il discepolo, per ciascuno di noi come per Israele " la sofferenza è la mano di Dio sopra Israele, un segno che lo contraddistingue in modo indelebile. E' l'amore che crea la sofferenza" ( F. Manns, La Chiesa madre di Gerusalemme). La sofferenza, la sete, il sale, l'amore di Dio. Si tratta di aver sete, di desiderare il desiderio di Cristo, mendicare come Lui alle porte d'ogni uomo, come l'ultimo, come San Francesco. "Idem velle atque idem nolle — volere la stessa cosa e rifiutare la stessa cosa, è quanto gli antichi hanno riconosciuto come autentico contenuto dell'amore: il diventare l'uno simile all'altro, che conduce alla comunanza del volere e del pensare. La storia d'amore tra Dio e l'uomo consiste appunto nel fatto che questa comunione di volontà cresce in comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la volontà di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più per me una volontà estranea, che i comandamenti mi impongono dall'esterno, ma è la mia stessa volontà, in base all'esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me di quanto lo sia io stesso. Allora cresce l'abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia" (Benedetto XVI, Deus caritas est). E' questo il sale con cui Gesù termina il suo discorso. Il pensiero di Cristo, la sua sapienza, i suoi sentimenti. Niente per rivalità, o per vanagloria, guardando i desideri degli altri, stimando ognuno superiore a sé. Il sale della sapienza della croce, il sale dell'amore crocifisso. E' questo il grembo della pace tra i fratelli, l'unità, la comunione che è il segno più concreto d Dio sulla terra. Un amore celeste, la vita celeste. Il sale, la croce attraverso la quale ogni giorno, il nome di Dio è santificato nei discepoli, nella Chiesa, in noi. Il Nome dolcissimo nel quale ogni uomo, con un semplice bicchiere d'acqua, vede schiudersi il Cielo.