Pagine

sabato 29 settembre 2018

L'immagine può contenere: 4 persone


29 SETTEMBRE - FESTA DEGLI ARCANGELI MICHELE, GABRIELE, RAFFAELE

“...Guardiamo le figure dei tre Arcangeli la cui festa la Chiesa celebra oggi. C’è innanzitutto Michele. Lo incontriamo nella Sacra Scrittura soprattutto nel Libro di Daniele, nella Lettera dell’Apostolo san Giuda Taddeo e nell’Apocalisse. Di questo Arcangelo si rendono evidenti in questi testi due funzioni. Egli difende la causa dell’unicità di Dio contro la presunzione del drago, del "serpente antico", come dice Giovanni. È il continuo tentativo del serpente di far credere agli uomini che Dio deve scomparire, affinché essi possano diventare grandi; che Dio ci ostacola nella nostra libertà e che perciò noi dobbiamo sbarazzarci di Lui. Ma il drago non accusa solo Dio. L’Apocalisse lo chiama anche "l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa davanti a Dio giorno e notte" (12, 10). Chi accantona Dio, non rende grande l’uomo, ma gli toglie la sua dignità. Allora l’uomo diventa un prodotto mal riuscito dell’evoluzione. Chi accusa Dio, accusa anche l’uomo. La fede in Dio difende l’uomo in tutte le sue debolezze ed insufficienze: il fulgore di Dio risplende su ogni singolo. È compito del Vescovo, in quanto uomo di Dio, di far spazio a Dio nel mondo contro le negazioni e di difendere così la grandezza dell’uomo. E che cosa si potrebbe dire e pensare di più grande sull’uomo del fatto che Dio stesso si è fatto uomo? L’altra funzione di Michele, secondo la Scrittura, è quella di protettore del Popolo di Dio (cfr Dn 10, 21; 12, 1).
Cari amici, siate veramente "angeli custodi" delle Chiese che vi saranno affidate! Aiutate il Popolo di Dio, che dovete precedere nel suo pellegrinaggio, a trovare la gioia nella fede e ad imparare il discernimento degli spiriti: ad accogliere il bene e rifiutare il male, a rimanere e diventare sempre di più, in virtù della speranza della fede, persone che amano in comunione col Dio-Amore.
Incontriamo l’Arcangelo Gabriele soprattutto nel prezioso racconto dell’annuncio a Maria dell’incarnazione di Dio, come ce lo riferisce san Luca (1, 26 – 38). Gabriele è il messaggero dell’incarnazione di Dio. Egli bussa alla porta di Maria e, per suo tramite, Dio stesso chiede a Maria il suo "sì" alla proposta di diventare la Madre del Redentore: di dare la sua carne umana al Verbo eterno di Dio, al Figlio di Dio. Ripetutamente il Signore bussa alle porte del cuore umano. Nell’Apocalisse dice all’"angelo" della Chiesa di Laodicea e, attraverso di lui, agli uomini di tutti i tempi: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (3, 20). Il Signore sta alla porta – alla porta del mondo e alla porta di ogni singolo cuore. Egli bussa per essere fatto entrare: l’incarnazione di Dio, il suo farsi carne deve continuare sino alla fine dei tempi. Tutti devono essere riuniti in Cristo in un solo corpo: questo ci dicono i grandi inni su Cristo nella Lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi. Cristo bussa. Anche oggi Egli ha bisogno di persone che, per così dire, gli mettono a disposizione la propria carne, che gli donano la materia del mondo e della loro vita, servendo così all’unificazione tra Dio e il mondo, alla riconciliazione dell’universo. Cari amici, è vostro compito bussare in nome di Cristo ai cuori degli uomini. Entrando voi stessi in unione con Cristo, potrete anche assumere la funzione di Gabriele: portare la chiamata di Cristo agli uomini.
San Raffaele ci viene presentato soprattutto nel Libro di Tobia come l’Angelo a cui è affidata la mansione di guarire. Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, al compito dell’annuncio del Vangelo vien sempre collegato anche quello di guarire. Il buon Samaritano, accogliendo e guarendo la persona ferita giacente al margine della strada, diventa senza parole un testimone dell’amore di Dio. Quest’uomo ferito, bisognoso di essere guarito, siamo tutti noi. Annunciare il Vangelo, significa già di per sé guarire, perché l’uomo necessita soprattutto della verità e dell’amore. Dell’Arcangelo Raffaele si riferiscono nel Libro di Tobia due compiti emblematici di guarigione. Egli guarisce la comunione disturbata tra uomo e donna. Guarisce il loro amore. Scaccia i demoni che, sempre di nuovo, stracciano e distruggono il loro amore. Purifica l’atmosfera tra i due e dona loro la capacità di accogliersi a vicenda per sempre. Nel racconto di Tobia questa guarigione viene riferita con immagini leggendarie. Nel Nuovo Testamento, l’ordine del matrimonio, stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato, viene guarito dal fatto che Cristo lo accoglie nel suo amore redentore. Egli fa del matrimonio un sacramento: il suo amore, salito per noi sulla croce, è la forza risanatrice che, in tutte le confusioni, dona la capacità della riconciliazione, purifica l’atmosfera e guarisce le ferite. Al sacerdote è affidato il compito di condurre gli uomini sempre di nuovo incontro alla forza riconciliatrice dell’amore di Cristo. Deve essere "l’angelo" risanatore che li aiuta ad ancorare il loro amore al sacramento e a viverlo con impegno sempre rinnovato a partire da esso. In secondo luogo, il Libro di Tobia parla della guarigione degli occhi ciechi. Sappiamo tutti quanto oggi siamo minacciati dalla cecità per Dio. Quanto grande è il pericolo che, di fronte a tutto ciò che sulle cose materiali sappiamo e con esse siamo in grado di fare, diventiamo ciechi per la luce di Dio. Guarire questa cecità mediante il messaggio della fede e la testimonianza dell’amore, è il servizio di Raffaele affidato giorno per giorno al sacerdote e in modo speciale al Vescovo. Così, spontaneamente siamo portati a pensare anche al sacramento della Riconciliazione, al sacramento della Penitenza che, nel senso più profondo della parola, è un sacramento di guarigione. La vera ferita dell’anima, infatti, il motivo di tutte le altre nostre ferite, è il peccato. E solo se esiste un perdono in virtù della potenza di Dio, in virtù della potenza dell’amore di Cristo, possiamo essere guariti, possiamo essere redenti”.
(Benedetto XVI, dall’Omelia del 29-Settembre-2007, in occasione di alcune ordinazioni episcopali)




Risultati immagini per foto arcangeli




COLORO CHE GUIDANO IL POPOLO SIANO COME ANGELI.
San Gregorio Magno, Regola Pastorale. 


La guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più di tutti dedito alla contemplazione, per assumere in sé, con le sue viscere di misericordia, la debolezza degli altri, e insieme, per andare oltre se stesso nell’aspirazione delle realtà invisibili, con l’altezza della contemplazione. E così, se guarda con desiderio verso l’alto non disprezzi le debolezze del prossimo o se viceversa, si accosta ad esse, non trascuri di aspirare all’alto. Perciò infatti Paolo è condotto in Paradiso e vi scruta i segreti del terzo cielo (cf. 2 Cor. 12, 2 ss.), e tuttavia, pur assorto in quella contemplazione delle cose invisibili, richiama l’acutezza della sua mente al letto dell’unione carnale e definisce come questa debba essere vissuta nella sua intimità, dicendo: A causa della fornicazione, ciascun uomo abbia la propria moglie e ciascuna donna abbia il proprio marito. Il marito dia alla moglie quanto le deve; e similmente, la moglie al marito (1 Cor. 7, 2). E poco dopo: Non privatevi l’uno dell’altro se non temporaneamente e d’accordo, per attendere alla preghiera, e di nuovo ritornate insieme perché Satana non vi tenti (1 Cor. 7, 5). Ecco, egli viene già introdotto ai segreti celesti e tuttavia per la sua accondiscendente misericordia investiga il letto dell’unione carnale, e quello sguardo del cuore che egli, già innalzato, rivolge alle cose invisibili lo piega pieno di compassione verso i segreti di creature inferme. Oltrepassa il cielo con la contemplazione e tuttavia non tralascia, nella sua sollecitudine, di occuparsi del giaciglio dell’unione carnale; poiché, congiunto strettamente alle realtà più alte e insieme alle infime dall’intimo abbraccio della carità, egli è rapito potentemente verso l’alto per virtù del suo spirito, ma per la sua misericordia, nella mitezza del suo animo, si fa debole negli altri. Perciò infatti dice: Chi è debole e io non sono debole? Chi patisce scandalo e io non brucio? (2 Cor. 11, 29). E perciò ancora dice: Con i Giudei sono divenuto come Giudeo (1 Cor. 9, 20). Evidentemente mostrava ciò non con la perdita della fede, bensì con l’estendere la sua misericordia, così che trasferendo in sé la persona degli infedeli potesse imparare da se stesso come avrebbe dovuto avere compassione degli altri e fare a loro il bene che — nella medesima condizione — avrebbe rettamente voluto fosse fatto a lui. E di nuovo perciò dice: Se usciamo di mente è per Dio; se siamo sobri è per voi (2 Cor. 5, 13), poiché nella contemplazione egli sapeva salire oltre se stesso, ma sapeva ugualmente moderare se stesso per condiscendenza verso i suoi ascoltatori. Per questo Giacobbe, quando il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la pietra, vide angeli che salivano e scendevano (cf. Gen. 28, 12): a significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue membra. Ugualmente Mosè entra ed esce tanto frequentemente dal Tabernacolo: dentro, è rapito dalla contemplazione; fuori, è pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro, medita i misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali. Ma pure, quando si tratta di casi dubbi egli ricorre sempre al Tabernacolo e davanti all’arca del testamento consulta il Signore: certo per offrire un esempio alle guide delle anime perché, quando nelle decisioni di carattere esterno si trovano nell’incertezza, ritornino sempre al proprio cuore come . al Tabernacolo; sarà come se fossero davanti all’arca del testamento a consultare il Signore, se riguardo a ciò per cui dentro di sé sono in dubbio, ricercheranno nel loro intimo le pagine della parola sacra. Perciò la Verità stessa che ci si è mostrata nell’assunzione della nostra umanità, sul monte si immerge nella preghiera, ma nelle città opera i miracoli (cf. Lc. 6, 12): evidentemente per appianare la via dell’imitazione alle buone guide delle anime, perché se anche sono già protese alle somme altezze della contemplazione, sappiano tuttavia mescolarsi compatendo alle necessità di creature inferme. Poiché la carità si eleva a meravigliosa altezza quando si trascina con misericordia fino alle bassezze del prossimo; e con quanto maggior benevolenza si piega verso le infermità tanto più potentemente risale verso l’alto. Coloro che presiedono si mostrino tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano di affidar loro i propri segreti, affinché, quando si sentono come bambini nella lotta contro i flutti delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come al seno di una madre; e col sollievo della sua esortazione e le lacrime della sua preghiera lavino le impurità della colpa che preme e minaccia di contaminarli. Per questo davanti alla porta del tempio c’è il mare di bronzo, cioè il bacino per la purificazione delle mani di chi entra, ed è sostenuto da dodici buoi i quali sporgono con la parte anteriore mentre la posteriore resta nascosta (cf. 1 Re 7, 23-25). Che cosa significano i dodici buoi se non tutto l’ordine dei Pastori, dei quali, secondo il commento che ne fa Paolo, la Scrittura dice: Non mettere la museruola al bue che trebbia (1 Cor. 9, 9)? Di essi non vediamo le opere compiute apertamente, ma ignoriamo ciò che li attende nella segreta retribuzione del severo Giudice. Tuttavia quando essi con la loro paziente accondiscendenza dispongono il prossimo alla confessione purificatrice è come se portassero su di sé il bacino davanti alle porte del tempio, affinché chiunque si sforza di entrare per la porta dell’eternità, manifesti al cuore del Pastore le sue tentazioni e — per così dire — lavi il suo pensiero e le sue azioni nel bacino dei buoi. Accade pure spesso che il Pastore nell’ascoltare benevolmente le tentazioni altrui ne diviene vittima egli stesso come senza dubbio resta inquinata quella medesima acqua del bacino, nella quale si purifica la moltitudine del popolo. Infatti mentre riceve l’impurità di coloro che si lavano, l’acqua viene come a perdere la sua limpida purezza, ma non si deve temere che avvenga lo stesso del Pastore, poiché Dio che pensa a tutto con cura minuziosa lo strappa alla sua tentazione tanto più facilmente quanto maggiore è la misericordia con cui egli si carica della tentazione altrui.
Per questo Giacobbe, quando il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la pietra, vide angeli che salivano e scendevano: a significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue membra

L'immagine può contenere: 1 persona, spazio all'aperto


LA CHIESA E' LA COMUNITA' CONVOCATA DALLA PAROLA DI DIO E STRETTA NELL'UNITA' DALLE BRACCIA CROCIFISSE DI CRISTO  

Gesù aveva appena preso un bambino e, abbracciandolo, aveva insegnato l’unico modo con cui si accoglie Lui e Colui che lo ha mandato. Ma niente, i suoi discepoli continuavano a non capire. Erano con Lui da tempo, gli camminavano dietro, ma non lo avevano ancora accolto. Nel loro stare con Gesù cercavano la propria identità come al tempo di Babele, quando gli uomini smisero di camminare nella precarietà e si stabilirono in una città per difendersi e così darsi un “nome”.
La città di Babele è immagine del principio di ogni corruzione, la stessa che segnava ancora il cuore di Giovanni e degli altri discepoli intenti a discutere su chi fosse il più grande, su chi avesse un “nome” più prestigioso da garantire il primo posto.
Per questo il “nome di Gesù” appariva loro come la torre che gli uomini tentarono di costruire proprio per darsi un nome, che significa un’identità, un senso nel mondo. Gesù, che, secondo la mentalità orientale era presente nel suo “nome”, era per loro il “brand” che distingueva il gruppo, nella perfetta mentalità del mondo.
Del resto i discepoli, invece di pregare e ascoltare, discutevano e litigavano proprio per scalare la “società”, come si fa in qualunque impresa, per poi competere con le altre. E così, proprio loro che si indignavano per “uno che scacciava i demoni nel nome di Gesù”, non riuscivano a scacciarli. “Le loro ricchezze”, infatti, erano “marce, i vestiti mangiati dalle tarme”.
Quel “nome”, pronunciato da loro, non aveva “potere” perché attraverso di esso cercavano la propria gloria; non era “dynamis”, il potere di muovere e far muovere, perché si erano installati ed erano entrati in competizione tra loro e con gli altri raggiunti dalla Grazia.
Avevano rotto la comunione in nome della carne, e così avevano finito per sbarrare le porte della Chiesa, che dovrebbero restare aperte giorno e notte per accogliere tutti. E’ ciò che accade a chi, come spesso anche noi, usa della Chiesa e della comunità per se stesso, per colmare i propri buchi affettivi.
Si può essere accanto a Cristo e ai fratelli ma seguire la volontà del demonio. L’amore e la comunione definiscono l’appartenenza a Dio e ai fratelli nella Chiesa, ma il demonio, principio di divisione, semina nei cuori l’invidia e la superbia che spinge a “vedere” l’altro come un nemico.
Esattamente come i discepoli hanno “visto” quello che scacciava i demoni in nome di Gesù. E così, proprio loro che non ci riuscivano, “impedivano” a chi “non era dei nostri” di lottare con il male e vincerlo in Cristo.
Ecco il punto. Quell’uomo non seguiva loro! Per questo era da tagliare, escludere, disprezzare, scandalizzare: anche loro, avevano “condannato e ucciso il giusto” nel loro cuore, “ed egli non vi ha opposto resistenza”. Come? Facendo della comunità una cosa loro, mondana, nella quale vigevano le regole e gli usi di ogni gruppo umano, trasformandola così in un luogo di schiavitù.
Come accade nelle diocesi e nelle parrocchie che si chiudono ai carismi dello Spirito Santo, illudendosi che esso discenda solo sui settanta anziani. E invece no, lo Spirito Santo ispira la profezia anche dove spesso i pastori come Giosuè non si aspettano. Guai alla loro “gelosia” che impedisce al carisma di offrire una parola profetica scandalizzando i piccoli che credono in Cristo…
Ma ciò accade spesso anche nelle nostre famiglie, nei rapporti tra moglie e marito, tra genitori e figli, tra fidanzati e amici, al punto da assomigliare più al “board” di una multinazionale che a una comunione di fratelli: bisogna produrre i risultati prefissati, raggiungere determinati target, incrementare sempre i guadagni; solo così ci sono i dividendi e la comunità è salva, visto che ha ragione di esistere solo in funzione di questi.
Essere “dei nostri” significa essere ammessi nel proprio cerchio magico, tutto carne e passioni. Implica seguirsi a vicenda, e per questo litigare e giudicarsi, invidiarsi ed essere gelosi. Perché chi segue un uomo va dietro ai suoi limiti, e che fallimento diventa allora la vita…
Che stoltezza quando un prete vuole farsi seguire e lega a sé le persone, rubandole a Cristo di cui dovrebbe essere l’amico che gioisce nel diminuire perché chi possiede la sposa è lo Sposo. O quando un padre e una madre spingono i figli ad essere come loro, a ricalcarne le orme frustrando le loro personalità e disprezzando le debolezze; non si accorgono che li scandalizzano allontanandoli da Cristo, che li ama e li ha scelti peccatori e liberi, unici e irripetibili. O un fidanzato quando cerca di assorbire la fidanzata nel proprio tempo, nei gusti e nei desideri, obbligandola a servire le proprie concupiscenze, dando inizio così alla rovina certa del matrimonio.
La corruzione non può che generare corruzione. E disprezzo per i piccoli; chi si illude di dover essere seguito, chi scrive leggi ispirate dagli slogan, chi partorisce ideologie non si accorgerà dei piccoli che muovono i primi passi. Sarà geloso del proprio posto e guarderà tutti come a dei potenziali usurpatori.
Nella Chiesa, invece, è preservata la libertà di ciascuno, anche di sbagliare, perché tutti seguono Cristo che sale alla Croce, per entrare con Lui nel Cielo, in un’appartenenza nuova che trascende la carne. Nella Chiesa non si è “dei nostri”, ma tutti sono suoi, riscattati dal sangue di Cristo. Non c’è omologazione ma comunione nella diversità.
Per questo Gesù aveva preso un bambino e lo aveva abbracciato: per mostrare profeticamente che la Chiesa è una comunità abbracciata da Cristo, dove ciascuno è amato così come è, nella sua piccolezza, nelle sue miserie.
Per questo ci dice oggi con forza di stare bene attenti “a non scandalizzare uno di questi piccoli che credono in me”. Non scandalizzare innanzitutto te stesso, non metterti da solo inciampi sul tuo cammino. E non metterli agli altri con i tuoi atteggiamenti superbi e mondani travestiti da pietà e zelo per il Vangelo.
Fratelli, questa domenica il Signore ci annuncia senza dolcificanti che proprio per essere stati chiamati a seguirlo, ci attende ogni giorno un combattimento molto serio. Non possiamo scappare, perché è in gioco la nostra salvezza e quella dei “piccoli” nella fede, i lontani dalla Chiesa, coloro che vivono in situazioni terribili di peccato e che, nell’annuncio del Vangelo, hanno iniziato a vedere una luce, una speranza a cui appoggiarsi.
Siamo stati “piccoli” anche noi, o no? Anzi, lo siamo ancora, perché il posto dei cristiani è sempre l’ultimo della fila, il più insignificante, disprezzato e rifiutato. Quello di chi, come i bambini al tempo di Gesù, era considerato nulla.
Ma proprio per essere gli ultimi, i cristiani possono far breccia nel cuore dei superbi, destando in loro un frammento di compassione. Siamo mendicanti di un bicchiere d’acqua, portiamo ovunque nel nostro corpo la sete di Cristo crocifisso, per offrire a tutti la “loro ricompensa”.
Coloro che non conoscono Gesù hanno il diritto di incontrarlo nei suoi fratelli. La sete dei discepoli è l’occasione, la possibilità donata ad ogni uomo di partecipare dei beni che essi incarnano nel loro desiderio. Un cristiano è nel mondo per ricevere l’aceto dei peccati di ogni uomo; è Cristo che in lui ha sete del male per trasformarlo in bene.
“Piccoli” dunque, per salvare i “piccoli” della terra, non c’è altro modo con cui Dio ha scelto di salvare l’umanità che ha perduto la propria dignità. Per questo occorre “tagliare” senza pietà quello che il demonio cerca di far diventare grande in noi: mani, piedi e occhi dell’uomo vecchio che ci portano nel fuoco della Geenna, la valle accanto a Gerusalemme dove si bruciava la spazzatura.
Siamo chiamati ad essere la spazzatura, a scendere nella Geenna delle nostre città per offrire speranza e salvezza a chi ha ridotto la propria vita un rifiuto da bruciare, non ad esservi gettati anche noi per aver perduto il sapore del sale della primogenitura, lasciando così che il mondo muoia nei suoi peccati.
Sì fratelli, “è meglio” per noi che “venga messa una macina da mulino al collo” del nostro uomo vecchio e corrotto che cerca cibo nella carne per saziare anche nella Chiesa le sue concupiscenze, e che “sia gettato nel mare”, nelle acque del battesimo, cioè dei sacramenti.
Come Israele, infatti, anche il discepolo di Cristo è un eletto, contrassegnato per una missione: per questo sarà schiacciato, ferito. Per questo, quasi come un’eco delle parole di Gesù sulla violenza da fare alle proprie membra occasione di scandalo, Giacobbe sarà oggetto della violenza dell’angelo di Dio.
E ne uscirà zoppo, per entrare nella terra promessa insieme a quanti nel mondo gli sono affidati, cominciando dai più vicini. Meglio zoppo che con due piedi, meglio potersi appoggiare a Dio ed assolvere alla propria missione, che perdere la propria vita. Zoppo, cieco, monco, ma forte con Dio, ecco il mistero della nostra debolezza offerta e affidata a Cristo perché ne faccia l’altare dove possa offrire a tutti il suo amore. Il mistero dei fallimenti, delle malattie e delle persecuzioni che soffrono i cristiani, della Croce sulla quale Cristo abbraccia nelle loro membra deboli e povere i piccoli del mondo.

venerdì 28 settembre 2018


L’Anticristo oggi è diventato una superstar


Satana si presenta anche sotto il colore del bene.
di Padre Piero Gheddo
L’Anticristo ha persuaso l’uomo che potrà essere felice solo quando soddisferà liberamente i propri istinti, eliminando il concetto del bene e del male. Il peccato, si sa, pesa, e l’idea di liberarsene una volta per tutte, oggi più che mai, è diventata una vera smania. L’Avversario nel secolo scorso ci convinse che Dio è morto, per poi eliminare milioni di esseri umani. Oggi ci ha intruppati in una nuova ideologia per annullare la natura stessa dell’uomo. Oggi l’Anticristo è diventato il Referente imprescindibile di tutti i governi occidentali.
L’Anticristo ha persuaso l’uomo che potrà essere felice solo quando soddisferà liberamente i propri istinti, eliminando il concetto del bene e del male. Il peccato, si sa, pesa, e l’idea di liberarsene una volta per tutte, oggi più che mai, è diventata una vera smania. L’Avversario nel secolo scorso ci convinse che Dio è morto, per poi eliminare milioni di esseri umani. Oggi ci ha intruppati in una nuova ideologia per annullare la natura stessa dell’uomo. Oggi l’Anticristo è diventato il Referente imprescindibile di tutti i governi occidentali.
L’Anticristo è il Demonio e tutte le forze del male che si oppongono alla venuta del Regno di Dio e di Cristo negli ultimi giorni, ma anche nella storia dell’uomo (Apocalisse, I e II Lettera di Giovanni, II Lettera di Paolo ai Tessalonicesi). Ma è anche il titolo del libro di Friedrich Nietzsche (1844-1900), che un laico cattolico, Agostino Nobile, ha commentato nel volumetto pubblicato nel luglio 2014: Anticristo superstar (Edizioni Segno, Udine – pagg. 120). Agostino Nobile, sposato e padre di due figli, professore di storia della musica, 25 anni fa decise di lasciare l’insegnamento per studiare le culture non cristiane ed è vissuto per dieci anni nel mondo musulmano, indù e buddista, esperienza che ha rafforzato la sua fede cattolica. Nobile vive oggi in Portogallo con la sua famiglia, si dedica agli studi per approfondire la sua fede e ha lavorato fino ad un anno fa come pianista e cantante.
Ecco le battute di partenza di Anticristo superstar: «Quando anni fa mi capitò di leggere L’Anticristo di Friedrich Nietzsche, pensai di trovarmi di trovarmi di fronte ad un insano di mente. Oggi l’Anticristo è diventato il referente imprescindibile di tutti i governi occidentali. Se a Friedrich Nietzsche avessero detto che in poco più di cent’anni il suo “Anticristo” sarebbe stato una superstar, l’avrebbe considerata una ridicola provocazione» (il libro di Nietzsche è del 1888). E continua: «L’Anticristo ha persuaso l’uomo che potrà essere felice solo quando soddisferà liberamente i propri istinti, eliminando il concetto del bene e del male, il concetto del bene e del peccato. Il peccato, si sa, pesa, e l’idea di liberarsene una volta per tutte, oggi più che mai è diventata una vera smania. Nel secolo scorso l’Anticristo ci convinse che “Dio è morto”, per poi eliminare milioni di esseri umani (attraverso le ideologie ispirate a questa convinzione). Oggi ci ha intruppati in una nuova ideologia, per annullare la natura stessa dell’uomo. Nel suo piano muta i metodi, ma il fine è sempre lo stesso: dimostrare a Dio che la sua creatura prediletta è l’essere più idiota del creato».
Il pamphlet di Nobile, di poche pagine ma denso di fatti e di idee e facile da leggere, è tutto un esame storico e attuale di come l’idea centrale di Nietzsche e le altre espressioni seguenti si stanno realizzando. La convinzione basilare di Nietzsche è questa: «Io definisco il cristianesimo l’unica grande maledizione, unica grande intima perversione, unico grande istinto di vendetta, per il quale nessun mezzo è abbastanza velenoso, occulto, sotterraneo, piccino. Io lo definisco: l’unico imperituro marchio di abominio dell’umanità». Agostino Nobile affronta l’Anticristo a mo’ di botta e risposta. Ha estratto dal volume del filosofo tedesco le molte proposte e previsioni che riguardano la «Guerra mortale contro il vizio e il vizio è il cristianesimo» e con una carrellata storica di duemila anni dimostra con riferimenti storici e attuali, come questi sogni di Nietzsche si sono gradualmente realizzati e ancor oggi si stanno realizzando, con l’educazione dei minori, la cultura dominante, i costumi e le leggi che riportano i popoli cristiani a ridiventare pagani. Il capitolo più provocatorio per noi, uomini d’oggi, è quello finale col titolo Anticristo superstar (che è quello del libro divulgativo), dove Agostino Nobile dimostra che nel nostro tempo la «guerra mortale contro il cristianesimo» è giunta quasi al termine, poiché i sogni di Nietzsche stanno influenzando e orientando i governi dei Paesi cristiani (cioè occidentali) e l’Onu con i suoi organismi.
Ecco un solo esempio di questa corrente della cultura e della legislazione che si sta imponendo nel nostro tempo. Noi anziani o persone di mezza età non ce ne accorgiamo, ma la massima autorità mondiale della Sanità vuol imporre ai bambini delle scuole aberrazioni di questo tipo. L’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha diffuso a tutti i governi europei un vademecum per promuovere nelle scuole corsi di sessuologia: “Standard dell’Educazione Sessuale in Europa” (consultabile su Internet), dove tra l’altro si legge: «ai bimbi da 0 a 4 anni gli educatori dovranno trasmettere informazioni sulla masturbazione infantile precoce e scoperta del corpo e dei genitali, mettendoli in grado di esprimere i propri bisogni e desideri, ad esempio nel gioco del “dottore”… Dai 4 ai 6 anni i bambini dovranno essere istruiti sull’amore e le relazioni con persone dello stesso sesso… Con i bambini dai 6 ai 12 anni i maestri terranno lezioni sui cambiamenti del corpo, mestruazione ed eiaculazione, facendo conoscere i diversi metodi contraccettivi. Nella fascia puberale tra i 12 e i 15 anni gli adolescenti dovranno acquisire familiarità col concetto di “pianificazione familiare” e conoscere il difficile impatto della maternità in giovane età, con la consapevolezza di un’assistenza in caso di gravidanze indesiderate e la relativa presa di decisione».
Leggendo questo documento dell’Onu, che suscita sgomento e paura, mi vengono in mente i molti testi di Giovanni Paolo II e di Papa Benedetto su questo tema: «La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (Caritas in Veritate, 75), in questo senso: nel secolo scorso il “problema sociale” più grave era l’equa distribuzione della ricchezza e del benessere fra ricchi e poveri; oggi il maggior “problema sociale” è la distruzione della famiglia naturale e il pansessualismo che riducono rapidamente la popolazione mondiale promuovendo l’aborto, il matrimonio fra persone dello stesso sesso, l’eutanasia e l’eugenetica e tante altre aberrazioni, fino alla clonazione di esseri umani, oggi tecnicamente possibile e già sperimentata. Benedetto XVI scrive (Caritas in Veritate, 75): «Non si possono minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell’uomo e i nuovi potenti strumenti che la “cultura della morte” ha messo nelle mani dell’uomo. Alla diffusa, tragica piaga dell’aborto si potrebbe aggiungere in futuro, che è già abusivamente in atto, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite».
Si giungerebbe così alla meta finale di quanto Nietzsche sognava: «Un mondo abitato e dominato da superuomini che hanno imposto la loro volontà di potenza agli uomini inferiori, mediocri e comuni», per cui era necessario «stabilire i valori della società e dello Stato in favore dell’individuo più forte, del Superuomo (l’uomo eletto, geniale, l’artista creatore che vince l’uomo medio) e della superiorità di razza e di cultura» (Enciclopedia cattolica, Città del Vaticano 1952). Non meraviglia che Nietzsche, messosi al servizio del nazionalismo tedesco, abbia profondamente influenzato il nazismo e la sua nefasta ideologia! Ma è ancora più scandaloso che il nostro Occidente, con profonde radici cristiane, che si ritiene libero, laico, democratico, istruito, evoluto, popolare, sia incamminato, senza forse averne coscienza, sulla stessa via che conduce al nichilismo, alla distruzione della natura umana e alla morte. Come popolo, abbiamo tolto il Sole di Dio dal nostro orizzonte umano, vogliamo fare a meno di Dio e di Gesù Cristo e non abbiamo più nessuna luce di speranza nel nostro futuro.

Nessun testo alternativo automatico disponibile.


LA FEDE DELLA COMUNITA' CRISTIANA NELLA QUALE 

DIO COMPIE LA VOCAZIONE DI CIASCUNO


"Ma voi chi dite che io sia?". C'è un ma fondamentale che separa i cristiani dalla "gente". Un ma per destare il cuore di chi ha visto, sperimentato, conosciuto il Signore. Un ma che traccia una linea netta a separare la rivelazione dello Spirito Santo, i "pensieri secondo Dio", dalla religiosità, dalle opinioni, dalla cultura, dai "pensieri secondo il mondo".

La "folla" che si accalca attorno a Gesù ne è conquistata dalle parole e dai miracoli. La "gente" è stupita dal suo insegnamento perché riconosce che nessuno ha mai parlato e agito con la stessa autorità. In fondo ha visto gli stessi segni e ascoltato le stesse parole dei discepoli, ma riconosce in Lui solo un profeta. Forse il più grande, il più prodigioso, ma non riesce a dire di Gesù che è "il Cristo di Dio", ovvero il Messia. Che cosa manca alla "gente"? Esattamente quello che sottintende il ma di Gesù.

E' come se il Signore dicesse ai suoi discepoli: "Ok, secondo la gente che mi segue in massa sono un profeta; ma voi che ho scelto e chiamato per stare con me e imparare da me; ma voi, che prima di incontrarmi avevate una vita radicalmente diversa; ma voi che vi appartate per pregare e per riposare con me; ma voi che camminate dietro a me, e avete ascoltato tante parole che ho spiegato solo a voi nell'intimità della casa; ma voi, che ho costituito per andare e portare frutto annunciando il Vangelo; ma voi che avete ricevuto da me il potere di guarire gli infermi e scacciare i demoni; ma voi chi dite che io sia?".

Oggi lo stesso ma raggiunge ciascuno di noi e le nostre comunità. Dove siamo? Al di qua o al di là del ma? La domanda di Gesù ci scruta per fare luce e svelarci se dimoriamo nella sua intimità gustando la sua amicizia che ci svela i segreti del Regno dei Cieli; se stiamo camminando dietro a Lui imparando a obbedire alla sua Parola; se lo stiamo conoscendo attraverso il perdono dei peccati e il dono della vita nuova che ci fa entrare nella storia concreta di ogni giorno, senza scappare dalla sofferenza; se, sulla Croce, stiamo sperimentando la presenza amorevole di Gesù che consola e le dà senso nel potere della sua risurrezione; se stiamo scendendo i gradini che conducono alla Verità e all'umiltà, permettendo che le persone e gli eventi ci facciano "piccoli" per entrare nel Regno dei Cieli; se cioè, sperimentando nella Chiesa le primizie della vita celeste, dell'amore e della comunione, siamo in conversione cambiando a poco a poco mentalità, rinunciando al mondo e ai suoi valori. Se in noi sta operando la Grazia che ci trasforma in uomini nuovi.

O se siamo ancora uomini vecchi che orientano la vita determinando le scelte e e gli atteggiamenti secondo i criteri del mondo. Se, come la "folla", pur andando dietro a Gesù, non abbiamo ancora professato la stessa fede di Pietro e dei discepoli. Se cioè Gesù è per noi come Giovanni Battista, ci ha scosso illuminando alcuni peccati e situazioni difficili indicandoci una via di uscita; o come Elia, ha fatto dei miracoli per saziarci; o come gli altri profeti, ci ha riscaldato il cuore, consolato e dato speranza; opinioni rispettabili e valide, perché ogni profeta è immagine e profezia del Messia, ma restano pensieri umani, molto religiosi chissà, o mondani, perché nella massa della "gente" c'è di tutto. Ma non sono la fede adulta, quella capace di trapiantare un gelso nel mare, la fede che vince il mondo, e in esso il peccato e la morte.

Allora, hai opinioni su Cristo o lo conosci? Hai un'esperienza concreta di Lui nella tua vita, o solo un'idea che ti sei fatto da alcuni momenti in cui, a intermittenza, lo hai sentito vicino e lo hai visto all'opera? Tu che discetti sulla Chiesa, sui preti e sui cardinali, che hai giudizi invincibili sui fratelli, che sai come andrebbero fatte le cose in parrocchia e nella tua comunità, nel tuo movimento; tu che non riesci a dimenticare quel torto, che non perdoni tuo marito, che hai un giudizio su tua figlia, che sei attaccato al denaro, che vivi la sessualità fuori della volontà di Dio, tu che scappi dalla Croce non hai conosciuto il Messia; tu prete che hai idee, iniziative, ma non riesci ad obbedire al tuo vescovo, che disprezzi il tuo viceparroco, che sei avaro e sempre preoccupato per i soldi, che ti circondi di brave e zelanti mamme-catechiste pronte ad assecondarti in tutto schivando altri che davvero potrebbero aiutarti ad annunciare il Vangelo, tu che celebri messe, matrimoni e funerali, se sei scandalizzato dalla sofferenza e dai peccatori, se sfuggi la solitudine e le sofferenze dell'apostolo rifugiandoti nella pornografia e nelle alienazioni che saziano il tuo ego frustrato, forse non hai mai conosciuto il Signore.

Perché per dire che Gesù è "Cristo di Dio" - quel Gesù che preghiamo, che celebriamo, del quale probabilmente abbiamo spesso in bocca le parole - occorre essere al di qua del ma, vivere in Lui, dimorare nella sua intimità. Occorre seguirlo sul cammino della conversione che va diritta al Calvario: "Il Figlio dell'uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno".

Per rispondere alla domanda di Gesù liberi dalla stretta della religiosità naturale abbiamo bisogno di una speciale Grazia dal Cielo; è necessaria una rivelazione che generi la fede e occhi capaci di trapassare la carne, che riconoscano nel Profeta di Nazaret l'Unto di Dio, il Messia, perché "la fede va al di là dei semplici dati empirici o storici, ed è capace di cogliere il mistero della persona di Cristo nella sua profondità" (Benedetto XVI).

Per questo, non a caso Gesù pose la domanda decisiva "mentre si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui". Non la fa alla "folla", anzi, proprio il contesto e il contenuto del dialogo rivelano la peculiarità della Chiesa, la comunità riunita "in un luogo appartato". Altra cosa è la missione, frutto maturo della fede. Solo nell'intimità con Gesù, innestati nella sua preghiera solitaria e staccata dal chiasso e dalle menzogne del mondo, solo nel cammino di conversione che è il seno fecondo della Chiesa, si può ricevere la rivelazione che schiude gli occhi sull'identità di Gesù. Non si può far confusione: alle periferie si va solo nutriti dalla liturgia che, proprio per questo e per preparare alla missione, nella Chiesa primitiva era riservata agli eletti, ai battezzati, ai cristiani. Quanta confusione su questo... C'è un voi che è chiamato a dare ragione del ma che lo separa dalla gente.E' la comunità scelta e inviata proprio per salvare chi non conosce Cristo. E ha bisogno dell'intimità dei luoghi solitari e separati dal mondo, delle liturgie, di un'iniziazione cristiana che sia un po' come un ritiro pre-campionato, di un luogo, di una comunità dove risuoni la domanda di Gesù che faccia interrogare su stessi, per aprirsi alla Parola e così crescere nella fede.

Chi è dunque Gesù? E' il Crocifisso che ha vinto la morte. Non v'è altra risposta. E' Colui nel quale si è compiuto l'impossibile, l'inimmaginabile, l'unico evento capace di cambiare il corso d'una storia inevitabilmente lanciata verso il fallimento e la fine. Gesù è vivo qui ed ora, ma gli occhi della carne sono incapaci di vederlo in ciò che, nella vita e nella storia, odora di scandalo, sofferenza e morte; quelli della fede invece lo riconoscono nella sua vittoria compiuta nella propria esistenza: il perdono dei peccati e la Vita nuova, l'amore che muove ogni passo, il poter perdere la propria vita laddove i criteri mondani consigliano tutt'altro.

Gli occhi della fede si dischiudono attraverso un cammino che sostanzia, con l'esperienza, la professione ispirata dall'Alto. Come quelli di Pietro, aperti in quel luogo solitario ma che, per poterlo dire a tutti, hanno poi dovuto vedere la propria realtà di peccato per sperimentare l'amore gratuito di Dio, la misericordia rigeneratrice e il potere della risurrezione di Cristo; il segreto che Gesù ha "ordinato severamente" di mantenere significava anche questo: difendere Pietro e la sua missione, proteggere l'annuncio che avrebbe portato nei secoli, dalla propria debolezza. Non solo era solo un segreto messianico, perché Gesù non era ancora morto e risorto. Era anche un segreto perché lo stesso Pietro doveva prima morire nel rinnegamento per risorgere con Cristo sulle sponde del Mare di Galilea. E' lì infatti che, non a caso, il Vangelo di Giovanni pone il primato di Pietro. E' lì, in quell'incontro tra la misericordia e il pentimento, tra la potenza della resurrezione e la debolezza, che Pietro potrà professare apertamente che Gesù è il Cristo, perché sa tutto e lo ha perdonato, prova e sigillo della sua vittoria sulla morte. E da lì Pietro partirà per annunciarlo a ogni generazione, sino agli estremi confini della terra.

Come Pietro anche noi dobbiamo percorrere un cammino che sigilli la fede nell'esperienza: "la fede non dà solo alcune informazioni sull’identità di Cristo, bensì suppone una relazione personale con Lui, l’adesione di tutta la persona, con la propria intelligenza, volontà e sentimenti alla manifestazione che Dio fa di se stesso. Così, la domanda «Ma voi, chi dite che io sia?», in fondo sta provocando i discepoli a prendere una decisione personale in relazione a Lui. Fede e sequela di Cristo sono in stretto rapporto. E, dato che suppone la sequela del Maestro, la fede deve consolidarsi e crescere, farsi più profonda e matura, nella misura in cui si intensifica e rafforza la relazione con Gesù, la intimità con Lui. Anche Pietro e gli altri apostoli dovettero avanzare per questo cammino, fino a che l’incontro con il Signore risorto aprì loro gli occhi a una fede piena" (Benedetto XVI).

La fede piena è il dono dall'alto che scopre in Gesù colui che realizza le profezie, l'unico capace di dare compimento al destino di ciascun uomo. La fede adulta spicca il volo oltre l'angusta prospettiva della religiosità naturale, dando alla vita una sterzata decisiva, innestandola nella stessa vita di Cristo. Essa produce frutti che hanno il sapore della vita eterna, il compimento reale e concreto in ogni giorno, delle sublimi parole di Gesù; esse disegnano e modellano l'uomo celeste, il figlio del Regno, colui che vive mosso da un amore che supera la barriera della morte, del rancore, della rivalsa, della gelosia, del giudizio, della concupiscenza, dell'avarizia.

E' questa esperienza che manca alla "gente" che ti è vicina, tua cugina, il collega, il compagno di scuola. C'era andata vicino, perché Giovanni Battista aveva preparato la via al Messia; i profeti avevano fatto di Lui l'identikit aggiungendone ciascuno un frammento. Ma non erano lo Sposo, non potevano salvare dalla morte. Nel "luogo appartato" della comunità invece, per pura Grazia la Profezia si fa carne, pensiero, sentire e azione che rivelano la natura divina, la vita immortale che ha preso dimora nell'uomo rigenerato nella fede. Dire "Tu sei il Cristo, l'Unto, il Messia Salvatore" significa molto concretamente vivere la Pasqua nel rifiuto, nella sofferenza e nella morte di Croce che ci attendono ogni giorno.

La professione di fede di Pietro infatti, si fa autentica nel crogiuolo della storia: Pietro è morto come quel Gesù di Nazaret che aveva riconosciuto essere il Messia: il suo martirio e la sua croce hanno autenticato la professione scaturita dalle sue labbra. La certezza della risurrezione di quell'uomo che lo aveva chiamato a seguirlo e che aveva vigliaccamente tradito, sigillata dalla stessa unzione dello Spirito Santo, lo ha reso conforme al Messia vincitore della morte; alle parole Tu sei il Cristo si aggiungeva ora quell'in me che ne certificava la credibilità agli occhi degli uomini. Sulla Croce con Cristo Pietro era, a nome della comunità, della Chiesa intera, la ragione vivente di quel ma pronunciato da Gesù.

Dall'intimità con Cristo nasce la professione di fede della Chiesa. E da essa scaturisce la missione della Chiesa durante i secoli: essa deve prima incarnare il Mistero che annuncia, allo stesso modo che, prima che Pietro potesse dire a tutti che Gesù era il Cristo di Dio, Egli doveva morire e risorgere. Solo dopo averlo sperimentato nella comunità cristiana, i cristiani possono annunciare il che Gesù è il Signore, incarnandolo e rendendolo visibile e credibile in loro che offrono la vita per i propri nemici, certi che in Lui la morte è stata sconfitta.

giovedì 27 settembre 2018

Nessun testo alternativo automatico disponibile.

ASCOLTARE UMILMENTE LA PAROLA DI DIO CHE CI SVELA IL COMPIMENTO DEL SUO AMORE NELLA NOSTRA VITA

Il destino dell'apostolo: perdere la vita affinché sorga, nel cuore di ogni uomo, la domanda decisiva. Giovanni doveva diminuire, scomparire per preparare la strada all'avvento del Signore. La missione di ogni apostolo è annunciare la Verità, non sostituirsi ad essa. Per questo il suo destino non può che essere lo spossessamento di se stesso perché in lui e attraverso di lui appaia Cristo. Non vi è profezia senza martirio. Diversamente gli occhi degli uomini, di per sé inclini a creare eroi e miti da idolatrare, si fermerebbero irrimediabilmente sull'annunciatore, perdendo di vista l'Annunciato. Ma la storia della Chiesa ci insegna che Erode ha sempre decapitato Giovanni. Il potere, la carne ed il mondo, tentando di far tacere la Verità profetica, non ha mai smesso di uccidere i cristiani. E la persecuzione ha sempre ridestato l'interrogativo capace di sconvolgere la vita ed aprire alla salvezza: "Chi è costui del quale sento dire queste cose?". Proprio quando i suoi discepoli sono perseguitati e martirizzati, la fama del Signore si fa più viva; nei momenti più difficili, quando i cristiani sembrano lasciare la scena di questo mondo, Egli continua ad operare, ed è qualcosa che inquieta il cuore di chi "non sa cosa pensare" di un avvenimento che supera logiche e ragioni solo umane. Nella morte appare la vita, il cuore del cristianesimo, il paradosso che schianta ogni certezza. La testa di Giovanni, morte certa, visibile, incontrovertibile, invece di decretare la fine segna l'inizio di qualcosa di nuovo e sorprendente. Come è stato al principio, quando la Croce, la pietra e le guardie non sono state capaci di dare vittoria alla morte, così il mistero di una vita e di una Grazia che opera prodigi al di là del martirio, rompe l'indifferenza, interpella, desta lo stupore. Come scriveva Don Primo Mazzolari, “la testa del Battista grida molto di più quando è sul vassoio che non quando era sul collo”. La morte di Giovanni ha puntato la luce su Gesù, la sua testa recisa ha indicato l'Agnello sgozzato che ha redento il mondo. Così accade a ciascuno di noi, chiamati a partecipare della missione profetica della Chiesa. Perché Erode si spinga a cercare di vedere Gesù è necessario che sia dissipata ogni incertezza. Non è Giovanni il Messia, come non lo siamo noi. Per "cercare di vedere Gesù" Erode aveva bisogno della testa di Giovanni. E così nostra moglie, i figli, gli amici, i colleghi, tutti hanno bisogno della nostra testa per cominciare a interrogarsi e a credere. C'è molta confusione intorno alla figura di Gesù, oggi come duemila anni fa. E, al massimo, oggi come allora, la sapienza carnale riesce solo a riconoscerlo come uno dei profeti; la stessa parola tagliente, lo stesso discernimento, un identico potere. Ma Dio no eh, Dio in una carne umana non è credibile. Chi di noi, infatti, si è svegliato oggi benedicendo Dio per la propria debolezza, per i difetti e le ferite? Nessuno. Eppure lasciarsi tagliare la testa significa proprio questo: lasciare che Erode, immagine del mondo e di quella sua parte che appare in chi ci è accanto, apra il sipario sulla nostra realtà. Perdere la testa per il Signore significa consegnare a Lui il comando, la visibilità, la gloria che gli spetta. Senza testa un corpo non può vivere, è evidente.

Ebbene, anche oggi siamo chiamati a lasciarci tagliare la testa, ovvero che gli altri contestino i nostri criteri, le idee, e i progetti; che la moglie smascheri i pensieri stolti che millantiamo come molto sapienti; che i figli svelino errati i nostri calcoli; che la storia demolisca la nostra presunta abilità. Che ci sia tagliata la testa con cui cerchiamo di governare la nostra vita. A lasciare la plancia a Gesù, perché chiunque ci è accanto, al vedere il nostro corpo - cioè le nostre parole, i nostri gesti e i nostri atteggiamenti - possano chiedersi "chi è costui" che prima non poteva perdonare e ora perdona, prima non sapeva essere casto e ora custodisce il suo corpo in santità, prima mentiva per difendersi e ora vive nella verità. E così, al vedere il nostro corpo vivere una vita nuova, possano cominciare a "cercare di vedere Gesù", perché è Impossibile che noi si possa vivere una vita celeste essendo solo povera e debole carne, come tutti. Non è possibile che, nonostante ci abbiano tagliato la testa, la nostra vita continui, e molto meglio di prima: libera, seria, umile e per questo piena di un amore e di una dedizione che non è di questo mondo. Solo la nostra testa tagliata rimanda alla testa di Cristo, alla sua sapienza, al suo sguardo di misericordia, alla sua vita più forte della morte e della debolezza. Per questo agli apostoli, a noi, è dato l'ultimo posto. Per questo le difficoltà, i fallimenti, le debolezze, la morte, l'insignificanza, l'insuccesso nel mondo; i nemici ci nascondono agli occhi del mondo perché questi siano puntati su Cristo, e sorga nel cuore la domanda decisiva che schiuda alla salvezza. La Croce alla quale la storia ci inchioda ogni giorno è il dardo d'amore con il quale Dio desidera scuotere il cuore distratto e perduto del mondo: secondo la tradizione ebraica infatti, "il martire è come il legno profumato del sandalo, profuma anche l'ascia che lo colpisce e lo taglia". E' l'onore più grande, il vanto di San Paolo: nelle nostre debolezze si manifesta la potenza di Dio. Nei peccati brilla la misericordia di Dio capace di creare una vita talmente nuova e senza limiti da poter essere offerta; la consegna di se stesso che si realizza in un uomo sino ad allora capace solo di difendersi e rubare la vita altrui: "Quando la luce... cresce in colui che viene illuminato, costui diminuisce in se stesso quando viene abolito in lui ciò che era senza Dio. Infatti l’uomo, senza Dio, non può nulla se non peccare, e la sua potenza umana diminuisce quando trionfa la grazia divina, distruttrice del peccato. La debolezza della creatura cede alla potenza del Creatore e la vanità delle nostre passioni egoiste crolla davanti all’amore, mentre Giovanni il Battista dal fondo della nostra miseria, ci grida la misericordia di Gesù Cristo: Egli deve crescere e io invece diminuire" (S. Agostino). Dalla rinascita nella misericordia scaturiscono la forza e la gioia del martirio, il dissolversi dell'uomo vecchio e l'apparire dell'uomo nuovo, la presenza viva del Signore: "Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma è vivo in me Cristo" (Gal. 2,20). Nel nostro morire agli occhi del mondo brilla il volto di Cristo, il mistero deposto in vasi di creta su cui si infrangono le certezze della carne perché trovi posto la fede nell'unica certezza, l'amore infinito ed eterno di Dio, quello che ogni Erode cerca di vedere, anche quando si trova immerso nei propri peccati.

mercoledì 26 settembre 2018

Santa Messa nell’area del Santuario della Madre di Dio di Aglona

Papa ad AglonaAlle ore 15.45 locali (14.45 ora di Roma), il Santo Padre Francesco è arrivato al Santuario Internazionale della Madre di Dio di Aglona, dove è stato accolto dal Vescovo di Rēzekne-Aglona e Presidente della Conferenza Episcopale di Lettonia, S.E. Mons. Jānis Bulis, e da due bambini in costume tradizionale che gli hanno offerto un omaggio floreale.
Dopo alcuni giri in papamobile tra i fedeli presenti nell’area del Santuario, alle ore 16.30 locali (15.30 ora di Roma), il Papa ha presieduto la Celebrazione Eucaristica per Maria Madre della Chiesa in latino e in lettone.
Dopo la proclamazione del Vangelo, il Santo Padre ha pronunciato l’omelia.
Al termine della Santa Messa, dopo l’indirizzo di saluto di S.E. Mons. Jānis Bulis, il Papa ha rivolto a tutti i fedeli presenti delle parole di ringraziamento.
Quindi, dopo l’omaggio alla Vergine e la Benedizione finale, si è trasferito in auto all’eliporto di Aglona per la cerimonia di congedo dalla Lettonia.
Pubblichiamo di seguito l’omelia e le parole di ringraziamento del Santo Padre al termine della Messa:
Omelia del Santo Padre
Potremmo ben dire che ciò che San Luca narra all'inizio del libro degli Atti degli Apostoli si ripete oggi qui: siamo intimamente uniti, dedicati alla preghiera e in compagnia di Maria, nostra Madre (cfr 1,14). Oggi facciamo nostro il motto di questa visita: “Mostrati Madre!”, manifesta in quale luogo continui a cantare il Magnificat, in quali luoghi si trova il tuo Figlio crocifisso, per trovare ai suoi piedi la tua salda presenza.
Il Vangelo di Giovanni riporta solo due momenti in cui la vita di Gesù incrocia quella di sua Madre: le nozze di Cana (cfr 2,1-12) e quello che abbiamo appena letto, Maria ai piedi della croce (cfr 19,25-27). Parrebbe che l'evangelista sia interessato a mostrarci la Madre di Gesù in queste situazioni di vita apparentemente opposte: la gioia di un matrimonio e il dolore per la morte di un figlio. Mentre ci addentriamo nel mistero della Parola, Ella ci mostri qual è la Buona Notizia che il Signore oggi vuole condividere con noi.
La prima cosa che l’evangelista fa notare è che Maria sta “saldamente in piedi” accanto a suo Figlio. Non è un modo leggero di stare, neppure evasivo e tanto meno pusillanime. È, con fermezza, “inchiodata” ai piedi della croce, esprimendo con la postura del suo corpo che niente e nessuno potrebbe spostarla da quel luogo. Maria si mostra in primo luogo così: accanto a coloro che soffrono, a coloro dai quali il mondo intero fugge, accanto anche a quelli che sono processati, condannati da tutti, deportati. Non soltanto vengono oppressi o sfruttati, ma si trovano direttamente “fuori dal sistema”, ai margini della società (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 53). Con loro c’è anche la Madre, inchiodata sulla croce dell’incomprensione e della sofferenza.
Maria ci mostra anche un modo di stare accanto a queste realtà; non è fare una passeggiata o una breve visita, e nemmeno è un “turismo solidale”. Occorre che coloro che patiscono una realtà di dolore ci sentano al loro fianco e dalla loro parte, in modo fermo, stabile; tutti gli scartati della società possono fare esperienza di questa Madre delicatamente vicina, perché in chi soffre permangono le piaghe aperte del suo Figlio Gesù. Lei lo ha imparato ai piedi della croce. Anche noi siamo chiamati a “toccare” la sofferenza degli altri. Andiamo incontro alla nostra gente per consolarla e accompagnarla; non abbiamo paura di sperimentare la forza della tenerezza e di coinvolgerci e complicarci la vita per gli altri (cfr ibid., 270). E, come Maria, rimaniamo saldi e in piedi: con il cuore rivolto a Dio e coraggiosi, rialzando chi è caduto, sollevando l’umile, aiutando a porre fine a qualunque situazione di oppressione che li fa vivere come crocifissi.
Maria è chiamata da Gesù ad accogliere il discepolo amato come suo figlio. Il testo ci dice che erano insieme, ma Gesù si accorge che non basta, che non si sono accolti a vicenda. Perché si può stare accanto a tantissime persone, si può anche condividere la stessa abitazione, il quartiere o il lavoro; si può condividere la fede, contemplare e godere gli stessi misteri, ma non accogliere, non esercitare un’accettazione amorevole dell’altro. Quanti coniugi potrebbero raccontare la storia del loro essere vicini ma non insieme; quanti giovani sentono con dolore questa distanza rispetto agli adulti; quanti anziani si sentono freddamente accuditi, ma non amorevolmente curati e accolti.
È vero che, a volte, quando ci siamo aperti agli altri, questo ci ha fatto molto male. È anche vero che, nelle nostre realtà politiche, la storia dello scontro tra i popoli è ancora dolorosamente fresca. Maria si mostra come donna aperta al perdono, a mettere da parte rancori e diffidenze; rinuncia a recriminare su ciò che “avrebbe potuto essere” se gli amici di suo Figlio, se i sacerdoti del suo popolo o se i governanti si fossero comportati in modo diverso, non si lascia vincere dalla frustrazione o dall'impotenza. Maria crede a Gesù e accoglie il discepolo, perché le relazioni che ci guariscono e ci liberano sono quelle che ci aprono all’incontro e alla fraternità con gli altri, perché scoprono nell’altro Dio stesso (cfr ibid., 92). Monsignor Sloskans, che riposa qui, dopo essere stato arrestato e mandato lontano scriveva ai suoi genitori: «Vi chiedo dal profondo del mio cuore: non lasciate che la vendetta o l’esasperazione si facciano strada nel vostro cuore. Se lo permettessimo, non saremmo veri cristiani, ma fanatici». In tempi nei quali sembrano ritornare mentalità che ci invitano a diffidare degli altri, che con statistiche ci vogliono dimostrare che staremmo meglio, avremmo più prosperità, ci sarebbe più sicurezza se fossimo soli, Maria e i discepoli di queste terre ci invitano ad accogliere, a scommettere di nuovo sul fratello, sulla fraternità universale.
Ma Maria si mostra anche come la donna che si lascia accogliere, che accetta umilmente di diventare parte delle cose del discepolo. In quel matrimonio che era rimasto senza vino, col pericolo di finire pieno di riti ma arido di amore e gioia, fu lei a ordinare che facessero quello che Lui avrebbe detto loro (cfr Gv 2,5). Ora, come discepola obbediente, si lascia accogliere, si trasferisce, si adatta al ritmo del più giovane. Sempre costa l’armonia quando siamo diversi, quando gli anni, le storie e le circostanze ci pongono in modi di sentire, di pensare e di fare che a prima vista sembrano opposti. Quando con fede ascoltiamo il comando di accogliere e di essere accolti, è possibile costruire l’unità nella diversità, perché non ci frenano né ci dividono le differenze, ma siamo capaci di guardare oltre, di vedere gli altri nella loro dignità più profonda, come figli di uno stesso Padre (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228).
In questa, come in ogni Eucaristia, facciamo memoria di quel giorno. Ai piedi della croce, Maria ci ricorda la gioia di essere stati riconosciuti come suoi figli, e suo Figlio Gesù ci invita a portarla a casa, a metterla al centro della nostra vita. Lei vuole donarci il suo coraggio, per stare saldamente in piedi; la sua umiltà, che le permette di adattarsi alle coordinate di ogni momento della storia; e alza la sua voce affinché, in questo suo santuario, tutti ci impegniamo ad accoglierci senza discriminazioni, e che tutti in Lettonia sappiano che siamo disposti a privilegiare i più poveri, a rialzare quanti sono caduti e ad accogliere gli altri così come arrivano e si presentano davanti a noi.

© http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino.html - 24 settembre 20