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lunedì 31 ottobre 2016

Chagall. Giacobbe lotta con l'angelo



La santità è una speranza invincibile incastonata nella forza infinita d'una chiamata. Ancora prima di vedere la luce Dio ci ha chiamati alla santità «mettendoci da parte» nel mondo per «ereditare la Terra del suo Regno» e mostrarne a tutti le primizie. «Forza e coraggio, perché Io sono con te ovunque tu vada»: sono le parole del Signore rivolte a Giosuè fermo dinanzi al Giordano; le ripete anche a noi ogni giorno, chiamandoci a passare il guado. Sulla riva opposta vi è la Terra Promessa, la santità compiuta nell’eterno e pieno appartenere al Signore. In mezzo è il torrente di oggi e domani, persone e fatti che Dio ha preparato per noi. Davanti ad esso vi siamo noi con la paura della santità, che è quasi certezza di non farcela. La stessa di Giacobbe dinanzi al guado dello Jabbok, solo e in trappola, e quel fiume oscuro che lo aspettava, come un presagio di morte. Giacobbe era un peccatore, ha mormorato e giudicato, ha ingannato e rubato, ma portava sigillata nel fuoco la sua primogenitura; ha lottato con Dio, non ci stava a «perdere la vita». Poi un colpo secco all’anca e non era più quello di prima. Umiliandolo a zoppicare Dio ne aveva fatto un santo. Ora Giacobbe conosceva la propria debolezza benedetta con un nome nuovo, «Israele», che significa «Forte con Dio». Ecco dunque un santo, il più debole con il Più forte. Tu ed io che trasciniamo i piedi, incapaci di tutto ma aggrappati alla sua misericordia. Lo abbiamo visto anche un istante fa, quando per nulla abbiamo sbranato il fratello, per poi chiedergli balbettanti perdono. Se Dio non ci avesse creato friabili come fette biscottate non avrebbe potuto mostrare al mondo la sua santità. Per questo la debolezza è la nostra «beatitudine», anticipo di quella che sazia la moltitudine dei Santi che ci hanno preceduto nel Cielo. Celebrandoli oggi riviviamo il cammino della Chiesa nei secoli, colmi di gratitudine perché è anche la nostra storia. «Santi subito», perché no? «Consolati» quando il mondo è «afflitto». «Sazi» e riconciliati in mezzo agli «affamati di giustizia». «Miti» come agnelli in una società di lupi. «Operatori di pace» mentre il mondo prepara la guerra. «Puri» dove tutto è sporco. «Misericordiosi» con chi ci è nemico e ci «perseguita». «Santi per causa di Cristo», «esultanti e felici» del suo amore che abbraccia la nostra «povertà» per far risplendere negli «insulti e nelle menzogne» il volto santo di Dio.





L'ANNUNCIO
In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
 (Dal Vangelo secondo Matteo 5,1-12a)


Giosuè e il Popolo passano il Giordano



Una speranza invincibile e la forza infinita d'una chiamata: la santità è un'elezione, un esser messi a parte per qualcosa di speciale, per abitare la Terra. I santi sono gli eredi della Terra dove scorre latte e miele. Il Cielo. Tra le pieghe della festa di oggi, dietro la santità si scorge la storia di un Popolo. Ad ogni beatitudine si odono le eco dei passi degli umili, dei piccoli, di un resto. I riscattati che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti e le hanno rese candide nel sangue dell'Agnello.

E' Lui che, vittorioso sul peccato e sulla morte, precede i suoi nella Galilea che è il mondo in attesa del Regno. E' Lui il Santo che ci fa santi. Oggi siamo tutti dinanzi alla Terra, come Giosuè. Le parole del Signore ci invitano a non aver paura, ad essere coraggiosi e forti, a non scoraggiarci dinanzi alle difficoltà, ai popoli che abitano la nostra eredità.

A non aver paura di noi stessi, dei nostri peccati, dei nostri limiti, delle nostre debolezze, dei nostri difetti. Sono tanti e numerosi come i Popoli che abitavano la Terra che si dischiudeva dinanzi agli occhi di Giosuè. "Forza e coraggio" gli ripeteva il Signore sull'erta di quel monte, "perché il Signore è con te ovunque tu vada". Forza e coraggio sono l'altra metà della povertà. 

Come Giacobbe dinanzi al guado dello Jabbok, solo e in trappola, e quel fiume oscuro che lo aspettava, come un presagio di morte. Giacobbe era un peccatore, ha mormorato e giudicato, ha ingannato e rubato, ma portava sigillata nel fuoco la sua primogenitura; ha lottato con Dio, non ci stava a «perdere la vita». Poi un colpo secco all’anca e non era più quello di prima. Umiliandolo a zoppicare Dio ne aveva fatto un santo. Ora Giacobbe conosceva la propria debolezza benedetta con un nome nuovo, «Israele», che significa «Forte con Dio». Ecco dunque un santo, il più debole con il Più forte

Tu ed io che trasciniamo i piedi, incapaci di tutto ma aggrappati alla sua misericordia. Lo abbiamo visto anche un istante fa, quando per nulla abbiamo sbranato il fratello, per poi chiedergli balbettanti perdono. Ma solo chi ha conosciuto davvero, come Giacobbe, la propria debolezza, può abbandonarsi con una sconfinata fiducia in Colui che lo chiama.

E' la fede che coniuga nei santi la forza e il coraggio. Essi vivono aggrappati a Colui che ha legato il demonio, ha sconfitto uno ad uno i Popoli che usurpavano l'eredità, e con Lui entrano a prenderne possesso. Un Popolo santo, separato, consacrato in Colui che lo ha amato di un amore unico, gratuito, infinito. 

Il Signore ci annuncia oggi la beatitudine di chi abita, felice, nella sua Terra. Che ci è data, come primizia, nella Chiesa, il mistero d'amore e comunione che supera ogni nostro limite carnale. Anche oggi, come ad ogni mattino che si apre dinanzi a noi, ci troviamo sul monte con il Signore. E su quel monte ammantato dalla rugiada d'ogni alba della nostra vita, Lui ci chiama ad entrare nella Sua eredità. Ogni aurora che ci accoglie ci dona il Suo Spirito Santo che ci fa figli, coeredi di un Destino meraviglioso.

Lo Spirito di fortezza perché non cediamo al timore dinanzi alla Croce che ci attende. Ecco la nostra vita santa che ci fa santi. Ogni evento in cui ci imbattiamo, ogni persona che incontriamo è la Terra preparata per noi, la nostra eredità. Nostra moglie oggi, così come si sveglierà; nostro marito è la terra che ci farà sante quando tornerà nervoso e intrattabile dal lavoro; nostro figlio che si è appena messo un orecchino; nostra figlia che ha sbattuto la porta e se ne è andata in discoteca; nostra suocera che non ce ne fa passare una, con quel sorrisetto ironico che dice tutto; il collega che ci ha infilzato calunniandoci con il capo reparto. E il cancro che ci ha visitato, la cassa integrazione, lo sfratto.

Ogni fatto della nostra vita ci fa santi, perché in ciascuna ora che segna le nostre esistenze Lui ci precede, combatte per noi come già ha fatto innumerevoli volte nel passato; anche quando eravamo schiavi del peccato in Egitto dove ci ha salvati, redenti, amati d'un amore eterno. Lui ci precede nella camera operatoria e nel dialogo serrato con i figli; allora, perché temiamo di vivere e chiamare gli altri a vivere una vita santa, piena, compiuta nell’amore? Perché ci accontentiamo di galleggiare mentre possiamo essere santi?

La sola possibilità per essere felici, noi e la nostra famiglia, i fratelli, gli amici è lasciare che Dio ci faccia santi, conducendoci nella Terra dove consegnarci per amore, nel compimento della promessa che ci ha chiamati alla vita. Desideri la santità per tuo figlio? O piuttosto un lavoro, la salute e altre cosette così? Non desideri che conosca l’amore che lo perdona e lo trasforma in figlio di Dio, in un santo offerto al mondo?

Chi di noi, oggi, non sta vivendo almeno una delle situazioni descritte dalle “beatitudini”? Ma forse non pensiamo d’essere “beati”. Sfortunati, vittime di un’ingiustizia, ma “beati” perché “piangiamo, abbiamo fame, siamo perseguitati, ci insultano e calunniano”? Per favore, chi pensa che tutto questo sia la felicità è da rinchiudere in un manicomio criminale.

Ma Gesù ci annuncia proprio questo. Non solo, ma ci svela che siamo “noi” questi “beati”. Sei beato e non te ne stai rendendo conto. Guarda bene tuo marito, tua moglie; fissa tuo figlio. Guarda te stesso, ma guardati bene.  E lascia che le parole di Gesù illuminino i volti, e raggiungano le storie di ciascuno, scovando anche nella tua i momenti in cui hai visto Lui operare in te. L’hai sperimentata la beatitudine, ma forse non ci hai fatto caso o il demonio te l’ha cancellata dalla memoria. La stai sperimentando, ma forse ti sembra la cosa più naturale del mondo.

Quando? Ora, che sei ancora sposato, ed è in virtù della sola Grazia di Dio che ha reso “vita” possibile, e anche felice, quello che il mondo, la carne e il demonio dicono essere un assurdo. Hai gustato la beatitudine quando hai perdonato chi ti aveva tolto l’onore. Di certo la tua beatitudine si specchia nel sorriso di tuo figlio, che è la vittoria di Cristo sui tuoi peccati, sull’egoismo, l’avarizia e la concupiscenza.

Ciò significa che la “beatitudine” per la quale siamo nati sgorga dalla gratitudine. Chi oggi non è grato a Dio, sta perdendo la propria felicità, quella che gli spetta. E’ frustrato, vive contro se stesso. Ma la gratitudine non si compra al mercato. E’ il frutto di un lungo cammino di “purificazione” dello sguardo “del cuore”; è la meta di un serio percorso di conversione alla verità per diventare “poveri in spirito”.

E’ il figlio di Dio gestato nel seno della Madre Chiesa, che, illuminato dalla Parola spalmata sui fatti della propria storia, ha sperimentato l’amore di Dio e per questo lo vede in tutto. E per tutto è grato, rende grazie, vive in pienezza l’eucarestia, che non a caso era l’ultimo evento vissuto da un catecumeno la notte di Pasqua, dopo aver ricevuto il battesimo e la cresima.

Era entrato nella terra della gratitudine, immagine del Paradiso. Gustava le delizie dello Shabbat, del riposo che è la contemplazione dell’opera di Dio nella propria vita. Poteva cantare e far festa, “rallegrarsi ed esultare” perché sapeva che proprio la persecuzione certificava la sua appartenenza a Cristo, che stava vivendo la sua morte e la sua resurrezione.

Come non essere grati, ed esplodere in una liturgia di ringraziamento per essere stati “separati” dal mondo per vivere la vita di Cristo! Come non essere felici per essere stati strappati dal peccato e dall’infelicità per gustare il perdono che ricrea! Come non desiderare questa “beatitudine” per chi ci è accanto, per il mondo intero? Come non perdere la vita per annunciarla sino agli estremi confini della terra perché nessun uomo ne resti escluso?

Il Signore ha pensato a te e a me, ai nostri figli per condurci per mano al possesso della nostra eredità, la sua stessa santità. Lui, il Santo, ci ha scelti. Lui nella Chiesa illumina gli occhi della nostra mente per comprendere a quale speranza siamo chiamati, "quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi" . La speranza di esserne partecipi purifica i nostri cuori e le nostre menti e ci fa ogni giorno santi come Lui: poveri con Lui, afflitti con Lui, miti con Lui, affamati e assetati con Lui, puri, operatori di pace, perseguitati con Lui. Piccoli, deboli, pieni di difetti e di contraddizioni. Eppure santi.

Sino al giorno in cui saremo “eletti” a far parte del “Paradiso”. Nel tempo e nello spazio, sulla terra, ci prepariamo a vedere trasformata la chiamata in elezione attraverso il cammino che ci offre la Chiesa. Perché è pur vero che molti sono i chiamati e pochi gli eletti. La santità è una cosa seria, è soprattutto una missione per salvare i peccatori.

Per passare all’altra riva, alla “terra celeste”, abbiamo bisogno di fratelli maggiori che ci confortino, ci mostrino le tracce disseminate sulla strada della santità. Di testimoni della fedeltà di Dio, come lo fu Elisabetta per la Vergine Maria. Per questo celebriamo oggi la santità di tutti coloro che ci hanno preceduto in questo cammino, che hanno gustato le primizie della Terra promessa nelle pieghe dell'esistenza quotidiana. Celebriamo la comunione con i santi, nella quale possiamo, in un certo senso, “approfittare” della loro santità per imparare a viverla nella nostra storia. 

Come accade in una famiglia dove i genitori e i fratelli maggiori mettono a disposizione i loro beni per i fratelli più piccoli, che non possono sostenersi da soli. Così “funziona” anche la comunione nella Chiesa terrestre, nelle nostre comunità concrete: nessuno dice “sua” la Grazia che riceve, ma la mette a disposizione per il bene di tutti. Così siamo uniti ai santi che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato la veste con il sangue dell’Agnello, e vivono nel Cielo. Ci donano le primizie, per darci forza e coraggio nel viaggio e nella battaglia per raggiungerli.

Affrettiamoci dunque ad entrare oggi nella Terra santa che ha allargato i confini sino ad includere anche la città della nostra vita. L’ha conquistata Cristo con la sua Croce e la sua risurrezione! La nostra vita, il nostro corpo, tutto di noi è preparato per divenire il tempio santo per la sua santità. Consegniamoci oggi e ogni giorno a Cristo, così come siamo, perché faccia di noi un’immagine fedele del Santo che ci ha chiamato.




Ricostruire dalle macerie spirituali e materiali L'Ora et labora ci indica un segno potente

                    
    
di Claudio Crescimanno                       31-10-2016
In preghiera davanti alla Basilica di Norcia crollata

Siamo ancora tutti sotto l’impressione delle scene drammatiche che sono apparse in televisione ieri mattina, e non per la prima volta in questo periodo. I servizi televisivi concitati, interviste a sindaci disperati per la sorte dei propri paesi, immagini di gente in fuga e in lacrime e di desolanti macerie. Fa particolarmente impressione il fatto che i crolli più estesi riguardino soprattutto le chiese, e si sa che questo dipende da ragioni architettoniche e da inevitabile carenza di manutenzione, per ovvi motivi visto che, specie nel centro sud, ci sono tante chiese e pochi soldi.
Ma tra le immagini di ieri mattina ce n’è una, mi pare, che, oltre al naturale dolore, non può non provocare anche una profonda riflessione. Mi riferisco ovviamente al pressoché totale crollo della basilica di san Benedetto a Norcia.
Il Vangelo ci insegna lo ‘sguardo della fede’ sulla realtà e sugli eventi; e lo sguardo della fede consiste precisamente in questo: leggere gli eventi sempre in una duplice ottica, come fatto e come segno. Dunque, senza alcuna facile strumentalizzazione che sarebbe indiscutibilmente fuori luogo in simili circostanze, non possiamo però non vedere la forza tragicamente simbolica ed evocativa di questa immagine.
San Benedetto, i suoi monaci, la rete dei monasteri che seguivano la sua regola, sono stati idealmente e fattualmente le fondamenta su cui poco meno di duemila anni fa si è edificata la civiltà europea, l’Europa greco-romano-cristiana: la basilica che porta il suo nome, nella sua città natale, non può non assurgere a simbolo della storia, del valore stesso di questa nostra civiltà, e il suo crollo appare anche troppo facilmente il simbolo, appunto il ‘segno’ in senso evangelico, del progressivo disfacimento di essa.
È l’Europa della cultura classica e dei valori cristiani che va in pezzi, e non da oggi, e neanche da ieri: da almeno cinque secoli si è attuato un processo disgregativo della civiltà europea, e quindi occidentale, che si è attuato attraverso le grandi tappe rivoluzionarie della storia del nostro continente; e la prima tappa di questo processo, la prima ferita devastante e mai più rimarginata inflitta all’unità del vecchio continente, la rivoluzione che è stata poi madre in certo modo di tutte le seguenti, è la rivolta protestante.
Dunque a simbolo si aggiunge altro simbolo: ieri, 30 ottobre, il crollo della basilica di san Benedetto a Norcia, icona del nostro mondo; oggi, 31 ottobre, il mondo protestante dà l’avvio alle ‘celebrazioni’ del cinquecentesimo anniversario della scintilla che ha generato quella rivolta che è stata di fatto l’inizio della fine dell’Europa costruita dai figli di san Benedetto, fondendo insieme la cultura classica e la verità e l’unità cattolica.
Il ‘segno’ è potente e drammatico. Ma nelle immagini televisive di ieri mattina c’è anche un altro segno, un segno che rincuora la speranza e ci indica la strada. Sulla piazza antistante la basilica, rivolti verso la facciata semidistrutta e contornata dalle macerie, un monaco bendettino, alcune suore e un gruppo di persone erano in ginocchio a recitare il rosario, mentre altri monaci e fedeli correvano a prestare aiuto e conforto alla gente smarrita che via via si radunava in piazza: proprio così, con la sapienza e l’energia dell’ora et labora benedettino è nata l’Europa di 1600 anni fa, e allo stesso modo solo in questo modo potrà rinascere l’Europa di domani



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Ogni relazione, precaria nella friabilità degli affetti e instabile sotto la dittatura degli umori, nasce ferita da una mancanza. Nessuno può dare l'amore che il cuore dell'altro desidera. Invece ci ostiniamo a chiedere al prossimo di saziare i nostri vuoti. «Quando invitiamo amici, fratelli e parenti» ad entrare in comunione con noi ai nostri «banchetti», e sembriamo aprirci alle loro necessità, in realtà «offriamo» sofisticati menù a base di compromessi e ipocrisia; pensieri, parole e gesti come lacci che tendiamo perché ci «invitino a loro volta» nell’intimità. Facciamo dipendere la nostra identità dall’esile filo che ci lega al «contraccambio» degli sforzi profusi per contare qualcosa nel cuore degli altri. Non possiamo vivere senza la loro attenzione, l'indifferenza ci polverizza. Ci impegniamo per aiutare gli altri, e sono buone intenzioni, ma contaminate dal nostro io, che non riesce a dimenticarsi nel tu, soprattutto quando è ostinato. E cadiamo nello sconforto figlio delle frustrazioni. Tutto questo ci accade perché abbiamo dimenticato, o forse non abbiamo ancora scoperto, di essere tutti «poveri, storpi, zoppi e ciechi». Abbiamo bisogno di gustare le primizie della «ricompensa» celeste, la vita e l’amore più forti della morte capaci di liberarci dalla paura e dall’esigenza. E ciò è possibile solo nella Chiesa, che ci "invita" con Cristo al banchetto dove ricevere la vita che non muore. In essa sperimentiamo concretamente che il compimento di ogni vita è in Cielo; e che, quindi, è inutile e dannoso sperare di cambiare i rapporti per perfezionarli qui sulla terra, mentre proprio la precarietà ci impedisce di appropriarcene aprendoci alla beatitudine. Lavorare, studiare, cucinare, lavare e stendere, fare qualunque cosa aspettando o esigendo una ricompensa è stolto e frustrante, perché ci schiaccia sulla carne e ci impedisce di sperare il Cielo. «Beato», invece, è colui che «invita» il prossimo accogliendolo proprio quando non ha nulla per «contraccambiare» perché è allora che il Signore si fa presente provvedendo con più generosità. Siamo chiamati ad “invitare” la moglie quando è più povera e più debole; a perdonarla e a donarci a lei quando la carne la rifiuterebbe perché non vi trova nessuna soddisfazione; come ha fatto Gesù con noi, che ci ha "invitato" quando non avevamo che peccati e ribellioni, non certo qualcosa per contraccambiare. Ma in questo misterioso scambio vi è il Regno di Dio: quando si "invita", cioè quando ci si apre e si accoglie e ci si dona a chi non ci considera, ci giudica e forse ci disprezza, incapace di camminare e vedere, sperimentiamo il Cielo sulla terra! Questo amore è il segno che esiste la vita eterna, infinitamente più grande, libera e felice di quella della carne. Ogni rapporto è un cantiere aperto al dono di Dio; l’unico modo per vivere in pienezza il matrimonio, la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento è accogliere insieme al fratello l’«invito» del Signore alla sua mensa della Parola e dei Sacramenti; e qui lasciarsi sfamare ogni istante dai frutti fecondi della sua «risurrezione» per vivere liberi, e amare senza condizioni, l'unica strada alla gioia piena e inesauribile; sino a giungere alla nostra resurrezione, quando saremo "giusti" in virtù della "Giustizia" di Dio, sempre e infinitamente misericordiosa.






Ogni relazione, precaria nella friabilità degli affetti e instabile sotto la dittatura degli umori, nasce ferita da un’assenza. Nessuno può dare l'amore che il cuore dell'altro desidera. Invece ci ostiniamo a chiedere al prossimo di saziare i nostri vuoti. «Quando invitiamo amici, fratelli e parenti» ad entrare in comunione con noi ai nostri «banchetti», e sembriamo aprirci alle loro necessità, in realtà «offriamo» sofisticati menù a base di compromessi e ipocrisia; pensieri, parole e gesti che gettiamo come lacci perché gli altri ci «invitino a loro volta» nell’intimità.

Facciamo dipendere la nostra identità dall’esile filo che ci lega al «contraccambio» degli sforzi profusi per contare qualcosa nel cuore degli altri. Ci impegniamo per aiutare gli altri, e sono buone intenzioni, ma contaminate dal nostro io, che non riesce a dimenticarsi nel tu, soprattutto quando è ostinato. E cadiamo nello sconforto generato delle frustrazioni. Non possiamo vivere senza le attenzioni di chi crediamo di amare ed è importante per noi; l'indifferenza ci polverizza

Un figlio cresciuto senza le attenzioni del padre crescerà mutilato, e farà di tutto per attirarne lo sguardo, peccando in misura direttamente proporzionale al disinteresse paterno. Non ti meravigliare se tuo figlio si droga: ti sta chiedendo di prendersi cura di lui. Anche se ti rifiuta, ti vuol mettere alla prova, spremendo la tua pazienza per vedere se davvero è importante per te. 

Ma attenzione, questo atteggiamento è frutto dell'inganno demoniaco. Anche se un padre fosse tanto egoista da non degnare di una parola e di uno sguardo suo figlio, questi è comunque libero; ferito, ma libero. L'attitudine del padre non fa che portare alla luce la stessa assenza, la medesima indigenza. Vuoto il padre, vuoto il figlio. L'uno e l'altro, ingannati dal demonio, sono senza vita eterna dentro: il padre senza sapere e poter rispondere alla mendicanza del figlio, e questi incapace di resistere all'urto del rifiuto. 

Per non morirne, padre e figlio, come marito e moglie, come due amici o due fidanzati, come ciascuno di noi, mossi dall'orgoglio che impedisce di accettare la propria "povertà", abbiamo cercato di saziarci con le nostre inutili forze; non potendo far nulla da soli, ci siamo allora serviti degli altri con l'inganno e la seduzione, le menzogne e l'ipocrisia. Per nascondere l'indigenza e l'inadeguatezza abbiamo aguzzato l'ingegno malvagio, truccandoci a seconda delle circostanze, scendendo a compromessi che hanno umiliato la nostra dignità. 

Così accade che una ragazza, pur di non perdere il fidanzato al quale si è legata morbosamente, gli consegni il suo corpo; e le sembra di sognare e toccare il cielo, mentre inizia ad essere dilaniata dalla schizofrenia che separa il corpo dall'universo interiore. Unendosi sessualmente, infatti, i due obbligano la carne a esprimere un contenuto interiore che non esiste: si consegnano superficialmente, scambiando il piacere per amore, ma nulla di loro è messo davvero in gioco. Nessun impegno se non quello effimero della passione e dell'innamoramento; nessuna responsabilità, se non quella, effimera, di legarsi reciprocamente sempre più strettamente con i lacci della passione, sino a strangolarsi. Anche questo è "offrire un pranzo invitando gli amici", ovvero "invitare" alla mensa imbandita del proprio corpo chi poi dovrà "contraccambiare". 

Come succede ai genitori quando diluiscono i «no» che dovrebbero saper dire ai figli permettendogli vestiti e orari inaccettabili, discoteche sature di droga e sesso, vacanze promiscue, gadget costosissimi. Per poi tempestarli di «inviti» al dialogo per non perdere il loro affetto e non dover sopportarne la ribellione e il rifiuto.

Così siamo tutti precipitati nelle sabbie mobili di rapporti morbosi, invischiati nella gelosia che asfissia il cuore. Abbiamo perduto la nostra libertà, e l'abbiamo sottratta agli altri. Siamo caduti nella solita trappola del demonio, irretiti nel suo sofisma perverso; la società e la cultura, la scuola e i media, purtroppo anche molta sicumera ecclesiastica, "hanno fatto credere a questa generazione – a tante altre –  che il diavolo fosse un mito, una figura, un’idea, l’idea del male. Ma il diavolo esiste e noi dobbiamo lottare contro di lui" (Papa Francesco). E' lui che, attraverso la stessa menzogna sussurrata ad Eva, si infila tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli della comunità cristiana: "ehi, apri gli occhi, perché devi umiliarti e obbedire? Tu non sei mica nato per essere "povero, storpio, zoppo e cieco"! Tu devi diventare come Dio". 

Ma possiamo guarire da questa "peste" dell'anima? Si, con l'umiltà che sgorga dalla verità che ci annuncia la Chiesa: “Dio ci ama infinitamente così come siamo, poveri, storpi, zoppi e ciechi”. PeccatoriPer questo siamo mendicanti di tutto; abbiamo creduto al demonio che, invece di farci diventare come Dio ci ha fatto diventare come lui, trascinandoci fino alle soglie del suo regno di morte.

Dio ci ha creato “perfetti”, ovvero senza mancare di nulla; ci ha dato una spina dorsale segno della nostra dignità altissima; e gambe per camminare nella sua volontà; e occhi per vedere in essa il suo amore di Padre. Se oggi siamo “poveri, storpi, zoppi e ciechi” è perché abbiamo seppellito l’immagine e la somiglianza di Dio sotto quelle del demonio. Assomigliate a lui, ci ripete Gesù: “voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro” (Gv. 8,44).

Così siamo! E così ci ama Dio! Ma non è facile accettarlo. Chi oggi riconosce di non aver nulla, di non poter mangiare, bere, dormire, se qualcuno non gli dona cibo, bevanda e alloggio? Chi accetta di non potersi muovere e camminare se qualcuno non lo aiuta e sorregge? O che non vede nulla, e se qualcuno non lo prendesse per mano sbatterebbe contro sedie, tavoli, pareti?

Abbiamo bisogno di imparare a conoscerci e accettare chi siamo. Ma solo nella Chiesa è possibile farlo senza impazzire, perché solo in essa, ad ogni gradino disceso sulla scala dell’umiltà possiamo incontrare lo sguardo di misericordia del Padre e le mani crocifisse di Gesù pronte a sostenerci e rialzarci. Questo sta “dicendo Gesù al capo dei farisei che lo aveva invitato”: stai attento, perché sei schiavo e non lo sai. Hai invitato anche me sperando un contraccambio, immaginando qualche vantaggio. Come noi, che ci avviciniamo a Lui, e lo “invitiamo” alla nostra vita come un ospite di riguardo, per carità, ma sperando che ci aggiusti la vita.

Ma non importa. Oggi va bene anche così. Gesù sa che la solitudine ci ha resi opportunisti; e, per amore, coglie qualunque occasione che gli offriamo, anche quelle macchiate con la malizia. Non si è mai tirato indietro, come ci insegna l’attitudine di Papa Francesco, suo vicario in terra. Lui accorre sempre. Non ha schemi, si fa invitare da Zaccheo e da Matteo come dal capo dei farisei. Viene a mangiare alla tavola di tutti e la trasforma, come da Marta e Maria, in un banchetto che profuma di vita eterna. Gesù ha il potere di far nascere una comunità in ogni casa di “poveri, zoppi, storpi e ciechi” nella quale è invitato: ama, si dona e accoglie nella sua misericordia ogni peccatore, diffondendo, come rugiada pasquale, la comunione.

Questo mistero di salvezza si compie ogni giorno nelle nostre comunità. In esse siamo accolti così come siamo, senza moralismi ed esigenze. La Chiesa, che è madre, ci conosce, e sa che non possiamo dare alcun contraccambio per le sue cure amorose. Come si può esigere qualcosa da chi non ha nulla? Come esigere il perdono da chi non ha conosciuto il perdono. Come esigere la castità da chi non è stato accolto nel grembo casto della Chiesa dove rinascere nella verginità? Come sperare impegno e dedizione in parrocchia da chi ha bisogno di essere lavato, imboccato, accompagnato?

La Chiesa lo sa e per questo è la casa della “beatitudine”! Niente a che vedere con l'integralismo del mondo. Nulla di più lontano dal moralismo giustizialista che respiriamo ovunque, tra cortei e trasmissioni televisive, sempre malmostoso e rancoroso, in cerca di responsabili della propria infelicità. La Chiesa, spicchio di Cielo sulla terra, è “beata” perché sin dal suo nascere è stata inviata a cercare e ad “invitare” i peccatori ai crocicchi delle strade, sino agli estremi confini della terra. E’ “beata” perché ha “invitato” noi, quando eravamo tristi e adirati, frustrati e sconsolati, con tanto risentimento e nessuna ragione per dir grazie e ricompensare nessuno. 

La Chiesa è “beata” perché ama nell’amore del suo Sposo, l’unico che si dona davvero. E’ morto non solo per chi non aveva nulla per contraccambiare, ma si è "offerto" sulla Croce come su una mensa imbandita a chi lo stava uccidendo. Per questo il Padre lo ha risuscitato donandogli la “sua gioia”, la beatitudine che sgorga dall’esito stupefacente dell'amore senza più limiti come l’acqua da una sorgente inesauribile.

La comunità cristiana è “beata” anche perché accoglie Cristo in ogni ultimo della terra. Nella passione Egli si è fatto “povero”, spogliato di tutto; “storpio” per le battiture e “zoppo” sotto il peso della Croce; “cieco” per il sangue che colava dalla corona di spine. Si è fatto come ciascuno di noi per renderci come Lui

E ciò si realizza nel cammino di fede che compiamo nelle nostre comunità, dove impariamo l’umiltà che ci apre alla Grazia. Essa trasforma un egoista in un pezzo di pane offerto gratuitamente agli affamati d’amore. L'amore gratuito, infatti, si veste della libertà che nasce dalla consapevolezza dettata dall'esperienza della propria realtà amata e trasformata da Dio.

Questo amore è la primizia della “ricompensa” celeste. Se non la gustiamo non potremo fare nulla gratuitamente. Ma se ci saziamo al banchetto eucaristico e alla mensa della Parola di Dio che la Chiesa ci "offre"; se, come la peccatrice prostrata ai piedi di Gesù proprio a casa di un fariseo, vi sperimentiamo il potere di Cristo di farci ricchi con la sua vita che non si esaurisce, di sanarci e farci camminare sulle sue orme, si aprirci gli occhi sul suo amore disseminato nella nostra storia, allora nascerà in noi la fede, la certezza che il compimento della nostra vita è in Cielo.

Fondati su di essa, vivremo considerando inutile e dannoso sperare di cambiare i rapporti per perfezionarli qui sulla terra, mentre proprio la precarietà ci impedisce di appropriarcene. Lavorare, studiare, cucinare, lavare e stendere, fare qualunque cosa aspettando o esigendo una ricompensa è stolto e frustrante, come di chi volesse "trarre uva dalle spine".

«Beato», invece, è colui che «invita» il prossimo accogliendolo come è stato accolto lui da Cristo e dalla sua Chiesa. “Beati” siamo noi quando la Grazia ci concede di “invitare” alla mensa della nostra vita chi non ha nulla per «contraccambiare» per "offrire" gratuitamente il nostro tempo, l'attenzione, il rispetto, la pazienza, la tenerezza, il perdono, l'amore in tutto noi stessi; è proprio allora che il Signore si fa presente provvedendo con più generosità. 

Siamo chiamati ad “invitare” la moglie quando è più povera e più debole; a perdonarla e a donarci a lei quando la carne la rifiuterebbe perché non vi trova nessuna soddisfazione; questo sarà possibile solo se in noi è viva la memoria di Gesù che ci ha "invitato" quando non avevamo che peccati e ribellioni. Saremo “beati” quando Lui amerà in noi e ci donerà il suo sguardo di misericordia su chi ci è accanto.

Capite? E’ “beato” un fidanzamento nel quale i due ragazzi non sperano nulla l’uno dall’altro, nella consapevolezza d’essere entrambi infinitamente poveri. Certo, è una relazione che dista anni luce da quelle che scorrono, vellutate, sugli spot e nelle clip di youtube, raccontate da romanzi e film, cantate da musica e poesia. Anni luce, appunto, come la distanza che separa la terra dal Cielo. Ma Cristo è morto ed è risorto per deporre sulla terra l'amore celeste, nel quale vivere, liberi, ogni rapporto. Per questo è “beato” quel fidanzamento nel quale i due sapranno sperare insieme la stessa “ricompensa” da Cristo, l’amore celeste più forte del peccato e della morte nel quale si sposeranno consegnandosi per sempre l’uno all’altra.

Perché ogni relazione si compie solo nel banchetto preparato da Gesù. Il fariseo, come anche noi, pensava di essere stato lui ad “invitare” Gesù. Non sospettava che, al contrario, facendosi ospite, era Gesù ad invitare lui al banchetto nel quale era pronto ad offrire se stesso come cibo di vita eterna. E così accade in ogni relazione aperta all'opera di Gesù Cristo: il matrimonio, ad esempio, non siamo noi a prepararlo e a invitare il coniuge; è Cristo che ha preparato tutto perché, nel sacramento, si doni agli sposi per colmare la loro debolezza con il suo amore.

Chi "invita", colui che si apre, accoglie e si dona a chi non lo considera, lo giudica e forse lo disprezza, è “beato” perché in questa gratuità sperimenta il Cielo sulla terra! Esattamente come il ladrone pentito crocifisso accanto al Signore è entrato con Lui nel Paradiso. Questo amore è il segno che esiste la vita eterna, infinitamente più grande, libera e felice di quella della carne: una vita che non è vincolata alla “ricompensa” è una vita piena in sé, e per questo libera, che è una delle traduzioni della vita “beata”.

Ogni rapporto è un cantiere aperto al dono di Dio; l’unico modo per vivere in pienezza il matrimonio, la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento è accogliere insieme all’altro l’«invito» del Signore alla sua mensa dove lasciarsi sfamare ogni istante dai frutti fecondi della sua «risurrezione». Solo in essa potremo amare realmente, senza aspettarci alcuna ricompensa. Perché la gioia vera sta nel donarsi, non nel farsi amare. Qui è nascosto il segreto di un matrimonio fedele e indissolubile, di un'amicizia sincera, di una relazione autentica e libera. Partecipare ogni istante, insieme, alla "resurrezione" di Gesù; "giustificati" per fare "giustizia" al fratello, che non è assecondarlo nelle sue insoddisfazioni e frustrazioni ma amarlo così com'è, perché si senta importante per Dio. Coraggio allora, usciamo ogni giorno con Cristo dal sepolcro dell'egoismo, pregando, ascoltando la sua Parola e nutrendoci ai sacramenti, sino a giungere alla nostra resurrezione, quando saremo "giusti" in virtù della "Giustizia" di Dio, sempre e infinitamente misericordiosa. 

domenica 30 ottobre 2016


PER RIDARCI LA DIGNITA' GESU' RICONOSCE E RISUSCITA IL FIGLIO DI DIO CHE È NASCOSTO IN 
NOI INGANNATO E SCHIAVO DEL PECCATO


Per Zaccheo l’”Arci-pubblicano”, arci-peccatore, “ricco” e “perduto”, quello fu un giorno speciale. Aveva sentito il suono dello Shofar, la tromba del gran Giorno del Giudizio che inaugurava i dieci giorni del pentimento, nei quali ogni ebreo era chiamato ad andare a casa di chi aveva offeso per riconciliarsi con lui, preparandosi così a Yom Kippur, il Giorno dell’espiazione. Ed era inquieto, come sempre in quei giorni; aveva “frodato e rubato” tanto a molti suoi fratelli tradendoli con gli invasori romani; lo disprezzavano e sfuggivano, ma proprio non riusciva a liberarsi da quella vita.

Quel giorno però, Gerico gli appariva strana, piena di euforia e gioia, nonostante ancora non fossero spuntate le prime stelle che chiudevano il Giorno dell’Espiazione. Non riusciva a collegare la guarigione del cieco sulla porta della sua città, e quel frastuono con quei giorni che avrebbero dovuto essere austeri di lacrime e pentimento; non poteva riconoscere in Gesù il nuovo Giosuè che, proprio al suono dello Shofar, era entrato in Gerico abbattendo le mura dell’egoismo e dell’orgoglio che impedivano anche a lui d’essere felice, votando allo sterminio tutti i peccati.

E così Zaccheo si era messo a “correre avanti” per “vedere quale fosse” quel Rabbì così speciale, mosso dalla curiosità e da una segreta e ancora acerba speranza, perché sentiva che “doveva passare di là”, nella sua vita. Lo aveva visto “attraversare” la città, ma non poteva sospettare che, così, Gesù compiva quanto prescritto dalla Torah, e che stava cercando proprio lui, per riconciliarlo con Dio e con i suoi fratelli. Non era Zaccheo che avrebbe dovuto chiedere perdono? E invece era il Figlio di Dio che si stava facendo peccato per renderlo “puro”, come il suo nome significava.

Allo stesso modo oggi Gesù cerca ciascuno di noi, schiavi dei nostri peccati, incapaci di perdonare e di chiedere perdono, ma con un desiderio insopprimibile di “vederlo”, chissà che non succeda anche a noi come a quel fratello che si è appena riconciliato con sua moglie.

Ma, come Zaccheo, cerchiamo Gesù ancora con occhi troppo umani; lo crediamo simile a noi, e pensiamo che per incontrarlo dovremmo fare come siamo abituati con gli altri: “salire” sul “sicomoro” per essere diversi dalla “folla”, cambiare in qualche modo la nostra realtà, che ci sembra inadeguata e di inciampo. Ma Gesù ci stupisce con il suo amore che fa proprio del sicomoro così meschino e ridicolo sul quale ci issiamo, il “katalyma”, come la grotta di Betlemme e il Calvario, – nei cui brani è usato lo stesso termine – il “seno” benedetto dove si rinasce a vita nuova.

Gesù, che conosce il nostro nome come quello di Zaccheo, ci guarda e ci dice: “Puro, scendi subito, che devo fermarmi a casa tua”. Non importa se puri non siamo, i suoi occhi intrisi di misericordia ci vedono già così, “anche noi figli di Abramo”, nonostante tutto; per questo “deve” venire, e “fermarsi” a casa nostra per “purificarci” riconciliandoci con Dio e con i fratelli.

E non c’è tempo di mettere ordine, di spazzare, di prepararci all’incontro, perché Lui ci anticipa sempre. Solo la sua Parola può compiere il Giorno del Perdono: “scendi”, convertiti, torna in te, scendi i gradini del cammino che ti conduce al battesimo; “non temere, io ti amo così come sei”. Gesù anche oggi è in ginocchio davanti a ciascuno di noi per lavarci ogni peccato; ci guarda dal basso, “alza lo sguardo” e, se ci chiama a “scendere”, è perché Lui è già lì, dove abbiamo “derubato e frodato”. E’ già accanto a nostro marito che abbiamo giudicato, possiamo chiedergli perdono. E’ già dove si trova nostro cugino che ci ha calunniato, possiamo perdonarlo.

Per amarci il Signore non pone condizioni: la conversione è il frutto del suo amore, perché “l’agire segue sempre l’essere”, e l’essere deve essere prima rinnovato. “E il Signore vide proprio Zaccheo. Fu visto e vide; ma se non fosse stato veduto, non avrebbe visto… Siamo stati veduti perché potessimo vedere; siamo stati amati affinché potessimo amare” (S. Agostino, Discorso 174).

Zaccheo, nevrotico e sempre in lotta con se stesso e con i suoi complessi, si è specchiato in Cristo e ha trovato in Lui la pace, la statura ideale per la sua vita: è tornato ad essere il “figlio di Abramo” che s’era “perduto” a causa del peccato. Zaccheo, “cercato” e “salvato” senza condizioni, vede il suo cuore ormai trasformato gratuitamente in una sorgente d’amore, nonostante le “mormorazioni” e lo “scandalo” che sempre provoca una conversione impensata. Liberato da se stesso si dona senza misura ai fratelli, “poveri” come lui.

Accogliendo “oggi” Cristo che si auto-invita nella nostra casa attraverso la Chiesa che ci ammaestra con la Parola e i sacramenti, possiamo vivere in pienezza ogni giorno come Yom Kippur. Era “necessario e conveniente”, come recita il greco originale, che Cristo si “fermasse” nella casa di Zaccheo, come “oggi” nella nostra vita; era “conveniente” per chi ci è accanto, ai quali poter finalmente restituire “quattro volte tanto” quanto abbiamo sottratto ingiustamente; era “conveniente” per il mondo al quale ogni Zaccheo risuscitato può annunciare l’amore di cui aveva diritto, moltiplicato dalla misericordia di Dio.

sabato 29 ottobre 2016




αποφθεγμα Apoftegma

La Risurrezione si è chinata,
perché coloro che giacciono si levino dalle tombe.
La Bontà si è abbassata, per elevare i peccatori fino al perdono.
Dio è venuto all'uomo, perché l'uomo giunga a Dio.
Il buon Pastore ha chinato le spalle
per riportare la pecora smarrita all'ovile di salvezza.

S. Pietro Crisologo, Discorsi, Sermo 30





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L'ANNUNCIO
Dal Vangelo secondo Luca 14,1.7-11

Un sabato Gesù era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare, e la gente stava ad osservarlo. Gesù, vedendo come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.