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giovedì 30 aprile 2020

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ATTIRATI DA UN PIACERE PIU' GRANDE
Nella nostra vita, ieri ad esempio, abbiamo davvero "udito" la voce del Padre? Abbiamo percepito, nel fondo del nostro intimo, quel moto dello Spirito che ci conduce a Cristo? Il Padre, infatti, ci parla attraverso il suo respiro, lo Spirito Santo che grida in noi "Abbà, Papà!". E' lo Spirito che ci fa uno con Cristo, spingendoci in ogni circostanza verso di Lui. Chi è mosso dallo Spirito di Dio impara da Lui ad appartenere a Cristo, a volere le cose che vuole Lui, a compiere la volontà del Padre. Chi ha "udito il Padre" ha imparato che la Croce non è un supplizio, ma il luogo dove "tutti sono ammaestrati da Dio", il polo magnetico attraverso il quale il Padre "attira" verso Cristo ogni uomo. E' inutile sforzarsi di "andare" verso Gesù, perché solo attraverso la Croce si può essere suoi discepoli. Ciò significa concretamente che occorre lasciarsi "attirare" da Dio negli eventi e nelle relazioni che ci crocifiggono, come l'ape dal miele. E' naturalmente impossibile, perché tutti rifiutiamo la sofferenza e cerchiamo di evitarla; per questo è necessario convertirsi e lasciarsi inondare dallo Spirito Santo che ci annuncia le Parole del Padre. Esso ci sostiene, ci consola, ci incoraggia ad entrare nel rapporto difficile dal quale vorremmo scappare, perché lo Spirito Santo dà testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio; e un padre non dà mai cose cattive ai suoi figli. "Ascoltare Dio" e "imparare da Lui" significa sperimentare proprio questo, la tenerezza e la misericordia, la provvidenza e l'eredità magnifica che il Padre ha preparato per noi. Non lo sai? Il Padre ci "attira" a Lui attraverso un piacere più grande di quelli del mondo, con cui ci illudiamo di sfuggire alla sofferenza, o di attutirla. Ci "attira" con un piacere alto, che punta diritto all'eternità, che per l'uomo è impossibile da raggiungere e ottenere, e per questo è donato dal Cielo. Imparare dal Padre significa allora essere attirati dal desiderio di Cristo, e Cristo crocifisso, l'ascensore che unisce terra e Cielo, appunto. Dio, infatti, ci attira nella "logica della Croce, che non e' prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita" (Papa Francesco). Ogni nostro desiderio, anche quello tradotto in concupiscenza della carne con cui rifiutiamo la "logica della Croce" e del sacrificio, esprime il desiderio latente dell'unico piacere che può saziare, quello che non uccide ma dona la vita: "Quello che l’uomo cerca nel piacere è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di raggiungere questo infinito" (Cesare Pavese). Ma il demonio ci inganna sovente, illudendoci con un infinito che è pura alienazione che conduce alla morte, perché l'inferno comincia qui ed e' l'assenza del desiderio autentico.
Scriveva Sant'Agostino: "Se il poeta ha potuto dire [cita Virgilio, Ecl. 2 ]: “Ciascuno e' attratto dal suo piacere”, non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo". Solo Lui ha "visto il Padre" e lo mostra a noi, perché possiamo "credere". Ciò significa che ciascuno di noi è avvolto dall'amore che unisce Padre e Figlio: il Padre ci attira verso il Figlio, mentre il Figlio ci rivela il volto misericordioso del Padre. Lasciamoci oggi "ammaestrare da Dio" attraverso la storia; anche le sofferenze, le delusioni, i fallimenti, gli stessi peccati ci ammaestrano e ci fanno umili sino a consegnarci tra le braccia del Padre, crocifisse e accoglienti in quelle del suo Figlio: "L’amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio" (Benedetto XVI, Deus caritas est). E ciò accade nella storia dove è deposta la nostra carne, e giunge a noi attraverso la Chiesa, la Parola e i sacramenti, dove spira fecondo lo Spirito Santo. In esso possiamo vivere ogni desiderio e ogni piacere come un dono celeste, perché nulla e' contro l'uomo quando è vissuto in Cristo. E' Lui il piacere compiuto, e per questo si è fatto carne da mangiare, per saziare la fame di bello, santo e buono che sentiamo, anche se sepolta dal brutto, dal peccato e dal male. In Cristo la carne è redenta, e la sessualità risplende di una luce meravigliosa; attirati dall'amore del Padre e consegnati a Cristo, possiamo sperimentare la bellezza, la pace e la sazietà della nostra carne trasfigurata, fatta essa stessa pane consegnato per la vita di chi ci e' accanto. Ogni relazione, lavoro, studio, svago, é il dono del Pane della vita, il mistero di un amore che non esige e non si appropria di nulla, vissuto come in una liturgia celeste celebrata nella carne. Non a caso sul talamo nuziale veniva posto lo stesso baldacchino che sormontava gli altari, immagine della Shekinà divina, la presenza di Dio che dal Cielo discende sulle specie eucaristiche come sugli sposi; il letto coniugale infatti e' un altare dove si consuma lo stesso mistero di vita che si compie sulla mensa eucaristica: il pane di vita che discende dal cielo e dona la vita. Ma vi è un baldacchino invisibile sopra ogni ufficio, su ogni aula scolastica, su ogni cinema e ristorante, su ogni campo sportivo e su ogni bosco, sulla tua stanza e sulla tua lavatrice. Ovunque e in ogni istante, perché in tutto Dio desta in noi il desiderio del suo Figlio, di "mangiare il pane vivo disceso dal Cielo". E' pane vivo tua moglie, tuo marito, tuo figlio, anche il nemico; non sono la morte, questa è una menzogna del demonio! E' pane vivo ogni difficoltà, la croce che ci attende, perché è Cristo vivo nella volontà di Dio fatta carne. Solo "mangiandone avremo la vita eterna", saremo felici e realizzati. Uniti a Lui "vivremo eternamente", iniziando già da oggi, da ora. Con Cristo quello che stai facendo, pensando, le parole che stai dicendo sono già parte dell'eternità, e recano in sé il gusto dell'infinito, non possono svanire e corrompersi. Perché in Cristo ogni istante e ogni relazione diviene "pane che scende dal Cielo", proprio nella sua carne unita alla nostra. Mamma mia! Questa carne che abbiamo obbligato a peccare può divenire lo scrigno da dove tirar fuori e donare i tesori del Cielo "al mondo"! Così come ha fatto Cristo sulla Croce, quando ha offerto "la sua carne come pane per la vita" di ciascuno di noi. Che meraviglia fratelli essere "attirati" dal Padre per vivere in Cristo! Com'è che si dice oggi? "Non ha prezzo"...

mercoledì 29 aprile 2020

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ACCOLTI E AMATI SULLA RIVA DI OGNI NAUFRAGIO
Per chi cerca il Signore nessun respingimento sulle coste della Patria Celeste. Nessuno è scacciato fuori, ma tutti sono accolti con misericordia infinita. Noi, naufraghi della vita, strappati ai marosi che imperversano e ci sovrastano, da un "segno" incarnato in un testimone o annunciato da un apostolo, o forse per mezzo di una malattia, un dolore o un fallimento; e approdiamo in fin di vita sulle rive d'un Regno che abbiamo perduto, come clandestini che sfuggono a un regime tirannico, feriti, malconci, mentre un briciolo di speranza ci mantiene in vita. E il Signore è lì sulla riva della Vita, come quel giorno sulle sponde di Tiberiade, anche noi come gli Apostoli con un nulla tra le mani, i fallimenti di un'esistenza, che ci aspettava da sempre per un incontro capace di cambiare le sorti di ciascuno. Diceva Benedetto XVI: "Pen­so che il motivo del naufragio (di San Paolo) parli per noi. Dal naufragio, per Malta è nata la fortuna di avere la fede. Così anche noi possiamo pensare che i naufragi della vita possono fare il progetto di Dio e possono essere utili per nuovi inizi nella nostra vita". E ancora nel suo libro Gesù di Nazaret scriveva: "Senza un morire, senza il naufragio di ciò che è solo nostro, non c’è comunione con Dio, non c’è redenzione". Lo sguardo di Gesù vede nel naufragio e riconosce, sempre, la volontà del Padre. Come è stato per la sua stessa vita, che sembrava perduta tra una Croce e una tomba, e invece era incamminata verso la vittoria e la risurrezione. Gesù ci vede da lontano, e con il suo sguardo è già presente in ogni evento della nostra vita. I suoi occhi scrutano il nostro arrancare tra le onde, non ci perde di vista un secondo, eppure lascia che le esperienze di sofferenza e fallimento quasi ci sommergano, rispettoso della libertà che ci fa uomini veri, come con l'amico Lazzaro prigioniero di una malattia che lo avrebbe condotto alla tomba, come con i discepoli sospinti nel mare in tempesta. Quante volte la vita che ci è data come una missione è stravolta dalle nostre menti, dai cuori e dalle mani che ne fanno un progetto idolatrico a cui prostrarci, costi quel che costi. Il Signore è lì, sull'uscio dei nostri giorni, fremendo di zelo e d'amore, ma non tocca nulla; ci segue con trepidazione perché la barca non affondi, ma lascia che le correnti mondane e carnali la gonfino sino a farla naufragare. Lui sa che il vento dello Spirito, il soffio del Padre, è più forte d'ogni folata demoniaca. Lui sa che la Volontà di Dio ci sospinge comunque, misteriosamente, anche attraverso il naufragio, sulle rive della Verità.
Ed è su quella battigia dove oggi ci troviamo, questo matrimonio che sembra andare in frantumi, il lavoro che ci soffoca o che abbiamo perduto, l'amore che ci ha lasciati, l'altro con cui non riusciamo a comunicare, la vecchiaia o la malattia, la precarietà economica o questo carattere che non riusciamo a domare, qui ora su questa sponda, con le onde che ancora ci inseguono, i polmoni strozzati e le forze spente, in questo confine tra morte e vita, che la libertà nostra si fa piena. Andare a Lui o lasciarci risucchiare dal mare. Gesù è lì a un passo, il Padre ha smosso il mare della nostra storia proprio per condurci a Lui, come un dono per il suo Figlio, il più prezioso. Basta "guardarlo", dal profondo del cuore, fissarlo, e siamo salvi, e saremo vivi in eterno. "Guardare" Cristo ora, senza timore, abbandonando l'orgoglio che ci ha annichilito. Guardarlo perché con lo sguardo vada a Lui anche la nostra vita, tutta, senza riserve. Lasciare che il Padre ci "doni a Lui", per risuscitare ora nella Volontà di Dio, che è il riscatto e la santificazione d'ogni briciola della nostra storia. Nulla si butta, tutto è trasfigurato, anche il naufragio, anche i peccati. Sì, è questa la notizia che può trasformare oggi la nostra vita, non v'è nulla che impedisca il perdono, nulla eccetto l'orgoglio ostinato. Come potremo buttar via un'occasione del genere, "vedere Cristo" e lasciarci guardare da Lui, e nel suo sguardo incontrare la nostra vita come una sinfonia d'amore? Non v'è altra "volontà in Dio" che quella per cui "nessuno si perda". Può essere diversa la nostra volontà? "Il Figlio è disceso dal Cielo" per lasciarsi inchiodare a una Croce e distruggere così l'opera di menzogna del demonio. "Vedere il Figlio" è proprio discernere questa volontà, sempre e in chiunque. E "credere" significa appoggiarsi in essa sperimentando che è vero, che anche il peccato di tuo figlio è stato perdonato perché Cristo ha dato la sua vita per lui, anche se ancora non ne è uscito; deve "vedere" Cristo in te, nella Chiesa, pieno di misericordia e radicato nella certezza che anche lui può cambiare, che "nessuno è perduto"; che quel ragazzo schiavo dell'egoismo e della droga, del sesso e del piacere è amato da Cristo, che è destinato a "risuscitare l'ultimo giorno" e che per questo ogni giorno è prezioso, un passo in più, un'occasione in più per "vedere" Colui che lo ama tanto. E lo potrà vedere solo se tu avrai sperimentato che c'è un piano misterioso di Dio che rovescia ogni criterio; se tu credi che, compiendo la volontà del Padre, Gesù ha dilatato proprio questa ben al di là del perimetro che i nostri occhi riescono a misurare. Se il tuo "vedere" Cristo si riflette in te, e se la tua fede in Lui si fa carne nella tua vita. Ma quanta stoltezza di fronte alle situazioni che cerchiamo di ammaestrare: la debolezza con i figli, ai quali siamo incapaci di dire no, di sederci accanto a loro per ascoltarne le ragioni sollecitandone l'intelligenza perché aprano gli occhi e "vedano" la Verità; il timore di perdere il loro affetto ci fa pavidi e nascondiamo loro il volto di Cristo, l'unico di fronte al quale un giovane può davvero esercitare la propria libertà. Ci perdiamo in moralismi astratti e soffocanti o compromessi lascivi che consegnano i ragazzi a sofferenze certe.
La loro felicità, come quella di tutti, si gioca dinanzi al volto di Cristo: contemplare il suo sguardo e vedervi riflessa la nostra storia trasfigurata, perdonata, redenta. E "credere", che significa lasciarsi amare, guardare senza timore nel profondo del suo sguardo per sperimentare il suo perdono. Per questo siamo chiamati a mettere i figli davanti a Cristo, alla Verità che fa liberi, quando vogliono uscire in minigonna, quando esigono una nottata in discoteca, quando reclamano la vacanza con il fidanzato. Metterli davanti a Cristo, alla sua bellezza, al suo amore a cui non si può resistere, senza paura, senza compromessi. Quante volte ci siamo prostrati dinanzi a Lui per accompagnare i nostri figli di fronte allo stesso sguardo? Sottrarre Cristo ai loro occhi è il peccato più grave. Condurli a Lui con il cuore innamorato, colmo del suo amore, sapendo che è il Padre a "consegnare" noi e ogni uomo al suo Figlio, "perché nessuno vada perduto". Poi appare la libertà autentica, anche quella di fare naufragio, ma con fissa nella memoria del cuore l'immagine indimenticabile del suo volto. Gesù, infatti, ha dato la sua vita per "risuscitarci l'ultimo giorno", e questo significa che questi giorni che viviamo sono il tempo nel quale "vederlo e credere" in Lui, per ricevere "la vita eterna". E chi ha questa vita anche se muore vivrà: "Dio non rifiuta nessuno. E la Chiesa non rifiuta nessuno" (Benedetto XVI). La Chiesa è per questo inviata a mostrare Gesù; in essa Lui attende ogni uomo come Giuseppe attese i suoi fratelli. Da loro venduto era sceso in Egitto, fino al buio della prigione, per risalirne ricolmo di onori e potere. Nessun rimprovero, nessun respingimento per i fratelli che lo avevano respinto. Anzi, con lo sguardo pieno della sapienza che discerneva in tutto la volontà di Dio che lo aveva condotto in Egitto proprio per sfamare i suoi fratelli, era lì a farsi vedere e riconoscere da loro per salvarli. Così anche noi, perdonati da Gesù, ci avviciniamo al prossimo senza respingerlo, per far vedere l'amore che ci ha salvato, e così anche lui può credere e accogliere la stessa vita. E' questo il cammino che ci attende con Cristo, per andare incontro alla risurrezione, e offrirla al mondo.

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SANTA CATERINA. PICCOLI PER IL GIOGO DI CRISTO
E' tutto troppo più grande di noi. Non sappiamo. Non conosciamo. Non capiamo. Accettiamolo. Tu ed io, oggi, come Santa Caterina da Siena, siamo "quelli ai quali" il Padre "vuole rivelare suo Figlio". Perché? Perché siamo “piccoli”, nonostante ci atteggiamo a grandi. Non a caso, sono proprio i bambini che imitano gli adulti. Così anche noi, adulti per l'anagrafe, ma con un inguaribile cuore di bambini, ci trucchiamo, mascheriamo, cercando di sollevarci una spanna sugli altri, per apparire quello che non siamo, maturi, saggi, affidabili. Ma se gli eventi ci svelano che siamo così, non stupiamoci, e accettiamo d'essere “piccoli”, senza giudicarci e disprezzarci, perché quando la storia ci smaschera è una "benedizione".
Benedetti i giorni così come "piacciono" a Dio, perfetti per la nostra conversione alla santità. Benedetti coloro che non ci lasciano navigare tranquilli a cento metri d'altezza; benedetta nostra moglie quando ci dice la verità e ci scopre a cercare consolazioni effimere di carne malsana davanti al computer; benedetto nostro marito quando ci svela intrappolate nella vanità; benedetti i genitori che sanno rimproverare e richiamare alle responsabilità e all'obbedienza i propri figli; benedetti i mal di denti che ridimensionano i muscoli cesellati in palestra; benedetto il capoufficio che non ci fa sentire unici e indispensabili; benedetta la fidanzata che ci richiama al rispetto.
Benedetta la storia quando ci umilia, perché ci rende capaci di ascoltare le confidenze del Signore con le quali ci rivela i misteri del Regno. Dove c'è già qualcosa di "grande", ovvero la "sapienza" e l'"intelligenza" della carne, non c'è spazio per la "grandezza" delle "cose" di Dio e di Gesù. La Trinità si ferma dinanzi alla superbia, si "nasconde", tace e occulta i suoi segreti. Solo chi accetta di essere “piccolo”, “infante” ovvero senza parole né forze di fronte alla grandezza della Legge e delle sue esigenze che ci superano, può lasciarsi attirare dalla Croce di Gesù, l’unico luogo dove abbandonarsi per “trovare riposo” autentico.
Su di essa, infatti, “impariamo” ad essere “miti e umili di cuore” come Gesù. Mite è colui che è stato domato, che cioè ha "imparato" ad obbedire. Etimologicamente la mansuetudine, la mitezza è caratteristica dell'animale ammansito perché sia docile nel sottoporsi al “giogo”. Coraggio fratelli, perché Gesù sa che siamo “piccoli” proprio per “imparare da Lui”, attraverso il suo "giogo soave". Solo Lui può domare l'animale selvatico che è in noi perché non ci impone nulla, non insegna dall'alto della sicumera, ma si è fatto mettere il “giogo” della Croce per accoglierci e camminare con noi sulla via della conversione. Il suo “giogo” non ci fa sbandare, non ci strattona, non ci fa cadere. E' "dolce" perché è perfetto per ciascuno di noi: innanzitutto perché è fatto con il Legno impregnato del sangue di Cristo. E che cosa c'è di più “dolce” dell'amore distillato in quel sangue colato per cancellare ogni nostro peccato e riportarci tra le braccia del Padre, mansueti come agnellini?
Inoltre, il suo "carico è leggero" perché lo ha portato Lui per primo, e non smette di portarlo. Gesù, infatti, è sceso, e scende anche oggi, esattamente dove siamo, spogliandosi di tutto pur di farsi come noi, eccetto il peccato. Come noi in questo momento, capite? Come sei ora, come stai? Ebbene Lui si è già fatto come te, per starti accanto, senza scandalizzarsi per come ti sei ridotto. Per questo, la Croce con la quale ci ammaestra ha le nostre misure di oggi: è adatta alla nostra “piccolezza”, cioè a tutte le manifestazioni del nostro orgoglio, alle parole, ai progetti, agli schemi, agli atteggiamenti, per potare tutto dolcemente nel suo amore. Se Lui è accanto a noi portando il “giogo” con noi, significa che ogni passo che faremo sarà immerso nella misericordia e nell'amore. Proprio la Croce l'unica scuola adatta a noi; ciò che ci sembra assurdo e inaccettabile nella nostra vita è l'unico giogo adeguato a noi. Per questo, l'umiltà e la mitezza si "ascoltano" nella storia attraverso la quale il Signore ci parla e dove scende per raggiungerci; e si accolgono, come Parole di Dio che hanno il potere di realizzarsi. “Rimanete nel mio amore prendendo il mio giogo sopra di voi”, ecco cosa significa “imparare” da Gesù. Solo così potremo trovare "ristoro", la pace che il mondo non conosce perché, come spesso facciamo anche noi, la cerca nelle creature.
Mentre nella Chiesa stiamo “imparando” che l'unico ristoro autentico è l'amore di Cristo, immutabile, che c'è e ci colma a prescindere da ogni attività. Non dobbiamo far altro che imparare sulle sue orme, laddove e come Lui ha “imparato” a obbedire, ovvero dalle cose che patì. Sulla croce di oggi potremo anche noi “imparare” l'obbedienza, unica porta al vero riposo. Diversamente saremo sempre assaliti da scrupoli e dubbi. Chi non obbedisce non è mai certo di fare la cosa giusta, mentre chi è unito a Cristo nel suo “giogo” conoscerà la pace di chi compie la volontà di Dio. Oggi, nella semplicità delle ore che ci accolgono, negli incontri, nelle cose da fare e ripetere mille volte, si compie una liturgia d'amore. Come il Cireneo porteremo la Croce con Cristo. Forse inconsapevoli, ma aggrappati alla sua Croce; mentre crediamo di portarla scopriremo che è proprio essa a portarci alla pace e al riposo: "Ho capito che c'è solo un modo per essere felici: essere agnelli. Prendere su di sé anche il male degli altri, oltre al proprio, non entrare in risonanza con le malignità, porgere mitemente il collo. L'agnello lo fa non perché sia masochista e gli piaccia soffrire, né quando sia represso. Lo fa quando ha un pastore buono che gli vuole bene veramente e si prende cura di lui. Allora niente che succeda può portarci via la contentezza" (Costanza Miriano).
"Tutto” di noi, infatti, “è stato dato a Gesù"; nulla, neanche il momento più buio, è fuori del suo controllo amorevole. E in questa esperienza del potere infinito della sua misericordia che "tutto" copre e "tutto" perdona, “conosceremo il Figlio”, una persona viva, un fratello che non ci giudica mai. Non sono la carne, la volontà umana, gli sforzi a farci "conoscere il Padre": "nessuno se non il Figlio" e ciascuno di noi ai quali, nella Chiesa e per pura Grazia, giorno per giorno, Gesù “ci rivela” la bellezza e la pienezza di una vita da figli liberi, perdonati, sanati, amati. Proprio come aveva sperimentato Santa Caterina da Siena: "Tu sei un fuoco che arde sempre e non si consuma. Sei tu che consumi col tuo calore ogni amor proprio dell'anima. Tu sei fuoco che toglie ogni freddezza, e illumini le menti con la tua luce, con quella luce con cui mi hai fatto conoscere la tua verità. Specchiandomi in questa luce ti conosco come sommo bene, bene sopra ogni bene, bene felice, bene incomprensibile, bene inestimabile. Bellezza sopra ogni bellezza. Sapienza sopra ogni sapienza. Anzi, tu sei la stessa sapienza. Tu cibo degli angeli, che con fuoco d'amore ti sei dato agli uomini. Tu vestimento che ricopre ogni mia nudità. Tu cibo che pasci gli affamati con la tua dolcezza. Tu sei dolce senza alcuna amarezza. O Trinità eterna!"

martedì 28 aprile 2020


αποφθεγμα Apoftegma

Rabban Shimon ben Gamliel diceva: 
Vieni e guarda come sono cari i figli di Israele al Santo Benedetto Egli Sia, 
tanto che ha cambiato per loro l’Opera della Creazione: 
ha fatto diventare per loro 
i superiori inferiori e 
gli inferiori superiori’. 
In passato il pane saliva dalla terra e la rugiada scendeva dal cielo, 
ed ora è sceso il pane dal cielo e la rugiada è salita dalla terra!’ 

Midrash Tanchumà 

MANGIARE LA CARNE DI CRISTO DONANDOSI ALLA CARNE DEL FRATELLO

Dio ci ama, ci dona ogni giorno il suo Figlio come “pane” da mangiare. Ce lo dona “dal Cielo”, e fin qui tutto a posto, rientra nei nostri schemi, anzi sembra rispondere alle nostre aspettative, tali come si sono andate formando in noi durante gli anni. Esattamente come quelle degli interlocutori di Gesù, che avevano maturato un’esperienza inossidabile ancorata nella Pasqua. Sappiamo che quando dicono “i nostri padri” intendono includere anche se stessi, perché per Israele il memoriale è un’autentica attualizzazione dell’esperienza fatta dai padri. Allora, quando dicono “i nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo” è come se affermassero che, nel memoriale celebrato, lo hanno ricevuto anche loro. Più o meno, le parole che rivolgono a Gesù potrebbero essere lette così: “anche noi eravamo nel deserto con i nostri padri, e sappiamo che Mosè ha compiuto il segno della manna dal Cielo. Per questo ci aspettiamo che il Messia faccia di nuovo quel “segno” per certificare che, come è stato con Mosè, così Dio è anche con lui, che cioè è proprio l’inviato di Dio. Non può essere diversamente, la nostra esperienza, la tradizione e la liturgia ci hanno insegnato questo”. E infatti, secondo la tradizione rabbinica il dono della manna era atteso dal Messia: “Come il primo redentore (Mosè) fece scendere la manna… così anche l’ultimo redentore farà ascendere la manna” (Midrash a Qoelet, 1,9). Questo per capire la richiesta che fanno a Gesù e che sembra paradossale: per credergli chiedono un segno proprio dopo che ne aveva fatto uno che richiamava inequivocabilmente quello fatto da Mosè. Andiamo avanti, e cerchiamo di capire: “E’ vero, ci troviamo davanti a un segno evidente, la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ma non ci basta, perché hai moltiplicato qualcosa che già c’era. Mosè, invece, ha fatto scendere dal Cielo “un pane” che non conoscevamo, al punto che l’abbiamo chiamato proprio “manna”, che significa “che cos’è questo”?  Puoi tu ripetere lo stesso “segno” di Mosè perché possiamo crederti? Puoi darci un pane dal Cielo anche tu?”.

Allo stesso modo anche noi, per “poter credere in Gesù”, per appoggiarci completamente a Lui, esigiamo un “segno” che risponda a quello che ci aspettiamo dal Messia. E siccome la nostra esperienza è proprio quella della moltiplicazione dei pani e dei pesci, cioè di essere stati saziati, esauditi in qualche cosa che avevamo chiesto, chiediamo a Gesù di continuare a ripetere quel “segno”. Uno, due o tre, non ci bastano, perché ogni giorno abbiamo fame. Non c’è niente da fare, stentiamo a credere, perché non abbiamo ancora gustato il “cibo incorruttibile” che Gesù vuole donarci. E’ di questo, infatti, che Egli parla rispondendo ai suoi interlocutori. “Attenzione” gli dice, “con autorità vi annuncio la Verità: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero”. Anche la manna era un segno che si corrompeva, ve lo siete dimenticato? Ebbene, per credere al Messia vi accontentate di un cibo che perisce, capace di saziarvi un giorno solo? Per credere e compiere le opere di Dio, cioè opere di vita eterna, volete che un uomo come voi, come lo era stato Mosè, vi mostri lo stesso segno? Ma scusate, quel segno vi ha salvato? No, infatti dirà poi Gesù, quelli che l’hanno mangiato sono comunque morti. Perché anche se l’aveva dato Dio e non un uomo la manna non era il cibo “vero”, “rivelato”, “non più celato” come suggerisce l’originale greco. Come “segno”, la manna nascondeva il significato che Gesù sta rivelando, e cioè che c’è un “pane vero”, come le “vere ricchezze” preparate per gli amministratori saggi, come la “vera luce” che illumina gli uomini. Vi sono infatti delle ricchezze che sono solo segno di quelle vere, alle quali non bisogna attaccarsi ma che si devono usare con sapienza per ottenere quelle vere; così come San Giovanni Battista era sì una luce, ma offerta come un “segno” di quella che sarebbe giunta e per la quale molti si sono rallegrati solo per un breve spazio di tempo, mentre bisognava seguirla per giungere a conoscere la Luce “vera”, ovvero Gesù Cristo il Messia.



Gesù dunque afferma di nuovo che il miracolo che aveva appena compiuto, come la manna, non è il pane “vero” e “incorruttibile”, perché solo su di esso Dio ha messo la sua “sphragis”, il suo sigillo. Anticamente con questo termine “si indicava sia lo strumento con cui si imprimeva un segno, sia l’impronta stessa impressa con questo. Il termine designava i sigilli che servivano ad imprimere un marchio nella cera. Ma più in particolare era il marchio con cui un proprietario segnava gli oggetti di sua appartenenza... La “sphragis” era anche segno di protezione” (J Danielou, Bibbia e Liturgia). Ciò significa che c’è un pane che presenta l’autenticazione di Dio e l’appartenenza a Lui. Un pane che reca l’impronta del Padre, proprio come leggiamo di Gesù nella lettera agli Ebrei: “Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza”. Ecco, questo pane “vero”, ormai svelato, è proprio quel Gesù che parlava con quei giudei, e oggi parla a noi: “il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. Per questo Gesù dice che anche la manna non era stata data da un uomo, ma da Dio: un uomo non avrebbe potuto dare la vita per “non avere più fame”, per quanto Mosè fosse stato l’uomo più mite della terra; per donare questo “pane vero” era necessario l’autore della vita, cioè Dio stesso. Era necessario che Dio si facesse uomo conservando la natura divina, e così farsi “pane della vita” per donarsi a tutti e saziare per sempre la fame di ogni uomo. Era dunque inevitabile che Dio superasse ogni aspettativa del popolo ebreo, anche la loro immagine del Messia che attendevano con ansia infinita. Doveva, infatti, superare il bisogno della carne di saziarsi ogni giorno, guarendo alla radice il cuore dell’uomo. E per farlo c’era un solo modo: “discendere dal Cielo” e farsi pane capace di riempire il cuore dell’uomo, svuotato, a causa dall’inganno del demonio, della vita divina che Dio creandolo gli aveva donato. Ora comprendiamo perché anche oggi il Signore ci inviti ad “andare a Lui” e a “credere in Lui”: per saziare la nostra fame di vita, per dissetare il nostro cuore arido perché sprovvisto dell’amore che ci fa capaci di donarci. Per donarci il “pane vero” che viene direttamente da Dio, quello che ogni “segno” che Egli ha deposto nella nostra vita ci ha annunciato. Coraggio allora, è arrivato il momento di avvicinarci con piena fiducia a Cristo attraverso la Chiesa, e ricevere da Lui il “pane della vita”, per amare finalmente, senza limiti, senza paura, gratuitamente e nella libertà. Chi si nutre di Cristo, chi lo ascolta nella predicazione, chi lo riceve nelle specie eucaristiche, chi si accosta al suo perdono nel sacramento della confessione, chi cammina con il suo Corpo che è la comunità cristiana, può amare senza esigere che Dio si manifesti secondo le proprie aspettative, ma lasciandosi sorprendere da un “pane” sconosciuto. Chi si unisce intimamente a Cristo, infatti, ama entrando nelle sorprese e nell’ignoto che la storia e le persone presentano, senza la pretesa di voler capire e gestire le situazioni obbligandole a essere quello che la propria carne vorrebbe.





E’ fantastico quello che Dio vuole donarci in Cristo: amare in pienezza, scoprendo il suo “sigillo” in ogni istante e in ogni fratello. Amare facendoci interpellare e mettere in gioco da chi e da che cosa ci è dinanzi; l'amore, infatti, è l'unico che ci può far uscire da noi stessi, disposti a perdere qualcosa, o molto, o tutto di noi, perché sia affermato l'altro. Egli, infatti, è come la manna che Dio ha donato al suo popolo e che il Popolo non sapeva che cosa fosse. I rimproveri che oggi tua moglie ti farà, l'atteggiamento urticante di tuo figlio, i gesti e le parole che ti attendono sono come uno strato di rugiada che ogni giorno Dio depone dinanzi a te. Quando essa evapora appare qualcosa che in essa era celato, come la brina sulla terra, e non sai che cosa sia. Chi ama sa porsi le domande, e cerca di "vedere" oltre le apparenze. Chi ama non si muove mai in automatico, si chiede sempre "Cos'è quello?": perché mi parlano così? Perché si comportano in questo modo? Che è come chiedere a Dio di svelare ancora il pane della vita nascosto nella storia. Per questo occorre l'umiltà di chi, nel deserto, ha fame ma non ha nulla da mangiare, e ha imparato che proprio lì si vive solo della Parola che esce dalla bocca di Dio. La manna, quindi, era la pedagogia di Dio che spingeva il popolo a uscire fuori dall'accampamento per imparare a chiedersi che cosa fosse quel cibo; era l'alimento dell'uomo libero, da se stesso e dal faraone, il demonio che obbliga tutti a ripetere gli stessi peccati figli della superbia. La manna guariva la mormorazione come una rugiada di misericordia, l'unica capace di attirare l'uomo nella libertà dell'amore. Per questo il Signore viene anche oggi per destarci alle domande che abbiamo smesso di porci. Il "segno" che cerchiamo con la nostra ragione macchiata dall'inganno del demonio è già dinanzi a noi! E' Cristo risuscitato che "discende dal Cielo" come la rugiada del mattino di Pasqua; è Lui la manna che non conosciamo, il Pane della Vita. Ma non solo, Gesù, il pane "vero" si cela nei fatti e nelle persone della nostra storia, che divengono così il dono che Dio depone sulla soglia del nostro cuore per offrirci la stessa occasione di accogliere la misericordia che fu offerta al popolo. In ogni parola e gesto degli altri vi sono il profumo e il sapore di Cristo, adeguati al gusto di ciascuno, come dice il Libro della Sapienza a proposito della manna. Ogni giorno l'alimento giusto e adatto che ci nutre e ci fa crescere a immagine e somiglianza di Dio. Per questo, insieme ai giudei, siamo chiamati a pregare implorando che il Signore “ci dia sempre questo pane", l'unico che ci sazia perché realizza in noi la volontà d'amore nella quale siamo stati creati. Solo la fede che cresce e si rinnova in un continuo “andare a Cristo” ci fa capaci di accogliere quello che realmente il nostro cuore desidera. "Sempre", perché ogni giorno è diverso, ogni istante la persona che ci è vicino cambia, e occorre uscire da se stessi per amarla ed entrare nella storia; uscire da se stessi per andare a Cristo, "il pane della vita", perché solo "chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete"; chi lo accoglie si nutrirà del suo amore e in Lui amerà, e non avrà più fame dell'affetto dell'altro e sete di prestigio, denaro e potere. Questo è l'Eucaristia, il "cibo dei forti", ovvero dei sapienti che ruminano e studiano la Torah scritta e orale, di coloro che "credono" perché ascoltano la Parola proclamata e predicata, e "vanno" verso di essa che si fa "carne" nella storia e nel prossimo: "Il nostro atto di santità più grande è proprio nella carne del fratello e nella carne di Gesù Cristo. L’atto di santità di oggi, nostro, qui, nell’altare, è non vergognarci della carne di Cristo che viene oggi qui! È il mistero del Corpo e del Sangue di Cristo. È andare a dividere il pane con quelli che non possono darci niente in contraccambio: quello è non vergognarsi della carne!" (Papa Francesco). Siamo chiamati a uscire dall'accampamento, sorgendo dalla tenda dove a Shabbat - il giorno del riposo - ci siamo nutriti della sovrabbondanza. Ecco “il segno” che Gesù aveva mostrato: la moltiplicazione dei pani era quello profetizzato dalla manna che il popolo raccoglieva in razione doppia il giorno di venerdì e che introduce nello shabbat, il giorno dove si sta "seduti" e non si fa nulla, nel quale l'unica opera consentita è la "fede", ovvero accogliere l'amore nel giorno che unisce il Cielo alla terra, nella Pasqua che ci sazia della vita che non muore. E dopo esserci nutriti del "pane della vita" nella comunità, potremo "uscire" anche noi dalla tenda per andare "a Cristo", cioè verso i fratelli, sino al giorno in cui entreremo nella Terra Promessa, nel Cielo, dove cesserà anche la manna, e Gesù sarà tutto in tutti. 

lunedì 27 aprile 2020



Il problema della Chiesa è nella Messa, lo dice perfino Satana



«I sacerdoti dicono Messa troppo di fretta», «i preti non capiscono che durante la Messa è presente» la Madonna. Parole sconvolgenti se pensiamo che a pronunciarle è Satana durante un esorcismo. Lo rivela un esorcista italiano in un video che spopola su Youtube.
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“I sacerdoti, oggi, hanno fretta quando celebrano la Messa”; “Non capiscono che quando dicono Messa, Lei (la Madonna, ndt) è lì attorno all’altare con gli angeli”. Paradossalmente, qui, a parlare della Santa Messa, è Satana, mentre viene esorcizzato. L’efficace racconto di questo esorcismo, che sta circolando su Youtube in una registrazione (in italiano) dell’esorcista Don Ambrogio Villa, è il resoconto di un’omelia. Malgrado sia stato caricato pochi mesi fa, conta già centinaia di migliaia di visualizzazioni e ha reso “Villa” un nome popolare.
Don Ambrogio era il parroco di una piccola cittadina lombarda, fino a quando non ha cominciato a lavorare a tempo pieno come esorcista per la Diocesi di Milano, nel nord Italia, pochi anni fa. È uno dei tanti sacerdoti in tutto il mondo ad aver risposto al crescente bisogno di esorcisti. Secondo dati del 2018, nello solo Italia, dove ha sede il Vaticano, gli esorcismi sono triplicati: ogni anno ne vengono effettuati circa 500.000.  Imbastire una battaglia spirituale contro il demonio non è cosa per i deboli di cuore, spiega Don Ambrogio. Anche se sei in persona Christi, il diavolo ti sottopone a “volgarità, minacce e violenza”. Tuttavia, come sottolinea don Ambrogio nella registrazione, in certi momenti dell’esorcismo, il diavolo è costretto a rivelare un “vero e proprio Catechismo” che, se preso sul serio, può fare la differenza per le vite e per le anime.
Ciò non deve stupire, è accaduto anche con Gesù. Egli è stato il primo esorcista e l’esorcismo è stato parte integrante del Suo ministero pubblico. Gli incontri di Gesù con gli indemoniati, il Suo potere di scacciare i demoni e le loro confessioni in Sua presenza sono riportati in diversi passi dei Vangeli. In Marco, per esempio, essi sono i soli testimoni a riconoscere pubblicamente in Gesù il Messia. E in Marco, 1:24, uno spirito immondo si rivolge a Gesù con queste parole, “Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il Santo di Dio”. I demoni si spaventavano alla presenza di Gesù perché sapevano che Egli aveva il potere di cambiare le loro vite attraverso l’esorcismo.
Gli esorcismi, infatti, solitamente trasformano la vita del possessore e del posseduto, ma Don Ambrogio racconta di come la sua stessa vita sia stata radicalmente trasformata dalle rivelazioni dei demoni. Quello che rende unico questo incontro, è la risposta del diavolo quando è sollecitato a parlare dei prete; evidentemente, lui ha dei conti da regolare: “Voi (sacerdoti) avete fretta quando celebrate la Messa, alzate quel pezzo di pane e subito giù, perché avete fretta, avete cose più importanti”.

Parole sconvolgenti che fanno ammettere a don Ambrogio che valgono per sé come per chiunque altro. La sua prima considerazione, confermando che il diavolo ha toccato un tasto dolente, è stata: “Non sono più capace di dire la Messa come prima”. Sono stati scritti interi volumi riguardo alla liturgia, ma evidentemente, continua a esserci un problema. Anche Benedetto XVI ha affrontato l’argomento della liturgia nel libro “Dal profondo del nostro cuore”. Scrive il papa emerito: “la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, implica uno stato permanente di servizio a Dio”, che “indica l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale”. Ma, secondo il diavolo, questo privilegiato rapporto sacramentale tra il sacerdozio e la Santa Messa sta venendo sempre più sottovalutato.
Secondo Don Ambrogio, non è esagerato dire che “la Messa non è più valorizzata”. Spiega questo punto: “Noi tutti pensiamo che, andando a Messa, doniamo qualcosa a Dio, invece, essa è il sacrificio di Cristo che perdona i nostri peccati”. Sottolinea altresì che “questa particola di pane azzimo  entra nel nostro stomaco e, prima che i succhi gastrici la disgreghino, passano dagli 8 ai 10 minuti… noi siamo il tabernacolo di Gesù… Il nostro Creatore è in noi e prima di noi … e ancora ci dimentichiamo di rendere grazie per questo sacrificio” prima e dopo la Messa.
Ma c’è di più: il diavolo si rivolge ai sacerdoti con un secondo rimprovero. Stavolta svela qualcosa di straordinario: “Voi non capite che, quando dite Messa, Maria Sua Madre e gli angeli sono radunati attorno all’altare”. È proprio vero, non consideriamo nemmeno che “tutto quanto il Cielo è radunato attorno al sacrificio di Cristo“ sull’altare, continua don Ambrogio. Tuttavia, non è la prima volta che viene menzionata la presenza divina sull’altare durante la consacrazione.

Per esempio, l’allora vescovo di Civitavecchia, Girolamo Grillo, ha ufficialmente riconosciuto tutte le apparizioni e i messaggi di Civitavecchia, compresa la descrizione di Fabio Gregori  della prima volta in cui gli apparve Maria. Questa è la testimonianza di Fabio: “Era il 2 luglio 1995. Ero a una Messa pomeridiana. Erano circa le 18.30. Nostra Signora apparve nel momento in cui il parroco stava per consacrare la sacra Ostia. I Suoi piedi erano posati su di una nuvola, esattamente sopra Padre Paulo e le Sue mani aperte indicavano giù. Stette lì in sacra adorazione fino alla comunione. Dal suo comportamento, era chiaro che Suo Figlio Gesù, il Salvatore, è veramente presente e vivo nell’Eucaristia”.
Cercando una risposta al calo delle presenze a messa e dei giovani soprattutto, che dicono “la Messa non mi dà più niente”, don Ambrogio ha trovato la sua risposta. Se la Messa è celebrata e partecipata con la riverenza che propriamente le è dovuta “la nostra sete sarà soddisfatta”. Quando Dio non viene servito bene e quando il santo sacrificio della Messa viene svalorizzato, la maestà di Dio va perduta e noi con essa.
Ironicamente, in un periodo in cui la Chiesa appare smarrita in uno stato confusionale perpetuo, il diavolo sa di cosa abbiamo bisogno: la Santa Messa.