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giovedì 29 aprile 2021

 

SANTA CATERINA DA SIENA, VERGINE, DOTTORE DELLA CHIESA, PATRONA D’EUROPA E D’ITALIAA

anta Caterina da Siena, vergine, dottore della Chiesa, Patrona d’Europa e d’Italiaanta Caterina da Siena, vergine, dottore della Chiesa, Patrona d’Europa e d’Italia  (© MET)

“Non accontentatevi delle piccole cose. Dio le vuole grandi. Se sarete ciò che dovete essere metterete fuoco in tutta Italia!”. Con queste parole, nel consueto stile fermo e intransigente, ma sempre materno, Caterina Benincasa invitava alla radicalità della fede uno dei suoi interlocutori epistolari. È un’esortazione che rivela l’ardente desiderio della santa di irradiare il Vangelo nel mondo attraverso la testimonianza convinta e credibile di uomini e donne convertiti dall’annuncio del Risorto: “Munita di fede invitta, potrai affrontare vittoriosamente i tuoi avversari”, le dirà Cristo in una visione nell’ultimo giorno di carnevale del 1367, in un episodio che i biografi ricordano come lo sposalizio mistico di Caterina.

Determinata fin da bambina a sposare Cristo

Era nata vent’anni prima, il 25 marzo, nel rione Fontebranda, ventiquattresima figlia dei venticinque messi al mondo dal tintore Jacopo Benincasa e da Lapa di Puccio de’ Piacenti in un’epoca caratterizzata da forti tensioni nel tessuto sociale; a soli sei anni, in un momento in cui il papato aveva sede ad Avignone e movimenti ereticali insidiavano la vita della Chiesa, la bambina ebbe l’apparizione di Gesù vestito da Pontefice. L’anno successivo fece voto di verginità, maturando poi il fermo proposito di perseguire la perfezione cristiana presso l’ordine domenicano. Di fronte all’opposizione dei genitori che la volevano sposa, Caterina reagì fermamente: a 12 anni si tagliò i capelli e si velò, chiudendosi in casa; la famiglia allora acconsentì nel 1363 al suo ingresso tra le Mantellate o terziarie domenicane.

Mamma e maestra, punto di riferimento spirituale per molti

La santa imparò a leggere e scrivere, si diede ad un’intensa attività caritatevole verso gli ultimi e - in un’Europa dilaniata da pestilenze, guerre, carestie e sofferenze - divenne un punto di riferimento per uomini di cultura e religiosi che, assidui frequentatori della sua cella, saranno ricordati come caterinati. I più intimi fra loro la chiamavano “mamma e maestra” e si fecero trascrittori dei suoi tanti appelli ad autorità civili e religiose: esortazioni ad assunzioni di responsabilità, talvolta rimproveri o inviti all’azione, sempre espressi con amorevolezza e carità. Tra i temi affrontati nelle missive: la pacificazione dell’Italia, la necessità della crociata, la riforma della Chiesa e il ritorno del papato a Roma per il quale la santa fu determinante recandosi nel 1376 in Provenza da Papa Gregorio XI.

Il Papa, “dolce Cristo in terra” e il suo ritorno a Roma

Caterina non ebbe mai paura di richiamare il Successore di Pietro, da lei definito “dolce Cristo in terra”, alle sue responsabilità: ne riconobbe le manchevolezze umane, ma ebbe sempre grande riverenza del vicario di Gesù in terra, così come di tutti i sacerdoti. Dopo la ribellione di una parte di cardinali che diede inizio allo scisma di occidente, Urbano VI la chiamò a Roma. Qui la santa si ammalò e morì il 29 aprile 1380, come Gesù, a soli 33 anni. Le parole dell’apostolo Paolo “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”, si incarnano nella vita di Caterina che nel 1375 ricevette le stimmate incruente rivivendo, raccontano testimoni, la Passione ogni settimana.

Proclamata Dottore della Chiesa da Paolo VI

L’appartenenza al Figlio di Dio, il coraggio e la sapienza infusa sono tratti distintivi di una donna unica nella storia della Chiesa, autrice di testi come Il Dialogo della Divina Provvidenza, l’Epistolario e la raccolta di Preghiere. In ragione dell’alta statura spirituale e dottrinaria Paolo VI nel 1970 l’ha proclamata Dottore della Chiesa. Innamorata di Gesù Cristo, Caterina scriveva: “Niente attrae il cuore di un uomo quanto l’amore! Per amore Dio lo ha creato, per amore suo padre e sua madre gli hanno dato la propria sostanza, egli stesso è fatto per amare”.

 


BEATI NELLA BEATITUDINE DEL SERVO CHE SI E' CONSEGNATO A NOI
Possiamo essere "beati", e non è così difficile. Basta "sapere" di essere "servi". Ma purtroppo, essere servi è proprio quello che non ci piace... E per questo non siamo "beati", cioè felici in pienezza. "Servire" nel posto di lavoro? Al contrario, in nome della giustizia non muoviamo un dito per fare qualcosa che non ci compete. "Servire" in famiglia? Ma se la donna tutto deve fare meno che "servire". E potremo continuare, a cominciare dai figli, che prova a dirgli di mettersi a servizio dei fratelli... Siamo contagiati dall'orgoglio di Lucifero, e risuona in noi lo stesso "non serviam", non serviamo degli angeli decaduti perché volevano essere "più grandi del loro Padrone" e Creatore. Ma oggi il Signore ci annuncia che è preparata per noi la prima e fondamentale "beatitudine": “Beato l'uomo a cui è rimessa la colpa e perdonato il peccato” (Sal 32,31). Nella Chiesa possiamo sperimentarla, attraverso la confessione e gli altri sacramenti, nella predicazione e nella comunità che mai ci rifiuta. Nella misericordia possiamo "conoscere" il Signore, e il Padre in Lui. "Conoscere", ovvero essere ricreati in Cristo, che con la sua vittoria sulla morte ci dona l'identità perduta con il peccato. La stessa sua identità, l'immagine e la somiglianza con il Padre, quella del "servo" che offre la sua vita gratuitamente. Coraggio allora, gettiamoci con fiducia tra le braccia crocifisse del Signore. Coraggio, Lui si è legato a noi indissolubilmente, e la nostra vita acquista senso e pienezza solo nel lasciar trasparire dai nostri sguardi, dalle parole, dai gesti, dalla vita, la sua presenza. Frasi del tipo "ho bisogno di tempo per me stesso", "devo cercare la mia identità", stonano con la vita rinnovata di chi ha "accolto" Gesù. Sarebbe assurdo e innaturale voler vivere un'altra vita. "Saremo beati" se, "capendo", cioè sperimentando nel nostro intimo di essere la carne di Cristo che cammina nella storia, "metteremo in pratica", "faremo" secondo l'originale greco, quello che la natura divina di cui diveniamo partecipi desidera compiere in noi. Gesù "conosce quelli che ha scelto", ogni nostra debolezza e contraddizione, e ci attira a sé costituendoci "altri se stesso" per gli uomini che incontreremo. Allora, la nostra "beatitudine" è accogliere oggi la sua Parola che ci "fa", ci crea, suoi apostoli. E "sapere" che essa coincide con la salvezza offerta al nostro prossimo. Per questo ogni incontro, ogni parola detta, ogni gesto che scaturisce dall'intimità con Gesù è una scintilla dello Spirito Santo capace di salvare una vita; tu ed io nel mondo perché ogni persona che incontreremo abbia in noi l'occasione di "accogliere Cristo", e, con Lui, il Padre. Ma, come in Gesù, anche in noi "si deve adempiere la Scrittura" che ci profetizza il tradimento: "Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno". Anche oggi, qualcuno si "leverà contro di noi"! Non stupirti, come Giuda ha fatto con Gesù, qualcuno ci venderà, tradirà la fiducia, l'amore, traviserà i "segni" del "discepolo mandato" dal Signore. E sarà proprio l'amico, lui per primo. Giuda si incarnerà in chi "mangia con noi”. E' un mistero che spacca il cuore. Ma "si deve adempiere" nella nostra vita, altrimenti non si aprirebbe un cammino di salvezza per chi ci rifiuterà. Deve arrivare l'umiliazione, altrimenti non potremmo "sapere" nella nostra carne che Gesù è "Io sono", l'Onnipotente che entra nella morte e vi esce vittorioso. Ma coraggio, perché ce lo "dice fin d'ora, prima che avvenga", per farci partecipi del suo discernimento che guarda a ogni evento con gli occhi dell'amore. "Un discepolo non è più del Maestro" crocifisso, e "un apostolo non è più grande di Colui che lo ha inviato", umiliato e tradito. "Servi" di tutti, è questo il nostro "brand" inconfondibile. Lo è in quanto genitori, presbiteri, vescovi, perché lo è in quanto siamo cristiani. Chi ci è accanto ha bisogno della prova che siamo "mandati" da Cristo, ha diritto a vederci crocifissi. Come è accaduto, e accade ogni giorno per noi, che contempliamo nella nostra vita l'amore infinito di Cristo che ci accoglie e perdona i mille tradimenti con cui diciamo di non conoscerlo

mercoledì 28 aprile 2021

 


APPOGGIATI AL FIGLIO PER CONOSCERE IL PADRE
Un grido, e la voce di Gesù punta diritto al nostro cuore: Credetemi, guardatemi, sono Io, l'amore del Padre, quello che state cercando, proprio cio' di cui oggi avete bisogno, Io, solo Io ve lo posso donare. Un grido, quasi una supplica che ci scuote, oggi, ora. Quante volte brancoliamo nel buio, situazioni e persone ci appaiono come ombre cinesi, mentre la nebbia avvolge fitta le nostre ore. Intuiamo qualcosa ma, dobbiamo riconoscere, sono infinitamente di piu' le cose che non comprendiamo di quelle che riusciamo ad afferrare. Per questo, anche oggi Cristo viene alla nostra vita come luce, per strapparci alle tenebre che il mondo, la carne e il demonio continuano a gettarci addosso. Arriva la luce di Lui a rischiarare la nostra vita, e con Lui giunge il Padre. Non si tratta di capire, si tratta di vivere con Gesu' da figli di Dio. Vedere Cristo, credergli, e' l'opera preparata per noi. E' grazia, non e' frutto di sforzi, decisioni o progetti. La fede, espressa attraverso il vedere e il credere, e' accogliere la sua Parola. Essa ci e' annunciata, donata ogni giorno. In essa c'e' Lui, anzi, la stessa parola e' Lui. Allora si tratta di camminare, anche oggi, come ogni giorno, appoggiati alla sua Parola, che e' quella del Padre, di nostro Padre. Gesu' non ha mai parlato per se stesso; la fonte delle sue azioni, delle sue decisioni, delle sue parole e' sempre stato il Padre. Nessuna decisione avventata, dettata dall'affettivita', sporcata dai compromessi e dalla vanagloria. Lui ha vissuto nel Padre e per il Padre, e per questo, ha donato senza riserve la sua vita per ogni uomo, gratuitamente. Nell'autentica liberta' del Figlio che vive ogni istante nella volonta' del Padre, Gesu' ha dischiuso per ogni uomo l'unica porta dinanzi alla stessa liberta'. Non ha imposto nulla, ha annunciato e offerto il suo amore, senza sperare nulla per se', nell'indomita certezza che un amore cosi' grande non puo' restare indifferente. Puo' essere respinto, rifiutando la Parola che lo annuncia e lo dona; e sara' la condanna nell'ultimo giorno, perche' la vita e' seria, e si gioca sul filo della liberta'. Le decisioni hanno sempre delle conseguenze, e quelle prese di fronte alla Parola di Gesu' sono quelle decisive. Chi le accoglie entra gia' nel Paradiso, sperimenta la vita nuova dei figli di Dio, e conosce la liberta' di amare oltre ogni limite. Chi non le accoglie si chiama fuori da se', si condanna da solo all'inferno, di cui gia' in questa vita ne sperimenta la solitudine e il dolore. Gesu' non e' venuto a condannare nessuno, anzi; ma, proprio per questo, non e' venuto come uno smacchiatore che cancella i peccati di un'inconsapevole camicia; ha annunciato la Parola di salvezza incarnandola nel dono di se stesso sulla Croce, perche' ogni uomo potesse accoglierla e sperimentarne la misericordia. Proprio la Croce, infatti, l'evento decisivo per la salvezza, quando e' annunciata diviene la porta attraverso la quale uscire verso la liberta': "La Croce di Gesu' e' la Parola con cui Dio ha risposto al male del mondo. A volte ci sembra che Dio non risponda al male, che rimanga in silenzio. In realta' Dio ha parlato, ha risposto, e la sua risposta e' la Croce di Cristo: una Parola che e' amore, misericordia, perdono. E’ anche giudizio: Dio ci giudica amandoci. Se accolgo il suo amore sono salvato, se lo rifiuto sono condannato, non da Lui, ma da me stesso, perché Dio non condanna, Lui solo ama e salva" (Papa Francesco, Parole al termine della Via Crucis al Colosseo, 29 marzo 2013).
Chi vede Gesu' vede il Padre. Chi ascolta e accoglie la sua Parola incontra il Padre. Chi dimora in Lui vive nel Padre. Questa e' una Parola per ciascuno di noi, che ci perdiamo in mille sottigliezze, in troppi tentativi di far breccia, penetrare nel cuore degli altri, agganciarli a noi e guadagnarli alla nostra causa. Per poi soffrire tremendamente quando siamo rifiutati, quando non siamo ascoltati, quando, dopo tanto impegno, siamo rifiutati. Se invece ci abbandoniamo completamente al Signore, se viviamo in Lui la sua stessa vita, possiamo sperimentare la libertà autentica: nel matrimonio, nel fidanzamento, nell'amicizia, nel ministero; siamo chiamati a vivere nella liberta' che non elude la sofferenza, ma che scaturisce dalla consapevolezza che chi vede noi vede Cristo e, in Lui, il Padre. E' Lui che, in noi, gli altri accolgono o rifiutano; a noi e' dato, per Grazia, di rimanere nel suo amore, nascosti nella sua misericordia, morti per il mondo ma vivi per Lui. E' questa la chiave per vivere nella pace autentica, nel riposo, senza esigere e pianificare, senza rincorrere, spendendo, invece, ogni energia seguendo e obbedendo a Lui, mossi solo dal suo Spirito. Così vivono i figli di Dio, così si muove la Chiesa, offrendosi in ogni istante come la Parola di salvezza incarnata nella storia che viviamo accanto al prossimo, consegnandosi per amore in ogni circostanza, nella consapevolezza di poter essere respinti. La Chiesa e i cristiani hanno una luce speciale, quella della vita che non muore; per questo, per amore, per quello autentico e libero, che desidera il bene e la salvezza di ogni uomo, si dona e annuncia il Vangelo in ogni luogo e tempo, opportunamente e inopportunamente, con il potere, che la carne non conosce, di accettare di vedersi rifiutata e perfino perseguitata, solo per aver amato. La Chiesa esiste per il bene dell'umanità, è una scheggia di verita' e di amore seminata nella idolatria e nella concupiscenza, nell'avidita' e nell'orgoglio del mondo, senza difese. Proprio per questo puo' donare, gratuitamente, la salvezza, perche' nulla impone, e nulla spera per se stessa, come e con Gesu', nel rischio di vedere le persone piu' care condannarsi a una vita meschina di solitudine. Cosi' siamo chiamati a vivere ogni rapporto, amando senza posa, sperando sino alla fine la salvezza di tutti, navigando tra i marosi che ci respingono, nell'intimita' con Cristo, come un bimbo abbandonato tra le braccia di suo padre. E' questa la luce che dirada le tenebre che ci avvolgono e ci intristiscono. Camminare umilmente con Gesu', senza pretendere nulla, sapendo d'essere forse come pugili suonati tra le temperie della vita, ma saldi e fermi, ancorati nel suo amore che non delude. Cammineremo certo in una valle oscura, berremo veleni, per scoprire di poter passare indenni, sperimentando in ogni circostanza che Lui e' vivo, che il Cielo ci attende, che la nostra vita e' un pellegrinaggio quotidiano verso la pienezza del suo amore, dove accompagnare l'umanita'.

martedì 27 aprile 2021

 


NASCOSTI NELLA MANO DEL BUON PASTORE
E' "inverno", ed è molto più di una stagione. E' la realtà nella quale si trovavano i "capi dei giudei", molto simile alla nostra. L'inverno è freddo e piovoso, la vita sembra addormentata, fa notte presto e si ha bisogno di luce e di calore. Riecheggia, in questa notazione non a caso precisa, un versetto del Cantico dei Cantici: "L'inverno è passato, la pioggia è finita e se n'è andata". I Padri hanno visto in questo inverno la situazione della sposa, immagine del Popolo di Israele, prima dell'avvento di Cristo: "fino adesso durante l'inverno delle tentazioni e le tempeste dei vizi, la sposa se n'è stata rintanata e impaurita, le bastava rinchiudersi in se stessa. Non usciva mai fuori di sé, non coglieva i fiori della Scrittura Divina, non aveva le gioie spirituali della Grazia o i frutti dello Spirito" (Guglielmo di Saint-Thierry). Ma "l'inverno per noi può significare la vita presente che, assillandoci con le continue tentazioni come fossero piogge fastidiose, ci spinge alla sequela di Cristo" (S. Gregorio Magno). Ed era proprio così, un duro inverno per Israele, anni e anni sotto il giogo dei Romani. E' un duro inverno per noi, da quando, come predicava Gregorio di Nissa, "l'inverno della disobbedienza seccò la radice, e quindi il fiore fu scosso e si dissolse a terra, l'uomo fu spogliato della bellezza dell'immortalità, e si seccò l'erba delle virtù, e l'amore per Dio si raffreddò perché abbondò l'ingiustizia, per cui si sollevarono in noi le molteplici passioni che producono lo sciagurato naufragio dell'anima nostra". Nel mezzo di questo inverno Gesù "passeggia nel tempio, sotto il portico di Salomone". Questo era un colonnato coperto posto sul lato orientale del cortile cortile dei gentili, esterno del Tempio. Gesù passeggiava dunque su quel limite dove la santità di Dio si affacciava sulla vita dei pagani. Anche questa notazione è importante: Gesù cammina sul confine che separava Israele e il loro Dio dalle altre Nazioni e dai loro dei. E qui inizia il processo dei Giudei a Gesù, identico a quello che, ogni giorno, anche noi intentiamo contro di Lui. Qui "gli si fecero attorno", la stessa espressione minacciosa del Salmo 22, che incontriamo quando l'orante afferma di "essere circondato da un branco di cani". Non a caso si tratta del salmo recitato da Gesù durante l'agonia sulla Croce. Gesù passeggia come Dio nel Paradiso alla ricerca di Adamo. La sua sola presenza in quel luogo è per ciascuno un interrogativo: "dove sei?". La domanda dei Giudei, in fondo, è il tentativo goffo di difendersi di fronte a quella presenza così ingombrante: "Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente», che, seguendo l'originale greco, si potrebbe leggere anche: ""Fino a quando ci toglierai la vita?". Proprio come Adamo che aveva paura di Dio, ormai nudo e preda dell'"inverno". Potremmo allora chiederci chi, sotto il portico di Salomone, fosse Adamo: i giudei e i loro capi? Oppure i gentili che sin lì potevano arrivare? Adamo era dentro o fuori il "recinto" del Tempio? Non è una domanda da poco. Il dialogo tra i capi dei Giudei e Gesù avviene, infatti, mentre "ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione".
E Khanukàh, la festa della Dedicazione, aveva a che fare proprio con i pagani: ricorda, infatti, il tempo in cui "il Tempio fu pieno di dissolutezze e gozzoviglie da parte dei pagani, che gavazzavano con le prostitute ed entro i sacri portici si univano a donne e vi introducevano le cose più sconvenienti. L’altare era colmo di cose detestabili, vietate dalle leggi. Non era più possibile né osservare il sabato, né celebrare le feste tradizionali, né fare aperta professione di giudaismo" (2 Maccabei 6,4-6). Il culmine si raggiunse quando il Tempio fu profanato, spogliato dei suoi tesori e usato per il culto pagano. Il 25 kislèv 167/168 a. E. V. fu immolato un maiale, animale impuro per eccellenza, sull’altare sacro; con una parte della carne prepararono un brodo che fu spruzzato per tutto il Tempio, che fu poi dedicato a Zeus Olimpio. Nel 165/166 a. E. V. Giuda Maccabeo e i suoi fratelli ebbero finalmente la meglio, riconquistarono il Tempio e lo dedicarono di nuovo. Istituirono allora la festa di Khanukàh per celebrare la vittoria: "Vi fu gioia molto grande in mezzo al popolo, perché era stata cancellata la vergogna dei pagani. Poi Giuda e i suoi fratelli e tutta l’assemblea d’Israele stabilirono che si celebrassero i giorni della dedicazione dell’altare nella loro ricorrenza, ogni anno, per otto giorni, cominciando dal venticinque del mese di Casleu, con gioia e letizia" (1Maccabei 4, 58-59). Ma non fu solo una guerra contro i greci di Antioco Epifane. Nelle loro file militavano, infatti, anche israeliti apostati. Fu, dunque, una guerra civile, ebreo contro ebreo. Ma, accanto all'evento della riconquista, c'è un altro aspetto importante di questa festa; ce lo racconta il Talmud: "Cosa è Khanukàh? Hanno insegnato i Maestri: il 25 del mese di Kislev iniziano gli otto giorni di Khanukàh, giorni in cui non si possono fare manifestazioni di lutto e non si può digiunare. Quando i greci entrarono nel Tempio, resero impuro tutto l'olio, e gli Asmonei, dopo aver sconfitto il nemico greco, cercarono e non trovarono che una sola ampolla d'olio, che era rimasta pura, perché ancora chiusa con il sigillo del Sommo sacerdote. Questa ampolla sarebbe bastata per illuminare il Tempio un solo giorno. Accadde un miracolo con quella ampolla, e così essi poterono accendere il lume per otto giorni. L'anno seguente stabilirono di rendere quei giorni, giorni di festa e di lode" (Talmud Shabbath 21b). Per la festa si usava un candelabro particolare a otto bracci, chiamato khanukiyàh. Durante la festa i cortili del Tempio risplendevano di luce. Ogni casa era illuminata dal candelabro poste ben in vista vicino alle porte che davano sulla strada, affinché si potesse vedere la luce dall'esterno. Al tramonto della prima sera si accendeva una candela, la seconda sera due, e così sino all’ottavo giorno. La prima candela si accendeva sul lato destro del candelabro, e poi via via le altre da destra a sinistra; tutte però si accendevano servendosi dello "Shamash" – la cosiddetta candela servitore – che si poneva sul candelabro in luogo diverso e lontano dalle altre otto candele. Tutto questo per ricordare il "miracolo" che Dio aveva compiuto, segno e sigillo della liberazione di Israele dal giogo di Antioco Epifane, e il ritorno alla purezza del culto. Ad Khanukàh, dunque, era forte l'attesa messianica, ed era tutta orientata verso il ristabilimento della libertà per il popolo di Israele. E' in questo contesto che dobbiamo comprendere la domanda dei capi dei Giudei.
Volevano spingere Gesù a rivelarsi, lo affrontano con malizia e violenza perché svelasse finalmente se era Lui il liberatore atteso. Ma, in fondo, avevano già stabilito che non lo era, aveva violato il "sabato", chiamava Dio suo Padre, c'era in Lui qualcosa di pericoloso, di eretico. I Giudei non volevano "conoscerlo", ma solo smascherarlo per avere un capo d'accusa con cui poterlo fare fuori. Li aveva chiamati figli del demonio, come poteva essere accolto da chi era tanto cieco da non rendersi conto che, pur essendo discendenza di Abramo, pur stando al di qua del "recinto", nel cuore del Tempio, erano pagani esattamente come quelli che dovevano restarne al di là. Anzi, avevano un peccato più grande, perché, pur avendo a disposizione la Legge e le Profezie, non erano capaci di riconoscerlo, erano ciechi che non accettavano di esserlo. Aspettavano un nuovo Giuda Maccabeo, e avevano di fronte il figlio di Giuseppe il falegname, uno che veniva da Nazaret... Gesù lo sapeva, e per questo risponde sibillino: "Ve l'ho detto e non credete"; non potete credere perché ascoltate la voce del Padre vostro; "voi non credete perché non siete mie pecore", ascoltate, infatti, la voce di un altro pastore, uno come Giuda Maccabeo; al tempo c'erano, infatti, gli zeloti, e Giuda, un "ladro", era zelota, come Barabba, un "brigante". Anche noi aspettiamo un tipo ben preciso di Messia, il Cristo che ci siamo fabbricati; quello che, purtroppo, anche nella Chiesa, alcuni ci hanno predicato; il Cristo che l'educazione, ricevuta in famiglia e a scuola, o la mentalità mondana, in televisione, su internet, tra gli amici, hanno modellato in noi. Anche noi aspettiamo un messia come Giuda Maccabeo, cioè uno che lotti contro l'ingiustizia; e, come Giuda vendiamo Gesù, cioè lo vorremmo obbligare a manifestarsi come uno che ristabilisca ordine, l'ordine mondano, nella nostra vita. E, come Barabba, ci ribelliamo all'ingiustizia, manifestiamo, in piazza come a casa e in ufficio. Altro che "pecore" del "recinto" di Gesù, preparate per il sacrificio! Ma attenzione, non aspettiamo solo un Cristo che ci risolva i problemi, che ci dia un lavoro, che cambi il cuore di chi ci è accanto, che trasformi i figli in brave persone con una buona famiglia e un lavoro dignitoso, che guarisca le malattie etc.
No, qui, nel contesto di questa festa, il discorso si fa più sottile. "Fino a quando ci toglierai la vita?", cioè fino a quando non ci risponderai su quanto più ci angoscia, ovvero la nostra felicità? Sappiamo che essere felici è amare, donarsi, perdere la vita. A volte cadiamo nella trappola e chiediamo la felicità agli idoli. Ma c'è un'idolatria più grande, la più grande, ed è subdola, sa nascondersi e camuffarsi bene. E' quella originale: la superbia di diventare come Dio. Non solo per quello che riguarda le relazioni e la storia, cioè diventare dio di tutto, di dirigere, di saziarsi, di avere potere e prestigio. Qui si tratta della superbia che ci vorrebbe come Dio in quanto a santità morale, a non dover più sottostare alle tentazioni, ad essere perfetti in senso legalistico. La superbia che non ci fa riconoscere d'essere sue pecore, ma che ci vorrebbe pastori capaci di guidare nel bene la propria vita. Aspettiamo cioè ogni giorno un Cristo che ci faccia puri, che ci liberi dal giogo esterno a noi, quello di Antioco Epifane, che, secondo noi, ci impedisce la fedeltà e la felicità. E invece Gesù dice qualcosa di completamente diverso: Io sono molto di più del Messia, del pastore che aspettate. "Io e il Padre siamo una cosa sola", cioè, "Io sono Dio". E Dio ha rivelato il suo Nome, la sua identità, con una "voce" da dentro il roveto ardente che non si consumava. Questo significa che la felicità, ovvero la vita eterna, piena, realizzata ci viene data da Lui in mezzo al fuoco delle tentazioni. È li che possiamo "ascoltare la voce" il Pastore, che è Dio, più potente della morte. Non basta rimuovere i dittatori del pensiero mondano, le leggi pagane e i professori atei; non ci salverebbe una vita senza tentazioni, anzi, perché non saremmo liberi, e quindi non potremmo amare davvero e "conoscere" il Signore. L'idolatria è nel nostro cuore, ed è lì che il Messia autentico deve arrivare. E' lì che il "Pastore vero e bello" depone se stesso e la sua vita che non ha limiti. E' lì che possiamo essere riconsegnati a una vita da figli di Dio, capace di celebrare nella storia la liturgia che renda onore e gloria al Padre, quella dell'Agnello immolato.
E il Pastore può giungere al cuore solo attraverso l'"ascolto". "Ascoltare" è il verbo della fede, è l'antidoto all'idolatria. "Idolo" in greco deriva da "vedere". Noi crediamo che l'intimità e la conoscenza si diano attraverso gli occhi; per questo la nostra società è fondata sul vedere. Ma la visione resta esterna, mentre le parole arrivano al cuore. Come è accaduto alla Vergine Maria. L'ascolto è l'apertura umile di una pecora che si affida al suo pastore, perché la conoscenza sorge e si compie ascoltando, che in ebraico è sinonimo di obbedire. Essere una cosa sola è ascoltare e quindi "seguire", come il Figlio ha fatto con il Padre: "Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono". Gesù rivela se stesso rivelando la nostra identità! Non importa se dentro o fuori dal "recinto", ogni uomo è immagine di Dio creato da Lui attraverso la sua Parola. Ascoltando possiamo essere ricreati ogni istante dalle mani di Gesù, che plasmano in noi l'agnello, mani che parlano potremmo dire; e, con la sua Parola, ci difendono dagli idoli. Nessun idolo "può strapparci dalla sua mano". Ciò significa che "Il Padre di Gesù, riguardo a ciò che mi ha dato, è più grande di tutti" gli idoli di questo mondo. Il Padre ha dato a Gesù ciascuno di noi come suoi fratelli, creati in Lui a immagine e somiglianza di Dio: per questo "nessuno può strappare" la nostra identità "dalla sua mano" crocifissa, che è la stessa mano creatrice del Padre. Basta ascoltare per rinascere! Basta ascoltare davvero la sua Parola, come già la festa di Khanukàh annunciava: alcuni rabbini, infatti, vedevano la forza della sapienza della Torah nel miracolo dell'ampolla che non si è consumata. Per Beit Hillel la lotta vera con la miracolosa vittoria, fu contro la falsa ideologia dell'ellenismo e le idee pagane, che possono essere combattute solo attraverso la luce della conoscenza della Torah. Nel mondo si vive "ascoltando" la "voce" di Dio che ci parla dal roveto, da questa ampolla che miracolosamente continua ad ardere senza consumarsi; ciò significa aprirsi alla sapienza della Croce che, pur essendo uno strumento di tortura e di morte, in Cristo è divenuta fonte di salvezza e di "vita eterna". Che bello, che consolazione! Siamo poveri e incoerenti, deboli e peccatori, eppure "Tu, nella Tua tanta misericordia, ti sei alzato in piedi per loro nel momento del loro dolore; Tu hai combattuto la loro battaglia... Hai dato i forti nelle mani dei deboli, i tanti nelle mani dei pochi" (Preghiera Al haNissim - letteralmente "per i miracoli"- che si recita durante la festa di Khanukàh).

domenica 25 aprile 2021

 



αποφθεγμα Apoftegma

La presentazione del messaggio evangelico 
non e' per la Chiesa un contributo facoltativo: 
e' il dovere che le incombe per mandato del Signore Gesu'
affinche' gli uomini possano credere ed essere salvati
Si, questo messaggio e' necessario. E' unico. E' insostituibile. 
Non sopporta ne' indifferenza, ne' sincretismi, ne' accomodamenti. 
E' in causa la salvezza degli uomini
Esso rappresenta la bellezza della rivelazione. 
Comporta una saggezza che non e' di questo mondo. 
È' capace di suscitare, per se stesso, la fede, 
una fede che poggia sulla potenza di Dio. 
Esso e' la Verita'. 
Merita che l'Apostolo vi consacri tutto il suo tempo, 
tutte le sue energie, e vi sacrifichi, se necessario, la propria vita.

Paolo VI, Evangelii nuntiandi
CON CRISTO NON SUBIAMO LA VITA, MA LA SPENDIAMO DA PROTAGONISTI


Accadono tragedie in questo tempo nel Mar Mediterraneo; fondamentalismi e regimi dispotici fanno a fette la dignità delle persone; nascono nuove aberranti ideologie sul ceppo di quelle antiche che hanno polverizzato intere generazioni. Accade che, di nuovo, il male è chiamato bene e il bene considerato male. Ma oggi ci sono i media, e i social networks, e gli organismi internazionali, e di fronte a tanto male si moltiplicano le ricette per combatterlo, e i guru che sanno tutto di tutto spuntano come funghi. Anche a casa nostra, in famiglia, e poi nel condominio, al lavoro, a scuola, al mercato. Spesso anche nella Chiesa, nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nei gruppi e nei movimenti, nelle Diocesi e negli Ordini Religiosi. Ovunque sembra regnare la confusione, con scampoli di Verità affermati come assoluti. Ma Dio non si e' fatto carne, non e' entrato nella morte, non e' risorto per dare una pacca sulle spalle dell'umanità, un incoraggiamento e una consolazione di marmellata, una soluzione a buon mercato. C'e' di mezzo salvezza e condanna per "ogni creatura". Dimenticare il dramma che costituisce la vita dell'uomo, la reale possibilità di perdere o salvare la propria anima è forse il rischio piu' grande che corre la Chiesa. Se essa non freme di zelo e compassione autentiche per "ogni creatura", compromette la sua missione. La Chiesa è mandata ad annunciare il Vangelo, custodendo il deposito della fede che si fa visibile attraverso segni concreti e inequivocabili negli apostoli e in chi accoglie il loro annuncio: "Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità piu' profonda. Essa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare ed insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio" (Paolo VI, Evengelii nuntiandi). Gesù è risorto e dal Cielo accompagna i discepoli "dappertutto" agendo con loro, autenticando la loro parola con i segni celesti che svelano la presenza di Dio. Sono segni soprannaturali, opere, prodigi, miracoli che l'uomo, per quanto onesto, buono, rispettoso non può compiere. Su di essi vi è, inconfondibile, il copyright di Dio. Opere di Dio nella carne debole degli uomini, che svelano la loro natura celeste. Di conseguenza, naturalmente, chi crede al Vangelo opera quanto esso annuncia; e' passato dalla morte alla vita e ogni sua opera ha il sapore del Cielo, come un aereo che supera la barriera del suono, essa oltrepassa la barriera della carne e della corruzione. Il veleno che uccide, la condanna di chi non crede, non reca danno a chi ha oltrepassato la soglia del sepolcro. Il veleno dell'invidia, del rancore, del giudizio, del male, non può nulla in chi crede. Gli apostoli passano indenni nelle fiamme delle persecuzioni, la loro fede vince il mondo. Attraverso di essa giunge agli uomini la stoltezza della predicazione, e coloro che accolgono l'annuncio degli apostoli ricevono gratuitamente la loro stessa fede. Parlano la nuova lingua del Vangelo, radice incorruttibile dell'amore e vincolo dell'unita', i segni offerti al mondo perché possa credere. Così, la stessa fede che muove gli araldi del Vangelo, irrora la vita di chi lo accoglie, ed essa si fa visibile come un sigillo nei segni che l'accompagnano. Esattamente gli stessi segni accompagnano la fede di chi annuncia e di chi crede: quello che gli apostoli predicano e mostrano appare in coloro che accolgono e credono. 



I segni di cui ci parla il Signore non si possono pianificare in un consiglio pastorale, preparare nelle riunioni delle Conferenze Episcopali. Non si studiano. Sono miracoli, saette che trafiggono il banale grigiore che si abitua a tutto. Gesù non ha frequentato un corso su Dio, non lo ha conosciuto all'università, fosse anche la Gregoriana; Gesù era, semplicemente, suo Figlio. Così e' di ogni figlio nel Figlio, di ogni cristiano. Così e' per la Chiesa che attraversa i secoli con lo zelo appassionato che freme di compassione, e la spinge ad andare dappertutto, nella consapevolezza che ogni evento che la riguarda, ogni persecuzione, ciascun istante della vicenda concreta dei suoi apostoli, è legato ed è favorevole e contribuisce al bene delle anime e alla missione di annunciare il Vangelo. Nulla della nostra vita è fine a se stesso, perché tutto è in funzione della missione alla quale siamo chiamati. Il veleno che oggi ciascuno di noi dovrà bere - l'incomprensione del marito, la ribellione del figlio, la malattia, la precarietà economica - è il segno con il quale il Signore accompagna e sostiene e certifica la nostra fede e quella di coloro ai quali siamo inviati. Anche oggi prenderemo in mano il serpente antico, il seduttore di tutta la terra, la menzogna che che avvelena la vita di ogni uomo, e lo renderemo innocuo in virtù della fede, per noi e per chi ci è accanto. Parleremo lingue nuove, la lingua dell'amore che solo in Cielo si parla, quella che supera le grammatica della carne con i suoi limiti per distendersi sulle declinazioni che raggiungono le debolezze, le sofferenze, le ansie e le speranze di chi ci è posto accanto senza il filtro dei nostri criteri, senza le correzioni che l'affettività vorrebbe apporre alle parole che descrivono la loro vita. Guariremo i malati, sì, in virtù della fede toccheremo il cuore ferito di chi ci è vicino deponendovi la misericordia di Dio. La Chiesa annuncia il Vangelo con i segni della Croce, gli stessi compiuti da Mosè con il suo bastone dinanzi al Faraone; non ve ne sono altri, perché il Vangelo è la buona notizia che rivela la sapienza della Croce. La nostra storia concreta, infatti, è un segno materno per i figli, i coniugi, i fidanzati, gli amici, i colleghi. Tutto è segno di un amore che vince la morte e il peccato, e che trasforma la condanna in Grazia. Anche oggi siamo mandati dappertutto, in ogni istante della nostra giornata, e nulla ci è indifferente, da nessuna situazione dobbiamo scappare. Niente ci cade addosso improvviso, perché è il Signore che ci invia a vivere ogni evento da risorti con Cristo; non subiamo la vita, la affrontiamo da protagonisti, come la missione più importante: liberare i prigionieri, cancellare la condanna che pesa su ogni uomo, spalancare per tutti le porte del Cielo, il destino di felicità eterna che il Vangelo annuncia: "il mondo, che nonostante innumerevoli segni di rifiuto di Dio, paradossalmente lo cerca attraverso vie inaspettate e ne sente dolorosamente il bisogno, reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio, che essi conoscano e che sia a loro familiare, come se vedessero l'Invisibile" (Paolo VI).


 


Le sue pecore troveranno i pascoli, perché chiunque lo segue con cuore semplice viene nutrito con un alimento eternamente fresco. Quali sono i pascoli di queste pecore, se non gli intimi gaudi del paradiso, ch'è eterna primavera? Infatti pascolo degli eletti è la presenza del volto di Dio, e mentre lo si contempla senza paura di perderlo, l'anima si sazia senza fine del cibo della vita.
Cerchiamo, quindi, fratelli carissimi, questi pascoli, nei quali possiamo gioire in compagnia di tanti concittadini. La stessa gioia di coloro che sono felici ci attiri. Ravviviamo, fratelli, il nostro spirito. S'infervori la fede in ciò che ha creduto. I nostri desideri s'infiammino per i beni superni. In tal modo amare sarà già un camminare.
Nessuna contrarietà ci distolga dalla gioia della festa interiore, perché se qualcuno desidera raggiungere la mèta stabilita, nessuna asperità del cammino varrà a trattenerlo. Nessuna prosperità ci seduca con le sue lusinghe, perché sciocco è quel viaggiatore che durante il suo percorso si ferma a guardare i bei prati e dimentica di andare là dove aveva intenzione di arrivare.
San Gregorio Magno

 


SCELTI PER ESSERE AGNELLI NEL GREGGE DEL BUON PASTORE E DONARE CON LUI LA NOSTRA VITA
Non si scappa, il Vangelo di questa Domenica è chiarissimo: le pecore sono comunque destinate a servire, sino al macello. Ma ci sono due modi per essere macellate: o come l'Agnello di Dio che ha offerto la sua vita in sacrificio per amore, o costrette e vendute dai "mercenari".
Comunque vada la nostra vita è destinata ad essere sacrificata: o per ingrassare quanti ci ingannano, gli amici ad esempio, che trascinano tanti a drogarsi, a darsi piacere, a far parte del branco, per poi "fuggire" dinanzi al "lupo", ai pericoli e ai fallimenti; oppure liberamente, per salvare chi ci accanto, seguendo le orme del Servo di Jahvè che ha consegnato se stesso in riscatto dell'umanità.
Tutti noi, scelti per far parte del gregge di Cristo, apparteniamo a Lui, e a Lui soltanto. Ma viviamo come ostaggi di "mercenari", ed è questa la radice di tante nostre sofferenze e frustrazioni. Siamo stati creati in Lui, per questo nel nostro cuore risuona come adeguata, perfettamente rispondente all'aspirazione profonda e autentica, solo la voce di Cristo.Non conosciamo nessun altro, eppure viviamo soggiogati dai "mercenari" che ci usano per guadagnare sulla nostra pelle, consegnandoci poi all'inferno. Non sono un inferno tante nostre relazioni? Non è un inferno il lavoro, lo studio? Non lo è il mondo, con la sua politica, con l'economia in mano all'avidità, con le guerre che, spesso in nome di Dio, insanguinano la terra? Lo sono perché ci siamo trasformati anche noi in "mercenari".
Rubiamo, ci appropriamo, leghiamo le persone sperando ed esigendo guadagni affettivi, compensi esosi per aver dato qualcosa di noi. E le relazioni appaiono per quello che purtroppo sono, mercimoni di affetti, mercati dove non esiste gratuità. Infatti, "il mercenario scappa davanti al lupo", al male, alla sofferenza, ai peccati. Quando il prodotto si rivela diverso da quello pubblicizzato si rispedisce al negozio; quando la moglie, il fidanzato, l'amico si rivelano diversi da quello che avevano lasciato intuire di essere, quando appaiono i lati oscuri del carattere, quando emergono i limiti, le debolezze, i peccati, quelli che proprio non si adeguano alle nostre capacità di accoglienza e accettazione, rifiutiamo e "scappiamo". Merce avariata venduta da mercenari, questo è, spesso, l'amore.
E "il lupo", il demonio che muove le fila delle nostre relazioni, "rapisce e disperde", ed è la nostra esperienza quotidiana. Quante volte assistiamo al naufragio di un fidanzamento, di un'amicizia, di un matrimonio, inciampati tutti nella debolezza e nei peccati! Ogni giorno sperimentiamo la precarietà dei nostri rapporti, cerchiamo di blindarli con una serie di compromessi, ma alla fine, all'apparire della verità, scopriamo quanto effimeri siano i nostri maldestri tentativi di rabberciare le cose. E tutto si disperde, come si disperde il seme quando usiamo della sessualità chiudendoci alla vita, sia con la masturbazione, sia con i rapporti prematrimoniali, sia con i rapporti matrimoniali ingabbiati nei metodi anticoncezionali; come quando si disperdono le parole, le azioni, i progetti faticosamente legati insieme da un laccio carnale, che è sempre egoistico, il laccio del mercenario.
Il "lupo", infatti, è sempre in agguato; per questo occorre riconoscere a chi apparteniamo, e a chi appartiene chi ci è vicino, le persone che ci sono care. Siamo di Cristo, perché Lui è l'unico che ci ama sino in fondo, che conoscendo perfettamente tutto di noi, ci ama senza riserve, senza esigere nulla, senza aspettarsi cambiamenti, non cerca neppure la nostra gratitudine. Cristo è, secondo l'originale greco, il "Pastore vero e bello" che "espone la sua vita" perché il "lupo" non ci sbrani. Ah, sono queste dunque la bellezza e la verità! In esse e per esse siamo stati creati! La bellezza di Colui che non aveva bellezza né splendore da attirare gli sguardi; la bellezza del Servo davanti al quale ci si copre la faccia, tanto era sfigurato appeso alla Croce. La Verità fatta carne in Cristo, che appariva castigato e fallito, mentre portava il peccato di tutti e intercedeva per i peccatori; la Verità che risplende nella Croce.
Con quale bellezza, invece, ci ha sedotto il "mercenario"? Quale "verità" ci ha insinuato? Entrambe effimere, perché nemiche della Croce, dell'amore che non ruba ma "espone, dispone e depone" la propria vita per gli altri, secondo il senso dell'originale greco reso con "offre". Gesù è il "pastore bello e vero", perché, a differenza del "mercenario", ha "interesse" delle pecore; ciò significa che ha le pecore in sé, dentro al cuore, perché questa è l'etimologia del termine "interesse". Sa che Gli appartengono, le porta nella sua carne, "conosce le sue pecore". Conoscere - ghinôskô - nel linguaggio biblico, significa molto più di una conoscenza razionale; conoscere è donarsi, offrire la propria vita, ed è anche una forma per indicare l'unione sessuale, come troviamo nelle parole della Vergine Maria rivolte all'angelo: "non conosco uomo". Cristo, dunque, è il "Pastore vero" perché ci conosce nella "verità" che non esclude nulla, di sè e di noi; ci conosce amandoci, "deponendo la vita", come il seme nella terra, nella nostra carne corrotta. Gesù ci conosce per quello che siamo anche in questo istante. Niente di "mercenario", ipocrita e falso; non una relazione superficiale che non fa mai entrare l'altro in sé, basata sull'apparenza; come accade a noi quando appare l'assoluta incompatibilità, e abbandoniamo anche colui per il quale abbiamo fatto di tutto, persino follie mascherate d'amore. Con Cristo, invece, tutt'altra cosa, una relazione che ha origine e compimento nella realtà di ciascuno. Lui è Dio sempre, anche quando noi siamo peccatori. Lui non ci respinge, non ci abbandona, mai.
Attenzione che qui Gesù dice qualcosa di immensamente grande: "conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre". Come Gesù conosce il Padre? E come il Padre conosce Gesù? In un amore infinito, nel quale l'uno compie i desideri dell'altro; tra i due non vi è nulla di segreto, e tutto dell'uno appartiene all'altro. Così Gesù conosce ciascuno di noi, e così siamo chiamati a conoscerlo. In una comunione che supera ogni limite, in una confidenza che non viene mai meno, in un abbandono sereno anche nelle "valli oscure" della vita. Apparteniamo a Cristo, in una conoscenza che ci depone nel cuore e nella vita stessa di Dio. Non ci sono più segreti, la storia, con i suoi Getsemani e i suoi Golgota, sono per noi già illuminati dalla luce della Pasqua. Possiamo vivere nella vita divina, amando senza riserve, oltrepassando gli steccati dell'egoismo e della concupiscenza. Possiamo essere sinceri perché nulla è segreto tra noi e Cristo, e in Lui, tra noi e il Padre. Gesù è per ciascuno il vino buono, il vino vero delle nozze di Cana, nel cui passo non a caso è usato "kalos", lo stesso termine che si riferisce al Pastore: è Lui che infonde la gioia, il gusto, il senso e la pienezza alla nostra vita, trasformando l'acqua delle relazioni sterili ed egoistiche, nel vino nuovo della vita che abbonda al punto d'essere donata. E' il Pastore "bello", altro significato di "kalos", che fa bella la vita, che illumina la storia di ciascuno rivelando, nel suo amore crocifisso, che con Lui "non manchiamo di nulla (cfr. Sal 23).
E ciò significa l'esatto contrario di ciò che fa il "lupo" al quale ci consegna il "mercenario", che "disperde". Per questo, solo riconoscendo la sua voce, sperimentando la nostra appartenenza a Lui possiamo conoscere l'amore autentico, e con esso la libertà.Appartenendo a Lui possiamo appartenere alla moglie, al marito, ai figli, al fidanzato, all'amico. Ogni appartenenza umana è inscritta in un'appartenenza più grande, che non si esaurisce, che non scappa e sfilaccia di fronte alla prova: "da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli" (1 Gv. 3,16). Perché anche le persone più intime prima di appartenerci appartengono a Cristo, ed ogni rapporto vive solo in questa comune appartenenza a Cristo. Sino a vedere ogni persona come una sua pecora: "Anche altre pecore ho che non sono di questo recinto. Anche quelle bisogna che io conduca. E ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo Pastore". Confessiamolo, pochissime volte abbiamo guardato così agli altri, quelli fuori da "questo recinto", sia esso la Chiesa o, più spesso, quello dei nostri criteri. I lontani della Chiesa, quelli che divorziano e abortiscono, il vicino che ci vuol far causa, il figlio che fa quello che vuole, il marito entrato in crisi che non ne vuol più sapere di Dio e dei preti, i parenti, i colleghi, i nemici.
Ma se sperimentiamo davvero che Gesù ha "disposto" la sua vita perché potessimo vivere come sue pecore, beh allora i nostri occhi si aprirebbero e guarderemmo agli altri in modo diverso. Comincerebbero ad "interessarci", ad essere parte di noi, legati al nostro destino, perché il nostro cuore sarebbe lo stesso di Cristo.Smetteremmo di fare, del "recinto" che ci sta gestando per uscire ad amare, come a volte accade nella Chiesa e nelle sue comunità, un muro invalicabile pieno di giudizi e pregiudizi. "Conoscendo Cristo come da Lui siamo conosciuti" sapremo anche noi "esporci" ai pericoli per salvare la vita del prossimo; "disporre" il nostro tempo, gli impegni, il portafoglio, le comodità, per il bene dell'altro; e "deporre" tutto di noi, compreso l'onore e la stima, i criteri e le idee, per uscire con Cristo a "condurre" chiunque ci sia vicino verso il suo amore. Attraverso la sua Pasqua fatta carne e vita in noi tutti, potranno "ascoltare" l'annuncio del Vangelo come dalla bocca del "Pastore bello e vero", perché "diventino un solo gregge, un solo pastore". Come ha scritto Silvano Fausti, "nel testo greco non si dice un solo gregge e un solo Pastore con la congiunzione; neppure un solo ovile e un solo Pastore, ma si dice: un solo gregge virgola un solo Pastore. Cosa vuol dire quella virgola? Che Pastore e gregge sono la stessa cosa; non c'è bisogno di una “e” che li congiunga come fossero due cose, non c'è bisogno di metterli insieme perché sono distinti, sono un'unica realtà".
Le persone che ci sono accanto appartengono già a Cristo, come noi. Hanno solo bisogno della sua Parola che li "conduca", "bella e vera" nella carne della Chiesa inviata sino ai confini della terra. Ciò significa, concretamente, che, con Cristo, nell'altro possiamo ritrovare e riconoscere sempre un fratello, anche quando la ragione, il sentimento, e l'esperienza ci spingono a chiuderci e a lasciar perdere.Perché nell'altro vive Cristo, che ha "deposto la sua vita" per lui; per Lui è santo, da Lui è amato, ed è proprio "questo il comando" che Gesù ha "ricevuto dal Padre", amore allo stato purissimo. Nessuno, né noi, né chiunque altro, fosse anche il più grande peccatore, "ha tolto la vita" a Gesù: è Lui che, per amore di tutti, per l'amore del Padre che vibrava in Lui, "ha deposto la sua vita da se stesso" in un sepolcro. Ciò non significa minimizzare i peccati, ma solo far risplendere il suo amore, infinitamente più grande del più grande peccato.
Per riscattarci dalla menzogna che ci ha ingannato su Dio, doveva apparire questo amore infinito, che si getta tra le braccia assassine senza riserve, prima ancora che si fossero mosse per uccidere. Un amore che ha armato la mano del nemico perché "spurgasse" sino in fondo tutto il male e lo raggiungesse. Gesù si è "esposto" al peccato per poterlo distruggere nel suo amore. Questo, infatti, è infinitamente più "potente" del demonio, e per questo Gesù, che è Dio, ha ha avuto il "potere di riprendersi" la sua vita, e con essa, anche quella di ogni uomo "rapito" dal "lupo". Anche tu ed io, come ogni altro uomo; per questo, una volta "ripresi" da Gesù, siamo inviati, ad "esporre" con Lui la nostra vita per "riprenderla" insieme a quella di quanti sono già pescati dalla sua Croce, ma ancora non lo sanno. A far risuonare la "sua voce", perché chi la ascolta cammini insieme a noi nell'unico gregge che si dirige verso il Cielo.

venerdì 23 aprile 2021

 


MANGIARE LA CARNE DI CRISTO E BERE IL SUO SANGUE PER ESSERE OFFERTI NELLA STORIA
Ci troviamo all'epilogo del grande discorso di Gesù nella Sinagoga di Cafarnao. Alle sue parole i Giudei cominciano a "litigare" tra di loro. E' questo il senso della parola greca, molto piu' forte di "discutere". Quell'uomo che si definisce l'unico pane di vita, e indica nella sua stessa carne la vita eterna, suscita uno scuotimento interno, e, soprattutto, obbliga a prendere posizione. La sua parola divide. E' la spada che penetra sino alle giunture più profonde e mostra quello che vi e' di nascosto, le vere intenzioni dei cuori, perche' la verita', all'emergere, provoca sempre contrasti. Siamo noi che crediamo, avvolti nei nostri moralismi, che la parola di Gesu' debba automaticamente provocare consensi, pace, tranquillita'. E invece no, perchè essa urta inevitabilmente con la durezza dei cuori, con l'ostinazione delle menti, con le difese della carne. Ed e' un urto violento, una saetta che fa luce, che spazza via l'ipocrisa, e denuda, polverizza le consuetudini borghesi, le alienazioni, le idolatrie, le false certezze dove l'uomo tenta, goffamente, di installarsi.
Appare come in filigrana il rifiuto patito dal Signore in quel di Betlemme, dove non v'era posto per Lui e per i suoi genitori in nessun albergo: "i suoi non hanno accolto" una carne che s'era fatta albergo della divinita'. La carne schiava del peccato, infatti, non può accogliere il Signore. Per questo i Giudei si mettono a litigare, come una forma di difesa, cercando giustificazioni, un po' come è accaduto ai progenitori. Il frutto della disobbedienza e' stato infatti il taglio della relazione con Dio e, conseguentemente, di quella tra Adamo ed Eva. Alla domanda con la quale Dio lo aveva cercato e scoperto, Adamo oppone un'accusa a Eva, condita da quella diretta direttamente a Dio: "La donna che mi hai messo accanto mi ha dato il frutto da mangiare".
E' la stessa situazione che incontriamo nel Vangelo di oggi, la medesima accaduta nel deserto, quando, dopo aver mormorato per la carne, il popolo comincia a "litigare" e ad accusare Mose' reclamando acqua per non morire di sete. Sappiamo bene che prendendosela con il loro capo in realtà stavano dirigendo i loro strali a Dio. Cosi' nel Vangelo. Litigano tra di loro ma in fondo si tratta della resistenza che oppongono alle parole di Gesu', e, in esse, a Gesu' stesso. Esiste per i Giudei una barriera invalicabile, ed e' proprio la carne di Gesu'. Credono di conoscerlo, lo hanno visto crescere, sanno tutto della sua famiglia, Lui ha una storia esattamente uguale alla loro, e per questo, ovviamente, non puo' salvarli, quella carne e' carne come la loro, non puo' dare la vita.
I loro occhi, i pensieri, i cuori si fermano sull'uscio della casa, non possono entrarvi. Restano sulla superficie delle cose, come Eva che fu ingannata proprio dagli occhi che si fissarono sull'apparenza, come il Popolo d'Israele che, sulla soglia della Terra Promessa, cede alla paura dei popoli che l'abitavano, incapaci di riconoscere nei prodigi operati da Dio sino ad allora, la sua fedelta' e il suo potere. Anche noi ci fermiamo spesso alla buccia degli eventi e delle persone. Vi e' un passo del Profeta Geremia che ci aiuta a comprendere che cosa e' accaduto ai Giudei nella Sinagoga di Cafarnao e quello che accade a tutti noi: "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore. Egli sara' come un tamerisco nella steppa; quando viene il bene non lo vede. Dimorera' in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine dove nessuno può vivere" (Ger. 17, 5-6).
Esiste una maledizione che grava su quanti confidano nella carne, ed essa consiste proprio nel non vedere il bene quando arriva. La dimora di chi vive appoggiato alla carne e' una terra dove tutto brucia, e' seccato dal sale, dove non si puo' vivere. Ora comprendiamo perche' Gesù risponde ai Giudei affermando che chi non mangia la sua carne e non beve il suo sangue non può avere in se' la vita. Chi resta ancorato ai propri schemi, chi si chiude ostinatamente alla Grazia, non puo' vedere il bene quando viene nascosto negli eventi e nelle persone, non si accorge di quello che e' celato sotto le apparenze, non vede e non coglie i segni. Dira' Gesu' in un altro momento: "Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri?" La Gloria e', nel linguaggio biblico, la presenza e la consistenza delle cose. I Giudei sono cosi' l'immagine di chiunque cerca la consistenza, il valore della propria vita dalla carne di altri uomini. I vana-gloriosi non possono credere, sono prigionieri delle catene carnali, ogni giudizio, pensiero, progetto, relazione, tutto e' avvelenato dalla carne. Essa richiama la corruzione, il transitorio, la morte: "Ogni carne è come l'erba... ma la Parola di Dio rimane in eterno" (Is. 40,6).
Per questo Gesu' dira' che i padri hanno mangiato si' la manna, ma sono morti. Essa era solo una profezia di quanto sarebbe accaduto, un segno che Dio, nella precarieta', avrebbe provveduto in modo definitivo, compiendo quanto quel frumento sceso dal Cielo stava annunciando. Nel cammino della vita, nella totale precarieta' dell'esistenza, Dio avrebbe deposto una rugiada di vita eterna. Nella carne, Dio avrebbe deposto la vita che non muore. Dio avrebbe visitato di nuovo il mondo, avrebbe compiuto la Pasqua definitiva, la liberazione di ogni uomo dalla schiavitu' del peccato. Si', Dio avrebbe liberato i suoi figli dalla prigione della carne, avrebbe aperto i loro occhi sulla verita', il suo amore infinito celato in ogni istante della storia. E lo avrebbe fatto nel suo stesso Figlio, inviandolo ad ogni uomo quale apostolo della sua stessa vita. Il Padre, fonte della vita che non muore, lo ha inviato a donare quella stessa vita, l'unica capace di saziare i desideri dell'uomo. Gesu' stesso ha vissuto, nella sua carne, "per mezzo" della vita del Padre. La sua carne l'ha custodita sin sulla Croce, sin dentro la tomba, per lasciarla esplodere vittoriosa sulla morte: "La divinita' si nascose sotto l’umanità e si avvicino' alla morte, la quale uccise e a sua volta fu uccisa. La morte uccise la vita naturale, ma venne uccisa dalla vita soprannaturale" (S. Efrem). Nella carne di Cristo si e' compiuta la vera e definitiva liberazione.
Ad essa ogni figlio di Adamo puo' attingere per non vedersi piu' morire. In Lui si realizza l'esodo definitivo, quello che dall'Egitto che tutti sperimentiamo, la schiavitu' della carne che ci obbliga a fabbricare mattoni per piramidi dove seppellire i nostri idoli muti, ci conduce alla terra della liberta', dove scorrono il latte e il miele dell'amore e della comunione, dell'intimita' con Dio e della gratuita'. La carne di Gesù e' la carne dell'agnello offerto in riscatto per i peccati. Il sangue di Gesù e' quello dell'agnello che ha protetto i figli di Israele dall'angelo della morte. Per questo la carne e il sangue di Gesu' sono alimento e bevanda veri, degni di fede. Nella carne e nel sangue di Gesu' Cristo crocifisso, morto e risorto, ogni uomo puo' vedere di nuovo il Cielo, il bene che l'inganno del demonio gli ha occultato. Per questo e' necessario mangiare della sua carne e bere del suo sangue. E' necessario che Cristo rompa in ciascuno di noi le barriere della morte, che cancelli ogni peccato, che deponga la vita dove ci ha preso la morte: "La vita con Dio, la vita eterna nella vita temporale, e' possibile per questo, perche' esiste la vita di Dio con noi: Cristo e' Dio che viene a stare con noi. In lui Dio ha tempo per noi, lui e' il tempo di Dio per noi e quindi, allo stesso tempo, l'apertura del tempo sull'eternita'" (J. Ratzinger, Il Dio vicino).
Tutto questo e' "dimorare" in Gesu', e, con Lui, dimorare in Dio: gli occhi aperti sul volto di Dio, e la sua misericordia capace di saziare e purificare ogni moto del nostro cuore. La vita pacificata perche' nella precarieta' della carne, ha preso dimora l'incorruttibilita' della vita divina. La pace di un abbandono confidente perche' sazio della carne e del sangue del Signore, del cibo che comunica il tutto di Dio. Mangiare di Gesu' allora e' aprirsi, giorno per giorno, umilmente, agitando la bandiera bianca, a una nuova vita, dove le stesse persone e gli stessi eventi acquistano una luce nuova che emana la vita celeste scesa sino alle profondita' delle nostre storie. Esse, in Cristo, non sono lanciate verso il nulla, ma in cammino verso la pienezza di quella vita che gia', oggi, possiamo pregustare.
Mangiare la carne e bere il sangue del Signore e' accogliere la nostra stessa vita trasformata dalla potenza della sua Vita: e' Lui che ogni giorno si fa nostro prossimo, viandante con noi come sulla strada di Emmaus. Mangiare di Lui e' implorarlo di non passare oltre e di fermarsi esattamente dove ci troviamo, perche' quell'evento che ci spaventa, quella relazione difficile che ci blocca, non ci incuta piu' il timore che ha indurito il cuore del Popolo d'Israele facendolo ritornare sui propri passi e impedendogli di entrare nel riposo promesso. Gesu' e' mandato a noi oggi perche' possiamo vivere per Lui, come Lui ha vissuto per il Padre: cio' significa vivere nella storia concreta che si dipana dinanzi a noi, come Gesu' ha vissuto il cammino alla Croce che lo attendeva. Lui vedeva la vittoria oltre il Golgota, la vita al di la' della propria morte. Con Lui anche noi possiamo sperimentare la vita eterna, il riposo promesso, l'amore infinito che ha distrutto la morte proprio in cio' che ci impaurisce. La carne di Cristo nella nostra carne, il suo sangue nel nostro sangue, per vivere la sua vita, eterna, infinita, che supera le mura dell'orgoglio e della paura, per entrare ogni giorno nella storia e scoprirvi i frutti di pienezza in essa piantati: "Ogni dolore accolto, ancora cosi' nascosto, ogni silenziosa sopportazione del male, ogni superamento interiore di se stessi, ogni inizio di amore, ogni rinuncia e ogni silenzioso atto di affidamento a Dio: tutto cio' diventa ora operante nel tutto; niente di buono accade invano. Alla potenza del male, che con i suoi tentacoli minaccia di attaccare tutta la struttura della nostra società e di soffocarla in un abbraccio mortale, si oppone questo silenzioso circuito della vera vita... nel quale si realizza il regno di Dio, poiche' la volontà di Dio accade sulla terra come in cielo" (J. Ratzinger, Il Dio vicino).
L'eucarestia e', in fondo, questo grande mistero, imparare a dimorare, istante dopo istante, nel cuore di Dio. Dire amen nell'amen di Cristo, nutrirci della volontà di Dio, il cibo del Figlio. Dire amen, affermare e credere che e' degna di fede la storia che Dio prepara per noi, e alimentarci del Pane Vivo disceso dal Cielo nella nostra vita, cosi' come si presenta: amen alla malattia della nipote, amen al carattere del marito, amen al licenziamento, amen alla ribellione del figlio, amen a ogni frammento di vita perche' ciascuno, anche il piu' piccolo, e' un frammento del corpo benedetto di Cristo che ha assunto tutta la nostra vita. Siamo percio' chiamati a riservare ad essa la stessa attenzione devota e piena di unzione con la quale non si perde neanche il piu' piccolo frammento dell'ostia consacrata nella patena, perche' nella patena della nostra carne è vivo Cristo... Imparare a vivere, giorno dopo giorno, nell'amore infinito del Padre, nell'intimita' feconda, libera, pacificante, gioiosa con Cristo suo Figlio. Come Giovanni, reclinato sul petto di Gesù: “Questi è colui che giacque sopra il petto del nostro Pellicano, e Questi fue di su la croce al grande officio eletto” (Dante, Paradiso, XXV, 112-114).

giovedì 22 aprile 2021

 


ATTIRATI DA UN PIACERE PIU' GRANDE
Nella nostra vita, ieri ad esempio, abbiamo davvero "udito" la voce del Padre? Abbiamo percepito, nel fondo del nostro intimo, quel moto dello Spirito che ci conduce a Cristo? Il Padre, infatti, ci parla attraverso il suo respiro, lo Spirito Santo che grida in noi "Abbà, Papà!". E' lo Spirito che ci fa uno con Cristo, spingendoci in ogni circostanza verso di Lui. Chi è mosso dallo Spirito di Dio impara da Lui ad appartenere a Cristo, a volere le cose che vuole Lui, a compiere la volontà del Padre. Chi ha "udito il Padre" ha imparato che la Croce non è un supplizio, ma il luogo dove "tutti sono ammaestrati da Dio", il polo magnetico attraverso il quale il Padre "attira" verso Cristo ogni uomo. E' inutile sforzarsi di "andare" verso Gesù, perché solo attraverso la Croce si può essere suoi discepoli. Ciò significa concretamente che occorre lasciarsi "attirare" da Dio negli eventi e nelle relazioni che ci crocifiggono, come l'ape dal miele. E' naturalmente impossibile, perché tutti rifiutiamo la sofferenza e cerchiamo di evitarla; per questo è necessario convertirsi e lasciarsi inondare dallo Spirito Santo che ci annuncia le Parole del Padre. Esso ci sostiene, ci consola, ci incoraggia ad entrare nel rapporto difficile dal quale vorremmo scappare, perché lo Spirito Santo dà testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio; e un padre non dà mai cose cattive ai suoi figli. "Ascoltare Dio" e "imparare da Lui" significa sperimentare proprio questo, la tenerezza e la misericordia, la provvidenza e l'eredità magnifica che il Padre ha preparato per noi. Non lo sai? Il Padre ci "attira" a Lui attraverso un piacere più grande di quelli del mondo, con cui ci illudiamo di sfuggire alla sofferenza, o di attutirla. Ci "attira" con un piacere alto, che punta diritto all'eternità, che per l'uomo è impossibile da raggiungere e ottenere, e per questo è donato dal Cielo. Imparare dal Padre significa allora essere attirati dal desiderio di Cristo, e Cristo crocifisso, l'ascensore che unisce terra e Cielo, appunto. Dio, infatti, ci attira nella "logica della Croce, che non e' prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita" (Papa Francesco). Ogni nostro desiderio, anche quello tradotto in concupiscenza della carne con cui rifiutiamo la "logica della Croce" e del sacrificio, esprime il desiderio latente dell'unico piacere che può saziare, quello che non uccide ma dona la vita: "Quello che l’uomo cerca nel piacere è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di raggiungere questo infinito" (Cesare Pavese). Ma il demonio ci inganna sovente, illudendoci con un infinito che è pura alienazione che conduce alla morte, perché l'inferno comincia qui ed e' l'assenza del desiderio autentico.
Scriveva Sant'Agostino: "Se il poeta ha potuto dire [cita Virgilio, Ecl. 2 ]: “Ciascuno e' attratto dal suo piacere”, non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo". Solo Lui ha "visto il Padre" e lo mostra a noi, perché possiamo "credere". Ciò significa che ciascuno di noi è avvolto dall'amore che unisce Padre e Figlio: il Padre ci attira verso il Figlio, mentre il Figlio ci rivela il volto misericordioso del Padre. Lasciamoci oggi "ammaestrare da Dio" attraverso la storia; anche le sofferenze, le delusioni, i fallimenti, gli stessi peccati ci ammaestrano e ci fanno umili sino a consegnarci tra le braccia del Padre, crocifisse e accoglienti in quelle del suo Figlio: "L’amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio" (Benedetto XVI, Deus caritas est). E ciò accade nella storia dove è deposta la nostra carne, e giunge a noi attraverso la Chiesa, la Parola e i sacramenti, dove spira fecondo lo Spirito Santo. In esso possiamo vivere ogni desiderio e ogni piacere come un dono celeste, perché nulla e' contro l'uomo quando è vissuto in Cristo. E' Lui il piacere compiuto, e per questo si è fatto carne da mangiare, per saziare la fame di bello, santo e buono che sentiamo, anche se sepolta dal brutto, dal peccato e dal male. In Cristo la carne è redenta, e la sessualità risplende di una luce meravigliosa; attirati dall'amore del Padre e consegnati a Cristo, possiamo sperimentare la bellezza, la pace e la sazietà della nostra carne trasfigurata, fatta essa stessa pane consegnato per la vita di chi ci e' accanto. Ogni relazione, lavoro, studio, svago, é il dono del Pane della vita, il mistero di un amore che non esige e non si appropria di nulla, vissuto come in una liturgia celeste celebrata nella carne. Non a caso sul talamo nuziale veniva posto lo stesso baldacchino che sormontava gli altari, immagine della Shekinà divina, la presenza di Dio che dal Cielo discende sulle specie eucaristiche come sugli sposi; il letto coniugale infatti e' un altare dove si consuma lo stesso mistero di vita che si compie sulla mensa eucaristica: il pane di vita che discende dal cielo e dona la vita. Ma vi è un baldacchino invisibile sopra ogni ufficio, su ogni aula scolastica, su ogni cinema e ristorante, su ogni campo sportivo e su ogni bosco, sulla tua stanza e sulla tua lavatrice. Ovunque e in ogni istante, perché in tutto Dio desta in noi il desiderio del suo Figlio, di "mangiare il pane vivo disceso dal Cielo". E' pane vivo tua moglie, tuo marito, tuo figlio, anche il nemico; non sono la morte, questa è una menzogna del demonio! E' pane vivo ogni difficoltà, la croce che ci attende, perché è Cristo vivo nella volontà di Dio fatta carne. Solo "mangiandone avremo la vita eterna", saremo felici e realizzati. Uniti a Lui "vivremo eternamente", iniziando già da oggi, da ora. Con Cristo quello che stai facendo, pensando, le parole che stai dicendo sono già parte dell'eternità, e recano in sé il gusto dell'infinito, non possono svanire e corrompersi. Perché in Cristo ogni istante e ogni relazione diviene "pane che scende dal Cielo", proprio nella sua carne unita alla nostra. Mamma mia! Questa carne che abbiamo obbligato a peccare può divenire lo scrigno da dove tirar fuori e donare i tesori del Cielo "al mondo"! Così come ha fatto Cristo sulla Croce, quando ha offerto "la sua carne come pane per la vita" di ciascuno di noi. Che meraviglia fratelli essere "attirati" dal Padre per vivere in Cristo! Com'è che si dice oggi? "Non ha prezzo"...