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mercoledì 31 marzo 2021

 


MEDITAZIONE SUL MERCOLEDÌ SANTO
Il tempo propizio
Vi è un tempo per ogni cosa, ci ammonisce severa la sapienza del Qoelet. Un tempo favorevole per essere consegnato, compiere la missione, realizzare l'opera assegnata, e dare così senso e pienezza alla vita. Il tradimento di Giuda segna l'arrivo del momento. E' prossimo, e Gesù lo sa, e per questo si offre liberamente. Quanti di noi nel tradimento dell'amico più caro riconoscono il proprio momento, il "top" della vita? Quanti intravvedono nella consegna di se stessi il meglio che poteva capitare, l'attimo propizio, "eukairôs" secondo l'originale greco, per realizzare completamente la propria esistenza? Il momento favorevole coincide con il luogo dove è preparata la Pasqua! Il tempo di Gesù è anche il suo luogo, ed è il nostro. Certo, qualcuno tradisce Gesù, lo consegna e lo uccide, ma è solo l'aspetto visibile della vicenda. Nell'ombra, nascosta agli occhi della carne, scorre una trama che ha per protagonista Gesù stesso: "Quando, pensiamo al ruolo negativo svolto da Giuda dobbiamo inserirlo nella superiore conduzione degli eventi da parte di Dio. Il suo tradimento ha condotto alla morte di Gesù, il quale trasformò questo tremendo supplizio in spazio di amore salvifico e in consegna di sé al Padre. Il Verbo “tradire” è la versione di una parola greca che significa “consegnare”. Talvolta il suo soggetto è addirittura Dio in persona: è stato lui che per amore “consegnò” Gesù per tutti noi. Nel suo misterioso progetto salvifico, Dio assume il gesto inescusabile di Giuda come occasione del dono totale del Figlio per la redenzione del mondo" (Benedetto XVI, Udienza generale del 18 ottobre 2006).
Giuda prepara la Pasqua
Giuda è come assorbito in un progetto più grande, il mistero che ha cambiato le sorti dell'umanità. A Pasqua ogni ebreo doveva offrire il "Korban Pesach", il sacrificio pasquale, nel Tempio di Gerusalemme. "Korban" significa "sacrificio cruento", e designa l'agnello pasquale; ma in origine, secondo l'etimologia della parola ebraica, significa "avvicinare", "accostare": "Il korban, è l’avvicinatore, colui che avvicina, e se Pesach significa il salto dalla schiavitù alla libertà, il korban è l’avvicinatore del salto, ciò che ci permette di farlo. Saltiamo dentro una condizione di libertà solo col sacrificio" (Roberto Della Rocca, Senza korban non c’è libertà). Il sacrificio dell'agnello era dunque la porta sulla celebrazione della Pasqua, come il visto indispensabile apposto sul passaporto per poter passare dal Paese della schiavitù a quello della libertà. Il "Korban Pesach" costituiva il momento più solenne della festa; la Torà prescrive che tutta la comunità di Israele deve sgozzare un agnello al tramonto della vigilia di Pesach. Ciascuna famiglia numerosa si era procurato in anticipo un agnello che doveva sorvegliare con dovizia durante molti giorni, perché non gli accadesse un incidente che l'avrebbe reso inadatto al sacrifico. Esso "si svolgeva così: la moltitudine dei fedeli veniva divisa in tre gruppi, ammessi successivamente nel grande cortile del tempio. Dopo l'entrata del primo gruppo, le pesanti porte venivano chiuse. Tre suoni di tromba annunciavano l'inizio dei sacrifici. I sacerdoti, muniti di bacini d'oro e d'argento, si disponevano in diverse file che si dirigevano all'altare, i sacerdoti muniti di bacini d'oro in file distinte da quelle dei sacerdoti muniti di bacini d'argento. Immediatamente dopo lo scannamento dell'animale (shchitah), il sacerdote più vicino al sacrificio riceveva il sangue dall'israelita che aveva sacrificato accanto a lui e passava il bacino al sacerdote sul gradino superiore e così via fino all'altare sul quale veniva versato il sangue. I bacini avevano una forma particolare: erano stretti in basso, in modo che non potevano essere posati per terra senza rovesciarsi. I sacerdoti dovevano perciò passarli di mano in mano, senza versare una goccia di sangue. Bisognava fare presto per evitare il coagularsi del sangue. La destrezza e la velocità dei sacerdoti erano uno spettacolo stupendo. Dopo che il sangue veniva sparso sull'altare, alcune parti dei sacrifici (il grasso e le viscere) venivano bruciate sull'altare. Appena il primo gruppo aveva terminato, veniva ammesso per il sacrificio il secondo e, finalmente, il terzo. Durante i sacrifici, tutti i fedeli, diretti dai leviti, cantavano salmi di lode. Poi si arrostivano gli agnelli pasquali, come prescrive la Torah (TalmudB Pessachim 64a)" (Daniel Lifschitz, Sholem Aleichem, Mendele Mokher Sforim, Yitzchaq Leib Peretz, Le feste ebraiche - 3. Pessach - Pasqua).
Gesù si prepara alla Pasqua
Gli elementi della tradizione ebraica contemporanea di Gesù illuminano il senso profondo del Vangelo di oggi. Sappiamo che Gesù, dopo aver risuscitato Lazzaro, nell'immediata vigilia della sua ultima Pasqua "si ritira" dapprima sulle rive del Giordano, e poi a Betania, a casa dei suoi amici più fidati, perché "non era ancora giunta la sua ora". E' Lui infatti l'autentico Korban Pesach, e per questo doveva giungere al sacrificio di Pasqua senza impedimenti. Giuda si reca dai sacerdoti, e vende Gesù per trenta denari: l'agnello è ormai pronto, si tratta solo di attendere il momento propizio. Erano infatti i sacerdoti ad immolare l'agnello, come poi, di lì a qualche ora, si sarebbe realizzato concretamente. Si tratta di immagini e realtà che si sovrappongono, ma rendono l'idea di quanto importante e decisiva sia stata la figura di Giuda. E' lui infatti che, ancor prima degli altri discepoli, si incarica di preparare la Pasqua provvedendo l'agnello e consegnandolo ai sacerdoti.
I discepoli preparano la Pasqua
I discepoli poi continuano a preparare la Pasqua presso la sala dove, come ogni famiglia o gruppo di famiglie, dopo il sacrificio comune dell'agnello al Tempio, si sarebbero recati per celebrare il Seder. Rabbi Yitzchaq Luria, il grande mistico e qabbalista, dice: "Quando la Pasqua è preparata e celebrata come si deve, le forze spirituali che si manifestarono durante la prima Pasqua agiscono nuovamente. Per questo il Talmud dice: «In ogni generazione uno si deve considerare come se lui stesso uscisse dall'Egitto». Ecco perché la preparazione della Pasqua è una condizione essenziale per poter riviverla" (Daniel Lifschitz...). Sappiamo in che cosa consisteva questa preparazione. "Molte settimane prima di Pasqua tutta la famiglia comincia a pulire ogni angolo e fessura della casa da qualsiasi residuo di lievito; lo conserva in uno spazio sempre più ristretto, il giorno prima di Pesach in una piccola stanza. Poi, durante la notte che precede Pesach, tutta la famiglia percorre, a lume di candela, ogni angolo della casa, per eliminare ogni minima traccia di chametz. Questo viene poi bruciato al mattino, mentre tutta la famiglia danza attorno al fuoco. Ma che cosa significa tutta questa preparazione e precauzione? Alcuni rabbini hanno osservato che la differenza tra la parola Chametz 😊 lievito) e matzah 😊 il pane azzimo) sta nella differenza tra la lettera "He" e la lettera "Cheth". Le altre lettere contenute nelle due parole sono uguali. E perché He e Cheth siano uguali manca solo un puntino. Quando Israele uscì dall'Egitto era così degenerato per la dura schiavitù che solo un puntino lo separava dalla morte eterna, dallo stato in cui Dio, secondo i saggi, non può più salvare l'uomo, perché ha varcato il limite della degradazione e ha perso ogni sensibilità spirituale. Se Dio non fosse intervenuto in tutta fretta a liberarlo, Israele sarebbe rimasto in Egitto.... Il lievito è simbolo e segno dell'istinto malvagio che abita nell'uomo. Il desiderio di annientare ogni traccia di lievito e di cibo lievitato, prepara l'ebreo per la festa di Pessach, nella quale deve essere annientato ogni istinto malvagio in noi. Il rabbi chassidico Baruch di Medzibosh diceva, mentre pronunciava la benedizione sull'annullamento dello chametz: «Ogni lievito», cioè tutti gli istinti d'egoismo, «che è ancora in mia proprietà, certamente ne esistono dentro la mia anima, quello che ho visto e quello che non ho visto, penso di averli visti, ma purtroppo non li ho visti, che ho distrutto e che non ho distrutto, penso di averli distrutti, ma purtroppo non li ho distrutti, siano considerati nulla. Sii tu, Signore, a nullificarli e a distruggerli». Lo chametz significa l'istinto malvagio, l'arroganza, la superbia, la grossolanità, la volgarità, la decadenza, la noia, la durezza del cuore e del volto e la menzogna. La matzah invece significa l'istinto buono, la semplicità, il non avere pretese, la rapidità nell'operare il bene, la prudenza, l'umiltà e la verità. È un precetto distruggere completamente questo chametz, e perciò lo si deve cercare negli angoli e nelle fessure e in ogni luogo dove si sarebbe potuto nascondere. L'ebreo deve scoprire i nascondigli dell'istinto malvagio, le sue proprietà corrosive e le sue opere cattive, per poterli distruggere e annientare. Desiderando di liberarsi dal dominio dell'istinto malvagio potrà accedere alla libertà spirituale, e considererà se stesso come un redento che esce dalle impurità dell'Egitto. Dice il Talmud: «Nella notte del quattordici Nissan si cerchi con diligenza ogni sostanza con lievito alla luce di una candela». Si capisce così il vero senso di tutta questa preparazione: prima di sedersi alla mensa del Seder per lasciarsi penetrare dallo spirito di Pessach, bisogna rimuovere ogni briciola di chametz dalla propria casa come segno che si desidera rimuovere dalla propria vita e da sé quello che significa lo chametz. Il Talmud fa derivare l'obbligo di cercare lo chametz di notte alla luce di una candela da questo versetto del libro dei Proverbi: «L'anima dell'uomo è come una luce del Signore, che scruta tutte le stanze del cuore». E' ovvio che c'è un significato molto profondo che viene espresso attraverso la ricerca dello chametz: è la ricerca nel proprio io. Rabbi Pinchas di Koretz così spiegava l'affermazione del secondo libro dei Re: «Difatti una Pasqua simile non era mai stata celebrata dal tempo dei Giudici per tutto il periodo dei re di Israele e dei re di Giuda»: questo allude alla distruzione degli altari pagani e di ogni luogo di idolatria, operata da Giosia dopo questa Pasqua. Egli eliminò veramente tutto il lievito. Portare alla luce il nostro chametz, cioè ogni idolatria che abita in noi, perché il Signore in questa santa notte passi, ci trascini con sé e così ci dia la forza di rinunciarvi: questo è il significato profondo della preparazione pasquale" (Daniel Lifschitz...). Preparare la Pasqua significava dunque innanzi tutto prepararsi alla liberazione, disponendo il cuore ad accogliere l'unico Sposo, eliminando, desiderando dal profondo del cuore di eliminare ogni idolatria. Una sala, per quanto bella e ben preparata, se nasconde ancora in qualche angolo il lievito vecchio, rende inutile il passaggio liberatore di Dio. Non si può partire per l'esodo di una vita nuova rimanendo aggrappati agli idoli dell'Egitto. E' un problema di cuore, dei suoi angoli più oscuri, laddove si annidano gli istinti malvagi, le idolatrie che ci schiavizzano. Si può partire in carovana forse, ma se il cuore rimane lontano, dissipato, anche la notte più santa si traduce nell'ennesima ipocrisia che rende sterile la nostra vita: "Colui che isola la sua coscienza dal cammino del popolo di Dio non conosce l’allegria dello Spirito Santo che sostiene la speranza. È il rischio che corrono coloro che dal chiuso del loro mondo si lamentano di tutto o, sentendo la propria identità minacciata, si gettano in battaglie per essere alla fine ancor più autoccupati e autoreferenziali" (Card. J. Bergoglio, Intervista a 30 Giorni, Novembre 2007). È l’ipocrisia che avvelena tutta la comunità, come quando alcuni israeliti trattennero per sé e nascosero gli oggetti votati allo sterminio, trascinando nella sconfitta l’intero Popolo. Infatti, "perché Pesach sia un'esperienza significativa piena di efficacia e non un semplice ricordo, essa richiede un'azione concreta: l'obbedienza ai precetti pasquali. I saggi di Israele sottolineano che i padri furono redenti dall'Egitto in virtù della loro obbedienza ai comandamenti dati da Mosè per la Pasqua. Non furono liberati per merito di una grande fede - infatti stavano per varcare la quarantanovesima e ultima porta della degradazione, dopo la quale neanche Dio poteva più intervenire - e neanche per una loro azione morale o sociale, ma per una semplice e "stupida " obbedienza alla parola di un altro, Mosè, che parlava a nome di Dio. Il Midrash racconta che furono soltanto i più poveri, così abbrutiti da non avere altra speranza di questa notte promessa, che obbedirono, mentre tutti gli altri Israeliti perirono con i primogeniti o rimasero in Egitto" (Daniel Lifschitz...). Gli "azzimi di sincerità" con i quali ammonisce San Paolo di celebrare la Pasqua, sono l’umiltà di riconoscere i propri peccati, anche quelli nascosti e mascherati di luce, accettare la propria povertà e debolezza, e riconoscere il bisogno di liberazione; senza questa attitudine del cuore non si può uscire dall'Egitto.
Giuda, profeta dell’ora decisiva
Per questo la figura di Giuda è così importante. Smaschera la reale intenzione del cuore perché il suo tradimento, come una lama, mette a nudo il lievito vecchio; lui stesso, lievito malvagio, illumina dove si nasconda il suo gemello che è in noi. Rispondiamo a Giuda con il suo stesso atteggiamento, al male con il male? Oppure, al suo apparire sulla scena della nostra vita, l'agnello mansueto, il "Korban Pesah", il Servo di Yahwè incarnato in noi, si rivela mansueto e umile da non resistere al male? Come per Gesù, è Giuda che ci fa presente lo scoccare della nostra ora. La preparazione, quella decisiva, è compiuta, l'agnello è pronto. Risuonano qui le parole di Isacco sull'erta del Moria: "«Dov’è l’agnello per l’olocausto?» Abramo rispose: «Il Signore provvederà». Isacco tremò perché comprese l’intenzione del padre. Tuttavia si fece forza e disse al padre suo: «Se è vero che il Santo, benedetto Egli sia, mi ha scelto, allora la mia anima è donata a lui». E Isacco stesso si legò volontariamente" (Midrash ai Salmi 116,6). Ecco il cuore di ogni autentica preparazione tesa al compimento: l'anima, pur tremante, donata, consegnata, legata volontariamente alla volontà di Dio. Quel che accadrà poi sarà il frutto di questa consegna, di questo legarsi intriso d'amore. Giuda è il laccio, Giuda apre la porta, Giuda si getta nel buio della morte indicando il cammino da intraprendere per strappare ogni Giuda all’inferno, il cammino del Servo di Yahwè, del Messia Gesù. La storia che ogni giorno incarna Giuda per noi, ci prepara all'evento decisivo, al momento propizio. Fallirlo significherebbe restare in Egitto, con tutti quelli che Dio ha legato a noi nel suo misterioso disegno di salvezza. La vita è qualcosa di tremendamente serio, i giorni, le ore, e forse i mesi, gli anni, non sono che una lunga preparazione per la nostra Pasqua. Il matrimonio difficile, il figlio caduto nella spirale della droga, la figlia separata, la malattia, il lavoro che ci umilia, quell'insulto giunto all'improvviso e che non ti aspettavi. Tutto ci prepara, come in un catecumenato spirituale, alla Pasqua, alla libertà autentica, alla vita che è Cristo risorto.

martedì 30 marzo 2021

 


LA MENTE RECLINATA SUL PETTO DI GESU' DOVE SPEGNERE I DARDI DEI PENSIERI LANCIATI DAL DEMONIO
Gesù sapeva tutto. Sapeva chi lo avrebbe tradito, e come lo avrebbe consegnato, e non fa nulla per cambiarne la rotta. Il mondo, e noi in esso, farebbe carte false per sapere in anticipo, non dico i numeri del lotto, ma anche solo le proprie vicende sentimentali, il futuro dei figli, l'epilogo di storie intricate. Le cartomanti invadono le televisioni, gli oroscopi appaiono sulle prime pagine dei giornali, sedute spiritiche e pellicole di fantasia legate alla magia riempiono le sale cinematografiche. Il desiderio di appropriarsi del futuro e di manipolarlo secondo i propri progetti di felicità ci accomuna tutti. Vorremmo sapere, per regolarci, per parlare, per aggiustare, per non sbagliare; per non morire. E ci inventiamo prevenzioni, diete che promettono salute e benessere fatte per essere smentite, assicurazioni sulla vita, contratti a tempo indeterminato, tutte cose alle quali ci aggrappiamo illudendoci di "aggiungere un'ora sola alla nostra vita". C'è addirittura chi si priva preventivamente di alcune parti del proprio corpo per non ammalarsi di cancro... Gesù invece sa e non fa nulla. Anzi. Lui conosce il destino che lo attende e, attraverso il crogiuolo del Getsemani, vi entra sereno, senza dire parola, come chi ha già vinto. Era consapevole che la sua vita non aveva altro senso e direzione che Gerusalemme, il Golgota e il sepolcro dove "glorificare il Padre" passando dalla morte alla vita. Sapeva perché portava sigillato nel cuore il segreto del Padre, l'amore che riempiva quella volontà, che appariva alla carne così cruenta. Gesù non aveva bisogno di maghi, di indovini e di oroscopi, neanche di illusionisti che vendono fumo spacciandolo per qualità della vita, o di politici che promettono denaro e lavoro; non aveva bisogno di personal trainer e di motivatori, filosofi e tuttologi dispensatori di consigli e segreti per cavarsela e riuscire nella vita. Gesù sapeva di essere Figlio di Dio, e questo era tutto: la volontà del Padre era la sua, ed era amore perché nessuno si perdesse. Come Abramo e Isacco, “i due si guardavano negli occhi” come in uno specchio, perché avevano lo stesso cuore, la stessa mente, e lo stesso Spirito. Esattamente ciò che manca a noi, che invece di fissare il Padre contempliamo narcisisticamente noi stessi. Per questo, tristi e insoddisfatti, siamo come obbligati a dare ogni giorno un senso alla marcia della vita, sforzandoci di cambiarne l'orientamento quando non è secondo le nostre carte di bordo. Ci illudiamo di stabilire la meta, tracciamo di conseguenza il percorso, dimenticando però chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando.
Per questo oggi, accanto a Gesù, appare, con “il capo reclinato sul suo petto”, la figura del “discepolo che Lui amava”. Tu, ed io: la sua dolcezza, la sua tenerezza infinita, la sua mitezza di fronte alla storia che lo conduce alla morte, il suo amore, ci attirano a sé, nel profondo del suo cuore. La luce per la nostra vita, per comprenderne il senso e discernere il cammino, è la luce di Pasqua che emerge dal suo cuore squarciato, immagine del sepolcro aperto sulla vita e definitivamente serrato in faccia alla morte. Siamo chiamati a deporre la nostra mente sul cuore di Gesù, come un corpo nel sepolcro, come un catecumeno si immerge nella piscina battesimale: "Rapisca, ti prego, o Signore, l’ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo, perché io muoia per amore dell’amor tuo, come tu ti sei degnato morire per amore dell’amor mio" (San Francesco). Gesù ci chiama oggi a lasciare che i pensieri, i progetti, i criteri, fossero anche i più santi e ragionevoli, siano assorbiti nel fuoco del suo cuore, per vederli trasformati in palpiti d'amore; nulla di smielato e sentimentale però, piuttosto l'amore autentico e fatto carne nella vita che "muore per amore" dell'amore di Cristo; l'amore che offre la mente alle spine della stessa sua corona, per non dimenticare il dolore dei peccati che sorgono sempre da un pensiero mondano, e tenere desta la memoria della sua misericordia. "Reclinare il capo sul petto di Gesù" significa entrare nello scrigno del suo intimo, dove è custodito il senso di ogni evento, anche il più banale. Perché, come scrisse il Beato Card. Newman, "il cuore parla al cuore", e solo chi lo ascolta può accoglierne i tesori. Sul petto di Gesù, tutto in noi è santo, così come è, non dobbiamo toccare nulla; niente da togliere, niente da aggiungere.
Giuda invece "è finito sotto il dominio di qualcun altro: chi rompe l’amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo «dolce giogo», non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze" (Benedetto XVI). Quando poi, comprendendo l'errore, Giuda tenterà un ritorno, l'orgoglio a cui si era consegnato gli impedirà di credere all'amore smisurato di Cristo. Non aveva mai reclinato il suo capo sul petto di Gesù, non aveva udito i battiti del suo cuore che si commuoveva per lui, non aveva quindi potuto comprendere la sua Parola e il suo amore. Giuda “mangia il boccone intinto” da Gesù, ma dubitando di Lui; e, dice San Paolo, "chi mangia dubitando si condanna". Gesù, pur conoscendo la malizia del suo cuore, non esita a “prendere” quel boccone sacramento del suo corpo, e a “darglielo”, perché sa che senza quel boccone non avrebbe compiuto la sua missione. E’ tremendo: da una parte emerge l’amore di Gesù che, in quel boccone, si offre da se stesso a Giuda e alla Croce prima ancora di essere consegnato; dall’altra si rivela l’abisso a cui può arrivare il cuore dell’uomo: invece di reclinare il capo sul petto di Gesù, tutti possiamo prendere e mangiare i segni del suo amore con un cuore doppio, dubitando che sia davvero amore, e aprendo così a satana la porta del nostro cuore. E’ dopo aver mangiato quel boccone, infatti, che “satana entra in Giuda”. Prima c’era solo la sua debolezza che poteva ancora abbandonarsi alla misericordia di Cristo. Prima c’erano i suoi dubbi, i suoi ragionamenti, i suoi criteri, che avrebbe potuto gettare nel cuore di Cristo. E invece si è chiuso in se stesso, e quel boccone di vita si è trasformato in cibo di morte. Attenzione eh, si tratta di un pericolo in agguato per tutti noi. Giuda, infatti, è l'immagine di quanti, chiusi gli occhi alla luce dell'amore, si infilano "nella notte" della giustizia umana che non conosce misericordia. Attenti allora, perché Giuda, ovvero lo spirito malvagio e incredulo del demonio, ci aspetta al varco, nella notte di questo mondo: è in ufficio, a scuola, forse in famiglia; in un tradimento, nel disprezzo, nella solitudine. O nelle malattie, nelle difficoltà, nei fallimenti e nella precarietà. Ci aspetta soprattutto con il suo ghigno beffardo, quando ci scopriamo peccatori, incapaci di amare, un blocco granitico di orgoglio e superbia; è allora che, prendendo spunto dalla nostra debolezza, ci induce a dubitare, anzi a disperare e a disprezzarci, e così a rinnegare Cristo e il suo amore, troppo grande per essere vero. Giuda si nasconde anche nella paura di fronte alla grandezza della chiamata, al matrimonio o al celibato, nel terrore dinanzi alla possibilità di un amore indissolubile che urta con la provvisorietà delle nostre affezioni. Ma proprio le nostre debolezze e le contraddizioni della storia sono il luogo dove sperimentare che in tutto e in ogni istante, scorre l'amore di Dio, come un fiume di Grazia. Ma per riconoscerlo, dobbiamo accogliere in noi lo sguardo di Gesù che vedeva la trama positiva, di Grazia e di Gloria anche negli occhi assassini di Giuda. Lo sguardo del suo cuore che, oltrepassando i deboli sentimenti d'affetto e di giustizia di Pietro, lo vedeva già piangente sui suoi peccati, perché lo aveva già perdonato.
Fratelli, per trasfigurare il nostro sguardo in quello di Cristo, entriamo con Lui nel Cenacolo in questa vigilia della sua Passione; e impariamo ad entrarci ogni giorno, prima della nostra passione: prima di un’operazione delicata, di una decisione da prendere, di fronte alle difficoltà di relazione con il coniuge e i figli, dinanzi alla Croce che ci attende. Prima del Getsemani c’è il Cenacolo, dove reclinare il capo sul petto di Gesù, perché solo così impareremo ad entrare nella storia e a reclinare il nostro sulla Croce, l'unico posto dove Cristo stesso ha potuto reclinare il suo… Quando siamo crocifissi con Cristo, scocca l'ora nella quale "glorificare il Padre" e Cristo in noi. Ogni ora nella quale la carne bestemmierebbe, è quella favorevole per rendere gloria a Dio. Ma dobbiamo preparaci nel Cenacolo, immagine della comunità cristiana, dove ci accoglie la "profonda commozione" di Gesù per ogni nostro tradimento perché ci abbandoniamo alle sue viscere di misericordia. In essa, infatti, si ascolta la sua Parola e ci si nutre di Cristo nei sacramenti; si diluiscono le angosce nella preghiera, e si depone l’inconsapevole orgoglio di Pietro nell’abbraccio amorevole del Signore, dove accettare la propria debolezza. Satana, infatti, lo si affronta solo nascosti nella fenditura della roccia da dove far udire allo Sposo la voce del nostro cuore. Le tentazioni e le incredulità si vincono solo reclinati sul petto di Gesù, come il tralcio è unito alla vite, nella consapevolezza umile che da soli non possiamo nulla. Lì dentro infatti, nella fornace ardente del cuore di Cristo, sperimenteremo di essere i suoi discepoli amati, partecipi della sua stessa missione. Il fuoco del suo amore ci fonderà in Lui perché si infranga su di noi, ormai divenuti una cosa con Cristo, il male di questa generazione. Chi vive nella comunione della Chiesa si abbevera ogni istante della misericordia che sgorga dal petto di Gesù, “e non è forse la misericordia un "secondo nome" dell'amore, colto nel suo aspetto più profondo e tenero, nella sua attitudine a farsi carico di ogni bisogno, soprattutto nella sua immensa capacità di perdono? Suor Faustina Kowalska ha lasciato scritto nel suo Diario: "Provo un dolore tremendo, quando osservo le sofferenze del prossimo. Tutti i dolori del prossimo si ripercuotono nel mio cuore; porto nel mio cuore le loro angosce, in modo tale che mi annientano anche fisicamente. Desidererei che tutti i dolori ricadessero su di me, per portare sollievo al prossimo". Ecco a quale punto di condivisione conduce l'amore quando è misurato sull'amore di Dio!" (Giovanni Paolo II). Ecco, nel cuore a cuore con Cristo che travasa in noi il suo amore, possiamo vivere il “prima” di ogni evento della nostra vita discernendo in ciascuno il suo Mistero Pasquale che ci attende; e così “potremo” entrare in quel "più tardi" nel quale “andare con Gesù dove Lui è già andato”, il Regno dove riposare eternamente sul suo petto, del quale anche in questa Pasqua ci verranno donate le primizie squisite.

domenica 28 marzo 2021

 


DOMENICA DELLE PALME, L'AMORE DI CRISTO CHE VINCE LA PAURA
Domenica delle palme, Domenica della Passione di Gesù. Che cosa successe quel giorno a Gerusalemme? Mentre il Signore, cavalcando un umile asinello, vi faceva ingresso, “la gran folla venuta che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele” (Gv 12, 12-13). Una folla festante che riconosceva apertamente in quel profeta di Nazaret “colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele”, ovvero il Messia. Ebbene, proprio l’ingresso di Gesù a Gerusalemme è come un’ammonizione dettagliata a ciò che sarebbe accaduto dopo. Il Messia si sarebbe rivelato al Popolo, ma in un modo sorprendente, al punto di non essere più accettato come tale, e rifiutato, e condannato alla morte più umiliante, quella riservata ai delinquenti più efferati. Che cosa era successo? Come è stato possibile che, dall’acclamazione, si fosse passati alla crocifissione? Per la delusione. Quel profeta galileo, che tanti segni e prodigi aveva compiuto, non era quello che si aspettavano. Proviamo a immaginare l’attesa messianica di quel tempo. Non è difficile, è la stessa di oggi. Come quel giorno di duemila anni fa anche noi siamo ostaggio della paura, e un senso di sfinimento che sembra proprio di non farcela più.
Risuonano qui le parole di Gesù che, commuovendosi nel vedere le folle, diceva “pregate il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe”; vedeva, infatti, le folle vagare “stanche e oppresse come pecore senza pastore”; e dentro quelle folle c’è sicuramente qualcuno che ami e che conosci, forse tua madre, tua figlia, tuo fratello e tua cugina, il tuo collega e il 90 per cento dei compagni di scuola di tuo figlio che soffrono sotto le macerie della loro famiglia disgregata. Probabilmente ci sei anche tu, “stanco e sfinito”, per quello che stiamo vivendo e che non riusciamo a controllare più nulla, per un peccato che ti porti dentro, per una malattia che non accetti, perché ti hanno licenziato ingiustamente, o ti è appena arrivata l’ingiunzione di sfratto. Non ce la fai più , vero?, e aspetti il Messia che ponga fine a questa situazione. Ma col tempo, con le delusioni perché qui sembra non cambiare nulla, l’attesa si è trasformata vestendo i panni della sfiducia e del cinismo, perché a forza di pregare e aspettare ci facciamo vecchi davanti alla finestra… E così, a poco a poco, ti ritrovi ad aspettare non il Servo che ti lava i piedi e prende su di sé i tuoi peccati, ma il giustiziere capace di ribaltare le tue sorti ostaggio dell’ingiustizia.
E con questi sentimenti, con la stanchezza di chi non ha più un pastore da seguire, ti stai preparando per accorrere anche tu a Gerusalemme, alle liturgie della settimana santa in parrocchia. Agiterai le palme in processione, reciterai il Credo perché credi che sì, è Gesù il tuo Re, e canterai Osanna a Colui che viene nel Nome del Signore. Che viene a farti giustizia. Ti commuoverai ascoltando il racconto della Passione, riuscirai anche a capire che per qualche tuo peccato ha dovuto patire così, ma per quello grosso di qualche anno fa eh, quando ti sei preso una sbandata per quella collega.
Adesso forse è più facile comprendere come a Gerusalemme fosse stato possibile quel cambio così repentino nei confronti di Gesù. Non inganniamoci, il cuore non era cambiato, per nulla. Magari si fosse convertito… Ma la folla aspettava un Re vero, a capo di un forte esercito ben armato, che spazzasse via i Romani e ristabilisse il Regno di Israele; e quando si è accorta che quel profeta che faceva miracoli e risuscitava i morti non era entrato a Gerusalemme per iniziare nessuna guerra; quando hanno guardato bene l’asinello che cavalcava, beh, addio profezie sul Messia umile, non era di quello che avevano bisogno. Se poi entra nel Tempio e comincia a rovesciare tutto, beh allora significava che se l’era venuta a cercare. Era un impostore, altro che. Un falso profeta che, con dodici poveracci al seguito, si dichiarava addirittura Figlio di Dio, e non muoveva un dito per difendere Dio e riscattare i suoi eletti. Un bluff in piena regola, che è esattamente quello che anche noi pensiamo di Gesù. No, no di quel Gesù che ci siamo costruiti con la fantasia e che da decenni acclamiamo in questi giorni santi. Di quello pensiamo bene, solo che non esiste.
Mentre è vivo, perché è risorto, il Gesù crocifisso, che è salito a Gerusalemme proprio per farsi trafiggere e portare in Cielo le piaghe del peccato e trasfigurarle nella luce della misericordia. E’ vivo il Gesù che, sino a un istante fa, abbiamo condotto al macello, Lui, l’Agnello muto di fronte ai suoi tosatori. E’ vivo Gesù che, come Pilato, hai condannato infischiandotene della Verità, perché tu avevi già capito tutto, come si deve fare in casa, al lavoro, nel condominio. E’ vivo Gesù che hai schernito beffardamente come Erode, illuso che il tuo io fosse dio e bastasse adorarlo per sentirsi come un re. E’ vivo Gesù che hai coperto di sputi e insulti mentre giudicavi tuo marito.
E’ vivo Gesù che hai flagellato con le calunnie ai danni del collega, o le chiacchiere pettegole che ti sfuggivano così, semplicemente, davanti a un cornetto e cappuccino, o al telefono con la tua amica. Una constatazione dei fatti, niente più, vero? Ognuna come un colpo di flagello sul corpo di Gesù che custodiva la dignità del fratello scorticato dalle tue chiacchiere insulse. E’ vivo Gesù che hai coronato con le spine delle tue ipocrisie; pregavi e mentivi; ti battevi il petto e fornicavi nel cuore; predicavi, e desideravi di saziare la carne; educavi cristianamente, ed erano moralismi come spine che conficcavi nella vita dei tuoi figli; facevi elemosina, ma era il superfluo del superfluo, e nel cuore sbavavi per quel televisore al plasma. E’ vivo Gesù che hai schiacciato sotto il peso delle tue mormorazioni. E’ vivo Gesù che hai crocifisso con i tuoi peccati, uno dopo l’altro, un milione, un miliardo, frecce da scoccare per amare tristemente ciccate e cadute ai piedi della tua superbia. E’ vivo Gesù che ha bevuto l’aceto della tua stolta idolatria, sembrava successo, era solo amaro fallimento.
E’ vivo Gesù che disteso le sue braccia per abbracciarti nella misericordia che non conosce condizioni. E’ vivo Gesù che hai avvolto nella tua incredulità, e sepolto negli inferi della tua disperazione. E’ vivo Gesù che hai chiuso nel buio della meschinità dietro la pietra della tua superficialità. E’ vivo Gesù che non ha resistito al tuo male, al male di tutti, dei tagliagole e dei lavacervelli, di tua suocera e dell’assessore che ha rubato i soldi destinati alle tue cure. E’ vivo Gesù che ha assunto l’ingiustizia per fare giustizia di ogni peccato, grembo avvelenato del male che ferisce il mondo. E’ vivo Gesù che ha amato senza condizioni, rovesciando ogni criterio, ogni giudizio. E’ vivo Gesù che regna sulla Croce gloriosa e non nei palazzi del potere. Sulla tua e sulla mia, dove ti attira in questa Domenica delle palme, di Passione e martirio.
Coraggio allora, riconosciamo d’essere peccatori veri, come e più di ogni altro; apriamo gli occhi e accettiamo di essere gli ultimi, i più indegni. Allora ci sentiremo abbracciare e issare sul Legno del martirio, per agitare, con la “moltitudine immensa che è passata attraverso la grande tribolazione e ha lavato le vesti e le ha rese candide nel sangue dell’Agnello”, le palme del nostro martirio unito a quello di Cristo, il Pastore umile delle nostre anime. Per questo siamo stati scelti e chiamati dal mondo: per testimoniare con la nostra vita la vita di Cristo risorto in noi, l’amore più forte della morte, la misericordia che dissolve il male che è alle porte di casa. Domenica delle Palme significa proprio questo, Domenica del martirio che salva il mondo; Domenica di Cristo e dei cristiani, la tua e la mia Domenica, che apre le porte del Mistero Pasquale a chiunque ci è vicino e brancola nel buio dei peccati e della menzogna.

sabato 27 marzo 2021



 IL DOLORE DELL'INNOCENTE ACCOGLIE OGNI NOSTRO DOLORE PER TRASFORMARLO IN UN SEGNO DI VITTORIA

La sofferenza degli innocenti, perché? "Non esiste nessun interrogativo più incalzante per gli uomini" (Hans Urs Von Balthasar, Incontrare Cristo). La Quaresima ci ha accompagnato alle soglie di questo mistero, nel quale anche la nostra vita è immersa; come un tesoro che brilla all'aprirsi dello scrigno, il Vangelo di oggi ci annuncia che esiste un perché anche per gli aspetti più bui della nostra esistenza. La profezia con cui Caifa decreta la sua morte, infatti, illuminando il senso della vita e della missione di Gesù ci raggiunge con la stessa luce. Proprio chi insidia la nostra vita e ha deciso di ucciderci, chi ci fa del male gratuitamente, proprio il nemico, è il profeta che illumina di giustizia l'ingiustizia. Le sue parole piene di rancore, invidia, gelosia e odio, l'oltraggio al nostro onore, quelle che ci umiliano nell'insignificanza, proprio quelle parole svelano il senso nascosto nel male che si abbatte su di noi. Il mistero di un amore che si carica del peccato altrui, del male e della morte, per salvare, redimere, risuscitare. "Il mistero, nessun mistero quand'è tale, ossia quando procede dalla trascendenza di Dio che s'incontra con la finitezza dell'intelletto umano, «divarica» la coscienza: o la ragione si rifiuta e cade nell'ateismo cioè nel buio dell'apparente evidenza, e perciò contraddittoria, delle apparenze oppure sale con la fede nell'apertura della Verità incommutabile" (Cornelio Fabro). Le labbra di Caifa dischiudono quest'apertura alla Verità incommutabile. Egli sussurra a Gesù il dovere da cui è afferrata la sua missione. Le parole del Sommo Sacerdote cercano e trovano quell'Uno solo che può salvare il Popolo e i Popoli di ogni tempo. La sua profezia incontra l'ardente desiderio, la "santa concupiscenza" di Gesù di celebrare e compiere la sua Pasqua. L'astuzia politica, mondana, mista a gelosia, rancore, invidia del Sommo Sacerdote secondo la carne, intercettano la mitezza, la misericordia, l'amore dell'unico e autentico Sommo Sacerdote secondo lo Spirito: "A noi occorreva un tale Sommo Sacerdote: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori, elevato sopra i cieli... Cristo, apparso come Sommo Sacerdote dei beni futuri... non mediante il sangue di capri e vitelli, ma in virtù del proprio sangue entrò nel santuario una volta per tutte, ottenendo un riscatto eterno... e purificherà la vostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivo!" (Eb. 7,26. 9,11-14). Il sangue di Gesù era proprio quello che occorreva per riunire i dispersi, perché il Popolo potesse tornare a vivere la propria vocazione, quella per la quale era stato liberato dal giogo del Faraone: servire il Dio vivo! Il sangue di Gesù profetizzato da Caifa, voluto e ottenuto da Caifa. E' il male stesso infatti che grida al bene di distruggerlo! E' il nemico che, uccidendo, implora inconsciamente alla sua vittima la grazia del perdono. Il male può solo lanciarsi verso la propria distruzione. Ma ha come bisogno di una roccia, di una barriera su cui infrangersi. E la trova in Cristo. Lo descrive magistralmente Peguy: "Ha ben saputo quel che faceva quel giorno, mio figlio che li ama tanto. Quando ha messo questa barriera fra loro e me. Padre nostro che sei nei cieli, queste tre o quattro parole. Questa barriera che la mia collera e forse la mia giustizia non supereranno mai. Beato chi s’addormenta sotto la protezione dei bastioni di queste tre o quattro parole" (C. Peguy, Il mistero dei santi innocenti). Un solo Figlio perché tutti tornino ad essere figli. Per questo, nelle parole di Caifa risplende l'ultima profezia, che riannoda il filo di tutte le altre e annuncia il compimento della Storia della Salvezza. Ma i farisei e i sommi sacerdoti non avevano capito nulla, non avevano considerato bene i fatti: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Il testo originale greco ci aiuta a comprendere: "non conoscevano e non calcolavano" che proprio i segni compiuti da Gesù lo stavano consegnando alle loro mani per salvare la Nazione. Non entravano in relazione (conoscevano) con quegli accadimenti al punto di tradurli in una volontà che si facesse azione concreta (considerare). "Conoscere", così come "considerare", "stimare", per un ebreo non è mai qualcosa di semplicemente intellettuale; ogni attività del pensiero è strettamente legata all'agire. In Dio parlare significa compiere. Caifa rimprovera i farisei e gli altri sacerdoti di non saper leggere gli avvenimenti per tradurli in un progetto e compierlo. Non sanno interpretare i segni per escogitare un piano di salvezza per la Nazione. Può sembrare scandaloso, ma Caifa ha parlato in nome di Dio, ha reso presente la verità divina e ha indicato il cammino da seguire. Ed è esattamente quello che i due verbi greci che compaiono nel testo significano. Nella profezia di Isaia "il Servo di Dio fu considerato (annoverato) fra i malfattori" (Is. 53,12), dove, nella traduzione greca dei LXX è usato lo stesso verbo pronunciato da Caifa. In questo passivo vi è la volontà di Dio, il "disegno", il "calcolo" di Dio che colpiva il Servo al posto nostro, per i nostri peccati! Dio aveva considerato bene di far ricadere su uno solo il peccato di molti: "Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti... ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori. (Is. 53). Ed è quanto, nel vangelo di Luca, Gesù annuncia circa la sua missione: "Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori" (Lc. 22,37). Così, quando appare Caifa nella nostra vita, occorre prestare ascolto alle sue parole. Sono la profezia che ci indica la verità divina e ci indica il cammino da seguire. Quando sull'orizzonte della nostra storia si profila l'ingiustizia e il nemico si muove contro di noi, è il momento di ascoltare la Parola di Dio racchiusa in questi avvenimenti, pur rimanendo parola umana nell'assurdo di un nemico che la incarna. Ma è una Parola che si appoggia alla nostra fede e ci invita a guardare a quello che ci attende: nell'onda che ci viene incontro per travolgerci è sigillato il tesoro più prezioso, l'amore infinito di Dio che attende di farsi carne in noi per la salvezza di ogni uomo. Dobbiamo ammettere di non aver capito nulla e di non aver considerato la nostra esistenza. Non conosciamo e non accogliamo la storia che Dio ci dona, non calcoliamo le occasioni che essa ci offre. Ma deve compiersi in noi la stessa parola che ha dovuto compiersi in Gesù. Siamo frutto del suo riscatto, ogni nostra cellula, ogni nostro istante, tutto di noi è stato ed è bagnato dal suo sangue benedetto. Dispersi nei peccati, dissipati nei vizi, con le vite prive di senso, siamo stati riscattati dal suo amore, dalla sua vita offerta per tutti noi. Morire per – hypér, è questo il senso primo ed ultimo della nostra vita, il valore che la sostiene e la rende feconda; calcolare, considerare, riconoscere negli eventi che ci contrastano, nelle ingiustizie, nel volto del nemico, nel male che ci coinvolge, la volontà di Dio preparata perché la nostra vita dia frutto. Il dolore innocente che scaturisce dalla banalità del male, trova nelle parole del Sommo Sacerdote il senso nascosto che solo la fede è capace di decifrare. La fede che nasce dall'esperienza, nella propria vita, del senso che ha avuto il sacrificio di Gesù, l'innocente che ha attirato su di sé il castigo diretto a noi colpevoli: "Ecco cosa ha raccontato loro mio figlio. Mio figlio ha svelato loro il segreto del giudizio stesso. E adesso ecco come mi sembrano; ecco come li vedo; Ecco come sono obbligato a vederli... E davanti allo sguardo della mia collera e davanti allo sguardo della mia giustizia. Si sono tutti nascosti dietro di lui (C. Peguy, Il mistero dei santi innocenti). Ci siamo nascosti dietro le braccia distese del Figlio crocifisso, e da lì dietro, abbiamo incontrato lo sguardo misericordioso del Padre. Questa esperienza ci conduce a conoscere e a calcolare secondo Dio, con il suo stesso sguardo ogni evento, e a diventare, uniti a Cristo, un segno del suo amore infinito: "È una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente; che gloria sarebbe infatti sopportare il castigo se avete mancato? Ma se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme... dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore ma ora siete tornati al pastore, e guardiano delle vostre anime" (1 Pt. 2, 21-25). Nell'offerta di Cristo, nella sua consegna per tutti gli uomini, nel compimento misterioso di questo amore attraverso i secoli nei martiri noti e sconosciuti, nelle piaghe della Chiesa Corpo di Cristo che si carica con il peccato del mondo, nell'interminabile teoria dei piccoli fratelli e discepoli di Gesù che, silenziosamente, recano impresse le stigmate del Servo di Yahwè, ogni dolore innocente ritrova il suo senso. Nell'innocenza del Figlio consegnato alla morte, ogni sangue innocente diviene il tesoro più prezioso che vi sia su questa terra. In esso è racchiuso il sangue di Cristo, che, con ogni innocente, porta sulle spalle e nella carne il peccato delle generazioni, per condurre ogni uomo al Cielo. "Che mistero la sofferenza di tanti innocenti che portano su di sé il peccato di altri, l’incesto, una violenza inaudita; quella fila di donne e bambini nudi verso la camera a gas, e quel dolore profondo di uno dei guardiani che dentro al suo cuore sentiva una voce: mettiti nella fila, e va con loro alla morte; e non sapeva da dove gli veniva… Dicono che dopo l’orrore di Auschwitz non si può più credere in Dio. No! Non è vero, Dio si è fatto uomo per prendersi Lui la sofferenza di tutti gli innocenti. È Lui l’innocente totale, l’agnello condotto al macello senza aprire bocca, colui che porta su di sé i peccati di tutti" (Kiko Arguello).

venerdì 26 marzo 2021

 


PRECIPITATI NELL'ORGOGLIO POSSIAMO RISALIRE CON CRISTO NEL CIELO DEI FIGLI DI DIO
C'è un "luogo" dove "credere" in Gesù, perché in esso vi "si ferma", e lo si può incontrare e conoscere: l'annuncio, la predicazione, l'evangelizzazione. E' il "luogo dove prima Giovanni battezzava", laddove il fiume Giordano sta per gettarsi nel Mar Morto, il punto più basso della superficie terrestre, il luogo dell'annientamento di Gesù. Qui il Signore si è umiliato sino a discendere al luogo del nostro cuore più lontano dal Cielo e da Dio, per aprire all'ascolto, annunciare la Parola di Vita e far risplendere la compiacenza del Padre in ciascun uomo. Il contrario assoluto dei luoghi dove prospera il clericalismo, dove pontificano ipocritamente gli pseudo-religiosi, i legalisti, i moralisti, quelli che, in nome della "vostra Legge", lasciano fuori Cristo nei piccoli, nei poveri, nei peccatori: "coloro si fanno lontani dal nostro Dio che si avvicina alla nostra carne... quelli che hanno preso la vicinanza di Dio e l'hanno distillata nelle loro tradizioni, ne hanno fatto un'idea, ' un puro precetto e 'hanno allontano Dio dalla gente. Sono loro che hanno clericalizzato – per usare una parola che si capisca – la Chiesa del Signore. La riempiono di precetti, con dolore lo dico, e se sembra una denuncia o un’offesa, mi perdonino, ma nella nostra regione ecclesiastica ci sono sacerdoti che non battezzano i figli delle madri non sposate perché non sono stati concepiti nella santità del matrimonio. Questi sono gli ipocriti di oggi. Quelli che hanno clericalizzato la Chiesa. Quelli che allontanano il popolo di Dio dalla salvezza. E quella povera ragazza che, potendo rimandare suo figlio al mittente, ha avuto il coraggio di farlo venire al mondo, se ne va girando di parrocchia in parrocchia perché lo battezzino" (Card. Jorge M. Bergoglio, Omelia nella Messa di chiusura dell’Incontro 2012 della Pastorale Urbana della Regione di Buenos Aires). Nel nostro cuore, dove vi sono questi sentimenti, non vi è posto per Gesù. Dove c'è lo scandalo per il suo amore crocifisso, l'incapacità demoniaca di ascoltare le sue parole, il rifiuto della sua misericordia inerme capace di farsi peccato, lì ci sono mani che stringono pietre per colpire e cancellare il grido d'amore che squarcia le nostre false certezze che "possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo. Colui che isola la sua coscienza dal cammino del popolo di Dio non conosce l’allegria dello Spirito Santo che sostiene la speranza. È il rischio che corre la coscienza isolata. Di coloro che dal loro mondo chiuso si lamentano di tutto o, sentendo la propria identità minacciata, si gettano in battaglie per essere alla fine ancor più autoccupati e autoreferenziali" (Card. Jorge M. Bergoglio, Intervista a 30 Giorni, Novembre 2007). Il nostro mondo dove ci facciamo dio e seppelliamo Dio che si fa come noi. Dio ha voluto farsi carne proprio perché la carne potesse divenire capace di accogliere la vita nuova in Lui. Dio si è fatto come me e come te per annullare la distanza che ci separava da Lui: il demonio vuol rovesciare la volontà di Dio e spingere perversamente l'uomo a recitare il ruolo di protagonista riservato a Dio. La frustrazione che sperimenta chi crede all'inganno del demonio, arma i cuori e le mani per uccidere la falsa immagine di Dio che esso ha presentato; ma così, finisce per distruggere se stesso nell'inferno dell'alienazione, e diventa incapace di vivere la storia con pace e gratitudine.
Il luogo del battesimo - il luogo del nostro inferno - è stato per Gesù la profezia della sua missione, quando ha sperimentato l'apice del rifiuto, il segno che la sua missione era andata in porto: una sua Parola ha svelato il cuore dei giudei, come il cuore di ogni uomo. Lui è il Figlio di Dio, Lui è Dio, proprio lì, a mensa con i peccatori, dove tocca gli impuri, dove perdona una prostituta, sulla Croce dove si è fatto peccato. Non sono le opere, i miracoli a decretare, in ultima istanza, la sua morte. Le pietre sono preparate per la sua parola blasfema: "Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare" (Lv. 24,16). I giudei, come ciascuno di noi, guardando e sperimentando le opere non sanno riconoscerne l'autore, e lo scambiano per un bestemmiatore, perché la nostra vita di oggi, in fondo, è una bestemmia: la sofferenza, il fallimento, queste ore qui rinchiuse nello sconforto, sono una parola blasfema, Dio non può volere e permettere tutto quanto mi accade; e chi afferma e annuncia che proprio nella mia vita è Dio ad operare, che la mia storia è un segno dell'amore del Padre, è un bestemmiatore. Chi mi dice che sono figlio di Dio in questa storia che vivo, merita la morte. E uccidiamo i profeti, e togliamo di mezzo Cristo, qualunque sua memoria, il prossimo nel quale è presente: "la grande tentazione dell’uomo è esaurire l’esperienza del segno, di una cosa che è segno, interpretandola soltanto nel suo aspetto percettivamente immediato. Non è ragionevole, ma tutti gli uomini sono portati, dalla pesantezza su di essi del peccato originale, ad essere vittime dell’apparente, di ciò che appare, perché sembra la forma più facile della ragione" (L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino). Per questo occorre rinnegare se stessi, uscire dall'accampamento, scendere dai troni dell'orgoglio e arrendersi all'amore. Gesù, di fronte all'incredulità, al rifiuto "intelligente" dei giudei, "si ritira" al di là del Giordano, al luogo dove è sceso su di Lui lo Spirito Santo, dove il Padre lo ha rivelato quale suo Figlio diletto. Gesù ha assunto su di sé il dolore del rifiuto, la durezza dei cuori di fronte alle opere belle del suo amore. Al punto di ridiscendere alla fonte della sua missione per ritrovare in essa vigore e forza per l'opera decisiva, la Passione di amore che lo condurrà sulla Croce. E' il cammino che indica a ciascuno di noi: il cammino per combattere la falsa illusione delle apparenze, l'atrofia dell'intelligenza che non vuole andare oltre e rischiare per abbandonarsi a un amore più grande di quello di cui noi siamo capaci. Gesù oggi ci indica il percorso dell'umiltà, discendere ancora una volta i gradini del battesimo, immergere ancora una volta nell'acqua che ci ha rigenerato l'uomo vecchio per annegarlo con le sue passioni. Passare dalla memoria al memoriale, dal ricordo che schiaccia il presente sui nostri criteri avvelenando il futuro, alla libertà che accoglie la storia d'amore di Dio con ciascuno di noi, perché le sue "opere" si facciano contemporanee del presente che siamo chiamati a vivere e si compiano ancora. Sono esse a mostrarci il volto del Padre; la loro dimenticanza, il filtro della nostra povera ragione ad interpretarle come pura casualità, chiude le porte al potere di Dio. Per essere liberati da questo "carcere", occorre imparare ad ascoltare,come il Padre ha inviato a fare ogni uomo quando Gesù è riemerso dalle acque del battesimo: "Questi è il mio Figlio nel quale mi sono compiaciuto: Ascoltatelo!". L'ascolto ci apre alla Parola che ha il potere di ricrearci, qualunque sia la nostra situazione; l'ascolto è la nostra salvezza perché ci dona la fede capace di plasmarci sino a renderci figli di Dio, nella speranza e nella carità. Solo ascoltando potremo uscire dallo scandalo dell'orgoglio incapace di credere all'incarnazione di Dio nella nostra vita. Solo gli occhi della fede sanno discernere le sembianze divine attraverso la luce che filtra, spesso impercettibilmente, dalle ferite dei peccati, delle debolezze, degli errori nostri e dei fratelli. "La Scrittura non può essere annullata": essa "ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio", ovvero ciascuno di noi raggiunti dalla stoltezza della predicazione. Solo attraverso il suo ascolto potremo camminare sui sentieri della conversione autentica, che non è macerarsi e sforzarsi di compiere opere impossibili alla carne per "divenire come Dio", ma accogliere la Parola di Dio perché essa, giorno dopo giorno, plasmi in noi l'uomo nuovo creato a immagine di Cristo. Se sperimentiamo in noi il potere della Parola di Dio che trasforma i nostri pensieri e i nostri gesti in opere di vita eterna - le opere che solo i figli di Dio possono compiere - potremo riconoscere il Figlio di Dio in "colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo". Solo i figli nel Figlio sanno accogliere e credere al Figlio, entrando con fiducia e speranza nella storia che quotidianamente si presenta dinanzi, discernendo in essa "il luogo" dove Gesù è, e dove anche ciascuno di noi può essere.

giovedì 25 marzo 2021

 


L'ANNUNCIO CHE NELLA DEBOLEZZA POSSIAMO ASCOLTARE, CI GUARISCE E CI FA FIGLI DI DIO
Maria, l'amata, appare sulla soglia del Vangelo avvolta in un saluto imprevisto, un annuncio intrecciato su poche, essenziali parole. Attendeva le nozze, e con esse grazie e gioia, senza immaginare che Dio aveva scelto e preparato quella semplicità nascosta per farne la soglia dove deporre l'eterno. Un giorno come gli altri, confuso tra quello di molti altri, in una cittadina anonima lontana dalla storia che conta: sono questi il momento e il luogo pensati da Dio per fare possibile l'impossibile. L'incarnazione e la salvezza di ogni uomo cominciano qui, dove sembra che non vi sia nulla di speciale da attirare l'attenzione. Nulla tranne Maria, a riempire quella semplice ordinarietà con la fede e l'attesa immacolate. Maria non era in cerca di nulla di straordinario; era semplicemente dove l'aveva messa la volontà di Dio. Essere Immacolata Concezione significa essenzialmente questo, obbedire e restare lì, abbandonati a Dio, sereni e felici nella propria storia. Come Adamo ed Eva prima di cadere nel peccato. La menzogna del demonio, infatti, come un virus mortale, ha reso impossibile restare sul cammino tracciato dal Padre. La cifra del peccato originale è proprio questa impossibilità di vivere, in pienezza, l'istante che ci è dato; l'impossibilità di essere felici con questa storia qui, con questa famiglia, questo marito e questa moglie, questi figli e questi genitori, questo lavoro e questi professori. Il peccato ci ha sporcato il cuore e non riusciamo più a vedere l'amore di Dio in niente e nessuno; la realtà ci schiaccia, dobbiamo scappare, e cercare un po' d'aria in qualsiasi esperienza, basta che non sia la stessa di oggi. Il peccato ha reso impossibile il possibile di una vita abbandonata a Dio e al suo amore.
Maria no, non aveva bisogno di fuggire. Immacolata Concezione, non si era mai allontanata dal Paradiso: in ogni istante era "piena di Grazia", in ogni evento "il Signore era con Lei". Anche quel giorno, all'irrompere di quel saluto che, improvvisamente, Le svelava il mistero sino ad ora tenuto segreto anche a Lei. L'intimità con il Signore, la Grazia che accompagnava ogni suo passo nella volontà di Dio, sino a quel momento tutto era stato così naturale. Ma quell'invito a "rallegrarsi" che, lo sapeva, raggrumava in sé tutte le profezie sull'avvento del Messia, perché proprio a Lei? Era "turbata" Maria, di fronte a quel "saluto" nel quale si condensava una storia di peccati e misericordia che abbracciava generazioni. "Shalom", pace, era il segno del Messia, la speranza che i suoi fratelli s'erano scambiati da sempre, tenendola viva per non morire. Ora tutto era lì, a un millimetro da Lei; ogni uomo, ogni donna, ogni povero e ogni peccatore, tu ed io, eravamo tutti lì, sulla soglia del cuore di quella Fanciulla indifesa, la più piccola, l' "umile vergine" di Nazaret. Era giunta la "pienezza dei tempi", il compimento della salvezza; quell'istante nascosto agli occhi del mondo attirava ogni altro istante della storia, passato, presente e futuro. Quell'istante illuminava la purezza originaria di Maria: aveva compiuto la volontà di Dio perché anche Dio potesse compiere la sua volontà. La sua carne "vergine" era il frammento di Paradiso che Dio aveva preparato per deporvi il suo Figlio, la Carne che avrebbe reso ogni carne peccatrice un frammento di Paradiso. Maria doveva solo fare quello che aveva sempre fatto: accogliere l'amore di Dio, perché ai suoi occhi immacolati ogni volere di Dio non era che amore. Solo un Figlio da accogliere, il Messia da gestare e donare al mondo. Impossibile certo, "senza conoscere uomo", ma "possibile" a Dio che era "con Lei" da sempre.
Ancora una volta, la più importante, quella decisiva, Dio doveva scendere in ciò che è impossibile all'uomo per aprire un cammino di speranza nell'ineluttabilità che tiene schiave le persone. Per farlo e fecondare l'umanità sterile aveva bisogno della "verginità" di Maria, immagine di ogni situazione impossibile; per salvare i superbi aveva scelto e preparato la sua "umiliazione". Non c'era da "temere": quel concepimento e quel parto sarebbero stati opera della Grazia che l'aveva "colmata" da sempre. Lo Spirito Santo sarebbe "disceso" su di Lei per deporvi il Santo Figlio di Dio. Come quando si rivelò ad Elia, Dio non era nel terremoto, neanche in un vento gagliardo; Dio era in quella brezza soave che le sfiorava l'anima, nel soffio del suo Spirito che, dolce e delicato, bussava alla porta del suo cuore. Del resto, anche "Elisabetta sua parente, che tutti dicevano sterile, nella sua vecchiaia aveva concepito un figlio": il Signore le aveva regalato un segno da contemplare, per non venir meno dinanzi alla grandezza della sua elezione. Non restava che sciogliere le labbra per la risposta preparata dall'eternità. E Amen è stato, l'Amen degli Amen di Maria: "Il verbo con cui esprime il suo consenso, nell'originale, è all'ottativo, un modo verbale che in greco si usa per esprimere desiderio e perfino gioiosa impazienza che una certa cosa avvenga. Come se la Vergine dicesse: “Desidero anch'io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole“." (Raniero Cantalamessa). Il Cielo è riaperto, la volontà di Dio ha trovato dimora nel desiderio puro di Maria. Da quell'istante nulla è stato e sarà più come prima. Nell'obbedienza di Maria è generata l'obbedienza del Figlio, perché Nazaret era il grembo del Getsemani. Madre e Figlio sono ora davanti a noi per donarci finalmente compiuto l'impossibile che ci fa paura.
Guardiamoci dentro, che cosa oggi ci turba e ci schiaccia? Che cosa ci spinge a peccare per non soffrire? "Non temere!", proprio nel fondo dell'incapacità di assumere la nostra storia, plana oggi l'annuncio dell'angelo per deporvi il seme dell'impossibile già reso possibile: l'obbedienza alla volontà di Dio, restando nascosti nelle piaghe di Gesù incarnate nei dolori e nei tradimenti, nei fallimenti e nelle frustrazioni, nelle umiliazioni e nell'irrilevanza. "Non temere!", perché il turbamento che ci prende di fronte alla sproporzione tra quanto ci è annunciato e la povera realtà della nostra vita, è destinato a divenire gioia purissima. E' pronta per noi la gioia di Maria, madre della gioia del Messia risorto dalla morte, che ha distrutto il peccato e il suo regno di dolore. La gioia dell'obbedienza, che il mondo non conosce, la gioia della libertà di amare sino a donarsi totalmente, perché "nulla è impossibile a Dio": neanche perdonare il marito che ha tradito e il parente che ci ha calunniato; neanche giustificare con misericordia chi ci ha fatto la più terribile delle ingiustizie. "Nulla" ci deve spaventare: nella Chiesa nostra Madre risuona oggi come quel giorno l'annuncio dell'angelo. Basta ascoltare e dire con Maria il nostro amen che consegni a Cristo ogni centimetro della nostra carne perché ne faccia il tempio della sua gloria. Oggi Nazaret è la tua casa, il tuo matrimonio e la tua stanza d'ospedale, perché tutto di te è avvolto e impregnato dello Spirito Santo che compie in ogni istante e in ogni luogo il Mistero Pasquale di Cristo. "Non temere!", perché da oggi la Croce non fa più paura, la carne vittoriosa di Cristo l'ha trasformata in una porta dischiusa sul Paradiso. La novità dell'Incarnazione si rivela in un Popolo che cammina nel deserto della storia senza morire, il Corpo di Cristo che sale sulla Croce dalla quale tutti fuggono scandalizzati. Per questo, la nostra missione inizia ogni giorno appoggiati nella fede di Maria, per divenire con Lei "servi del Signore" nei quali "si compie l'incarnazione della Parola di Dio", annunciando a tutti che la sua volontà è amore e misericordia, sempre.

 


OMELIA DI S. GIOVANNI PAOLO II A NAZARETH
Siamo qui riuniti per celebrare il grande mistero che si è compiuto qui duemila anni fa. L'evangelista Luca colloca chiaramente l'evento nel tempo e nello spazio: «Nel sesto mese, l'Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria» (Lc 1, 26-27). Per comprendere però ciò che accadde a Nazareth duemila anni fa, dobbiamo ritornare alla lettura tratta dalla Lettera agli Ebrei. Questo testo ci permette di ascoltare una conversazione tra il Padre e il Figlio sul disegno di Dio da tutta l'eternità. «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo ... per fare, o Dio, la tua volontà» (10, 5-7). La Lettera agli Ebrei ci dice che, obbedendo alla volontà de Padre, il Verbo Eterno viene tra noi per offrire il sacrificio che supera tutti i sacrifici offerti nella precedente Alleanza. Il suo è il sacrificio eterno e perfetto che redime il mondo.
Il disegno divino è rivelato gradualmente nell'Antico Testamento, in particolare nelle parole del profeta Isaia, che abbiamo appena ascoltato: «Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele» (7, 14). Emmanuele: Dio con noi. Con queste parole viene preannunciato l'evento unico che si sarebbe compiuto a Nazareth nella pienezza dei tempi, ed è questo evento che celebriamo oggi con gioia e felicità intense.
3. Il nostro pellegrinaggio giubilare è stato un viaggio nello spirito, iniziato sulle orme di Abramo, «nostro padre nella fede» (Canone Romano; cfr Rm 4, 11-12). Questo viaggio ci ha condotti oggi a Nazareth, dove incontriamo Maria, la più autentica figlia di Abramo. È Maria, più di chiunque altro, che può insegnarci cosa significa vivere la fede di «nostro padre». Maria è in molti modi chiaramente diversa da Abramo; ma in maniera più profonda «l'amico di Dio» (cfr Is 41, 8) e la giovane donna di Nazareth sono molto simili.
Entrambi ricevono una meravigliosa promessa da Dio. Abramo sarebbe diventato padre di un figlio, dal quale sarebbe nata una grande nazione. Maria sarebbe divenuta Madre di un Figlio che sarebbe stato il Messia, l'Unto del Signore. Dice Gabriele «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce ... il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre ... e il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 31-33).
Sia per Abramo sia per Maria la promessa giunge del tutto inaspettata. Dio cambia il corso quotidiano della loro vita, sconvolgendone i ritmi consolidati e le normali aspettative. Sia ad Abramo sia a Maria la promessa appare impossibile. La moglie di Abramo, Sara, era sterile e Maria non è ancora sposata: «Come è possibile?», chiede all'angelo. «Non conosco uomo» (Lc 1, 34).
4. Come ad Abramo, anche a Maria viene chiesto di rispondere «sì» a qualcosa che non è mai accaduto prima. Sara è la prima delle donne sterili della Bibbia che a concepire per potenza di Dio, proprio come Elisabetta sarà l'ultima. Gabriele parla di Elisabetta per rassicurare Maria: «Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio» (Lc 1, 36).
Come Abramo, anche Maria deve camminare al buio, affidandosi a Colui che l'ha chiamata. Tuttavia, anche la sua domanda «come è possibile?» suggerisce che Maria è pronta a rispondere «sì», nonostante le paure e le incertezze. Maria non chiede se la promessa sia realizzabile, ma solo come si realizzerà. Non sorprende, pertanto, che infine pronunci il suo fiat: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1, 38). Con queste parole Maria si dimostra vera figlia di Abramo e diviene la Madre di Cristo e Madre di tutti i credenti.
5. Per penetrare ancora più profondamente questo mistero, ritorniamo al momento del viaggio di Abramo quando ricevette la promessa. Fu quando accolse nella propria casa tre ospiti misteriosi (cfr Gn 18, 1-15) offrendo loro l'adorazione dovuta a Dio: tres vidit et unum adoravit. Quell’incontro misterioso prefigura l'Annunciazione, quando Maria viene potentemente trascinata nella comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Attraverso il fiat pronunciato da Maria a Nazareth, l'Incarnazione è diventata il meraviglioso compimento dell'incontro di Abramo con Dio. Seguendo le orme di Abramo, quindi, siamo giunti a Nazareth per cantare le lodi della donna «che reca nel mondo la luce» (inno Ave Regina Caelorum).
6. Siamo però venuti qui anche per supplicarla. Cosa chiediamo noi pellegrini, in viaggio nel Terzo Millennio Cristiano, alla Madre di Dio? Qui, nella città che Papa Paolo VI, quando visitò Nazareth, definì «La scuola del Vangelo. Qui s'impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare nel senso, tanto profondo e misterioso, di quella semplicissima, umilissima, bellissima apparizione» (Allocuzione a Nazareth, 5 gennaio 1964) prego innanzitutto per un grande rinnovamento della fede di tutti i figli della Chiesa. Un profondo rinnovamento di fede: non solo un atteggiamento generale di vita, ma una professione consapevole e coraggiosa del Credo: «Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine, et homo factus est».
A Nazareth, dove Gesù «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2, 52), chiedo alla Santa Famiglia di ispirare tutti i cristiani a difendere la famiglia contro le numerose minacce che attualmente incombono sulla sua natura, la sua stabilità e la sua missione. Alla Santa Famiglia affido gli sforzi dei cristiani e di tutte le persone di buona volontà a difendere la vita e a promuovere il rispetto per la dignità di ogni essere umano.
A Maria, la Theotókos, la grande Madre di Dio, consacro le famiglie della Terra Santa, le famiglie del mondo.
A Nazareth, dove Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico, chiedo a Maria di aiutare la Chiesa ovunque a predicare la «buona novella» ai poveri, proprio come ha fatto Lui (cfr Lc 4, 18). In questo «anno di grazia del Signore», chiedo a Lei di insegnarci la via dell’umile e gioiosa obbedienza al Vangelo nel servizio dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, senza preferenze e senza pregiudizi.
«O Madre del Verbo Incarnato, non disprezzare la mia preghiera, ma benigna ascoltami ed esaudiscimi. Amen» (Memorare).
Nazareth, Sabato, 25 Marzo 2000