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giovedì 30 giugno 2016

«La misericordia è uno stile di vita, senza opere muore»

30-06-2016
«La misericordia è uno stile di vita. Ha occhi per vedere, orecchie per ascoltare, mani per risollevare. Poiché Dio è misericordioso nei nostri confronti, vede le nostre debolezze e ci porge aiuto». E parafrasando san Giacomo apostolo, Francesco ha scandito: «La misericordia senza le opere è morta in se stessa». Lo ha detto papa Francesco all'ultima udienza giubilare, stamani in una piazza San Pietro, prima della consueta pausa estiva. Alla fine della catechesi sulle opere di misericordia, il Papa ha ricordato il recente viaggio apostolico in Armenia, «la prima nazione ad avere abbracciato il cristianesimo all’inizio del IV secolo». «Rendo grazie a Dio per questo viaggio», ha detto, ribadendo la sua gratitudine verso il presidente armeno, il Catholicos Karekin II, il patriarca, i vescovi cattolici e l’intero popolo armeno che l'ha accolto. «Fra 3 mesi compirò un viaggio in Georgia e Azerbaijan», ha aggiunto, «altri due Paesi della regione caucasica». A spingerlo in quella parte del mondo, ha precisato, sono da una parte il desiderio di «valorizzare le antiche radici cristiane in quelle terre» e dall'altro quello di «incoraggiare speranze e sentieri di pace». Il cammino della pace è fatto di piccoli passi, ha ricordato Francesco. «Il mio auspicio è che tutti e ciascuno diano il loro contributo per la pace e la riconciliazione». Ecco il testo integrale dell’udienza giubilare.

UDIENZA GIUBILARE
(Giovedì, 30 giugno 2016)
Opere di Misericordia (cfr Mt 25,31-46)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Quante volte, durante questi primi mesi del Giubileo, abbiamo sentito parlare delle opere di misericordia! Oggi il Signore ci invita a fare un serio esame di coscienza. È bene, infatti, non dimenticare mai che la misericordia non è una parola astratta,
RISUSCITATI DAL PENSIERO MALVAGIO POSSIAMO CAMMINARE NELLA BENEDIZIONE
"Perché pensiamo cose malvagie nel cuore"? Perché pensiamo che Gesù "bestemmi"? Perché portiamo dentro lo scandalo della sofferenza e non crediamo che Gesù abbia il potere di giungere alla radice del male ed estirparlo. Non crediamo al perdono, non immaginiamo neanche che esista. Sappiamo che Dio è buono, onnipotente, e nel Credo professiamo la fede nel perdono dei peccati. Ma che un Uomo, carne della nostra carne, con una semplice Parola, abbia il potere di sciogliere un altro uomo dalle catene del male e dei peccati, beh questo è impensabile, non lo abbiamo visto e non possiamo crederlo. E giudichiamo Gesù, pensando male di Lui. Tutto questo accade molto concretamente quando, di fronte alla "paralisi", uomini come noi, gli apostoli della Chiesa corpo di Cristo, ci invitano a dare credito al Signore e a non intestardirci cercando soluzioni impossibili. Quando la Chiesa ci chiama alla fede, ad abbandonarci all'amore di Dio e a portare ai piedi di Gesù e aspettare che Lui operi la guarigione delle situazioni difficili, delle relazioni paralizzate, quello che in noi vi è di infermo. "Pensiamo male di Gesù" soprattutto quando, di fronte alle persone e agli eventi "paralizzati", induriamo il cuore e non vogliamo pensare che alla radice di qualsiasi problema vi siano i peccati. Come nel Vangelo, la mormorazione e il giudizio scattano quando Gesù, invece di operare il miracolo che guarisca le situazioni, punta diritto i peccati. Quando la Chiesa ci depone ai piedi di Gesù perché ci perdoni e liberi il cuore perché possa amare e donarsi. No, ci ribelliamo a chi ci annuncia che vi è il peccato dietro la paralisi del dialogo e della comunione con il coniuge o le esplosioni continue dei figli che non siamo capaci di far ragionare e ci trascinano in altrettante esplosioni di ira.





Vi è una sola paralisi: il peccato. Vorremmo capire i perché di tante atrocità, di tante ingiustizie, ma rifiutiamo di accettare che esista una radice del male, il pensiero unico che domina la nostra cultura non la prevede, mentre il peccato è accovacciato alla nostra porta, insinuato nel nostro cuore. Da esso sgorgano tutti gli abomini. Adagiati nel peccato pensiamo cose malvagie. Non riconoscerlo, guardarlo con supponenza, sorvolarne la serietà e la drammaticità è dare del bestemmiatore a Gesù. Significa essere nemici della sua Croce. Ignorare il peccato è ignorare Dio, il suo potere, il suo amore. Restare appiattiti sulle sue conseguenze, cercando come eluderle o sbianchettarle, dimenticando la Rivelazione che indica nel peccato la radice di ogni male, anche quelli che chiamiamo malattie o disastri naturali, conduce a pensare male di Dio, o a escluderlo dalla vita; non possiamo accettare un Dio che sembra non agire contro le ingiustizie, e preferiamo dimenticarlo, o cercare comunque e ad ogni costo un capro espiatorio su cui riversare il dolore e il risentimento. Il giustizialismo e l’indignazione di questi tempi nascondono negli armadi gli scheletri di una società che ha legittimato l’omicidio più efferato, quello perpetrato sulle creature più indifese. Il cortocircuito demoniaco stringe come un cappio mortale le nostre vite, cadute nell’illusione che si possa vincere il male con un male più grande travestito da bene. Insieme con la cultura mondana, non crediamo che la paralisi indichi il disordine del peccato, ma è piuttosto un incidente cui ribellarsi: agli occhi degli "scribi" quel paralitico non è uno schiavo di cui avere misericordia, ma un’occasione di scandalo di fronte alla quale reagire con la malvagità che colma i loro cuori. E così, per loro, chiudersi alla misericordia diviene la bestemmia contro lo Spirito Santo, il peccato che non potrà essere perdonato. La Scrittura ci rivela che la morte è entrata nel mondo per invidia del demonio e ne fanno esperienza quelli che gli appartengono. E il male si spande. Anche sugli innocenti. Ma noi, che innocenti non siamo, ne siamo schiavi, paralizzati, stesi sul letto della solita vita, dei soliti peccati. Vi è un solo cammino per guarire: guardare in faccia la Verità, lasciarci giudicare dalle Parole d’amore di Gesù. In Lui i peccati sono rimessi e sperimentiamo la vera liberazione, perché il mistero del male si svela nel perdono. A Boezio che si chiedeva “Si Deus est, unde malum? et si non est, unde bonum ?”, San Tommaso d’Aquino poteva rispondere capovolgendo i termini: “Si malum est, Deus est”, perché l’esistenza di Dio è affermata e argomentata proprio a partire dalla realtà del male (Contra Gentiles, 1. III, c.71). Il perdono ci fa accettare le conseguenze dei nostri peccati e, in esse, le conseguenze dei peccati di ogni uomo. Da questa attitudine nasce l’umiltà e spariscono i pensieri malvagi, i giudizi, la malizia. Sulla roccia della Verità si infrangono le onde del male, e sorge un pensiero nuovo, di pazienza e misericordia. Nella Verità si dischiude la porta della vita davanti ad ogni peccatore, a ciascuno di noi: lasciarsi amare, riconciliare, perdonare. Accettare d’essere peccatori, e gettarsi tra le braccia del Signore. Ai Suoi piedi, piangendo e implorando. Aiutati e accompagnati dalla Chiesa. Nella liturgia eucaristica, prima di accostarci alla comunione, ripetiamo con il Celebrante: “Oh Signore, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa”. Come Gesù che è mosso dalla fede degli amici del paralitico a compiere il miracolo del perdono riconsegnando forza e vigore alle membra paralizzate. Per questo abbiamo bisogno della comunità, dei pastori e dei fratelli, del Popolo santo che è capace, per amore del povero e del debole, di scoperchiare i tetti e deporre i malati ai piedi di Gesù. Abbiamo bisogno della fede della Chiesa che apre per noi un cammino distruggendo pareti e tetti che ci accerchiano e ci impediscono di andare a Cristo, per essere liberati e tornare a casa, nella storia di ogni giorno con il letto che è la memoria dei nostri peccati e la consapevolezza della nostra debolezza. A noi la memoria di quello che siamo, a Gesù l’amore e il perdono. Solo così potremo vivere risanati, abbandonati alla sua fedeltà senza nulla presumere di noi stessi, liberi nella "città di Gesù", dove unica legge è l'amore.

martedì 28 giugno 2016

PER DIO OGNI VITA E' PREZIOSA E NEL SUO FIGLIO E' TRASFORMATA IN UN PRODIGIO CHE ANNUNCIA IL SUO AMORE 
«Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa; dove c'è la Chiesa, lì non c'è affatto morte ma vita eterna» (S. Ambrogio). Pietro e la Chiesa. E, in essa, la vita, e la fine della morte. E' questo il desiderio d'ogni uomo, il nostro desiderio d'oggi, il più profondo, il più intenso, l'anelito che freme insopprimibile in ogni parola, pensiero, azione. La vita è come il cammino dei due discepoli di Emmaus, che avevano sperato in Gesù di Nazaret, profeta potente in parole ed opere, che li avrebbe liberati e invece.... Anche Lui in una tomba da tre giorni. E le lacrime di Pietro, il tradimento e un amore strozzato nella paura di morire, di fare la stessa fine atroce. Come noi, come tutti. Tutto infranto e i desideri spezzati. Ma quella sera, all'imbrunire d'un giorno di paura, i chiavistelli della vita ben serrati, nella stanza d’una pasqua appena volata via, ecco d’improvviso apparire un volto incandescente di luce, una voce, un saluto di Pace che trapassa i muri e i cuori. La sua voce, il suo volto, le sue piaghe. E' proprio Lui, lo dicono i segni del suo amore inchiodato ad un legno. E la gioia esplode incontenibile: in quel cenacolo, in mezzo a quel manipolo terrorizzato, che è scappato, che ha tradito, l'amore era esploso in una vita più forte del peccato. E Pietro era lì; la roccia, primo tra gli apostoli, il primo ad essere perdonato, il primato del perdono. La beatitudine di Pietro è un perdono che né carne e né sangue possono rivelare perché viene dal sepolcro, ha attraversato l'inferno, e si è fatto dono gratuito e immeritato. Pietro, perdonato e per questo roccia e fondamento della Chiesa, capace di “legare” a Cristo i peccatori e “scioglierli” dal peccato, eternamente. Con Pietro nella Chiesa si apprende l'amore perché il Buon Pastore ne guida il cammino. Un Pastore incarnato nel pastore che ci è donato. Pietro, e ogni papa, schiude le porte del Cielo offrendo gratuitamente a ogni uomo l'amore di Dio. Sulla soglia del mondo Pietro è garante e custode della fede incarnata qui ed ora; dischiude le porte della sua casa, la Chiesa dov'è vivo Cristo, le viscere di misericordia di Dio. Dialogo, tolleranza, rispetto, tutto va bene per le umane, povere forze spese ad arginare il male. La casa di Pietro invece annuncia l'amore eterno, l’ unico scoglio che può infrangere ogni male. Nella Chiesa Pietro  presiede nella carità un pugno di poveri uomini strappati all'inganno segno dell'unica speranza.



Nella storia di San Paolo possiamo leggere la nostra vita. Era deciso, sicuro, religioso, zelante. Era tutto per Dio, per Lui era disposto ad incarcerare, e a uccidere. Come noi, al lavoro, in famiglia, con amici e vicini. Abbiamo la Parola di Dio dalla nostra, ne siamo certi, dobbiamo estirpare l'errore. Discussioni senza fine, polemiche, al bar, nella pausa pranzo, tra una lezione e l'altra, a cena la sera con consorte e figli. Indossata la corazza della nostra giustizia corriamo anche noi ogni giorno verso Damasco, recando lettere che ci autorizzano a gettare in prigione chi pretende di uscire dai nostri schemi. Anche in Chiesa, nelle comunità dove camminiamo per convertirci, nelle riunioni, nelle assemblee. Preti, laici, non v'è differenza, portiamo tutti la stessa armatura di certezze che abbigliava San Paolo. Ma accade l'imprevisto. Qualcosa a cui Saulo non era preparato. Qualcuno appare sul suo cammino e smonta le sue certezze. Un fatto, un avvenimento, un incontro. E inizia la conversione, la Teshuvà, il ritorno al vero, al bello, al buono, al santo. San Paolo incontra Cristo, più forte d'ogni sua ignoranza, d'ogni suo passato. Una scintilla d'amore e nasce una cosa nuova, una creatura nuova e comprende che tutto nella sua vita era orientato a quell'istante. Dio lo aveva preparato, misteriosamente, senza moralismi, salvaguardando ogni millimetro della sua libertà, accompagnando i suoi passi, permettendo che si impantanassero nell'ingiustizia, che combinassero guai e si lasciassero dietro una linea di sangue e di dolore. Dio ha avuto pazienza, e lo ha atteso nel momento più virile della sua esistenza, laddove era lanciato verso il compimento d'una menzogna. E lì, sul selciato del suo cammino lo ha amato e ricreato con un’elezione che era l’opposto di quello che era stato. Nessun rimprovero, solo una luce ad illuminare il proprio nulla e subito un invio, una missione. La vita fantastica dell'apostolo delle genti sorgeva da lì, dal suo nulla. Sulla via di Damasco Paolo ha conosciuto la risurrezione di Cristo, capace di risuscitare anche la sua vita, di fare di un persecutore un perseguitato, di un determinato accusatore uno zelante annunciatore. I segni che accompagnano gli apostoli nella missione universale, per San Paolo hanno cominciato a compiersi in quel mezzogiorno che lo ha lanciato, con lo stesso ardore, con più zelo, sulle strade che aveva detestato, quelle dell'annuncio infaticabile del Vangelo. Oggi appare anche a noi Cristo. Il “perché” che ha fermato Saulo ci viene incontro oggi, nella situazione concreta che stiamo vivendo. Perché perseguitiamo il Signore, incarnato in nostra moglie, nei nostri figli, nei colleghi, nella suocera?. Perché abbiamo dimenticato Lui e il suo amore, abbiamo sepolto la sua chiamata. Ma Lui ci viene incontro, e fa di noi i suoi apostoli, e ci lancia in tutto il mondo, lavoro, scuola, casa, supermercato, parrocchia. Ci manda oggi laddove abbiamo combinato macelli con i nostri peccati, sui sentieri che abbiamo sporcato con le maldicenze, con i giudizi, con i compromessi, con le bugie, con le concupiscenze, con l'arroganza e la superbia. Ci invia come Pietro e Paolo, segni della sua misericordia che trasforma, istante dopo istante, la nostra vita, perchè anche gli altri possano vedere, credere, e conoscere il Signore.

ADDORMENTARSI NELLA TEMPESTA CON GESU' PER PASSARE INDENNI NELLE TEMPESTE DELLA VITA
La vita è una traversata per "passare all'altra riva", immagine del Cielo, solcando il mare che, spesso, nella Scrittura, è immagine della morte. La vita è, dunque, una Pasqua! Solo nella sua luce acquista senso e pienezza. E  proprio le "tempeste" definiscono la vita della Chiesa, della quale la "barca" è immagine. "tempesta" traduce l'originale greco che, letteralmente, significa “grande sisma”, usato anche nei racconti della crocifissione per il "terremoto" scoppiato alla morte di Gesù. Quella "barca" in mezzo ai marosi è dunque profezia della Croce di Cristo piantata sul Golgota e scossa dal terremoto. Sulla "barca" e sulla Croce le onde e le scosse sismiche sono il segno dello sconvolgimento innescato dal "sonno" di Gesù. Il suo "dormire", infatti, "sveglia" colui che, sino ad allora, aveva riposato tranquillo, sazio di anime. Al sopraggiungere del Signore il demonio si sente scoperto e vulnerabile. Per questo, quella "barca" non doveva arrivare in quel porto; Gadara, infatti, era in piena Decapoli, terra pagana, territorio del nemico. Gli abitanti vi si dedicavano al commercio dei maiali e all'usura. Impuri tra i più impuri, schiavi di satana che Gesù andava ad attaccare. Egli sapeva che Gesù "era venuto prima del tempo a tormentarlo", prima cioè che potesse preparare una controffensiva. Doveva difendersi e impedire a Gesù di compiere la sua missione. Quella "tempesta", dunque, non era come le altre; quel "vento" e quelle "onde" erano i rantoli di gelosia e ira del demonio e di chi ne è ingannato, che vorrebbe far annegare Gesù nella morte. Così è di ogni tempesta che infuria sulla "barca" di Gesù e Pietro, repentina come quelle che scoppiano sul mare di Galilea, e tanto "violenta che la barca si ricopre di onde". All'inizio è una brezza soave, ma poi rapidamente si fa vento gagliardo e le onde si alzano come bastioni insormontabili; infine, ecco le secchiate d'acqua, che una mano invisibile sembra rovesciare dentro la "barca". Così si insinua il demonio. E non basta averne l'esperienza; come Pietro, pur esperto del lago di Tiberiade, non poteva nulla contro l'infuriare della tempesta, neanche noi, pur essendo caduti tante volte nelle lusinghe e trappole del demonio da saperle riconoscere, abbiamo la capacità per resistere quando ci attacca con furia improvvisa. D'altronde, nessuna "tempesta" nella vita di un cristiano è davvero improvvisa: quella "barca" le attira, e proprio per questo Gesù continua a "dormire". La tempesta non lo sorprende; non si sveglia neanche quando la "barca" si riempie d'acqua. Lui aspettava quella tempesta, si era imbarcato per entrarci dentro; era un segno della sua incarnazione e una profezia del suo Mistero Pasquale. Soprattutto, sapeva che l'unico modo per passarci indenni era dormire; sapeva che il demonio vi si nascondeva, come in tutti gli avvenimenti della sua vita, e l'unico modo per compiere la sua missione sarebbe stato "reclinare il capo" sulla Croce per addormentarsi nella morte.




Gesù "dormiva" perché sapeva che per raggiungere Gadara - il mondo pagano dove eri, e sei, tu, dove è tua figlia e il tuo collega, tua nipote e il tuo vicino di banco - per raggiungere ogni uomo e liberarlo dal potere del demonio, doveva lasciare che le onde lo ricoprissero sino a togliergli la vita! Solo allora avrebbe potuto scovare il demonio a casa sua, nel suo quartier generale, e farlo saltare una volta per tutte, e così sterminare la "legione" con i suoi ufficiali e generali, rendendo impotente con la sua morte chi della morte aveva il potere, ovvero satana. Le parole che Egli usa per placare il mare sono, infatti, le stesse usate dagli evangelisti nei racconti degli esorcismi. Le stesse che, nella versione greca della Settanta, presentano il gesto di Yahvè che con l’onnipotenza della sua parola prosciuga le acque del Mar Rosso. Questa era la missione di Gesù, la stessa di Pietro e della Chiesa: "sciogliere" sulla terra quello che Lui ha sciolto per sempre. Gesù rivolge agli apostoli una domanda che potrebbe suonare beffarda: "perché avete paura?". Ma come, stiamo per affondare e tu ci chiedi perché abbiamo paura? Essi, come noi, erano "uomini di poca fede", non avevano compreso nulla di quello che stava accadendo. Perché la "fede" è entrare con Cristo nella tempesta e mettersi a dormire! E', concretamente, addormentarsi con Lui nella morte che ci attende ogni giorno, lasciando che le "onde ci ricoprano", perché - ed è il cuore del cristianesimo che batte nel Mistero Pasquale di Gesù - per "passare all'altra riva" occorre entrare nella tempesta. Per avere la vita in abbondanza bisogna perderla; per vivere bisogna morire. Non a caso "passare" in ebraico si dice HBR, da cui deriva “ebreo”; essi sono i fratelli maggiori, sul cui “passare” dall'Egitto alla Terra Promessa siamo stati innestati: “Dietro Gesù … l’evangelista … desidera che risuoni nelle orecchie dei discepoli il nome di “ebreo”. Desidera che i suoi ascoltatori abbiano l’intelligenza dell’indispensabile coesione della loro vita. Essi debbono attraversare fisicamente, concretamente, il mareAllora l’evangelista forma in greco un verbo nuovo, “diegeiro”, per dire svegliare. Impossibile da tradurre letteralmente, questo verbo ha l’accento ebraico di “passare”. Dunque, i discepoli che sono nella barca di Gesù lo svegliano… Lo chiamano…. E quando si sarà “svegliato sarà passato di là”, e tutte le cose si saranno placate, quando ci sarà la calma, l’evento non finirà lì. La “traversata” continuerà con la domanda di Gesù, alla maniera della Torah… ”Dove sei?”. Gesù dirà: “Uomini di poca fede, perché avete paura?”, Come dire: “Ebrei, dove siete? Avete dimenticato di sentire il vostro nome? Avete dimenticato il vostro nome, la vostra vita?” (M. Vidal). La stessa domanda, oggi, prorompe nella nostra vita: “Perché avete paura?”, "non avete ancora fede"? Di fronte alle "tempeste" che si abbattono su di noi siamo terrorizzati perché siamo senza discernimento; abbiamo perduto la memoria del nostro "nome" e della nostra origine. Come gli apostoli, sopraffatti dalle onde che scuotono la carne facendole lambire la morte, abbiamo dimenticato Chi ci ha "ordinato" di "passare all'altra riva". Il primo attacco del demonio, subdolo e astuto, ci ha centrati in pieno: maestro del rimestare nei ricordi per scombinarli al punto di far perdere il filo di Grazia che li lega, ci ha sottratto il ricordo della nostra chiamata. La nostra vita ha origine, senso e compimento nelle parole con le quali Gesù ci ha chiamato a "passare" con Lui "all'altra riva". Non lo abbiamo scelto noi, probabilmente neanche lo desideravamo. Noi siamo "nel mondo" proprio perché non siamo "del" mondo! L'attitudine degli apostoli nostra emersa nella "barca" è ben descritta da Peguy, amaro e crudo come sempre: "Poiché non hanno il coraggio di essere del mondo, credono di essere di Dio. Poiché non sono dell’uomo credono di essere di Dio. Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio". Non amiamo nessuno, per questo abbiamo paura. Come gli apostoli, forse non siamo ancora pronti a morire con Lui. Anche gli apostoli, pur chiamati, avevano bisogno della "fede" per compiere la loro missione! Erano, secondo il greco originale, "oligopistoi": avevano solo un po' di fede, nel senso che era ancora acerba, doveva crescere... Come noi, erano incapaci di riconoscerlo nella tempesta. Senza fede non capiamo che proprio perché "dorme" ci ama come nessuno. "Dorme" e non ferma le guerre. "Dorme" e non guarisce il cancro di mio padre. "Dorme" e non cambia il carattere di mio marito. "Dorme" e non dà un lavoro a mio figlio. "Dorme" perché non mi ama... "Uomo di poca fede", non hai capito nulla! Gesù "amava Lazzaro", eppure si è fermato ancora due giorni dove si trovava senza scendere da lui ammalato, quasi aspettando che l’amico morisse. E quando infatti Lazzaro si “addormenta” Gesù dice ai suoi discepoli di essere felice per loro di non essere stato dall’amico, “affinché possano credere”. E proprio per crescere nella fede e "poter credere" stiamo "nella barca" come nell'utero della Chiesa, e questo è l'importante. Dio è fedele, e ha misericordia di noi, ha pazienza, sa che un giorno, daremo la vita per Cristo e la salvezza degli uomini; come gli apostoli che, rimanendo le stesse identiche persone, una volta pieni di Spirito Santo, invece di impaurirsi, si sono "addormentati" nel martirio! Gesù ci vede nella "barca" con Lui pieni di pura, ma guarda oltre, alle persone alle quali saremo inviati; ci vede tra qualche anno, in quella situazione nella quale daremo testimonianza al vangelo, anche a costo della vita. Per questo oggi Gesù si "desterà" ancora una volta a "sgridare i venti e i mari" perché torni la "bonaccia" nella nostra vita. Alla paura che ci fa sentire "perduti" di fronte alla Croce ascolterà ancora e sempre la nostra preghiera, e calmerà le tempeste: nella Chiesa, durante la gestazione dell'uomo nuovo, ci darà ancora segni della sua risurrezione su cui appoggiare la nostra "fede" che deve crescere, per divenire adulta e farci discernere nella tempesta il risveglio di satana nel campo della missione. 

lunedì 27 giugno 2016

Papa in aereo: no a “balcanizzazione” dell’Europa, sì a “una Chiesa che chiede scusa ai gay”
Ampio colloquio di Francesco con la stampa di ritorno dall’Armenia: dalla questione del genocidio a quella delle diaconesse, dalla scarsa creatività europea alle intenzioni “non sbagliate” di Lutero. Fino a Brexit e al rapporto con Benedetto XVI: “Un nonno saggio, ma di Papa ce n’è uno solo”

Viaggio Papa in Armenia
PHOTO.VA - OSSERVATORE ROMANO
Il fatidico “chi sono io per giudicare” riferito alla posizione della Chiesa sulle persone omosessuali, che tanto scalpore aveva creato nella sua prima aereo-intervista da Rio de Janeiro, ritorna a sorpresa nel lungo colloquio che Papa Bergoglio concede ai circa 70 giornalisti che lo hanno accompagnato nel viaggio in Armenia. Colloquio variegato e ricco di spunti, durante il quale, oltre a rispondere a domande su temi prevedibili come Brexit, il genocidio armeno e il Concilio pan-ortodosso, il Papa affronta anche la spinosa questione dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli omosessuali.
Chiesa chieda scusa ai gay per emarginazione. Ma anche a poveri e donne e bambini sfruttati…
L’input sono le recenti dichiarazioni del card. Marx che, all’indomani della strage di Orlando, aveva affermato che la Chiesa cattolica deve chiedere scusa alla comunità gay per aver marginalizzato queste persone. Francesco replica ripetendo il Catechismo: “Queste persone non vanno discriminate, devono essere rispettate e accompagnate pastoralmente”. “Si possono condannare, non per motivi ideologici, ma per motivi di comportamento politico, certe manifestazioni troppo offensive per gli altri. Ma queste cose non c’entrano, il problema è una persona che ha quella condizione, che ha buona volontà e che cerca Dio”. Quindi, di nuovo il Papa ribadisce: “Chi siamo noi per giudicare? Dobbiamo accompagnare bene… Io credo che la Chiesa, o meglio i cristiani perché la Chiesa è santa, non solo devono chiedere scusa come ha detto quel cardinale ‘marxista’, ma devono chiedere scusa anche ai poveri, alle donne e ai bambini sfruttati, devono chiedere scusa di aver benedetto tante armi, di non aver accompagnato tante famiglie. Perdono Signore, è infatti una parola che dimentichiamo”.
No “preti padroni”, ma “preti padri”. Santità ha pudore, spudoratezza è sfacciata
Da dimenticare è anche la figura del “prete ‘padrone’” che “bastona”, per lasciare invece il posto a quella del “prete padre” che “abbraccia e perdona”. Ce ne sono tanti di questi santi preti, constata il Papa: i cappellani negli ospedali e nelle carceri, ad esempio, “ma questi non si vedono, perché la santità ha pudore. Invece la spudoratezza è sfacciata e si fa vedere. Tante organizzazioni, con gente buona e gente non tanto buona. Noi cristiani abbiamo anche tante Terese di Calcutta… Non dobbiamo scandalizzarci, questa è la vita della Chiesa. Tutti noi siamo santi perché abbiamo lo Spirito Santo ma siamo tutti peccatori, io per primo”.
Benedetto XVI “un nonno saggio”, ma non ci sono due Papi
Nonostante sia un ‘peccatore’, però, rimane pur sempre il Papa. Unico e solo: “Non ce n’è nessun altro”, afferma Francesco, rispondendo ad una domanda su una ipotetica ‘diarchia’ in Vaticano, come lasciato intuire da un intervento di mons. Georg Gänswein alla Gregoriana in cui si parlava di “ministero petrino ‘condiviso’”. “Benedetto XVI è Papa emerito – spiega Bergoglio – lui ha detto chiaramente quell’11 febbraio che dava le sue dimissioni. Benedetto sta nel monastero, pregando. Sono stato molte volte a trovarlo, ci sentiamo per telefono, l’altro giorno mi ha scritto una letterina facendomi gli auguri per questo viaggio. Ho già detto che è una grazia avere in casa il nonno saggio; gliel’ho detto anche in faccia e lui ha riso”.
“Lui per me – prosegue – è l’uomo che mi custodisce le spalle e la schiena con la sua preghiera. Non so se è vero, ma ho sentito dicerie su alcuni che sarebbero andati da lui a lamentarsi per il nuovo Papa e li ha cacciati via con il suo stile bavarese… Ho ringraziato pubblicamente Benedetto per aver aperto la porta ai Papi emeriti. Oggi con questo allungamento della vita si può reggere una Chiesa a una certa età e con gli acciacchi? Lui ha aperto questa porta”. 
Tuttavia “c’è un solo Papa, l’altro è emerito”, afferma il Pontefice regnante. “Forse in futuro potranno essercene due o tre, ma sono emeriti” aggiunge, ricordando la celebrazione di dopodomani del 65° anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Ratzinger durante la quale – anticipa – “dirò qualche cosa a questo grande uomo di preghiera e di coraggio, che è il Papa emerito, non il ‘secondo Papa’ e che è fedele alla sua parola ed è molto saggio”.
Brexit. Evitare “balcanizzazione”; Europa dia più indipendenza e libertà ai paesi dell’Unione
Immancabile la domanda sul Brexit: questo voto al referendum potrebbe portare alla disintegrazione dell’Europa e anche alla guerra? “La guerra già c’è in Europa”, risponde laconico Francesco, “c’è un’aria di divisione, non solo in Europa…. Queste divisioni non dico che siano pericolose, ma bisogna studiarle bene e prima di fare un passo verso la divisione, bisogna parlare e cercare soluzioni percorribili”.  Il Pontefice dice di non aver “studiato” i motivi dalla decisione del Regno Unito. “Ci sono decisioni che si prendono per emanciparsi”, osserva, “questo è più comprensibile, perché c’è dietro una cultura, un modo di pensare. Invece la secessione di un Paese, pensiamo alla Scozia, è una cosa alla quale i politici, detto senza offendere i Balcani, danno un nome: ‘balcanizzazione’. Per me sempre l’unità è superiore al conflitto, ma ci sono diversi modi di unità. La fratellanza è migliore delle distanze. I ponti sono migliori dei muri”. Tutto questo, secondo il Papa, “ci deve far riflettere” e far capire che “il passo che la Ue deve dare per ritrovare la forza delle sue radici è un passo di creatività e anche di sana ‘disunione’, cioè dare più indipendenza e più libertà ai paesi dell’Unione, pensare a un’altra forma di unione” che si rifletta “nei posti di lavoro, nell’economia”.
Genocidio armeno: “Ho sempre usato questa parola, mai tono offensivo”
In tema di politica, al Papa viene chiesto perché abbia voluto aggiungere la parola “genocidio” nel suo discorso al Palazzo presidenziale, durante il primo giorno di viaggio in Armenia. È “utile” per la pace? Il Pontefice ribatte spiegando che “in Argentina quando si parlava di sterminio armeno sempre si usava la parola genocidio… Io non conoscevo un’altra parola. Quando arrivo a Roma sento l’altra parola ‘Grande Male’ e mi dicono che genocidio è offensiva. Io sempre ho parlato dei tre genocidi del secolo scorso: quello armeno, quello di Hitler e quello di Stalin”. Inoltre “dopo aver sentito il tono del discorso del presidente armeno, e per il mio uso della parola, sarebbe suonato molto strano non dire lo stesso che avevo detto l’anno scorso”.
Durante i genocidi, perché le potenze mondiali non hanno fatto qualcosa?
Il problema che il Papa ha voluto sottolineare venerdì è, comunque, un altro, e cioè il fatto che “in questo genocidio, come negli altri due successivi, le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte”. “Durante la Seconda Guerra mondiale, alcune potenze avevano la possibilità di bombardare le ferrovie che portavano ad Auschwitz, e non l’hanno fatto”, annota Francesco. “Nel contesto dei tre genocidi si deve fare questa domanda storica: perché non avete fatto qualcosa? Non so se è vero, ma si dice che Hitler quando perseguitava gli ebrei, avesse detto: ‘Chi si ricorda oggi degli armeni? Facciamo lo stesso con gli ebrei’. Ma la parola genocidio mai io l’ho detta con l’animo offensivo, ma oggettivamente”.
Ad Auschwitz voglio stare in silenzio e piangere
A proposito di Auschwitz, il Papa informa i giornalisti che vorrebbe svolgere la sua visita del prossimo luglio “in quel luogo di orrore” in silenzio, “senza discorsi, senza tante persone, soltanto le poche necessarie, senza salutare questo o quello… Da solo, entrare e pregare che il Signore mi dia la grazia di piangere”. 
In Azerbaigian, dirò che non fare pace per un pezzettino di terra è qualcosa di oscuro…
L’altra grazia che il Papa domanda è “la giustizia e la pace” per il popolo armeno: “un popolo coraggioso” che “ha portato croci di pietra, ma non ha perso la tenerezza, l’arte, la musica. Un popolo che ha sofferto tanto nella sua storia, soltanto la fede lo ha mantenuto in piedi”. Proiettandosi al futuro, Francesco guarda poi al viaggio in Azerbaigian e Giorgia che compierà a fine settembre: “In Azerbaigian – sottolinea, in riferimento alla dura situazione nel Nagorno Karabakh – dirò che non fare la pace per un pezzettino di terra significa qualcosa di oscuro. Ma lo dico a tutti, armeni e azeri. Forse non si mettono d’accordo sulle modalità di fare la pace e su questo bisognerà lavorare. Dirò quello che mi viene nel cuore, ma sempre in positivo, cercando soluzioni che siano percorribili”.
500° Riforma: “Le intenzioni di Lutero non erano sbagliate”
Dopo il viaggio nel Caucaso, nel calendario è in programma ad ottobre la visita a Lund, in Svezia, per il 500° della Riforma. “Pensa sia il momento giusto non solo per ricordare le ferite da entrambe le parti, ma per riconoscere i doni e forse anche per ritirare la scomunica a Lutero?”, è la domanda rivolta al Pontefice. Che risponde: “Credo che le intenzioni di Lutero non fossero sbagliate, era un riformatore, forse alcuni metodi non erano giusti, ma in quel tempo vediamo che la Chiesa non era proprio un modello da imitare: c’era corruzione, mondanità, attaccamento ai soldi e al potere. E per questo lui ha protestato, era intelligente e ha fatto un passo avanti giustificando il perché lo faceva”.
Lui – prosegue – “ha fatto una medicina per la Chiesa, poi questa medicina si è consolidata in uno stato di cose, in una disciplina, in un modo di fare, di credere… Dobbiamo metterci nella storia di quel tempo, non è facile capire”. Oggi “ci sono divisioni, ma dipendono anche dalle Chiese. La diversità è quello che forse ci ha fatto tanto male a tutti e oggi cerchiamo la strada per incontrarci dopo 500 anni”. La prima cosa da fare, secondo il Papa, è “pregare insieme”; poi, “lavorare per i poveri, i profughi i rifugiati, tanta gente che soffre” e infine impegnarsi per la pace.
Concilio pan-ortodosso, “un passo avanti positivo”
Sul Concilio pan-ortodosso in corso a Creta, Bergoglio esprime un giudizio positivo: “È stato fatto un passo avanti, non con il 100%, ma un passo avanti. Il solo fatto che queste Chiese si siano riunite per guardarsi in faccia, pregare insieme e parlare, è positivissimo. Io ringrazio il Signore, al prossimo saranno di più!”.
Diaconesse: commissione pronta, pensiero delle donne più importante del ruolo
Invece sulla questione di una Commissione di studi sulla possibilità delle diaconesse, spiega di essersi “arrabbiato” nel leggere sui media titoli tipo: “La Chiesa apre alle diaconesse”. “Questo non è dire la verità delle cose”, chiarisce, “io sono stato il primo a essere sorpreso per questa notizia” anche perché, nell’udienza all’Unione internazionale delle Superiore generali, “io avevo chiesto solo uno studio”.  In ogni caso, una Commissione sarà istituita: “Ho chiesto dei nomi e adesso sono lì sulla mia scrivania, sto per farla”.
Questo perché “è molto importante il pensiero della donna. Per me – dice Francesco – la funzione della donna non è così importante come il pensiero della donna, che pensa diversamente dall’uomo e non si può prendere una buona decisione senza consultare delle donne… Le donne vedono le cose in un’altra luce e la soluzione poi alla fine è sempre stata molto feconda e bella. Vorrei sottolinearlo: è più importante il modo di capire, di pensare, di vedere della donne che la loro funzione”. E poi è importante non dimenticare che “la Chiesa è donna, non è zitella, è sposa di Gesù Cristo”.
Elia chiama Eliseo a seguirlo

SEGUIRE GESU' NELLA LIBERTA' DELLA SUA PASQUA PER LIBERARE I MORTI DALLE TOMBE 
Gesù ci "ordina" oggi perentoriamente di "passare all’altra riva", ci "spinge" cioè ad entrare con Lui nella Pasqua, attirati nel suo passaggio dalla schiavitù alla libertà. Ciò significa che il desiderio di felicità e di pace che abbiamo dentro, la speranza di non restare invischiati tra le maglie dei problemi, delle preoccupazioni, delle angosce, è molto più di un desiderio e di una speranza: è un "ordine" del Signore, l'eco della "chiamata" che ci ha tratto all'esistenza, l'annuncio nel quale viviamo, esistiamo, siamo. Il "senso" profondo della nostra vita, ovvero la "direzione" che dà consistenza e pienezza a ogni istante, è quello che ci fa "passare all’altra riva", ogni giorno. Passare all’altra riva è l’unico modo di "seguire" il Signore. Lui, infatti, non ci offre uncuscino borghese dove riposare, alienazioni come ce ne propone il mondo. Con Lui non si scappa dalla realtà per nascondersi nelle "tane" delle "volpi", supponendo stoltamente che la nostra astuzia ci possa preservare dal fallimento e dalle delusioni; si cammina nella storia, i piedi ben piantati in terra, non si vola come "gli uccelli" verso "nidi" di fantasie sognate nel mondo virtuale di internet, degli astrologi, dei talent scout, degli acquisti a rate e con carta di credito. Cristo ha pagato cash, per tutti: infatti, "non ha dove reclinare il capo", e lo farà solo sulla Croce, offrendo gratuitamente la propria vita. Su di essa ha disteso le braccia per accogliere e salvare ogni uomo, rivelandoci che, quando è crocifisso, ogni istante della vita è operoso e fecondo. Quando il Signore chiama è per condurci al vero riposo, quello del seme che, caduto in terra, muore per non restare solo e dare molto frutto. Il riposo che inizia qui sulla terra nell'amore che dimentica se stesso, prende la Croce d’ogni giorno e "segue" il Signore "ovunque", perché in ogni luogo e momento c'è qualcuno che aspetta la sua salvezza; il demonio, infatti, non va mai in vacanza, anche alle Maldive lavora come un matto... Quando Gesù passa e chiama è impossibile cercare di comprendere quello che accade se non ci lasciamo raggiungere e avvolgere dal suo amore; chi non ha l'esperienza del suo perdono, della Pasqua che fa risorgere dalla morte ogni relazione e situazione che sembrava spacciata, non potrà "seguire il Maestro ovunque vada"; non ha i parametri per ascoltare e obbedire, perché la carne ha altri criteri e cerca sempre e solo il proprio interesse e la propria soddisfazione; la carne ferita dal peccato non spera il Cielo. Negli "ovunque" di Gesù, invece, che sono spazi e momenti di puro amore, vi saranno luoghi e persone che la carne rifiuterà, e le buone intenzioni di fedeltà e amore a Cristo si scioglieranno come neve al sole. Per questo, può "seguire ovunque" il Signore solo chi ha crocifisso la sua carne e i suoi desideri perché vive del suo amore e questo gli basta e lo sazia; solo chi in questo amore ama il prossimo come se stesso, che significa proprio "lasciare che i morti seppelliscano i propri morti". Ed è un modo per dire che chi "segue" il Signore si appoggia a Lui e gli consegna fiducioso tutte le situazioni irrisolte della propria storia. Spesso, infatti, neanche i rapporti chiamati ad essere i più santi, come quelli familiari o di una comunità religiosa, possono offrire un "luogo dove reclinare il capo". Anzi, vissuti nel limite angusto della carne, sono un ostacolo per l'obbedienza alla propria vocazione. E non c'è nulla da fare: più si tenta di "seppellire i morti", ovvero, più si cerca di riordinare e spazzare via i motivi delle contese, e più queste si moltiplicano. In questi casi, e sono la quasi totalità, c'è solo da convertirsi e rientrare in se stessi, ricordare di non essere migliori di nessuno, e accettare che la carne è ferita dal peccato ma è viva e vegeta, e, quando è schiava del volere del demonio, è più forte dei nostri buoni propositi. Quindi, ascoltare la chiamata di Gesù e "seguirlo", per "reclinare il capo", ovvero i pensieri e le angustie, gli tsunami della carne, i desideri e le speranze, sul legno della Croce. E restare crocifissi con Lui per amore dell'altro, sino a lasciargli intatta tutta la sua libertà. Amare, senza se e senza ma, perché solo nell'amore vi è il riposo, che abbraccia l'altro così com'è, senza esigenza, anche se non cambierà mai. 



Chiamata di Eliseo


Solo in questo amore si può trovare pace, proprio lì, nella realtà, perché, passando con Cristo all'altra riva del Cielo, possiamo vederla trasfigurata e accoglierla docilmente. E non si tratta di superficialità, di rassegnazione e cinismo; è amore, amore purissimo che si dona senza riserve e senza sperare nulla per sé, anche se fosse umanamente legittimo; è amore che si offre in silenzio, muto come Gesù nella Passione, per non sporcare la purezza dell'amore di Dio, con il solo desiderio che l'altro possa percepirne, nella libertà di rifiutarlo, almeno un frammento. E' ovvio che Gesù non sta dicendo di non curare i propri cari e accompagnarli sino alla morte, anzi. Ma di amare ogni persona, anche le più care, di un amore celeste. E questo, a volte, ci conduce a superare le consuetudini umane e religiose. Quando, per amore a Cristo e al Vangelo - e quindi per amore vero e celeste all'altro, anche alla carne della propria carne - il coltello affonda la lama per circoncidere il cuore, è il momento dell'amore più puro, che si fa crocifiggere per non barattare la propria salvezza e quella dell'altro con un po' d'affetto e consolazioni umane, effimere come la rugiada del mattino. Seguire Gesù, infatti, è molto di più che seppellire i morti; anzi, è l'esatto contrario: è camminare nella morte per giungere alla vita e tirare fuori i morti dal sepolcro e accompagnagli in Cielo. Seguendo Gesù siamo chiamati a spargere il suo profumo di vita e misericordia prendendo su di noi l'incomprensione, il rifiuto e i peccati degli altri, dando così compimento a ogni relazione; l'amore, infatti, non si limita alle pur dovute e desiderate attenzioni; esso va ben oltre il "minimo sindacale" del "religiosamente corretto". La vita cristiana è "seguire" l'Amato nelle ore infinite di "straordinario" spese per ascoltare e correggere un figlio, per accollarsi silenziosamente il lavoro che il collega non vuol fare, per amare la suocera o la nuora così come sono, per compiere cioè, per Grazia, il Discorso della Montagna; e, se Dio chiama a una missione particolare, per andare ad annunciare il Vangelo sino agli estremi confini della terra. Questi sono gli straordinari di un amore straordinario, che non ha altro stipendio in terra che la gioia del Cielo, che esplode quando un peccatore, il nostro fratello, si converte e crede all'amore di Dio. Per questo, come Giacobbe, siamo chiamati a "posare il capo" su di una pietra, nel "luogo" di Dio; perché - istante dopo istante - la famiglia, il lavoro, la scuola, tutti i "luoghi" che ci attendono "seguendo" il Signore, divengano le "porte del Cielo" che ha visto Giacobbe al risveglio dal sogno: “Le pietre che Giacobbe nostro padre aveva messo sotto il capo furono trasformate in un letto e un cuscino. Lì, con quella freschezza e quella asprezza, Egli benedisse” (GenR 68,43). Così il Midrash. Così per la nostra vita, nella quale freschezza e asprezza caratterizzano le pietre del carattere del coniuge, delle difficoltà con i figli e i genitori, dei sacrifici per non restare invischiati nell'egoismo e nell'orgoglio; ma, proprio per quello che sono, i volti e i luoghi che ci attendono, si "trasformano in un letto e un cuscino" dove riposare dalle sterili fatiche della carne. Pietre come la pietra del sepolcro del Signore, aspra nella morte, fresca nella risurrezione. Come non è stato possibile che la morte tenesse in potere il Signore, così non è possibile riposare nella morte, nei fallimenti, nei dolori. Non è quello il nostro luogo. E’ un momento, un passo nel passaggio. Colui che è di Cristo non è un rassegnato, non accompagna all'eutanasia e non abortisce persone, relazioni ed eventi; non è un cultore macabro della sofferenza e della morte. Chi è di Cristo lo "segue ovunque", perché, risvegliatosi con Lui dal sonno della morte, sa che ogni "luogo" è "la casa di Dio, una porta sul Cielo". Dio farà di lui e della sua storia una benedizione "per tutte le famiglie della terra", perché "sarà con lui e lo guarderà ovunque andrà e non lo abbandonerà prima di aver compiuto ogni sua promessa" (Cfr. Gen 28,10-19). E proprio questo era il desiderio dello scriba, così simile al nostro celato in tutto quello che pensiamo e facciamo: stare con Gesù per sempre. Ma esso è il frutto dell’esser "passati all’altra riva", sorge dall'esperienza della Pasqua, le viscere battesimali della nostra nuova vita sempre protesa verso un’altra riva, nella quale camminare sereni tra le precarietà, sino a che non giunga l’ultima, la sponda del Cielo.

domenica 26 giugno 2016

Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa
(Manila, 29 novembre 1970)
 
 
 
Noi predichiamo Cristo a tutta la terra
 









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   «Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9, 16). Io sono mandato da lui, da Cristo stesso per questo. Io sono apostolo, io sono testimone. Quanto più è lontana la meta, quanto più difficile è la mia missione, tanto più urgente è l’amore che a ciò mi spinge. Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (cfr. Mt 16, 16). Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d’ogni creatura (cfr. Col 1, 15). È il fondamento d’ogni cosa (cfr. Col 1, 12). Egli è il Maestro dell’umanità, e il Redentore. Egli è nato, è morto, è risorto per noi. Egli è il centro della storia e del mondo. Egli è colui che ci conosce e che ci ama. Egli è il compagno e l’amico della nostra vita. Egli è l’uomo del dolore e della speranza. È colui che deve venire e che deve un giorno essere il nostro giudice e, come noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicità. Io non finirei più di parlare di lui. Egli è la luce, è la verità, anzi egli è «la via, la verità, la vita» (Gv 14, 6). Egli è il pane, la fonte d’acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete, egli è il pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Come noi, e più di noi, egli è stato piccolo, povero, umiliato, lavoratore e paziente nella sofferenza. Per noi egli ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore e i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli.
   Gesù Cristo: voi ne avete sentito parlare, anzi voi, la maggior parte certamente, siete già suoi, siete cristiani. Ebbene, a voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti io lo annunzio: Gesù Cristo è il principio e la fine; l’alfa e l’omega. Egli è il re del nuovo mondo. Egli è il segreto della storia. Egli è la chiave dei nostri destini. Egli è il mediatore, il ponte fra la terra e il cielo; egli è per antonomasia il Figlio dell’uomo, perché egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, sua madre nella carne, madre nostra nella partecipazione allo Spirito del Corpo mistico.
   Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annunzio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra, e per tutti i secoli dei secoli.

sabato 25 giugno 2016

Gender: in 300 davanti al Miur per la libertà educativa
Gandolfini: “È un principio non negoziabile, il Governo tenga conto delle famiglie

Manifestazione CDNF davanti al MIUR
Foto: Comitato Difendiamo i Nostri Figli
A dispetto del caldo torrido e della convocazione in tempi stretti, è stato un successo al di là di ogni aspettativa. Alla manifestazione indetta per stamattina dal “Comitato Difendiamo i Nostri Figli” davanti al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur), oltre agli attesi rappresentanti delle associazioni che hanno sottoscritto il manifesto per la libertà educativa, hanno preso parte decine di famiglie, accompagnate dai loro bambini con zainetto in spalla. Erano attese una cinquantina di persone ma, secondo gli organizzatori, i partecipanti sono stati circa trecento.
Il Comitato “Difendiamo i Nostri Figli” chiede al ministero che nel documento sul comma 16 della Riforma della scuola di prossima emanazione, sia escluso qualsiasi riferimento all’ideologia gender e ribadito il diritto dei genitori di non far partecipare il proprio figlio ad attività in contrasto con i valori antropologici della famiglia.
A tal proposito è stato presentato il Manifesto per la libertà educativa della famiglia, cui seguirà una petizione popolare a cui hanno già aderito oltre quindici associazioni di famiglie e genitori.
“Le famiglie hanno ribadito con una bella presenza sotto il ministero dell’Istruzione che il diritto di priorità educativa dei genitori è un principio non negoziabile, chiediamo che il governo ne tenga conto in tutti i documenti e le leggi di prossima approvazione”, ha dichiarato il presidente del Comitato “Difendiamo i Nostri Figli”, Massimo Gandolfini.
Da parte sua, Giusy D’Amico, membro del Comitato, impegnata in modo particolare nel settore educativo, ha ribadito a Zenit il principale obiettivo della manifestazione: un “consenso informato preventivo” che salvaguardi la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, tutelato dalla Costituzione Italiana e il diritto della famiglia ad educare i figli secondo le proprie convinzioni, a sua volta tutelato dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948.
“Non cerchiamo una ‘concessione’ ma il riconoscimento di un diritto che tuteli la libertà educativa su temi in cui solo la famiglia può porre in essere i fondamenti – ha spiegato la d’Amico -. La scuola non può interferire sul livello valoriale, etico, religioso o filosofico della famiglia”.
Nel frattempo, dopo che il ministro delle Riforme Istituzionali, Maria Elena Boschi, ha annunciato l’imminente ufficializzazione delle linee guida relative al comma 16 della legge 107, sull’educazione alla parità dei sessi, il Comitato “Difendiamo i Nostri Figli” ha chiesto di poter avere accesso a quanto verrà ufficializzato, dopo che, lo scorso ottobre, aveva presentato al Miur “una serie di proposte ma anche di criticità rispetto ai possibili dubbi su percorsi educativi che spesso enunciavano qualcosa ma contenevano molto altro”, ha puntualizzato la D’Amico.
Il Comitato ha dunque prodotto un ventaglio di proposte, con il contributo di una équipe di specialisti di alto livello accademico, per veicolare la propria preoccupazione in merito a un possibile inserimento, anche surrettizio, dell’educazione al gender nei programmi ministeriali, con il pretesto di combattere le discriminazioni.
“Abbiamo spiegato che quel linguaggio ambiguo e criptato non ci convince e che noi vogliamo chiarezza, in particolare sui termini ‘genere’ e ‘sesso’, che vanno declinati esclusivamente al maschile e al femminile – ha proseguito la D’Amico -. Tutto questo va chiarito in modo inequivocabile, perché riteniamo che il bambino abbia diritto alla chiarezza nella costruzione della sua identità e che non si proponga un’educazione sessuale in base ad una ‘identità fluida’ che tende a porre dubbi nella coscienza del bambino in fase di formazione”.
Fermo restando che il Comitato concorda sulla “lotta ad ogni forma di discriminazione”, i suoi rappresentanti vigileranno affinché sia salvaguardata la libertà educativa, anche in nome del “pluralismo culturale”.
“Ci auguriamo che a breve l’ufficializzazione di questi testi sia conforme a quanto da noi specificato – afferma ancora la D’Amico – che sia specificato cosa si intende per ‘attività extracurricolari’ e che esse non siano obbligatorie. Su ‘temi sensibili’ nulla deve essere obbligatorio e il Ministero è tenuto a porvi adeguata attenzione”.
Il Miur, tuttavia, non ha ancora fornito risposta sul consenso informato, richiesto dal Comitato lo scorso anno, mentre per quanto riguarda la petizione regionale partita in Friuli Venezia Giulia sulla libertà educativa, è stata respinta la richiesta di consenso informato, ponendo un’unica postilla alla fine della dichiarazione, secondo cui si afferma genericamente che, se le famiglie non fossero d’accordo, la scuola dovrà tenerne conto.
La sequela di Gesù è un esodo d’amore
 

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"Via Dolorosa", Gerusalemme / Wikimedia Commons - Ian & Wendy Sewell, CC-BY-SA-2.5
L’amore autentico desidera il bene dell’amato, per questo conosce il dolore del rifiuto. Per «compiersi» ed «elevare» al Cielo ciò che sta marcendo sotto terra, l’amore di Dio deve farsi pellegrino e scendere nell’abisso del male che incatena il cuore. Con il «volto saldo», pronto per ricevere insulti, sputi e bestemmie, Gesù si reca a Gerusalemme, la Città della Pace che uccide i profeti, la santa e prostituta nella quale si riflette la contraddizione che caratterizza ogni uomo: amato come un figlio, è condannato a vivere come un orfano. Passo dopo passo, villaggio dopo villaggio, rifiuto dopo rifiuto, Gesù si reca pellegrino a Gerusalemme come al cuore malato di ciascuno di noi, dove salire sulla Croce e «compiere» la Pasqua, il passaggio dalla schiavitù alla libertà per ogni uomo.
Secondo la tradizione ebraica, la Pasqua esigeva «preparativi» accurati e lunghi, quanto il cammino di Gesù verso Gerusalemme, e «messaggeri» scelti per realizzarli. Essi, come i membri di uno staff che conosce intimamente il presidente e ne condivide la missione, sono inviati per bonificare e preparare la visita. Anche noi, «angeli inviati davanti al volto» di Gesù, ci «incamminiamo» ogni giorno verso il «villaggio dei samaritani» eretici che rifiutavano scandalizzati il Tempio di Gerusalemme. Siamo inviati in famiglia, al lavoro, a scuola, ovunque la Croce sia di scandalo, per prepararvi la Pasqua del Signore, bonificando la menzogna con l’annuncio del Vangelo caricandoci del rifiuto. E questo non ci piace, piuttosto vorremmo bruciare peccati e peccatori, fraintendendo il fuoco di Elia che incendiò l’idolatria per mostrarne l’inganno e così annunciare la Verità. Ma non è questa la missione di Gesù, e il suo sguardo che ci ha sempre perdonato ce lo ricorda. Siamo inviati a cercare hametz, il lievito vecchio dell’ipocrisia che rifiuta la verità, e a prenderlo su di noi, perché Gesù possa compiere la sua Pasqua.
E non vi è altro modo per rinvenire e smascherare l’ipocrisia che “seguire” Gesù; seguire significa innanzi tutto consegnare la propria vita a un altro. Nello scalare una montagna è fondamentale avere fiducia del capocordata. Seguire Gesù è rinunciare ad aprire il cammino, a decidere strategie e rotte: è fidarsi e seguire le orme, fissare le sue spalle, il segno dell’amore che ci ha chiamati caricando la Croce. Seguire Gesù è affidargli la vita sul concreto legno della Croce che ci accompagna ogni giorno, rinunciando a se stessi in ogni relazione per vivere la sua vita.
Ma questo è possibile solo se si ama. Non si è discepoli in virtù di una propria scelta, neanche di un desiderio, per sublime che sia, come nessuno decide se, quando e dove innamorarsi. E’ un’elezione gratuita per “vivere disposti al volo, pronti a qualunque partenza. È il futuro inimmaginabile, l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente» (Maria Zambrano). La sequela di Gesù è un esodo d’amore alla ricerca della libertà, come fu per il Popolo d’Israele. Nessun merito, nessun requisito se non quello di essere il più insignificante e testardo della terra, e, per questo, amato gratuitamente.
Il “discepolo” è l’uomo della Pasqua, si nutre del pane della fretta, non ha luogo dove riposare; è attratto in un esodo che lo strappa alla schiavitù insieme a un popolo che mostrerà al mondo il destino di libertà preparato per ogni uomo. Per questo si lascia alle spalle gli Egiziani, il mondo, non ha tempo per guardarsi indietro e salutare e seppellire il passato di catene e schiavitù, i legami di carne destinati a corrompersi. Non perde tempo cercando di ricomporre le relazioni morbose, idolatriche, carnali: le seppellirà Dio affogandole nel mare per non rivederle mai più… Il discepolo di Gesù è un innamorato, immerso in un amore che lo ha raggiunto senza vedersi porre condizioni, laddove egli si trovava, come Matteo, come Zaccheo, senza il tempo di riordinare, di farsi belli, piacevoli, attraenti. Come Israele, sposa infedele raggiunta, amata e perdonata dal Signore.
Lo stesso amore di Dio che “dei due fa una cosa sola” è la sorgente della sequela: ogni vocazione è un sacramento, una Parola di Dio che crea una novità celeste nella carne e nella storia degli uomini. Così il matrimonio, il presbiterato, la vita religiosa, la vita missionaria e itinerante, tutto scaturisce dalla stessa Parola creatrice: solo in essa un uomo e una donna possono lasciare suo padre e sua madre. Non si può seguire Cristo rimanendo con cuore, mente e carne nella propria casa, cercando sempre negli affetti e negli idoli mondani un “luogo dove reclinare il capo”.
Così come chi, pur sposandosi, non abbandona mai la propria casa di origine, e cerca di farne una replica. Seguire Cristo è lanciarsi in un’avventura di cui non si conosce nulla, se non l’amore che ci ha raggiunti, salvati e liberati. Un amore infinito presuppone spazi, prospettive, esiti senza limiti. Seguire Gesù, non è altro che essere cercati, ritrovati, amati e caricati sulle spalle dal Buon Pastore, e imparare, ogni giorno, a posare lo sguardo esattamente dove lo posa Lui, perché “amarsi non vuol dire guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione” (Antoine de Saint-Exupéry).

venerdì 24 giugno 2016

RINATI CON CRISTO NELLA VITA NUOVA CHE ANNUNCIA AL MONDO IL SUO AMORE
Insieme al Signore e alla Vergine Maria, Giovanni Battista è l'unico "Nato di donna" del quale la Chiesa celebra la natività. Significa che nella sua nascita vi è qualcosa che riguarda tutti noi. Giovanni, infatti, il "nome nuovo" scelto da Dio, significa "Dio fa grazia oraper una storia nuova che può cominciare ora. La tua e la mia, e quella di ciascun uomo "battezzato" nelle viscere d’amore a cui tutti aneliamo. Che cos' è la nostra vita se non una continua ricerca di misericordia? Di un amore che ci accolga nel suo grembo senza condizioni, così come siamo, che non presenti conti da pagare, per il quale non doversi acconciare? Un amore che ci faccia liberi d’essere esattamente quel che siamo. "Nessuno nella nostra parentela porta il nome" di questo amore, la carne non la prevede. I rapporti, infatti, si infrangono tutti sul limite severo della debolezza carnale. E ciascuno di noi è il frutto di una storia concreta di debolezze, come quella del Popolo di Israele, l’eletto incapace di reggere la prova della libertà. Una storia di schiavitù e liberazioni, di adulteri e perdoni, simile a una strada sconnessa e piena di buche, ma che segue un percorso certo e diritto sulle orme di una promessa: l'avvento del Messia, il Salvatore, il Figlio che compirà, con la sua carne, la Legge impossibile per la nostra carne. In questa storia, Giovanni è la soglia della speranza, l’uscio socchiuso sul compimento di ogni promessa. La sua nascita dal grembo sterile di Elisabetta, immagine di Israele sterile vigna senza frutto, ne è il segno. Tutta la storia si coagulava in quel grembo, come oggi anche la nostra giunge a questo giorno come una "contrazione" nel grembo di una madre. Tutto ciò che ha reso infeconda la nostra vita può diventare il segno dell'amore che trasforma la morte in vita. Come accadde al principio della storia con Isacco, figlio insperato di Abramo e di Sara, gli avvizziti patriarchi. Una storia di salvezza iniziata con il miracolo che ne profetizzava il compimento. Anche il nostro apparire nel mondo è stato un miracolo d'amore; ma poi, di fronte alle sofferenze, il demonio ha avuto ragione della nostra debolezza, e, ingannandoci, ci ha chiuso nel grigio dell'egoismo sterile di chi ha smesso di credere all'amore di DIo. Per strapparci alla deriva del mondo occorreva un miracolo: Giovanni, la misericordia di Dio, la sua Grazia proprio ora, quando forse tutto sembra remarci contro. Non l’abbiamo conosciuta nella carne, non v’è n’è traccia nella storia del mondo. E’ un nome nuovo, l'assoluta novità di uno sguardo posato su Cristo, il Messia capace di salvarci e far bella la nostra vita di oggi: famiglia, lavoro, amicizie, tutto rinnovato perché compiuto nell'amore. Giunge oggi Giovanni, la Parola di Dio per noi. Parla al nostro cuore e ci annuncia la buona notizia che è finita la nostra schiavitù. Ai rapporti malsani inchiodati ai compromessi, al dare e avere d’ogni nostra relazione, ai padri che vorrebbero fare dei propri figli il prolungamento di se stessi, e ai figli schiacciati dall'eredità carnale dei propri genitori, anche quella di peccato e violenza. 


Ecco oggi la buona notizia per le nostre storie sterili che sembrano non aver nulla di nuovo da dire, per gli anziani ormai rassegnati, per i giovani cui il mondo ha sottratto la speranza; per le coppie sedutesi sulla routine, quando il volto del marito e della moglie appaiono ormai come un soprammobile in più; ai preti e religiosi infilatisi, senza accorgersene, nell'accidia che dà spazio ai compromessi e inaridisce lo zelo; ai tanti presi al laccio dell'insoddisfazione che li schiaccia in una continua, sterile, rivendicazione di diritti; a chi non riesce più a vedere la propria vita, e quella di chi è accanto, come un prodigio. Attraverso Giovanni è annunciata oggi a ogni uomo la buona notizia: come "la mano di Dio era su di lui", sigillo della nuova ed eterna alleanza, così la mano del Padre è su di noi, per realizzare qualcosa di assolutamente nuovo, e fare, della nostra vita, una porta spalancata verso il Signore Gesù. Oggi possiamo guardare la nostra vita con occhi diversi. Dio, infatti, "ha esaltato anche in noi", come in Elisabetta, "la sua misericordia". Si è chinato sulla nostra sterilità e ne ha fatto un prodigio di fecondità. Giovanni è immagine del nostro cuore assetato d’amore, il segno dell’intimo di noi che anela a Cristo. La misericordia attesa e bramata bussa oggi al nostro cuore, Giovanni ce la offre gratuitamente a nome del Messia. Oggi si compiono "i nostri giorni del parto", e tutto di noi brilla di luce nuova: ogni istante del passato trasfigurato nel miracolo d’amore del Signore. Nulla è impossibile a Dio, non vi è sterilità che non possa essere trasformata in fecondità, nessun peccato che non possa essere perdonato. La nostra storia ci ha condotto a quest’oggi di Grazia e di gioia. Tutto in noi, ogni evento e ogni persona apparsi della nostra vita, come doni di Dio, hanno preparato l’incontro con la sua misericordia. Lasciamoci "meravigliare" di fronte all'amore di Dio, ai dettagli che lo avvicinano alle nostre giornate. Come Giovanni, "cresciamo e rafforziamoci nello Spirito", perché ci attende una missione meravigliosa, quando e come Dio vorrà, dove Lui ha già pensato: Annunciare il Messia, l’atteso delle genti. Fin dal grembo materno ci ha chiamati, oggi ce lo rivela. Siamo amati, salvati, redenti, perdonati, e la nostra vita è un vaso attraverso il quale Dio offre al mondo la sua misericordia; per questo, tutto di noi è un prodigio, il più grande, le braccia distese nella consegna di noi stessi per gli altri. Che timore, che gioia! Davvero, “che sarà mai questo bambino?”, che sarà mai la nostra vita? E quella di tuo figlio, anche se in questo tempo sembra seppellito tra grugniti e ira. Il Signore, giorno dopo giorno, ce lo rivelerà, ma sappiamo già che giungerà esattamente dove è approdata la vita di Giovanni: a divenire, nel martirio, un segno, una luce che indichi la salvezza, l'Agnello che toglie il peccato del mondo. In famiglia, al lavoro, a scuola, ovunque, questa vita concreta è un prodigio, il segno autentico ed efficace dell'amore che salva ogni "ora", che fa di ogni istante il principio di una novità che riscatta e infonde pace e felicità. Gettiamoci allora, senza paura, nell’avventura che Dio ci ha preparato.