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sabato 31 dicembre 2016

TE  DEUM 
Te Deum laudámus: * te Dóminum confitémur.
Te ætérnum Patrem, * omnis terra venerátur.

Tibi omnes ángeli, *

tibi cæli et univérsæ potestátes:
tibi chérubim et séraphim *

incessábili voce proclamant:

 

Sanctus, * Sanctus, * Sanctus *

Dóminus Deus Sábaoth.

Pleni sunt cæli et terra * maiestátis glóriæ tuae.

Te gloriósus * Apostolórum chorus,

te prophetárum * laudábilis númerus,

te mártyrum candidátus * laudat exércitus.

Te per orbem terrárum *
sancta confitétur Ecclésia,
Patrem * imménsæ maiestátis;

venerándum tuum verum * et únicum Fílium;

Sanctum quoque * Paráclitum Spíritum.

 

Tu rex glóriæ, * Christe.

Tu Patris * sempitérnus es Filius.

Tu, ad liberándum susceptúrus hóminem, *

non horruísti Virginis úterum.

Tu, devícto mortis acúleo, *

aperuísti credéntibus regna cælórum.
Tu ad déxteram Dei sedes, * in glória Patris.

Iudex créderis * esse ventúrus.
Te ergo, quæsumus, tuis fámulis súbveni, *

quos pretióso sánguine redemísti.
ætérna fac cum sanctis tuis * in glória numerári.
 

Salvum fac pópulum tuum, Dómine, *

et bénedic hereditáti tuæ.
Et rege eos, * et extólle illos usque in ætérnum.
Per síngulos dies * benedícimus te;
et laudámus nomen tuum in sæculum, *

et in sæculum sæculi.

Dignáre, Dómine, die isto *

sine peccáto nos custodíre.
Miserére nostri, Dómine, * miserére nostri.

Fiat misericórdia tua, Dómine, super nos, *

quemádmodum sperávimus in te.
In te, Dómine, sperávi: *

non confúndar in ætérnum.
Dal Vangelo secondo Giovanni, 1,1-18
In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 
Egli era in principio presso Dio: 
tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. 
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 
la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta. 
Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. 
Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce. 
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. 
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. 
A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 
i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità. 
Giovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l'uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me». 
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. 
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 
Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato. 



GESU' E' LA PAROLA CHE DA' CARNE A OGNI NOSTRO DESIDERIO DI AMARE OLTRE I LIMITI IMPOSTI DALLA CARNE 


Oggi, ultimo giorno dell'anno, nel quale si è soliti fare un bilancio di ciò che è trascorso e si è vissuto, scopriremo di aver detto tante, troppe parole senza essere stati capaci di dar loro carne e vita. Sì, tante volte non siamo riusciti a compiere quello che il nostro cuore avrebbe voluto... Ma proprio su questa soglia che ci introduce in un anno nuovo, la Chiesa ci proclama di nuovo la Parola che ci ha creato e salvato. Che sapienza, e che misericordia! La Parola predicata è pronta a incarnarsi di nuovo nella nostra debolezza. Essa viene a cercare le nostre parole sussurrate, gridate, pregate, a volte macchiate sino a farsi imprecazione. Viene per purificarle, perché Dio non si scandalizza delle parole che gettiamo alla rinfusa nei giorni, seminando nelle relazioni illusioni e frustrazioni, ferite e dolore, gioia e speranza. Sì, Dio viene di nuovo a far bella la nostra vita nell’amore, perché l’Incarnazione esaltata nel Prologo del Vangelo di Giovanni canta la “Sapienza della Croce” piantata nella storia. E’ sulla Croce, infatti, che Gesù doveva portare la nostra carne per salvarla rivelandoci il Padre che sconfessa quello che ci ha generati nella menzogna e nel peccato. Stendendo le braccia per accogliere nel perdono ogni uomo, la Parola spiega chi sia il Padre disegnandone l'immagine con ogni goccia di sangue versata gratuitamente. Per questo sulla Croce è stato un nuovo “principio”, la prima Parola della nuova creazione. Finalmente la “Gloria”, ovvero la presenza amorevole di Dio, si è fatta carne nelle membra doloranti del Signore che portavano il peccato dell'umanità. Su di essa anche per noi può inaugurarsi una vita nuova.

Basta lasciare che Dio inchiodi il nostro uomo vecchio e "il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli", per farci rinascere figli di Dio a sua immagine e somiglianza, “non per volere umano”, ma per la sua elezione gratuita. Infatti, nessuna “carne o sangue” ferita dal peccato può capire e tanto meno accettare la Croce. Dio sa che, senza la Parola fatta carne nella propria vita, nessuno può compiere la Legge consegnataci attraverso Mosè. Per questo nella Chiesa, di nuovo si compie il mistero dell’Incarnazione, gratuitamente, perché nel suo grembo materno siamo da Lui “generati come figli”. La “luce” che ha vinto le tenebre del peccato, infatti, risplende su di noi quando la Parola che la Chiesa ci predica “si fa carne” nei sacramenti e nel Popolo Santo di Dio, “per abitare in mezzo a noi”. Coraggio allora, perché anche quest'anno, con Cristo, "Dio ha dato vita anche a noi, che eravamo morti" molte volte "per i nostri peccati e per l'incirconcisione della nostra carne, perdonandoci tutti i peccati".  Guardiamo oggi ad ogni momento dell'anno che abbiamo vissuto, e scopriremo che Gesù, "avendo privato della loro forza i Principati e le Potestà ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo". Ecco, quest'anno è stato proprio il corteo del trionfo della Parola fatta carne su ogni peccato compiuto nella nostra carne: Gesù infatti, ha tolto al demonio il potere di ingannarci, distruggerci e gettarci nella disperazione, perché, come accadeva ai nemici che gli imperatori e gli ufficiali romani avevano sconfitto durante i cortei con cui entravano vittoriosi a Roma, fa oggi dinanzi a noi, alla nostra famiglia, alla Chiesa e al mondo, "pubblico spettacolo" di ogni nostro peccato, dei tradimenti, delle menzogne, delle concupiscenze. Stasera, mentre canteremo il Te Deum, potremo davvero benedire, lodare, ringraziare il Signore perché ci ha perdonato infinite volte, facendo di ogni nostro peccato il segno della vittoria del suo amore. L'anno trascorso è stato un mosaico meraviglioso dove ogni pezzo d'amore mancante a causa dei nostri peccati è stato deposto nel momento e nel posto giusto dall'amore che ha vinto il peccato. Una sinfonia meravigliosa composta dalle note di ogni secondo, e oggi è come il suo gran finale, nel quale i diversi temi musicali si riassumono in un crescendo che mette i brividi: Santo, Santo, Santo sei stato con me Signore, sempre! Non manca nulla, perché su tutto è scesa la misericordia rigeneratrice di Dio! In ogni istante si è fatta carne la Parola che ha dato vita ad ogni nostro secondo. Anche se non ce ne siamo accorti...  No, non dobbiamo buttare nulla, anzi! Anche i momenti che vorremmo cancellare sono preziosi, perché proprio essi segnano le vittorie più belle del Signore. Ripensiamo allora a quello che, di quest'anno, vorremmo dimenticare e buttare dalla finestra. E chiediamo a Dio la "luce" per vederli risplendere nella "grazia" e nella "verità" della Parola che proprio allora ci ha ricreati facendosi carne nella nostra debolezza. I momenti dove essa si rivela distruggendo l'ipocrisia sono quelli più preziosi, nei quali finalmente possiamo smettere di illuderci di non avere bisogno di Lui. Proprio quando scopriamo di essere nulla, infatti, “dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto, stiamo ricevendo e riceveremo grazia su grazia” per entrare nella storia che Dio ha preparato per noi. 

venerdì 30 dicembre 2016

Festa della famiglia. Quale?

    
   
di Angelo Busetto                    30-12-2016
Sacra Famiglia                            

La festa della Santa Famiglia di Nazaret quest'anno si sfila quasi dal calendario, non trovando una domenica in cui collocarsi tra Natale e Capodanno, e finisce in un magro venerdì. Quello che accade incidentalmente nel calendario liturgico sembra un riflesso dello smarrimento del senso della famiglia che serpeggia nella società. Quando gruppetti di donne singole si radunano nel bar sottocasa, o più frequentemente vi stazionano giovanotti attempati, si diffonde una sensazione di solitudine, come nei racconti dell'Ottocento con le vicende dei ragazzi senza famiglia. Donne sole e padri separati, bambini alloggiati con la mamma in casa dei nonni, coppie deboli e labili con frequente cambio di partner, così da non lasciare il  tempo di memorizzarne i nomi, creano disorientamento e dissesto. Sarebbe semplice risolvere il problema di un letto in cui dormire e del piatto caldo, se i due fratelli si frequentassero o tornassero ad abitare con i genitori 'fastidiosi'. Sarebbe semplice gustare la bellezza della casa se papà e mamma si parlassero senza litigare.
In questo frangente, la famiglia di Nazaret rimane piantata in tutti i presepi delle Chiese e delle case, per riapparire puntualmente nel calendario festivo dei prossimi sei anni. Soprattutto, la famiglia di Nazaret riemerge nelle famiglie con papà e mamma e figli che continuano ad abitare le case, ad attraversare le piazze e a battezzare i bambini. Riemerge tra le onde della nostra società, nelle esperienze di accoglienza e di misericordia che illuminano il volto delle comunità cristiane. Siamo pervasi da una grande nostalgia di famiglia: gli anni e i giorni ci sono dati per farci toccare con le nostre mani e vedere con i nostri occhi la bellezza dell'amore.
Ne ha voluto fare esperienza lo stesso Figlio di Dio, nato da donna e cresciuto come figlio di Giuseppe. Che cos'ha di straordinario la famiglia di Nazaret? Che cos’ha di straordinario una famiglia cristiana? Gesù presente nella quotidianità dei giorni! Moglie, marito e figli non sono soli: Cristo abita la casa, riconosciuto e accolto anche nell’esperienza del limite. C’è da augurare alle famiglie di vivere di questo Amore, ricevuto nel giorno del matrimonio e continuamente domandato come grazia che riaccade.

Nei giorni di insufficienza e di fatica, si chiede perdono a Dio e si ricomincia con il suo aiuto. Stare di fronte alle circostanze affidandosi a Cristo, fa insorgere la letizia dal profondo del cuore. Niente diventa obiezione all'unione sacramentale, nemmeno i peccati, poiché l'Amore vive per sempre! Chi divorzia perde tantissimo, anzi, perde tutto. In casi estremi il divorzio o almeno la separazione sembrano essere l'unica soluzione, ma i miracoli accadono anche nelle famiglie.
La famiglia è l'esperienza più straordinaria di un amore non più  basato sul sentimentalismo, ma su un Amore più  grande, che è quello della Trinità. La Sacra Famiglia ha di speciale che è la prima famiglia cristiana, quella che incessantemente si costituisce ad immagine della Trinità.
Il Natale contribuisce a rendere più evidente la bellezza della famiglia. Venendo a nascere in una famiglia, il Figlio Gesù ha tradotto in termini umani l'abisso dell'amore infinito di Dio Padre e dello Spirito Santo. E' un raggio che torna a illuminare, una corrente che continua a scorrere nei campi riarsi delle nostre contrade. Lungo il percorso della storia, l'umanità è risorta mille volte dalla tragedia della disperazione e del nulla, per una potenza di grazia. La famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe apre un percorso di compagnia e di redenzione per ogni bimbo e per ogni padre e madre, per ogni uomo e ogni donna, bisognosi di respirare l'aria bella e pulita dell’amore ricevuto e donato.
LA SANTA FAMIGLIA DI NAZARET IMMAGINE DELLA CHIESA CHE CI ACCOGLIE E GESTA NELLA FEDE PER COMPIERE LA NOSTRA VITA NELL'AMORE 
La casa di Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitare.
   Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo. Qui scopriamo il bisogno di osservare il quadro del suo soggiorno in mezzo a noi: cioè i luoghi, i tempi, i costumi, il linguaggio, i sacri riti, tutto insomma ciò di cui Gesù si servì per manifestarsi al mondo.
   Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola, certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del vangelo e diventare discepoli del Cristo. Oh! come volentieri vorremmo ritornare fanciulli e metterci a questa umile e sublime scuola di Nazaret! Quanto ardentemente desidereremmo di ricominciare, vicino a Maria, ad apprendere la vera scienza della vita e la superiore sapienza delle verità divine! Ma noi non siamo che di passaggio e ci è necessario deporre il desiderio di continuare a conoscere, in questa casa, la mai compiuta formazione all’intelligenza del vangelo. Tuttavia non lasceremo questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente, alcuni brevi ammonimenti dalla casa di Nazaret.
   In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazaret, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera, che Dio solo vede nel segreto.
   Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro ed inviolabile; ci faccia vedere com’è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale. Infine impariamo la lezione del lavoro. Oh! dimora di Nazaret, casa del Figlio del falegname! Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana; qui nobilitare la dignità del lavoro in modo che sia sentita da tutti; ricordare sotto questo tetto che il lavoro non può essere fine a se stesso, ma che riceve la sua libertà ed eccellenza, non solamente da quello che si chiama valore economico, ma anche da ciò che lo volge al suo nobile fine; qui infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello, il profeta di tutte le giuste cause che li riguardano, cioè Cristo nostro Signore.

Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa
(Discorso tenuto a Nazaret, 5 gennaio 1964)

giovedì 29 dicembre 2016

Cantalamessa: “Attenti alla tentazione di ‘dare consigli’ allo Spirito Santo”

The first Advent homily for 2015 was preached by Fr Raniero Cantalamessa

Il “discernimento degli spiriti”, già richiamato da San Paolo (1Cor 12,10), è quel dono che permette di “distinguere tra le parole ispirate o profetiche”, che provengono “dallo Spirito di Cristo”, da quelle che provengono “dallo spirito dell’uomo, o dallo spirito demoniaco, o dallo spirito del mondo”. Con queste parole, padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, ha introdotto la seconda predica d’Avvento.
Il tema del discernimento, ha proseguito il predicatore, è sviluppato anche da San Giovanni (cfr. 1Gv 4,1-6), “in funzione teologica, come criterio per discernere le vere dalle false dottrine, l’ortodossia dall’eresia, ciò che diventerà centrale in seguito”.
Due sono i campi in cui il discernimento dello Spirito si esercita: quello “ecclesiale” e quello “personale”. Il discernimento ecclesiale è svolto essenzialmente dal magistero e deve tener conto del “sensus fidelium”. A ciò si aggiunge – specie a partire dal Concilio Vaticano II – il “dovere permanente” della Chiesa di discernere i “segni dei tempi” e di “interpretarli alla luce del Vangelo” (Gaudium et Spes 4).
“La difficoltà che si incontra su questo cammino – e che va presa in tutta la sua serietà – è la paura di compromettere l’autorità del magistero, ammettendo dei cambiamenti nei suoi pronunciamenti”, ha commentato a tal proposito padre Cantalamessa, aggiungendo che “l’infallibilità che la Chiesa e il Papa rivendicano per sé” non è di “grado superiore” rispetto alla infallibilità attribuibile alle Sacre Scritture.
Ciò ha posto un dilemma di compatibilità tra i precetti delle fonti bibliche precedenti e di quelle successive. Ad esempio, se da un lato, “nell’Esodo, si afferma che Dio punisce le colpe dei padri nei figli (cfr. Es 34,7), l’esatto contrario è espresso da Geremia e da Ezechiele: “Dio non punisce le colpe dei padri nei figli”, ma “ognuno dovrà rispondere delle proprie azioni (cfr. Ger 31,29-30; Ez 18,1 ss.)”. Siamo di fronte al principio che San Gregorio Magno definiva “Scriptura cum legentibus crescit”: la Scrittura cresce con coloro che la leggono.
Cantalamessa si sofferma poi sulla distinzione neotestamentaria tra “peccato” e “peccatore”, che Gesù Cristo afferma in vari episodi, tra i quali: la “condanna della ricchezza iniqua” di Zaccheo, dal quale poi, però, Gesù si “autoinvita” e “con il suo semplice andargli incontro lo cambia”; la condanna dell’“adulterio”, che non preclude il perdono dell’adultera, alla quale Gesù “ridà speranza”; la proclamazione dell’indissolubilità del matrimonio, proprio quando è ancora Gesù a confidare alla Samaritana (che ha avuto cinque mariti): “Sono io (il Messia) che ti parlo” (Gv 4, 26).
Mentre “il peccato non è opera di Dio” ma del “nemico”, ha sottolineato il predicatore, “il peccatore è una creatura di Dio, fatta a sua immagine, e conserva la propria dignità, nonostante tutte le aberrazioni”.
Di seguito, padre Cantalamessa evidenzia come lo Spirito guidi la Chiesa talora “attraverso rivelazione” o “ispirazione profetica”, talora “collegialmente, attraverso il paziente e difficile confronto, e perfino il compromesso, tra le parti e i punti di vista diversi”.
Soffermandosi sul “discernimento nella vita personale”, il predicatore della Casa Pontificia ne ha messo in luce due aspetti: 1) l’opzione per lo “Spirito di Dio” e il rifiuto delle “opere della carne”; 2) la scelta tra due o più opzioni di bene. In questo processo, ci viene incontro Sant’Ignazio di Loyola, suggerendo tale metodo: immedesimarsi profondamente su una delle scelte, per un tempo più o meno prolungato e valutare se le “reazioni del cuore di fronte a tale scelta” sono di pace oppure di inquietudine; poi ripetere la stessa operazione con la seconda ipotesi, anche stavolta “in un clima di preghiera, di abbandono alla volontà di Dio, di apertura allo Spirito Santo”, ovvero di quella che Sant’Ignazio chiama la “santa indifferenza”.
Nel discernimento, ha precisato Cantalamessa, “gli aspetti psicologici hanno una grande importanza, ma “secondaria”, vengono cioè in secondo luogo” rispetto alla ricezione del “dono dello Spirito”.
Altra fase del discernimento è l’“esame di coscienza”, che non consiste solo nella “confessione” dei peccati ma richiede “una capacità costante di mettersi sotto la luce di Dio e lasciarsi ‘scrutare’ nell’intimo da lui”. Non basta presentare al Signore “un elenco di imperfezioni, confessate per sentirsi più a posto”, senza quell’atteggiamento di reale pentimento che fa sperimentare la gioia di avere in Gesù “un così grande Redentore”, in una “relazione autentica, a tu per tu con Cristo”.
È impossibile intraprendere qualsivoglia azione “se non è lo Spirito Santo […], a muoverci e senza averlo consultato prima”, ha ricordato Cantalamessa, menzionando l’esempio di Gesù che “con lo Spirito Santo andò nel deserto; con la potenza dello Spirito Santo ritornò e iniziò la sua predicazione “nello Spirito Santo” si scelse i suoi apostoli (cf At 1,2); nello Spirito pregò e offrì se stesso al Padre (cf. Eb 9,14)”.
Eppure, questo affidamento può portare alla “tentazione” di “voler dare consigli allo Spirito Santo, anziché riceverli”, di suggerirgli “quello che dovrebbe fare con noi e come dovrebbe guidarci”. Talvolta siamo noi a prendere decisioni e ad attribuirle “con disinvoltura allo Spirito Santo”.
Suggerimento finale del predicatore cappuccino è quello di “abbandonarci allo Spirito Santo come le corde dell’arpa alle dita di chi le muove. Come bravi attori, tenere l’orecchio proteso alla voce del suggeritore nascosto, per recitare fedelmente la nostra parte nella scena della vita”, anche con una “semplice occhiata interiore”, con un “movimento del cuore” o con una “preghiera”.

La preghiera a Santa Monica per ottenere la grazia che un figlio si volga a Cristo

La preghiera a Santa Monica per ottenere la grazia che un figlio si volga a Cristo

Santa Monica, madre del grande Sant’Agostino di Ippona – Padre e Dottore della Chiesa –, era impegnata a 360 gradi con il figlio, studente brillante ma anche edonista, avendo anche avuto un figlio al di fuori del matrimonio ad appena 19 anni. Donna cristiana sposata con un pagano, Monica osservava il percorso del figlio e pregava con fervore che si convertisse a Cristo.

Per molti anni ha pregato perché il cuore e la mente di Agostino finalmente si aprissero e potesse avere un incontro autentico con Cristo, venendo riorientato verso la volontà di Dio.

La sua fedeltà è stata premiata, e in una delle parti più toccanti delle Confessioni di Agostino il santo riferisce come Monica abbia identificato chiaramente la sua missione di vita con il portare alla vita di fede i propri figli. A Ostia gli disse: “Figlio, nulla in questo mondo mi dà diletto. Non so cos’altro devo fare o perché sono ancora qui, visto che tutte le mie speranze in questo mondo si sono realizzate. Avevo una ragione per voler vivere un po’ di più: vederti diventare cristiano cattolico prima di morire. Dio ha effuso i suoi doni su di me a questo riguardo, perché so che hai rinunciato alla felicità terrena per essere suo servo. E allora cosa faccio qui?”. Alcuni giorni dopo si ammalò, e disse ad Agostino e al fratello di seppellirla lì – di non preoccuparsi dei suoi resti terreni –, ma chiese un favore: “Ricordami all’altare del Signore ovunque tu sia”.

Santa Monica è la santa patrona delle persone che vivono un matrimonio difficile, hanno figli difficili e pregano per la conversione dei familiari, in particolare dei figli. È l’amica consolatrice in cielo che comprende pienamente la disperazione dei genitori che si sentono impotenti e confusi mentre guardano i figli allontanarsi dalla Chiesa. Monica pregava e digiunava perché i suoi figli arrivassero a conoscere Cristo Gesù, ed è la compagna e l’intercessore di chiunque si senta confuso dal percorso dei propri figli.

Preghiamola così:

Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo,

sotto il peso del mio fardello mi rivolgo a te, cara Santa Monica, e richiedo la tua assistenza e la tua intercessione.

Dal cielo, ti supplico di pregare davanti al Trono dell’Altissimo per il bene di mio figlio [Nome], che si è allontanato dalla fede e da tutto quello che abbiamo cercato di insegnargli.

So, cara Monica, che i nostri figli non appartengono a noi ma a Dio, e che Dio spesso permette questo errare come parte del percorso che porta a Lui. Anche tuo figlio Agostino ha errato; alla fine ha trovato la fede e ha creduto, diventando un vero maestro.

Aiutami, quindi, ad avere pazienza, e a credere che tutte le cose – anche questo allontanamento dalla fede – alla fine lavoreranno per i Suoi buoni scopi.

Per il bene dell’anima di mio figlio, prego per comprendere e confidare in questo.

Santa Monica, ti prego di insegnarmi a persistere nella preghiera pia come hai fatto tu per il bene di tuo figlio.

Ispirami a comportarmi in modi che non allontanino ulteriormente mio figlio da Cristo, e attira [Nome] gentilmente verso la sua luce meravigliosa.

Ti prego di insegnarmi quello che sai su questo doloroso mistero di separazione, e su come si riconcilia nel riorientamento dei nostri figli verso il cielo.

O Santa Monica, che hai tanto amato Cristo e la sua Chiesa, prega per me e per mio figlio [Nome], perché possiamo conquistare il cielo e unirci lì a te offrendo costanti e grate lodi a Dio,

Amen.
Messa mai inopportuna Anche per i boss
    
   
di Claudio Crescimanno                           29-12-2016
Il manifesto dello scandalo

Televisioni e giornali hanno dato grande rilievo alla notizia di un parroco pugliese che ha invitato pubblicamente i fedeli della sua parrocchia, mediante affissione di manifesti in tutto il paese, a partecipare alla messa di suffragio per un defunto la cui storia è ben nota.
Il soggetto in questione, Rocco Sollecito, è un italo americano, residente in Canada e ucciso il maggio scorso nei pressi di Montreal in un agguato mafioso. Secondo le autorità locali Sollecito faceva parte di uno dei clan più potenti di quella città. Il figlio Franco in occasione di queste feste natalizie è in visita al paese d’origine della famiglia, Grumo Appula, a pochi chilometri da Bari, e chiede al parroco di celebrare una messa di suffragio per il genitore morto oltre oceano: la messa è fissata per il pomeriggio del 27 dicembre.
Il sacerdote pubblicizza la richiesta con i manifesti dove si legge: “Il parroco, don Michele Delle Foglie, spiritualmente unito ai famigliari residenti in Canada e con il figlio Franco venuto in visita nella nostra cittadina, invita la comunità dei fedeli alla celebrazione di una santa messa in memoria del loro congiunto”. La reazione a tali manifesti è l’interveto del questore di Bari che decide di vietare la celebrazione per non meglio specificati ‘motivi di ordine pubblico’ e a ruota l’intervento dell’Arcivescovo che ordina al parroco che la messa si svolga alle sei di mattina e non di sera, e in forma strettamente privata, minacciando sanzioni canoniche contro il sacerdote in questione.
Sin qui i fatti, in breve. Ma su questi fatti una riflessione si impone.
Sgombriamo il campo anzitutto da qualunque possibile giustificazione per il tenore dei manifesti con cui si ‘pubblicizza’ la celebrazione: il compito di un parroco è quello di invitare i propri fedeli a partecipare alla santa messa, specie nei giorni di precetto, in quanto dovere religioso e cristiano, per ciò che è la messa, non certo perché è una ‘speciale’ messa in suffragio di un ‘particolare’ defunto. Il parroco quindi ha compiuto un atto chiaramente inopportuno e, date le circostanze, esprimere in modo così evidente la propria partecipazione è fuorviante e scandaloso.
Detto questo, resta comunque il problema del duplice intervento civile ed ecclesiastico.
Una cosa è il manifesto che ‘pubblicizza’ la messa, e altra cosa è la messa in se stessa. Pare che le autorità abbiano fatto un po’ di confusione su questo.
L’autorità civile, in questo caso il questore, agisce in modo legittimo, tanto più se lo fa invocando motivi di ordine pubblico, quando un evento può davvero costituire un problema in questo campo. Avrebbe potuto ad esempio far rimuovere i manifesti, giudicandoli troppo condiscendenti, addirittura celebrativi, verso un personaggio che non lo merita affatto. Ma l’intervento su una celebrazione liturgica che si svolge all’interno delle mura di una chiesa è altra cosa: è una patente ingerenza e costituisce un pericolosissimo precedente. Stupisce come l’Autorità ecclesiastica non abbia protestato anzitutto e soprattutto contro questo. Se si permette che un qualunque rappresentante dello Stato possa decidere per chi si lecito o meno celebrare messe di suffragio la libertas Ecclesiae è fortemente a rischio e si dà il via ad un processo che è potenzialmente illimitato.
Ma più grave ancora è il fraintendimento che si è avvallato con la censura ecclesiastica che ne è seguita. È evidente che nessuna autorità può proibire ad un parroco di svolgere il proprio ministero celebrando una messa di suffragio per un defunto, e infatti, seppure spostata alle sei del mattino e in forma ristretta, la messa è stata celebrata. Ma – come dicevo – queste modalità perpetuano un equivoco ormai molto diffuso, e a cui la Chiesa dovrà dare la necessaria attenzione per i valori teologici e pastorali che ci sono in ballo.
Celebrare la messa in suffragio di un anima non ha nulla a che fare con un pubblico attestato di stima nei confronti del defunto. La santa messa è la rinnovazione incruenta, nei segni del pane e del vino, del sacrificio di Cristo sul Calvario; e Cristo, sul Calvario, ha immolato la sua Carne e ha versato il suo Sangue per la salvezza dei peccatori, cioè di tutti, poiché tutti sono, anzi siamo, peccatori. In realtà più uno è peccatore e più ne ha bisogno. In un solo caso la messa di suffragio è superflua: se l’uomo muore impenitente e la sua anima è precipitata nella dannazione eterna, cosa della quale non possiamo avere, riguardo ad alcuno, la certezza.
Questa è la fede cattolica; noi però viviamo in un tempo in cui anche le cose più grandi e sacre delle nostra fede vengono spesso svuotate del loro contenuto e capovolte nel loro significato; perché in una società che continua a compiere riti cristiani senza più essere tale, anche i ministri di Dio spesso si trovano più a loro agio a dire ai partecipanti ad un funerale che ‘la persona cara ora è in Cielo’, piuttosto che ricordare che siamo tutti peccatori e che abbiamo bisogno del perdono e che questo perdono non è scontato.
Ecco allora che nell’immaginario comune le messe per i defunti diventano una specie di ‘celebrazione’ dell’uomo, più che una invocazione della misericordia di Dio; un riconoscimento per i suoi meriti più che una supplica per i suoi peccati. A causa di questo capovolgimento diventa scandaloso dire la messa per un mafioso, allo stesso modo in cui lo sarebbe erigergli un monumento in piazza o intitolargli una scuola.
Ma la messa non è questo. Pastori e credenti, siamo ancora in grado di capirlo? E siamo ancora capaci di farlo capire agli altri, magari con il coraggio di gesti impopolari?



Simeone, l'ascolto che vede la salvezza



Simeone, l'attesa che ascolta per vedere il Cielo. Simeone, la storia di Israele come la storia di ogni uomo racchiusa in una promessa. Simeone, orecchi e occhi sulla soglia del suo compimento. Simeone, infatti, è la traduzione di "Shime'on", nome ebraico tratto da "sh'ma", che significa ascoltare: "Shemà Israel, Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore Dio tuo con tutte la mente, con tutto il cuore e con tutte le forze, e il prossimo come te stesso. Fa questo e avrai la vita eterna". Come ogni ebreo, Simeone sapeva che il compimento dello Shemà era la salvezza, ma la carne glielo rendeva impossibile. Per questo "attendeva la consolazione", qualcuno che fosse con-lui per compierlo. Lo Spirito Santo, infatti, gli aveva assicurato "che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore": non sarebbe cioè morto senza aver obbedito allo Shemà, perché prima avrebbe visto il Messia realizzare con esso la sua "salvezza". Così, eccolo andare verso il Tempio a vedere ciò che aveva ascoltato. E la salvezza non poteva essere che quel Bambino accompagnato da Giuseppe e Maria, 'anawim come lui che era "un uomo giusto e pio". Proprio quella Famiglia santa era, ai suoi occhi pieni di Spirito Santo, il "segno" che l'"ora" del Messia era giunta. Niente trombe e fanfare, solo e semplicemente una povera Famiglia che entrava, come "luce", nel Tempio. Ed era giusto così: per salvare ciò che era perduto il Messia doveva essere un "segno di contraddizione", uno scandalo che "rivelasse i pensieri di molti cuori" ingannati dal demonio. Non poteva adeguarsi agli schemi e ai progetti umani. Si doveva fare peccato perché la "spada" della profezia di Ezechiele giungesse sulla sua carne e risparmiasse i peccatori. Eccola infatti sua Madre, il Bambino in braccio accanto alla sua anima immacolata che avrebbe accolto con suo Figlio la "spada" destinata all'umanità. Quel Bambino giunto nel Tempio avrebbe introdotto l'umanità redenta nel Tempio del Cielo con la sua carne crocifissa e risorta a Gerusalemme. Con Lui sarebbero "caduti" nella morte i peccatori per "risuscitare" in una vita nuova. Per questo, "ora", dopo quaranta giorni dalla sua nascita, come dopo i quarant'anni passati dal popolo neonato nel deserto, Simeone "accoglieva tra le braccia" la Pasqua compiuta. Quel Bambino era già la Terra Promessa a Israele come un segno della "salvezza preparata da Dio davanti a tutti i Popoli". E Simeone, abbracciando Gesù, vi entrava dicendo: "Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli". Nel volto di Gesù Simeone aveva visto ciascuno di noi, salvati da quel Bambino. Accogliamolo allora, perché la salvezza si può vedere ascoltando l'annuncio del Vangelo. E' giunto il tempo in cui lo Spirito Santo ci apre gli occhi sul Bambino che Maria, immagine della Chiesa, ci offre nel Tempio che è la comunità cristiana. Abbracciandolo ci sentiremo abbracciati. No, niente sentimentalismi... Dio s'è fatto carne non un cioccolatino! Si è donato a noi sulla Croce per farci sperimentare il perdono dei peccati, la "salvezza" appunto. La possiamo "vedere" lasciando che lo Spirito Santo ci illumini e ci faccia inginocchiare confessando i peccati per accogliere il perdono. E "vedremo" la salvezza farsi carne in noi, liberandoci dalla schiavitù ai vizi e alle menzogne, alle ipocrisie e agli idoli. Sarai sincero, spegnerai il PC e starai con tua moglie e i tuoi figli, donerai te stesso, il tuo tempo e i tuoi soldi. Perché la salvezza si "vede" stringendo quello che il peccato ci impediva di guardareAccogliendo ciò che ci appare piccolo come un bambino, i fatti che ci umiliano. Vuoi "vedere" la tua vita compiuta al punto di benedire Dio come Simeone nella "pace" di chi non manca di nulla e non desidera altro che il Cielo? Guarda Maria "ora", mentre ti sta consegnando la tua vita nella quale si è fatto carne Dio. E "ascolta" il suo annuncio, perché Cristo è risorto davvero, ha vinto ogni peccato che ti impedisce di amare; aspetta solo che tu l'accolga per compiere in te lo Shemà che ti farà gustare il Paradiso, oggi. 

mercoledì 28 dicembre 2016

Tu scendi dalle stelle e Alfonso Maria de Liguori: il più napoletano dei santi, il più santo dei napoletani

da Il Foglio, 27 dicembre 2016

“Tu scendi dalle stelle o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo”: inizia così la più celebre canzone popolare di Natale, e può venir voglia di conoscere chi sia l’autore e quale sia stata la sua vita. Alfonso Maria de Liguori, questo il nome di colui che la ideò, nasce a Napoli nel 1696, da famiglia nobile e ricca. Dati i natali, la sua vita sembrerebbe già scritta: lo aspettano onori, ricchezze, potere. Suo padre nutre grandi ambizioni per il figlio, e lui ha doti non ordinarie. Studia musica, ama dipingere, si iscrive, a 12 anni, presso l’Università di Napoli, per divenire avvocato.

L’età minima, per accedere al titolo, sono i 20 anni: Alfonso viene rivestito di una toga più grande di lui, già a 16. Se l’aspirante è eccezionale, si può fare eccezione. Divenuto avvocato, Alfonso si impone una moralità ferrea, in un mestiere difficile. Nello stesso tempo frequenta varie confraternite, che lo portano per esempio a visitare i malati, i sifilitici, i derelitti del grande ospedale di Napoli, gli Incurabili. L’ ingresso “nella confraternita della Visitazione portava per la prima volta il nostro brillante samaritano ad avvicinare, a incontrare, a toccare con le sue mani, ogni settimana, per anni, l’uomo a terra, spogliato, ferito, gemente nel fossato, ai bordi del suo cammino di ricco. Per otto anni si piegherà su di lui con orrore, con amore, con fede nella parola di Gesù: ‘Quello che fate al più piccolo dei miei lo fate a me’” (T.R.Mermet).
Alfonso fa parte anche della Confraternita di santa Maria della Misericordia, i cui membri sono dediti al seppellimento degli indigenti, ai preti pellegrini o stranieri, e a quelli detenuti per indegnità nelle carceri dell’Arcivescovado. Alfonso per dieci anni, dal 1714 al 1726, gira per Napoli, una volta la settimana, questuando per tutti questi. E’ nel 1723, quando la carriera sembra inarrestabile, che proprio mentre si piega su un malato degli Incurabili, egli sente come una voce che lo chiama: “Lascia il mondo e datti a me”. Nonostante la disperazione del padre, Alfonso segue l’ispirazione e si avvia agli studi per il sacerdozio, che sarà speso negli studi, negli scritti di morale (tra cui la Theologia moralis, La pratica del Confessore e Apparecchio alla morte), nelle missioni al popolo, nel confessionale, nelle celle dei prigionieri, tra i lazzaroni, le prostitute, i poco di buono e i peccatori di ogni genere…
Qui, tra questa umanità dolorante, l’uomo di dottrina e di carità, acquista quella saggezza, nel trattare non solo con i malati nel corpo, ma anche con quelli nello spirito, che gli varrà il titolo, concesso da Pio XII nel 1950, di “celeste patrono dei moralisti e dei confessori”. Saggezza che consiste in quel santo equilibrio con cui il santo sa affrontare il peccato: condannandolo, certamente, ma piegandosi anche con benignità ed amore sui peccatori. Alfonso è un avversario del rigorismo che trasforma la vita morale in terrorismo spirituale: confessa, esige e perdona, impone penitenze che non siano eccessive e da buon ammiratore di san Filippo Neri, di san Vincenzo de Paoli e di san Francesco di Sales (quello che invitava a conquistare le anime con il miele piuttosto che con il fiele), impara ad evangelizzare gli uomini con la semplicità (voleva farsi intendere anche dalle “menti di legno”), le devozioni popolari, la meditazione. Tenendosi lontano dallo zelo amaro e dall’algida moralità giansenista. Alfonso invita i confratelli predicatori a non dimenticare di inculcare il “timor di Dio”, ma evitando gli eccessi, le “maledizioni”, perché le conversioni vere nascono solo quando “entra nel cuore il santo amore di Dio”.
Napoli è la città giusta per lui: così piena di contraddizioni, di cultura e di miseria, di fede e di superstizione, di processioni e di bestemmie e sacrilegi… Un impasto in cui l’umanità dà il meglio e il peggio di sé, e in cui non si può raccogliere solo ciò che brilla e riluce, a prima vista.
Napoli è anche la città della musica che Alfonso ama sin da ragazzo (abbandonerà il suo clavicembalo solo una volta divenuto vescovo) e che sarà sempre, per lui, un modo per pregare ed istruire il popolo. Napoli è infatti la città in cui i discepoli di san Filippo Neri, inventore dell’Oratorio, frequentati da Alfonso già dal 1706, propongono di continuo concerti religiosi e ‘ricreativi’; è la città in cui gli orfani “scugnizzi” sono internati nei “Conservatori”, luoghi in cui, come dice la parola, devono essere custoditi e magari educati anche attraverso la musica. “A Napoli, scrive il già citato Mermet, la musica era per il popolo una seconda lingua, così questi Conservatori divennero ‘gabbie di usignoli’ e nel corso del XVII secolo si evolveranno progressivamente in scuole musicali”.
Da sant’Alfonso, “il più napoletano dei santi”, avvocato, moralista, confessore, amico dei poveri, è nato dunque quel canto di cui si diceva all’inizio; come pure quell’altro, bellissimo, in cui i Cieli fermano la loro armonia, perché la Madonna canti la sua ninna nanna; e pure quell’altro, così dolce, in dialetto napoletano: “Quanno nascette Ninno…”.
Il Natale in carcere di Mary, la Pulzella della vita che lotta contro l'aborto rischiando la sua libertà

   
   
di Benedetta Frigerio                                          28-12-2016
Mary Wagner viene condotta in carcere

E’ famosissima in Canada e negli Stati Uniti. E’ nota al mondo più progressista così come ai vertici del Vaticano. I primi la considerano una nemica pericolosissima, i secondi hanno dovuto accettare che è una santa. Perché anche quanti incolpano certi cristiani di integrismo di fronte a lei non hanno argomenti che reggano. La quarantaduenne Mary Wagner infatti non si è mai limitata a denunciare le ingiustizie, come è giusto fare, e a pregare, come certo occorre affinché la piaga più sanguinosa del nostro secolo si rimargini. No, lei il male se lo è sempre preso su di sé accettando di rinunciare a tutto pur di riparare lo scempio.
Wagner capì che questa era la sua missione durante la giornata mondiale della gioventù di Denver nel 1993, quando ad appena 19 anni si convertì sentendo san Giovanni Paolo II tuonare contro l’aborto e l’eutanasia, chiedendo ai giovani di “uscire per le strade e nei luoghi pubblici come i primi apostoli”. Avvertendo una grande chiamata la giovane non si sottrasse, anche se all’inizio pensò di doversi sacrificare per riparare all’aborto tramite una vita contemplativa. Ma la preghiera la condusse a comprendere che la sua missione per dare voce ai senza voce più poveri, i bambini in grembo, doveva essere pubblica. Così il 12 dicembre scorso Wagner è stata nuovamente arrestata, come da oltre dieci anni a questa parte, per aver cercato di dissuadere alcune donne dall’uccidere il figlio in grembo in una clinica abortiva canadese, infrangendo il divieto di manifestare entro un certo raggio di metri dall’ingresso dagli ospedali del paese.
Spesso incompresa, anche da coloro che si dicono antiabortisti, e che piuttosto che farsi interrogare dalla sua radicalità preferiscono parlare di dialogo e ponti, Wagner ha sempre redarguito anche i pro life più accaniti: “Dobbiamo fare tutto per Cristo”. Questa l’unica ragione valida per muoversi, scrisse tempo fa in una lettera pasquale dal carcere: “Cristo nascosto nelle dolorose sembianze dei poveri, così poveri che non riusciamo nemmeno a vederli o sentirli”. Incuriosito da questa “pulzella della vita”, il vescovo di Bombay, Oswald Gracias, fra i cardinali chiamati da Francesco per la riforma della curia, andò a trovarla in carcere nell’agosto del 2013. Uscito non ebbe più dubbi: “Mi si è chiarito che Mary ha una missione” e che il suo non “è un futile esercizio per combattere i mulini a vento e anche se avesse salvato una sola vita ne sarebbe valsa la pena”, perché “Dio la chiama a fare questo, a testimoniare il dono e la santità della vita umana”. Allora parlò anche il cappellano del carcere, Paul Hrynczyszyn: “Penso che sia una santa”, disse. Anche perché “aiuta molte donne a tornare alla fede”.
Dopo quest’ultimo arresto, per cui ha passato un altro Natale in prigione, il commento più bello è stato quello di una sua sostenitrice e amica, suor Immolatia, membro di una fraternità di missionarie che si occupa dei senzatetto e dei carcerati: “La mia risposta alle espressioni di disagio legate all’arresto è che l’amore radicale e sovversivo che Mary sta vivendo, il sacrificio personale e gli stenti sono necessari”. Come a dire che le anime hanno sempre un prezzo. Mary, anche questa scorsa volta è entrata nella clinica per pregare le madri di non uccidere i bambini in grembo, offrendo loro un mazzo di rose rosse e bianche, con una medaglia della Madonna miracolosa e un bigliettino con le informazioni per trovare aiuto nell’affronto della gravidanza. Siccome poi è girato il video dell’arresto, in cui Wagner ha il volto molto provato, suor Immolatia ha continuato: “Le persone me lo hanno descritto come afflitto e triste”. E “in effetti il suo volto è espressione del suo cuore agonizzante, ma bisogna che comprendiamo quale sia la fonte del suo dolore: era davanti a tante donne che avevano programmato la morte dei loro figli. Lei era lì testimone di questa scena orribile e il fatto che ha trovato cuori così duri e chiusi al Vangelo della vita è stato come una spada per l’anima di Mary”.
Ma a chi si è limitato allo sdegno di fronte all’arresto di Wagner la suora si è rivolta così: “L’unica risposta adeguata è quello che credo Gesù, come Mary, direbbe: “Non piangete per me, non lamentatevi per il mio arresto e detenzione, piangete piuttosto per questi, i più piccoli dei nostri fratelli e sorelle, i Santi Innocenti, che sono massacrati, fatti a pezzi, le cui grida fragili non vengono sentite, i cui corpi smembrati e insanguinati vengono gettati nella pattumiera o trattati come materiali da ricerca”. Soprattutto, “non considerate il suo sacrificio personale come il fatto di essere rinchiusi in una prigione provinciale. Perché Mary sebbene sia dietro a delle sbarre di ferro è più libera di tutti noi, diventando una prigioniera di amore e una testimone della santità della vita con il suo rifiuto di obbedire alle leggi ingiuste, con l’indirizzare la sua libertà verso Dio, a fianco dei senza voce e degli indifesi non nati e delle loro madri. Mary è libera nel vero senso della parola”.
E in effetti, la sua pace è tale che tante carcerate grazie a lei e con lei si riconciliano con Dio e ricominciano a pregare, soprattutto per bambini uccisi e per le loro madri. Anche solo questo dovrebbe bastare per lasciarsi interrogare. Almeno nel giorno in cui si ricordano i Santi innocenti che, nel nostro secolo, sono le vittime dell'aborto