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martedì 31 gennaio 2017


Manicardi, nuovo priore di Bose: sì alla possibilità di divorziare e risposarsi, come gli ortodossi

Nell’articolo del 2015 Tra un Sinodo e l'altro, la battaglia continua, il vaticanista Sandro Magister riportava la posizione del monastero di Bose riguardo alla questione della Comunione ai divorziati risposati, per bocca dell'allora vice priore della comunità Luciano Manicardi, da pochi giorni nuovo priore al posto di Enzo Bianchi:
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Il vicepriore di Bose, Luciano Manicardi, in una dotta intervista all'Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose, invoca che anche la Chiesa cattolica, come già fanno le Chiese ortodosse, ammetta lo scioglimento di un matrimonio e quindi la possibilità delle seconde nozze non solo per la morte di uno dei coniugi ma anche semplicemente per la "morte dell'amore”.

Ecco cosa dice sul punto il vice di Enzo Bianchi:

«Nella Relatio synodi si fa riferimento alla “diversità della disciplina matrimoniale delle Chiese ortodosse” che prevede la possibilità di nuove nozze non solo in caso di vedovanza ma anche di divorzio, accompagnate da un percorso penitenziale e, in ogni caso, non oltre la terza volta (cf. anche la Relatio ante-disceptationem 3f). Se al momento pare difficile l'importazione nella Chiesa cattolica del modello ortodosso che prevede anche il riconoscimento di giuste cause di divorzio (nel mondo ortodosso, infatti, fin dal canone 9 di Basilio di Cesarea ripreso dal Concilio in Trullo del 691-692, si prende come eccezione vera l'eccezione matteana all'indissolubilità matrimoniale che troviamo in Mt 5, 32 e 19, 9), tuttavia, dal momento che la Chiesa cattolica già prevede la possibilità di nuove nozze sacramentali in caso di morte di un coniuge, riconoscendo così un fallimento irreversibile del primo matrimonio che non infrange il principio della indissolubilità, si può pensare che essa possa giungere ad accogliere la possibilità di nuove nozze di fronte all'evidenza di fallimenti irreversibili dovuti alla morte dell'amore, alla morte della relazione, alla trasformazione della vita insieme in un inferno quotidiano. Certo, unitamente a una disposizione penitenziale e alla volontà di un re-inizio serio in una nuova unione. E questo come misura pastorale ed “oikonomica” che narra la misericordia di Dio, il suo amore più forte della morte, e va incontro con compassione all'umana fragilità. Di certo questa soluzione, prospettata da un teologo come Basilio Petrà, che stupisce di non aver visto annoverato tra gli esperti del sinodo del 2014, avrebbe conseguenze sul piano ecumenico in quanto rappresenterebbe un indubbio avvicinamento di posizioni con la prassi di altre Chiese».

Perché Dio ha voluto che ci confessassimo con un sacerdote e non direttamente con lui?

Perché Dio ha voluto che ci confessassimo con un sacerdote e non direttamente con lui?

La risposta a questa domanda deve necessariamente dividersi in due parti. Dio ha voluto davvero così? E se sì, perché?

Circa la volontà divina al riguardo, c’è un testo chiave nel Vangelo di San Giovanni: “‘Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi’. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: ‘Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi’”. La missione – l’invio – di Gesù Cristo dura fino alla fine dei tempi. Si tratta, quindi, di una potestà conferita alla Chiesa perché la eserciti attraverso i suoi ministri. Ovviamente, quello che viene conferito non è un potere arbitrario: si deve perdonare in nome di Dio chi ha il pentimento necessario per i propri peccati, e non perdonare chi non lo ha. Ma per questo i peccati vanno manifestati. È il tribunale della misericordia divina, ed è quindi necessario conoscere la causa che si giudica, in questo caso i peccati del penitente.

Ciò non vuol dire che il perdono divino si circoscriva unicamente alla celebrazione del sacramento della Penitenza, ma che il cristiano deve ricorrervi ogni volta che sia possibile (e se non è possibile al momento, quando si possa). Rifiutare questo presuppone il fatto di voler porre le condizioni del perdono divino, e allora la ricerca di questo perdono diventa viziata. Le condizioni le pone l’offeso, non l’offensore. E non si deve dimenticare che alla Penitenza si va fondamentalmente per ottenere il perdono da parte di Dio, non semplicemente a tranquillizzare la propria coscienza.

Perché Dio ha voluto così? Ci sono una ragione teologica e dei motivi che potremmo definire umani. La prima ha molto a che vedere con la natura della Chiesa, che è la continuità di Cristo nel mondo, che trasforma il popolo di Dio in Corpo di Cristo, di modo che Gesù agisce attraverso di lei per donarci i mezzi di salvezza, soprattutto la dottrina e la grazia, quest’ultima principalmente con i sacramenti. La grazia del perdono non è un’eccezione, e si distribuisce ai fedeli attraverso il mezzo più adeguato e allo stesso tempo voluto da Dio: il tribunale di misericordia istituito da Gesù e configurato come sacramento (non si deve dimenticare che il sacerdote perdona non da parte di Cristo, ma “trasformandosi” nella persona stessa di Cristo: “Io ti assolvo…”).

Le ragioni umane sono più facili da comprendere. La prima è che garantisce l’obiettività. Questo è molto importante quando ci si rende conto della facilità con cui si possono scusare i propri errori, pensare che il proprio caso debba rappresentare un’eccezione, togliere importanza a ciò che è oggettivamente grave. Ne abbiamo esperienza tutti, ma in genere è esperienza altrui, non propria. La confessione, insomma, ci obbliga a dire pane al pane e vino al vino.

La seconda è collegata alla precedente. La confessione rappresenta un magnifico modo per formare la propria coscienza. Ci sono persone dalla coscienza lassa, che tendono a non dare importanza a ciò che ne ha, e persone dalla coscienza scrupolosa, a volte perfino immerse nel patologico, che esagerano qualsiasi cosa. Ci sono coscienze lasse per alcune cose e scrupolose per altre. Altre volte ci sono problemi complessi che suscitano dubbi, o situazioni in cui non si sa molto bene come procedere. A volte i dubbi possono derivare dalla difficoltà di valutare fino a che punto si era coscienti di ciò che si faceva o si pensava, o di separare un peccato da quella che è solo una tentazione, a volte forse ossessiva, o semplicemente uno stato d’animo. Per tutto questo, la confessione è guida e luce. È facile comprendere che la tranquillità di coscienza che si genera è un bene impagabile.

La terza ragione riguarda quanto sia conveniente esprimere a voce alta (che evidentemente deve sentire solo il confessore) il dolore interiore che si prova per via dei propri peccati. A volte questa convenienza si apprezza quando vediamo che, per mancanza di un canale idoneo, ci sono persone che si sfogano nel modo più inopportuno, raccontando ciò che pesa loro nel momento e alle persone non adatti (a volte si sente dire “Bisogna pur dirlo a qualcuno”), o anche su mezzi di comunicazione pubblici come radio o televisione. È facile capire che questo sacramento presuppone un aiuto psicologico non trascurabile.

La quarta ragione è una cosa che al giorno d’oggi viene sottolineata molto. Siamo in un’epoca in cui fiorisce ogni tipo di consulenza personale, alcune anche sulle questioni più intime. Proliferano psicologi, consuenti matrimoniali e qualsiasi tipo di coaching. Nel sacramento della Penitenza, il sacerdote è chiamato ad essere giudice – di misericordia, si intende –, ma anche medico di anime, pastore e consigliere spirituale, offrendo così un grande servizio a chi si accosta a questo sacramento.

Si potrebbero trovare anche altre ragioni, ma queste sono le principali. Esprimono chiaramente la saggezza di Dio – che si adatta all’essere umano, con i suoi nobili desideri ma anche con le sue limitazioni e le sue miserie – e anche la sua misericordia, perché non si limita a concedere il perdono, ma dà anche pace alle coscienze e un aiuto inestimabile per procedere con rettitudine e guadagnarsi la vita eterna.
 (Dal Vangelo secondo Marco 5, 21-43)







Il flusso del sangue è, nella Bibbia, vita che si perde e morte che lambisce l'esistenza. Per questo l'emorragia rendeva impuri, impedendo il culto, e quindi la relazione con Dio, come un anticipo dell'inferno. La donna del Vangelo lo era “da dodici anni”, numero che indica i mesi di un anno, immagine della totalità dell'esistenza. E stava “peggiorando”. E' la nostra vita, che ci sfugge senza riuscire a trattenerla, progetti che se ne vanno in fumo, relazioni fallimentari consegnate agli psicologi, alle terapie di gruppo, alle medicine, o agli amici, ai confidenti, alla televisione, ai social networks, ai manuali, alle palestre e alle meditazioni zen; o all'impegno, al fare, al produrre, tentando di dare un senso che riempia la voragine che inghiotte l'esistenza. Ma sempre senza successo, anzi peggiorando. Sempre più poveri, “dilapidando ogni avere”. Ma il Signore é in mezzo a noi, è all'opera e passa beneficando; anche ora sta seguendo uno dei tanti Giairo che lo implorano dopo aver ascoltato l'annuncio che Lui è in grado guarire davvero. Passa Gesú, si tratta semplicemente di raggiungerlo e toccarlo. Anche solo di sfuggita, anche “solo il lembo del suo mantello”, lo stesso del Profeta Elia, dal quale si sprigiona il potere di salvare la Vita che abbiamo perso. Ma sorge una domanda: abbiamo mai toccato Gesù? La donna del Vangelo lo tocca prima con la mente e con il cuore, lo tocca dentro di lei, dal fondo della sua disperazione, dal buio della sua impotenza. "Chi mi ha toccato?". Uno tra mille, e Lui si accorge dell’unica che lo ha toccato “tra la folla”, con ansia e paura, dal fondo delle sofferenze e dei fallimenti di una vita, ma con fede. Mentre la folla va a messa, prega, chiede grazie, si impegna "nel sociale"; bravi preti, brave mamme, bravi papà che fanno elemosine, volontariato, gruppi, gite e pellegrinaggi. E Lui non si accorge di nulla, e nulla di tutto ciò scuote il Signore, nulla carpisce la sua forza. Tanti si accalcano, forse lo toccano, ma è solo curiosità, religiosità superficiale, un tentativo, un numero in più sulla ruota della vita. Per lei no, solo per lei è questione di vita o di morte. Dal cuore, dal desiderio disperato che si traduce in speranza, la sua mano si allunga e, “da dietro”, come il pubblicano nascosto nell'ombra al fondo del tempio, lo tocca tremante. E torna alla vita. Impura tocca il puro, infrangendo la legge secondo la quale non avrebbe assolutamente dovuto. Cosí facendo infatti, la donna contamina Gesù, (cfr. Lev. 15, 19-33) lo tocca e lo attira dentro la propria immondezza. Lei sa che toccarlo da impura significava renderlo impuro come lei. Per questo si avvicina da tergo e lo tocca fugacemente, sperando d'essere salvata senza essere riconosciuta, senza che nessuno se ne dia conto e accusi Gesú. Ma il Signore va oltre le apparenze, perché Lui guarda il cuore. Si rende conto di quello che è successo, “sente” che il flusso di morte di quella donna lo aveva raggiunto strappandogli la vitaa Lui la morte, a lei la Vita. Il mistero pasquale si compie in un incontro, immagine d'ogni sacramento che ridona la vita realizzando quello che significa, la vittoria di Gesù sulla morte. I due sanno quello che é successo, “sentono” la stessa cosa nel loro intimo, laddove gli occhi della carne che appesantiscono anche lo sguardo di Pietro, non possono arrivare: “sentono” lo stesso flusso d’amore e di vita, si “toccano” nel cuore in un abbraccio interiore che è il ritorno alla comunione del Paradiso. E’ un’immagine fortissima della relazione di intimità con Gesù dalla quale scaturiscono tutti gli altri rapporti: in questo toccare della donna si rivelano le nozze mistiche che generano la santità matrimoniale, la santa sottomissione della sposa allo Sposo e il dono della vita di questi alla sposa, l’obbedienza fiduciosa della creatura al Creatore, il “mistero grande” di cui parla San Paolo riferendosi al sacramento del matrimonio. In questo gesto brillano anche lo splendore e la santità dell’unione sessuale dei corpi aperti al flusso di vita che sgorga da Cristo; e così l’amicizia, il fidanzamento, la relazione tra i genitori e i figli. Per questo Gesú la cerca, la vede, e con il suo sguardo la chiama. E’ il compimento dell’amore, il frutto benedetto di ogni relazione che passa attraverso la mediazione della carne. La donna tocca il Signore, guarisce dall’egoismo che disperde la vita, per incontrare lo sguardo celeste di Dio. Ogni volta che ci si consegna a Cristo ci si ritrova in Paradiso; così, ogni volta che ci doniamo all’altro, sia nel talamo come nella vita di ogni giorno, si schiudono per noi le porte del Cielo, l’anticipo della vita che non muore. Finalmente libera e tornata alla vita, la donna può “gettarsi ai piedi” di Gesù, professando la sua fede, il canto di lode che accompagna la sua Redditio Symboli; lì, accasciata davanti al Signore, racconta e testimonia l'incontro seguito all'annuncio, di come Gesù abbia avuto il potere di salvarla, laddove tutti e tutto avevano fallito, e quell’intimità esclusiva “sentita” nel fondo dello spirito, la gioia più grande di tutta la sua vita. E diventa figlia, rigenerata nel potere di Gesù, attraverso la porta della fede che l'ha “salvata” prima di “guarirla”Ora può andare in pace, sanata alla radice dal male, perché prima è stata “salvata”. L'audacia della sua fede ha aperto il cuore di Dio: toccare Gesù significa la fede pura e adulta nella quale abbandonarsi a Lui anche dal fondo del peccato più grave. La fede, infatti, è sporcare e contaminare Gesù, trascinarlo dentro la nostra vita mezza morta. E fare in modo che si accorga che ci ha salvati, obbligare il potere che il Signore sembra sia incapace di controllare.

Secondo la tradizione rabbinica, prima d'ogni altra cosa, Dio ha creato la misericordia, sapendo che l'uomo appena creato ne avrebbe avuto subito bisogno. Forse è tempo che non parliamo con nostra moglie, o con quel cugino che ci ha tolto denaro e onore. Forse l'emorragia ci ha prosciugato la forza per perdonare e chiedere perdono, per parlare con nostra figlia, per svegliarci e accogliere un nuovo giorno grigio di routine. Forse abbiamo speso tutto, energie e speranze, ci siamo dibattuti come pesci nella rete cercando di saltar fuori dalla solitudine, dal dolore, dal tradimento. Forse i tanti affari con i quali abbiamo tentato di tenere lontana la realtà dura e difficile del ministero e della missione si sono dissolti e nessuno ha più bisogno di noi. Forse ci siamo ritrovati soli con anni spesi a rincorrere una pienezza e una pace mai trovate. Forse siamo oggi come l'emorroissa, ed è giunto il momento unico e irripetibile di correre e toccare Gesù, con il cuore e con la mente: è santa l'emorragia come sono santi i “dodici anni” - tutta la nostra vita sino ad oggi - che ci hanno condotto sul bordo della piscina battesimale, pronti ad immergervi il nostro uomo vecchio. E' santa la storia che ha reciso ogni alienazione, appoggio, sicurezza. E' santa l'impotenza che ci spinge a toccare il lembo del mantello di Cristo, e che suscita il desiderio di cercare in Lui solo consolazione, pace, amore e pienezza. E' santa la nostra vita di oggi che ci costituisce per il Signore un tu vero e da amare, un “chi” che il Signore possa cercare tra la folla e riconoscere per salvare. E' santa la volontà di Dio che ci conduce alla fede adulta che non teme si toccare Cristo nel suo mantello che è la Chiesa dispensatrice dei sacramenti che hanno potere su ogni nostro peccato. Proprio quello che crediamo ci stia distruggendo afferma invece la nostra identità unica e preziosa agli occhi di Cristo; la nostra debolezza gettata sul suo mantello ci rende oggetto delle sue attenzioni, della ricerca del suo sguardo, dello zelo del suo cuore. E chi non vorrebbe attirare l'attenzione dell'amato? Con Gesù non è il trucco, non sono i vestiti, non sono le qualità a suscitare attenzioni e sguardi, perché Lui cerca la debolezza, l'inutilità, la povertà, proprio tutto quello che l'uomo disprezza. Come la “figlioletta” di Giairo, immagine di quanto di noi e in noi è ormai “agli estremi”. Mentre attorno le voci dei parenti e degli amici che credono di conoscere la nostra vita, fermi alla superficie delle cose, ripetono che ogni “figlia” dei nostri sforzi, dei desideri e dei progetti è ormai “morta”, ed è inutile “disturbare ancora il Maestro". Parole di una logica così stringente che ci assediano anche dal nostro intimo. Il matrimonio fa acqua, i figli non ascoltano, l’irreparabile suscita “derisione”, e molti “piangono e strepitano”, inducendoci a disperare e a vestire il lutto che avvolga i fallimenti, il vero obbiettivo del demonio. Ma anche oggi Gesù ci annuncia che la nostra vita “è solo addormentata, non è morta!”. Nulla di quanto speravamo e desideravamo è destinato alla corruzione; tutto si addormenta nella caducità e nella debolezza della carne per risvegliarsi e trasfigurarsi nell'incontro con Cristo, l'autore della vita. Gesù “caccia via” tutti quelli che ci vogliono allontanare dalla fede, ed entra con la sua Chiesa “dove è la bambina”, esattamente dove oggi giace quella parte di noi che sembra morta. Ci porta con sé, “genitori” a cui è stata affidata la vita con la sua storia, che per il peccato si sta spegnendo su di un giaciglio di morte; e “prende la mano” inerme del matrimonio, della relazione con i figli, del lavoro, del fidanzamento e sussurra quell’ “Alzati, risuscita!” con cui ristabilisce nello splendore originale della volontà del Padre ogni frammento della nostra vita. “Dodici anni” per comprendere la nostra debolezza, una vita per farci prendere per mano dal Signore e ascoltare l’annuncio che ci rimette in piedi, per “camminare” seguendo le sue orme di amore e libertà, “mangiando” finalmente il cibo che non perisce, la sua vita fatta carne e sangue capaci di compiere la volontà del Padre.

lunedì 30 gennaio 2017

Viaggio nella Catholica del disorientamento pastorale

   
   
di Benedetta Frigerio                               30-01-2017
Una messa show

Al di là che si sia d’accordo o meno con le modalità di papa Francesco o piuttosto con quella di chi gli pone degli interrogativi, il saggio “Disorientamento Pastorale” (edizioni Leonardo da Vinci, 265 pagine, 20 euro) di Danilo Quinto aiuta a giudicare quanto sta avvenendo all’interno della Chiesa cattolica a partire dalle verità millenarie della fede e del Magistero. Spesso infatti i fedeli sono spaesati dalla confusione e non ne sanno uscire per ignoranza. Ad esempio: chi sa quando il papa è infallibile o meno? Chi quando la dottrina permette di interpellarle il Santo Padre pubblicamente su determinati temi? Chi sa davvero cosa significa l’obbedienza al pontefice? Purtroppo la maggioranza dei fedeli non è più in grado di rispondere a questi interrogativi, anche a causa di una voluta ambiguità di comunicazione della fede, che non è certo cominciata con l’azione pastorale di Francesco ma che fu già assunta da un certo linguaggio adottato dal Concilio Vaticano II.
Ora siamo solo alla radicalizzazione del problema dunque. Questa la tesi del teologo Antonio Livi nell’introduzione al volume di Quinto, che parlando dell’attuale pontefice spiega: “Si tratta del grande mutamento del paradigma pastorale per cui già il Concilio ecumenico Vaticano II (…) ha deciso di privilegiare il linguaggio parenetico su quello dogmatico, il tono conciliante su quello polemico (…) il risultato è stato che in alcuni documenti del Concilio (…) il nuovo linguaggio del Magistero è risultato oggettivamente ambiguo, provocando quella ridda di opposte interpretazioni che tanto hanno diviso la Chiesa”. E sebbene alcuni teologi del Concilio non ne “riconoscono l’autorità propriamente magisteriale”, continua Livi, la deriva anti dogmatica odierna ha assunto comunque proporzioni enormi, tanto da portare a un “ disorientamento pastorale”. Anche perché “dopo la pratica legittimizzazione dell’”ermeneutica della rottura” da parte di papa Francesco con il suo programma di riforme “pastorali” (che contraddicono sostanzialmente i dogmi del Concilio di Trento e gli insegnamenti irreformabili del magistero ordinario anche recente, come quello di Giovanni Paolo II) ciò che obiettivamente è in crisi è l’autorevolezza stessa del magistero ecclesiastico”.
Quinto analizza quindi il Concilio Vaticano II, ricostruendone la traiettoria, sottolineandone le ispirazioni e i danni recati da certe formulazioni visibili oggi con chiarezza. Insieme prende in esame molti passaggi problematici del pontificato attuale circa la dottrina e la fede cattolica, come ad esempio le affermazioni di Francesco su Lutero, la sua prassi nei confronti dei protestanti, le sue esternazioni sull’Islam, sul matrimonio e sul significato di misericordia e di accoglienza. Vengono vagliati anche certi discorsi papali di fatto più vicini al linguaggio umanitarista, piuttosto che a quello legato alla salvezza delle anime. Mentre molte affermazioni del papa di carattere colloquiale (interviste, battute, telefonate), dunque soggette a critiche come spiega sempre Livi, vengono esaminate dal saggio di Quinto alla luce del Vangelo e dei commenti dottrinali di altri teologi.
Quella di Quinto dunque è una battaglia che si può giudicare opportuna o meno, ma non si può affermare che non contribuisca a rimettere al centro le grandi verità immutabili della Chiesa che ogni fedele dovrebbe conoscere. E questo non può che essere un servizio, data l'impossibilità ad uscire dalla confusione per prendere una posizione certa sulla fede senza conoscere le verità immutabili custodite del magistero della Chiesa.
A questo punto ricordiamo le parole di una grande santa (usate da Quinto per mettere in guardia dell’irenismo che piace a chi mira all’instaurazione di un ordine mondiale basato sull’appiattimento delle differenze) per rispondere chi accusa quanti affermano il vero davanti alla confusione di essere dei divisori: “E’ vero che la guerra stessa è crudele (…) ma più crudele è l’intenzione di chi la usa per combattere la santa Fede, portando la guerra dove regna la pace di Cristo, e dove si è costretti a muovere guerra per riportarla. Quelli che fanno le giuste guerre hanno la pace come scopo: essi non sono contrari che alla pace cattiva (…) la pace mondana che non è affatto quella che il Signore volle e venne a portare sulla terra”.
Avvenire e i gay: un percorso senza meta
    
   
di Tommaso Scandroglio                                    30-01-2017

Don Gianluca Carrega, responsabile dell’arcidiocesi di Torino per la pastorale delle persone omosessuali, ha tenuto nei giorni scorsi una due giorni di riflessione sulla tematica “omosessualità e fede”. All’iniziativa ha dato eco anche il Progetto Gionata, progetto teso a coniugare omosessualità e dottrina cattolica. Uno sposalizio impossibile. A questa due giorni ha partecipato anche l’associazione Kairos di Firenze la quale proclama in modo orgoglioso che “in Italia le famiglie si sono trasformate e, negli ultimi decenni, si sono sviluppati nuovi tipi di famiglia, tra cui troviamo le Famiglie Arcobaleno fondate non sulla biologia, ma sulla responsabilità, l’impegno quotidiano, il rispetto, e l’amore”.
Don Carrega, intervistato da Avvenire per commentare quel weekend formativo (?), ad un certo punto cesella questa perla: “Non voglio entrare in questioni dottrinali ma non si può negare che esista un valore quando ci si trova di fronte a persone che vivono in modo stabile e dignitoso la loro condizione”.
Noi invece vogliamo entrare in questioni dottrinali. L'omosessualità è definita dal Catechismo come condizione intrinsecamente disordinata (2358) e le condotte omosessuali come atti altrettanto disordinati (2357) e dunque sia la condizione che le condotte sono entrambe contrarie alla dignità della persona. Da qui in primis non si comprende come la condizione omosessuale possa venir vissuta in modo dignitoso.
In secondo luogo ci sfugge dove stia il valore aggiunto di chi volutamente e in modo stabile protrae nel tempo e consolida la propria omosessualità e le relazioni omosessuali. In realtà è vero tutto l'opposto. La relazione omosessuale occasionale, cioè episodica, è meno grave di quella consolidata. Così come - mutatis mutandis e ci venga perdonato l'esempio che ai più apparirà a torto urticante  - una rapina in banca è meno grave che mettere in piedi una banda dedita alle rapine in banca.
Se invece nella relazione omosessuale c’è qualcosa di buono va da sé che non si vede il motivo per cui opporsi anche ad un loro riconoscimento giuridico. La conclusione del sillogismo è sempre opera di don Carrega che un paio di giorni fa ha celebrato il funerale di Franco Perrello, 83 anni, il quale insieme al compagno Gianni Reinetti è stato il protagonista della prima unione civile a Torino. Dal pulpito il sacerdote prima di tutto ha forse tirato in ballo il Papa: «Tanti pensano che la prima parola da dire, in questi casi, sarebbe “scusa”. Scusa per le disattenzioni, scusa per la freddezza, scusa per le dimenticanze. Ma questo dovrebbe farlo qualcuno più importante di me”. Chissà se don Carrega si riferisce alla dottrina della Chiesa sull’omosessualità – altrimenti perché chiamare in causa i piani alti della gerarchia cattolica? – ma se così fosse nessuna scusa è dovuta dato che tale dottrina non è erronea.
Sempre dal pulpito il responsabile della diocesi di Torino ha poi continuato: “Io, invece, ho detto loro ‘grazie’ perché con la loro ostinazione ci hanno permesso di pensare a una Chiesa in grande, accogliente, capace di andare oltre e di non lasciare indietro nessuno”. Il funerale si è dunque celebrato sia per il sig. Perrello sia per il Magistero.
Poi il sacerdote torinese, intervistato da Repubblica, si è spinto a dire che “il riconoscimento di queste unioni dovrà rientrare nella pastorale ordinaria”. Riconoscimento in che senso chiede il giornalista? Riconoscimento giuridico come per le unioni civili? «Se una persona decide di fare questo passo [unione civile] credo sia un segno bello, perché ci si assume insieme delle responsabilità pubbliche. E la Chiesa ha sempre incoraggiato l’assunzione di responsabilità. Potrebbe essere anche un segno dello Spirito». Ed infine chiosa: “Ma come si può sostenere che da un'unione omosessuale non possa scaturire niente di buono? Dobbiamo vincere resistenze e pregiudizi». E’ ciò che appuntavamo prima: se la relazione omosessuale è cosa buona perché non legittimarla anche sul piano giuridico? Quindi il peccato mortale proprio degli atti omosessuali è diventato segno dello Spirito Santo e deve pure ricevere veste giuridica.
Le idee non cattoliche di don Carrega sono sposate anche da altri sacerdoti e le iniziative ecclesiali che tentano di incistare il sano portato dottrinale con le teorie del gender ormai non si contano più. Don Cristiano Marcacci, responsabile diocesano della pastorale familiare di Pescara, sempre ad Avvenire rivela: «Il discorso è complesso, ma noi non pretendiamo di spiegare cosa fare o non fare, ma solo di accogliere, di aiutare ad elaborare una fatica, poi gli sviluppi sono mille e mille. La premessa è l’accoglienza offerta con amore. E questo fa cambiare le persone».
Ormai è noto: la parole talismano in merito all’omosessualità sono accoglienza, accompagnare, aiutare, quasi che la Chiesa fosse un hotel e le persone omosessuali i clienti da accogliere e accompagnare nelle loro stanze per ritemprarsi dalle fatiche di un lungo viaggio. Bene accompagnare etc. ma in quale direzione? In nessuna direzione spiega don Marcacci con quella sua affermazione arrendevole “non pretendiamo di spiegare cosa fare o non fare” che illustra perfettamente il ruolo della nuova chiesa LGBT, non più maestra, ma solo sherpa.
La Chiesa invece – in merito all’omosessualità così come per tutte le altre situazioni esistenziali contrarie al volere di Dio – indica chiaramente al peccatore sia la meta – abbandonare la condizione omosessuale e ripudiare gli atti omosessuali – sia gli strumenti e il percorso che ovviamente può e deve essere affrontato gradualmente – grazia di Dio, cammino per fortificare le virtù, aiuto psicologico, opere concrete di carità etc. E tutto questo stando vicino alla persona omosessuale: il famigerato accompagnamento. Oggi invece rimane solo quest’ultimo aspetto e quindi se non si vuole più indicare una meta diversa dall’omosessualità, ciò significa che si accompagnerà la persona nella direzione scelta da quest’ultima, cioè rimanendo sulla via dell’omosessualità stessa. E’ questione di logica.
C’è un ultimo aspetto in merito alla pastorale arcobaleno che merita attenzione. Don Leo Santorsola, fondatore del movimento “Famiglia e vita” di Matera che incontra i genitori di figli omosessuali, dichiara ancora una volta ad Avvenire: «La pastorale delle persone con orientamento omosessuale deve rientrare nella pastorale della famiglia. Se fino a qualche anno fa il nesso tra pastorale della famiglia e questione omosessuale poteva apparire incomprensibile, oggi alla luce delle rivendicazioni, già accolte in alcune legislazioni nazionali, di un “matrimonio” per persone con inclinazioni omosessuali, non è più così”.
Attenzione al percorso pericolosissimo che si sta tracciando all’interno della Chiesa. L'omosessualità non riguarda più dal punto di vista pastorale solo i singoli, ma anche la relazione che i singoli hanno in famiglia. Ergo l'omosessualità riguarda anche la famiglia e dunque la pastorale familiare. Questo punto di svolta è stato messo a tema per la prima volta dal doppio sinodo sulla famiglia e poi consacrato dall’Amoris laetitia. E fin qui – anche se un po’ tirata per i capelli – la questione che vede l’omosessualità come un problema che può riguardare le famiglie potrebbe avere anche una sua ragion d’essere. Ma il passo successivo sarà certamente il seguente: se l’omosessualità interessa la famiglia allora si può parlare legittimamente di “famiglia” omosessuale. Accolta l’omosessualità in famiglia non la sfratteremo più. 

DOMATO IN NOI L'ORGOGLIO CHE CI DISTRUGGE DALLA PREDICAZIONE DELLA CROCE, SIAMO INVIATI NEL MONDO PER ESORCIZZARLO CON L'AMORE


Gesù è l'unico che può domarci perché ha compiuto la traversata in mezzo alla morte e ci è venuto a cercare all'altra riva del mare, il "territorio pagano" dove buttiamo via la nostra vita. Se infatti la vita non è consegnata a Lui nell'obbedienza, è preda di una forza violenta che spezza ogni legame, e a nulla valgono stratagemmi umani, psicologie e terapie. Nessuna “catena” può nulla contro il potere di una “legione di demoni”. Il “territorio dei Geraseni”, la Decapoli pagana, ieri come oggi, è accanto a noi, dentro di noi, dove il male è un continuo “colpire con pietre” la propria dignità spingendoci al disprezzo di noi stessi come l'indemoniato di Gerasa che "continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre". Questi fenomeni non ci sono estranei, perché il “sepolcro” nel quale abitiamo, in greco “memoriale”, è una continua memoria della morte che ci corrode, la “parte”, la “sorte” di chi confida in se stesso, il salario del peccato. Quante catene per indurci a ragionare, a soprassedere, a perdonare. Ma l'amore non è una catena perché il male non esploda. Occorre un miracolo che guarisca il cuore, che purifichi la fonte. E' necessario il Signore Gesù che passa all'altra riva per scendere negli abissi della morte e riscattare l'uomo schiavo del demonio. Questi, all'arrivo di Gesù, gli si fa incontro come attirato da Lui, ed è subito una reazione di sfida, di mormorazione, di rifiuto. Come accade a noi quando ci raggiunge la predicazione, l'annuncio della Verità. "Che hai a che fare con noi...". Che vuoi Signore, sei venuto a “rovinare” i nostri piani, la vita pagana nella quale abbiamo immerso la nostra anima? La “rovina” del male infatti è solo il bene, mai un altro male, come invece il mondo, e tutti noi, pensiamo quando ci armiamo per combattere le ingiustizie, le malattie, la sofferenza. Ma Gesù è Dio e sa riconoscere il suo stesso volto nella caricatura che siamo diventati a causa della “legione” di pensieri e opinioni, criteri e concupiscenze che ci dilaniano rendendoci schizofrenici in ogni pensiero, gesto, relazione; Egli sa percepire, dall'involucro sporco, immondo e degenerato che siamo diventati, il grido disperato che il seme di vita eterna seminato in noi cerca di farsi strada. Gesù riconosce nelle parole blasfeme e terribili del demonio, l'angoscia e la paura di chi ne è posseduto. Anche dentro i nostri rifiuti, nelle cadute, nelle chiusure più ostinate, Gesù sa intercettare l'inganno e il camuffamento del demonio: è lui che rigetta Cristo, noi siamo solo degli schiavi caduti nelle sue trappole, nelle pompe illusorie che ci hanno sedotti. Certo lo abbiamo fatto liberamente, vi è stato almeno un momento in cui, nel cuore, abbiamo scelto di dare ascolto alla voce dell’avversario. Ma Gesù sa che portiamo una natura ferita: per questo è disceso dal Cielo a cercare la pecora perduta in territorio pagano, sin dentro all'accampamento nemico. Non è facile riconoscere il fratello dopo tanto tempo: parla una lingua diversa, i costumi e le abitudini sono completamente cambiati, anche i connotati non sono più gli stessi: tanti anni di compromessi con il mondo lo hanno trasformato in un pagano. Eppure Gesù lo riconosce, non lo giudica, ma lo guarda con misericordia, con tenerezza e pietà, mentre smaschera il demonio che “aveva avuto a che fare” con un dio falso e mostruoso ma che sente ormai prossima la sua rovina, opera del Dio autentico, il Figlio fattosi Servo crocifisso che ci parla: "Taci, Esci da quell'uomo spirito impuro!". Così, innanzitutto, fa tacere la menzogna e annuncia la Verità, perché ogni esorcismo deve attaccare la voce suadente del serpente, da dove è iniziato l’inganno; perché la fede giunga attraverso l’ascolto della predicazione è, infatti, necessario, ridurre al silenzio le altre parole. 

Dirigendosi non all’uomo ma a satana, Gesù lo smaschera come l’autentica fonte avvelenata di divisione, morte, e peccato. E' il demonio il padre dell'impurità, perché, separandosi da Dio, ha attirato nella regione di morte e assenza d’amore chiunque è caduto sotto il suo potere. E' l'assassino che alla fine, per l'opera di Cristo, rivolge contro di se il suo stesso proposito malvagio. E' una “mandria di porci”, che si rotolano nel loro vomito, immagine dell’uomo vecchio che ha perduto il senso del peccato. Così il demonio precipita nel mare, come l'esercito del faraone, come ogni inganno illuminato dall'amore di Dio, come accade nel battesimo, e ogni volta che sperimentiamo il perdono dei peccati che ci fa “liberi e sani di mente”. Il precipitare della mandria è il frutto dell'amore di Dio che, una volta sperimentato, ci fa rinunciare a tutto quello che, nella nostra vita, ci aveva indotto a rifiutarlo: a satana e a quelle che un tempo si chiamavano "pompe diaboli": "fa parte del rito battesimale la rinuncia alla "pompa del demonio". Di fatto la parola si riferiva innanzitutto al teatro pagano, ai giochi del circo, nei quali lo scannamento di uomini era divenuto uno spettacolo ricercato, crudeltà, violenza, disprezzo dell'uomo era il culmine dell'intrattenimento. Ma con questa rinuncia al teatro si intendeva naturalmente tutto un tipo di cultura... alla degenerazione di una cultura, dalla quale innanzitutto doveva separarsi colui che voleva diventare cristiano e che si impegnava a vedere nell'uomo un'immagine di Dio e a vivere come tale" (J. Ratzinger). Qualunque sia la schiavitù che ci opprime, qualunque disordine renda impura l'esistenza, Gesù vi scende oggi, per distruggere l'autore di tanto sfacelo, e ridonarci la dignità, “un vestito nuovo” come la veste bianca del battesimo, “una mente purificata e sanata” nella misericordia e per questo capace di discernere, per “farci sedere” nella comunione dei santi, quali cittadini della nuova Gerusalemme. Risuscitati con Lui possiamo essere inviati nella "nostra casa, dai nostri parenti e amici", per annunciare “loro ciò che il Signore ci ha fatto e la misericordia che ha avuto per noi”, offrendo la nostra vita riscattata come un segno per quelli che ci hanno visti schiavi della menzogna. Così, il Vangelo rivela la missione della Chiesa tra i pagani, la cosiddetta "Missio ad gentes". Gestata in una traversata nella quale ha conosciuto il potere di Cristo sulla morte la Chiesa è nata dalla Pasqua per essere un sacramento di salvezza per chi vive nella paura. E' passata all'altra riva attraverso le acque del battesimo per "sbarcare" nell'oscurità della terra pagana dove, come Gesù, "attira" a sé i demoni. Quando infatti, ai cristiani accade come a Lui e ai suoi discepoli pregati di lasciare” quel territorio dalla paura di perdere le proprie sicurezze, la Chiesa attira su di sé l'ostilità e il rifiuto di satana per sconfiggerlo. Crocifissi con Cristo, i suoi discepoli diventano essi stessi maledizione e rifiuto per attirarlo nel loro apparente fallimento e così gettarlo lontano dagli uomini. E' il martirio quotidiano che spalanca per loro e per chi li rifiuta lo stesso Paradiso: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno". Mentre la stessa moltitudine delle persone "salate" dalla testimonianza dei cristiani che sono sbarcati con amore nella loro realtà, e che non entrerà giuridicamente nella Chiesa (come l'indemoniato sanato che non si è aggiunto a quanti seguivano Gesù), annuncerà la vittoria di Cristo: attraverso la loro stessa vita redenta saranno il segno dell'amore di Dio in terra pagana, come una chiamata a conversione per ogni "casa e ogni famiglia". Sì, con il Signore possiamo accettare con pazienza la "paura" degli altri, e "risalire sulla barca" per passare ad altre rive, nella certezza di aver lasciato in chi ci è accanto una primizia della misericordia di Dio che darà frutto a suo

domenica 29 gennaio 2017

Trump e la Marcia per la Vita, uniti contro l'aborto

   
   
di Benedetta Frigerio                      27-01-2017
Marcia per la vita, la scorsa edizione
Quello passato alla Camera questa settimana è un provvedimento, il No Taxpayer Funding of Abortion Act, che rende permanente il Hyde Amendment. Anche in questo caso si tratta di una svolta dato che quest’ultimo, oggetto di scontro costante fra repubblicani e democratici, doveva essere ratificato ogni anno affinché l’aborto non fosse finanziato con i soldi dei contribuenti nei programmi sanitari pubblici. Al contrario il neoeletto presidente, rispettando la promessa fatta in campagna elettorale, ha confermato che se la legge passerà anche al Senato il divieto sarà permanente e non più passibile di discussioni. Così facendo Trump non solo ha dato voce al sentire di oltre il 60% degli americani, contrari, secondo l’ultimo sondaggio di Maristal Pool di questo mese, al finanziamento dei business abortisti con le loro tasse, ma lo ha fatto mentre l’inchiesta su Planned Parenthood smentiva le menzogne sostenute in campagna elettorale: la lobby degli aborti aveva cercato di dipingere il presidente come un misogino che non vuole contribuire ai servizi per l’aiuto alle donne, ma martedì scorso Live Action ha appunto dato prova del fatto che ai dipendenti dei centri abortivi della donna non interessa proprio nulla.
L’unico pallino è il bambino in grembo, da eliminare con conseguenti ricavi pecuniari. Il gruppo pro life lo ha dimostrato visitando circa 97 cliniche Planned Parenthood di tutti gli States. Alle attrici, che rappresentavano madri incinte e bisognose di supporto per la gravidanza, le dipendenti dell’industria della morte (già travolta dalla precedente inchiesta che ha mostrato il commercio illegale di organi di bambini abortiti) rispondevano che il termine “Planned Parenthood” (“pianificazione delle nascite”) è “ingannevole” perché lì si praticano solo aborti. Lila Rose, leader di Live Action, ha sottolineato che "Planned Prenthood dice di essere un campione nel campo della salute delle donne, eppure la cura prenatale, un servizio essenziale per le madri in attesa, è praticamente inesistente”. Insomma o una donna vuole abortire o è invitata ad andarsene. Non ci sono altri “servizi” o consulenze al di fuori di quelle che portano all’omicidio del bambino.
Tutto questo accadeva appunto mentre da ogni parte degli Stati Uniti migliaia di persone si preparavano a partire per l'annuale Marcia per la vita di Washignton con una speranza nuova e diversa da quella degli ultimi anni. La manifestazione che si terrà oggi è stata infatti salutata così dal capo ufficio stampa della Casa Bianca Sean Spicer: “Penso che non sia un segreto che il presidente ha fatto campagna da presidente pro life. Questa è una questione molto importante per lui, come evidenzia la reintegrazione della Mexico City Policy”. Perciò alla marcia, “ovviamente, ci sarà una presenza massiccia di questa amministrazione”. Parlando con i giornalisti Spicer ha infine ribadito che Trump “farà tutto quello che può per combattere a favore della vita” e che se non sarà presente alla marcia manderà certamente un messaggio. Intervistato mercoledì dalla Abc sulla marcia delle femministe in protesta contro di lui, Trump ha poi fatto notare che esiste un'altra marcia in suo favore, anche se i media la ignorano completamente. Identificandosi in questo modo con il popolo della Marcia per la vita ha risposto così al giornalista che gli domandava se aveva ascoltato o meno le proteste: “Le ho sentite ma c'è un altra marcia (...). Ci saranno molte persone che verranno venerdì, e le dico, non lo sapevo, ma mi è stato detto che sarà una folla molto grande. Non so, se così (come quella delle donne, ndr) grande o di più – alcuni dicono più grande. La gente pro life. E dicono che la stampa li ignora”.
Non solo perché dopo il giuramento alla Casa Bianca del vice presidente Mike Pence (che parlerà alla Marcia per la vita), Spicer, ha dichiarato che Dio sarà rimesso al centro dell’attività del presidente:  “Quando sono entrato nel mio ufficio questa mattina c’era un verso sulla mia scrivania di Isaia 40,31 “ma coloro che sperano nel Signore acquistano nuove forze, s’alzano in volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano”. Mentre intervistato all’inizio del mese dalla Ewtn ha specificato: “Penso che il presidente abbia capito che per dieci anni la gente di fede si è sentita messa ai margini (…) hai menzionato Kellyanne (militante pro life nominata consigliera della Casa Bianca, ndr), ma ci sono molti altri con diverse appartenenze religiose (…) c’è Reince Priebus (capo di gabinetto) un greco cristiano ortodosso, Steve Bannon (consigliere presidenziale critico del secolarismo, ndr) un cattolico e altre persone messe ai vertici dell’amministrazione, che sono molto orgogliosi della loro fede e religione e questo ci aiuterà a fare le scelte giuste per questo paese”. Sempre all’inizio della settimana è stata confermata la nomina a capo della Cia di Mike Pompeo, cristiano evangelico, figura di rispetto della sicurezza nazionale e avvocato pro life, che nel 2015 aveva dichiarato che i fondamentalisti islamici mirano “a far scomparire i cristiani dalla faccia della terra”. E che dunque occorre “pregare, alzarsi in piedi, combattere e assicurarsi che sia chiaro che Gesù Cristo è il nostro salvatore e che è l’unica vera soluzione per il nostro mondo”. 
La strada bella delle beatitudini

   
   
di Angelo Busetto                          29-01-2017
Il discorso della montagna

La lancia delle beatitudini taglia in due la storia. La promessa di Gesù nel Vangelo di Matteo esalta l’umanità minore e innalza le energie delle persone più deboli. Poveri, sofferenti, miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri, operatori di pace, perseguitati e insultati, tutti coloro che non vincono le battaglie e le lotterie del mondo, vengono convocati sulla via della beatitudine, cioè di una impensabile felicità. Perché? Gesù non è il giullare che irride i potenti ma in fondo li invidia. Egli va dentro il cuore dell’uomo e vi scopre quelle verità che un’autentica esperienza di vita rende evidenti.
La prima è che la felicità arriva sempre di sghimbescio. Non la trovi quando la cerchi, ma ti riempie braccia e cuore mentre fai un’altra cosa: quando preghi e ti affidi, quando perdoni e sei perdonato, quando non pretendi e dai gratuitamente, quando non ti curi del successo e dei soldi, quando non ti inventi sogni, quando non calcoli ore e impegni. La felicità non è una serie di imprese e di soddisfazioni che si accumulano alla soglia di casa. Diventassi tu il padrone del mondo, staresti ancora a guardare il cielo, volendo conquistare le stelle.
La seconda è che la felicità la possiede Dio e in lui soltanto è contenuta la misura grande e traboccante che soddisfa il cuore dell’uomo. Se il cuore  è ingombro di ricchezza, di superbia, di godimenti e piaceri insulsi, di rabbia, vendetta, odio, rappresaglia, invidie, come può fare spazio per ospitare Dio?
Gesù dice: Beati voi poveri, beati voi miti, beati voi puri… Nella vita di queste persone c’è spazio per ospitare la misura di Dio. Sono persone che attendono il primo raggio di sole, e se ne riscaldano all’albore. Sanno dire grazie alla mano che accarezza e al sorriso che le incontra, scoprono che nel dolore e nella umiliazione Dio si fa presente e sorregge.
La beatitudine è un frutto che matura in cielo ma spunta sulla terra, perché il regno di Dio è in mezzo a noi. Nella compagnia quotidiana del Signore dentro ogni circostanza, ne possiamo godere la primizia. Gli occhi di chi diventa puro e semplice di cuore riconoscono Cristo che vince con la misericordia, rialza chi è caduto, libera i prigionieri da ogni potere, accoglie chi è povero e bisognoso, dona la vita al peccatore pentito. “Il povero invoca e Dio lo ascolta”, canta il salmo. I peccatori diventano beati, salvati e riempiti della grazia della misericordia. Possiamo rallegrarci ed esultare.
Vita consacrata. Papa: “Attenti alle controtestimonianze, servono buoni accompagnatori…”
Prendendo atto della crisi delle vocazioni, Francesco mette in guardia i religiosi dalle logiche mondane e di potere e li esorta a un discernimento che non sia solo tra “bene e male” ma soprattutto “tra il bene e il meglio”
Udienza Plenaria Congregazione Istituti vita Consacrata
@ Servizio Fotografico - L'Osservatore Romano
La crisi delle vocazioni religiose non è soltanto nell’effettiva diminuzione delle consacrazioni ma anche nell’alto tasso di abbandoni. Il fenomeno pone un problema di “fedeltà” e non si inquadra più soltanto nel contesto di una “epoca di cambio” ma in un “cambio di epoca”. Lo ha osservato papa Francesco, durante l’udienza concessa oggi nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.
È proprio la “fedeltà” alle proprie vocazioni, il tema scelto dall’assemblea: un tema “importante”, ha sottolineato il Papa, in un momento in cui tale “fedeltà” è “messa alla prova”, come dimostrano anche le statistiche.
“Siamo di fronte ad una ‘emorragia’ che indebolisce la vita consacrata e la vita stessa della Chiesa”, ha aggiunto il Pontefice, rilevando che questi abbandoni “preoccupano molto” la Chiesa e, sebbene molti di essi avvengano “per un atto di coerenza”, ovvero per il riconoscimento di “non avere mai avuto la vocazione”, in altri casi, “con il passare del tempo”, si riscontra il venir meno alla “fedeltà, molte volte solo pochi anni dopo la professione perpetua”.
Come già evidenziato dai partecipanti alla Plenaria, non stiamo vivendo una semplice “epoca di cambio”, quanto un “cambio di epoca”, in cui “risulta difficile assumere impegni seri e definitivi”, anche a causa di un “contesto culturale e sociale”, che ci immerge nella “cultura del frammento, del provvisorio, che può condurre a vivere à la carte e ad essere schiavi delle mode” e del “consumismo”, dimenticando “la bellezza della vita semplice e austera” e “provocando molte volte un grande vuoto esistenziale”.
Il Santo Padre ha quindi denunciato “un forte relativismo pratico, secondo il quale tutto viene giudicato in funzione di una autorealizzazione molte volte estranea ai valori del Vangelo”, laddove “le regole economiche sostituiscono quelle morali, dettano leggi e impongono i propri sistemi di riferimento a scapito dei valori della vita”.
In “una società dove la dittatura del denaro e del profitto propugna una visione dell’esistenza per cui chi non rende viene scartato”, è evidente, ha chiosato Francesco, che “uno deve prima lasciarsi evangelizzare per poi impegnarsi nell’evangelizzazione”.
A fronte di ciò, bisogna fare i conti con un “mondo giovanile” che si presenta “complesso” e, al tempo stesso, “ricco e sfidante”: da un lato, vi sono “non pochi” giovani “molto generosi, solidali e impegnati a livello religioso e sociale”; molti di loro “cercano una vera vita spirituale” e “hanno fame di qualcosa di diverso da quello che offre il mondo”.
Altri giovani, tuttavia, sono “vittime della logica della mondanità”, ovvero “del successo a qualunque prezzo, del denaro facile e del piacere facile”: compito della Chiesa, ha affermato Bergoglio, è “stare accanto a loro per contagiarli con la gioia del Vangelo e dell’appartenenza a Cristo. Questa cultura va evangelizzata se vogliamo che i giovani non soccombano”.
Il Papa non ha mancato di stigmatizzare le “situazioni di contro-testimonianza, che rendono difficile la fedeltà” all’interno della stessa vita consacrata: si soffrono “la routine, la stanchezza, il peso della gestione delle strutture, le divisioni interne, la ricerca di potere, una maniera mondana di governare gli istituti, un servizio dell’autorità che a volte diventa autoritarismo e altre volte un ‘lasciar fare’”.
Se la vita consacrata vuole conservare “la sua missione profetica e il suo fascino” e continuare ad essere “scuola di fedeltà per i vicini e per i lontani (cfr Ef 2,17)”, deve “mantenere la freschezza e la novità della centralità di Gesù, l’attrattiva della spiritualità e la forza della missione, mostrare la bellezza della sequela di Cristo e irradiare speranza e gioia”, ha affermato Francesco.
La “vita fraterna in comunità” va alimentata “dalla preghiera comunitaria, dalla lettura orante della Parola, dalla partecipazione attiva ai sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, dal dialogo fraterno e dalla comunicazione sincera tra i suoi membri, dalla correzione fraterna, dalla misericordia verso il fratello o la sorella che pecca, dalla condivisione delle responsabilità”, accompagnate “da una eloquente e gioiosa testimonianza di vita semplice accanto ai poveri e da una missione che privilegi le periferie esistenziali”. Quando un religioso o una religiosa non trovano il sostegno della loro comunità, andranno a “cercarlo fuori, con tutto ciò che questo comporta”, ha ammonito il Pontefice.
La vocazione religiosa, ha aggiunto, è un vero e proprio “tesoro”, dono di Gesù Cristo e, per questo, va preservato dalle logiche della “mondanità” e dalle “piccole deviazioni o distrazioni” che, alla lunga, possono dar luogo a “grandi infedeltà”; l’antidoto è tenere “fisso lo sguardo sul Signore”, affinché “nessuno ci rubi questo tesoro, né esso perda con il passare del tempo la sua bellezza”.
Servono “fratelli e sorelle esperti nelle vie di Dio, per poter fare ciò che fece Gesù con i discepoli di Emmaus: accompagnarli nel cammino della vita e nel momento del disorientamento e riaccendere in essi la fede e la speranza mediante la Parola e l’Eucaristia (cfr Lc 24,13-35)”.
Quello dell’“accompagnamento” o della “direzione spirituale”, ha puntualizzato Bergoglio, è un carisma “laicale”, ovvero che può essere svolto sia da sacerdoti che da figure non presbiteriali, come laici o suore.
Molte vocazioni, ha evidenziato il Santo Padre, “si perdono per mancanza di validi accompagnatori”: va pertanto evitata “qualsiasi modalità di accompagnamento che crei dipendenze, che protegga, controlli o renda infantili, non possiamo rassegnarci a camminare da soli, ci vuole un accompagnamento vicino, frequente e pienamente adulto”.
Chi accompagna dovrà pertanto operare un “distacco completo da pregiudizi e da interessi personali o di gruppo” e favorire un discernimento che non si limiti alla scelta “tra il bene e il male, ma tra il bene e il meglio, tra ciò che è buono e ciò che porta all’identificazione con Cristo”, ha poi concluso Francesco
“Saziati” dalla Giustizia di Cristo

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Il Signore questa Domenica ci annuncia che siamo “beati”. Attenzione, siamo “beati” per ciò che viviamo nel presente al quale è già legato indissolubilmente quello che gusteremo nel futuro. “Beati”, dunque, in questo momento, che abbraccia il presente qui sulla terra e il futuro nel Cielo, a cui possiamo credere proprio perché ne possiamo pregustare già qui la “beatitudine”. Essere “beati” allora non è solo una promessa, ma è la nostra identità autentica, ed è anche la missione alla quale ci chiama. Sì, perché la “beatitudine” è, soprattutto, un “invio” a vivere quello che siamo, ad annunciare e a testimoniare la “beatitudine” che Cristo compie in noi nella Chiesa.
 
“In ebraico la parola “ashrei” – felice – tradotta con “beato”, non allude a sentimenti, sensazioni, stati d’animo, nemmeno a tranquillità e appagamento. Indica, invece, un “dinamismo”, tanto che la parola “beato” si potrebbe tradurre con “cammino rinnovato in ogni momento” (M. Vidal). La tradizione ebraica ha compreso le Dieci Parole ricevute sul Sinai – i “comandamenti” – come il “cammino” della vita: terminano infatti con “Fa questo”, ovvero, cammina così, “e avrai la vita”. 
 
Su un’altra montagna, quella che s’innalza dolce dalle rive del lago di Tiberiade, in piena Galilea immagine della terra di missione, e sulla quale il Signore risorto ha dato appuntamento ai suoi apostoli per inviarli ad annunciare il Vangelo, Gesù ha consegnato alla Chiesa sua Sposa il famoso Discorso in cui è tracciato il cammino della Nuova Alleanza; e l’ouverture che ne sintetizza i contenuti è composta proprio con le note delle “beatitudini”. 
 
Oggi la Chiesa, nella quale il Signore “è tutti i giorni” con i discepoli, le consegna anche a noi, già compiute su un altro monte, il Golgota; sulla Croce, infatti, Gesù ha inciso con il suo sangue ogni “povertà di spirito”, “afflizione”, “fame di sete e giustizia”, “persecuzione a causa della giustizia”, “insulto” e “calunnia”, offrendo con “mitezza” ai suoi assassini la “misericordia” e la “pace” nel suo corpo; per questo ha ricevuto la “grande ricompensa” della resurrezione, la porta spalancata sull’autentica “terra” promessa, il Regno dei Cielo nel quale si è “saziato” di “consolazioni” nel “vedere” di nuovo il volto del Padre.
 
Gesù è il “Figlio di Dio” che ha “ereditato” per noi il destino eterno di felicità che ci offre gratuitamente nella Chiesa attraverso la “misericordia” che ci rigenera per vivere secondo la volontà di Dio, cioè “beati”. Cristo è risorto, primizia dei “beati”! Entrando con Lui nella morte anche noi sperimenteremo la sua stessa “beatitudine”. Non ce ne sono altre, perché nessuna di quelle che offre il mondo, nessuna di quelle che oggi speriamo è incorruttibile. 
 
Che vuoi, guarire da una malattia? E chi non lo vorrebbe, e a volte Dio ce lo concede. Ma ci riammaleremo di nuovo. Se però nella malattia che ti “affligge” sperimenti già la “consolazione” di Cristo, che cioè è con-la tua solitudine e, abbracciandoti, ti fa distendere sulla Croce che “purifica” il tuo “cuore” da ogni menzogna del demonio per “vedere” il Padre tra le piaghe e i dolori, allora questa è la “beatitudine” vera, che non sfugge dalle mani, mai. 
 
Come quella di due fidanzati che possono sperimentare le primizie del “Regno dei Cieli” nel pudore, nella libertà, nella sincerità, nel rispetto e nella castità in cui imparano il dono reciproco, mentre sono “perseguitati a causa della giustizia” del mondo e della carne che li vorrebbe sottomettere alla dittatura del desiderio. Come quella di due sposi che, “operando la pace” donata loro da Cristo risorto nel perdono che prende su di sé il peccato dell’altro, fosse anche un tradimento, sperimentano la libertà senza limiti dei “figli di Dio” che non hanno nulla da difendere perché vivono già l’anticipo della vita celeste che è l’amore di Cristo che distrugge le barriere del peccato e della morte. 
 
Come quella di chi, “ammansiti”, cioè resi “miti” e senza pretese dinanzi alla storia e ai fratelli attraverso gli eventi dolorosi e difficili accettati perché illuminati nella Chiesa, “ereditano” in tutto e in tutti la “Terra” dove gustare il latte e il miele dell’amore e della misericordia di Dio. Allora coraggio fratelli, siamo “beati”, soprattutto quando “tutti” – anche chi ci è accanto ingannato dal demonio – ci ritengono dei “miserabili”, ovvero dei “pitocchi” e “rannicchiati per lo spavento” (secondo l’originale greco tradotto con “poveri”), cioè vigliacchi e inutili per aver creduto a Cristo e consegnato a Lui la vita. 
 
Per questo “insulteranno” noi e i nostri figli al lavoro e a scuola, e “ci perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di noi per causa” sua. Ma sarà proprio in quei momenti che gusteremo sino in fondo la “beatitudine” che sa di Paradiso, così soave da farci “esultare”, come i martiri durante il supplizio. 
 
Sì, perché la “fame di giustizia” che muove alla violenza il mondo dominato da satana e dalla sua ingiustizia, in noi è stata “saziata” dalla Giustizia di Cristo che ci ha amati così tanto da perdonarci e ricrearci in Lui; e ci ha fatto addirittura degni di assomigliargli nelle sofferenze, per ricevere nel Cielo – a cui crediamo e che attendiamo perché nella Chiesa ne stiamo pregustando l’amore – la sua stessa “ricompensa”, ovvero la vita eterna nell’eterna beatitudine. 
 
Per questo saremo “beati”, cioè “profeti” che, dalla Croce che tutti sfuggono, annunciano la Terra che tutti desiderano, il Regno preparato per ogni uomo le cui primizie risplendono in noi. Non dobbiamo far nulla, solo essere quello che siamo, rinnovati, sostenuti e guidati dalla Chiesa, entrando in questo lunedì così come si presenterà, accomodandoci all’ultimo posto, il più vicino al Cielo, dove c’è già Cristo, la nostra “beatitudine”.