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venerdì 30 settembre 2016

Credo nella resurrezione dei morti


Ci troviamo di fronte a due diverse visioni d’insieme (la concezione greca e quella biblica), che non si possono assolutamente addizionare l’una all’altra: l’idea che in esse ci si fa dell’uomo, di Dio e del futuro, sono completamente differenti, per cui in fondo ciascuna delle due visioni va considerata unicamente come un tentativo di dare una risposta totale al problema del destino umano. La concezione greca si basa sull'idea che nell'uomo risultino giustapposte due sostanze intrinsecamente estranee fra loro, di cui l'una (il corpo) è destinata a dissolversi, mentre l'altra (l'anima) è di per sé imperitura, ragion per cui di suo stesso impulso, indipendentemente da qualsiasi altro essere, continua a sussistere. Anzi, sarà proprio nella separazione dal corpo totalmente estraneo alla sua natura, che l'anima perverrà al suo stadio tipico e perfetto.
Viceversa, il pensiero biblico dà per presupposta l'inscindibile unità dell'uomo; tanto per fare un esempio, la Scrittura non conosce alcun termine che indichi soltanto il corpo (separato e distinto dall'anima), ma anzi per essa anche il solo termine ‘anima’ denota nell'assoluta maggioranza dei casi l'intero uomo, esistente pure col corpo; i pochi passi in cui si delinea una visione diversa, rimangono in certo qual modo nel vago, oscillando tra il pensiero greco e quello ebraico, senza comunque intaccare l'antica visione delle cose. La risurrezione dei morti (non dei corpi!) di cui parla la Scrittura, si riferisce quindi alla salvezza dell'unicoed indiviso uomo, non quindi soltanto ad una mera metà (magari addirittura secondaria) dello stesso. Appare adesso chiaro che il nucleo centrale della fede nella risurrezione non sta affatto nell'idea della restituzione dei corpi, alla quale l'abbiamo ridotto nel nostro modo di pensare; ciò rimane assodato, quantunque tale idea immaginifica venga correntemente usata nella Bibbia. Ma vediamo un po': qual è il vero contenuto di ciò che la Bibbia intende annunziare agli uomini mediante la cifra della risurrezione dei morti, presentandola loro come oggetto di speranza?
Ritengo che si possa enuclearlo, meglio di tutto, mettendoci a raffronto con la concezione dualistica della filosofia antica.
1. L'idea d'immortalità espressa dalla Bibbia col ribadire la risurrezione sottintende un'immortalità della persona, dell'unico impasto umano. Mentre nel mondo greco il tipico essere umano è un prodotto della disintegrazione, che come tale non sopravvive, ma per colpa della sua eterogenea costituzione composta di corpo ed anima batte due vie diverse, in base alla fede biblica è invece proprio questo essere detto uomo che continua a sussistere in quanto tale, sebbene trasfigurato.
2. Si tratta d'una immortalità ‘dialogica’ (risurrezione, richiamo alla vita!); è quanto a dire che l’immortalità non fluisce semplicemente dall'ovvia facoltà del non-poter-morire, da cui è caratterizzato quest'essere indivisibile, ma scaturisce invece dall'azione salvifica di colui che ci ama ed ha il potere di compiere anche questo: l'uomo non può sparire totalmente, perché è conosciuto ed amato da Dio. Se ogni amore anela all'eternità, l'amore di Dio non solo la brama, ma la realizza e la impersona. Ed effettivamente, il pensiero biblico della risurrezione nasce direttamente da questo motivo dialogico: chi prega, sa per via di fede che Iddio ristabilirà la giustizia (Giobbe19,25 ss.; Sal73,23 ss.); la fede è convinta che coloro i quali hanno sofferto per la causa di Dio, condivideranno anche l'adempimento della promessa (2 Macc. 7,9 ss.).
Siccome l'immortalità presentataci dalla Bibbia non proviene dal potere autonomo del soggetto di per sé indistruttibile, bensì dal suo esser incluso nel dialogo col creatore, essa deve necessariamente chiamarsi risurrezione (richiamo alla vita). Siccome poi il creatore avvince a sé non soltanto l'anima, bensì l'intero uomo che si realizza nella corporeità della storia, accordando proprio a lui l'immortalità, essa deve chiamarsi risurrezione dei morti, ossia degli uomini. Occorre far notare qui come anche nella formula usuale del nostro attuale Simbolo, che parla di «risurrezione della carne», il termine 'carne' equivalga a 'mondo degli uomini' (nel senso inteso dal linguaggio biblico, quando ci dice ad esempio: «Ogni carne vedrà la salvezza di Dio», ecc.); anche qui perciò, il termine non sottintende affatto una corporeità isolata dall'anima.
3. Il fatto che la risurrezione sia attesa per gli 'ultimissimi giorni', alla fine della storia e in compagnia di tutti gli altri uomini, dimostra il carattere profondamente umanitario della immortalità umana, la quale sta in relazione con l'umanità presa nel suo complesso, di cui, per cui e con cui il singolo individuo è vissuto, derivandone ora la beatitudine o l'eterna infelicità. In fondo, questa connessione fluisce automaticamente dal carattere genericamente umano dell'idea biblica d'immortalità. L'anima intesa alla maniera greca risulta completamente estranea al corpo, e quindi anche alla storia; essa esiste svincolata da tali ceppi, e per farlo non abbisogna di alcun altro essere. Viceversa, per l'uomo inteso come compatta unità, la vita comunitaria è costitutiva; se egli deve sopravvivere, questa dimensione della sua natura non può rimanere esclusa. Sicché, movendo dallo spunto biblico fondamentale, la dibattutissima questione se dopo la morte possa darsi una comunione vicendevole fra gli uomini appare automaticamente risolta; in definitiva, il quesito potrebbe insorgere unicamente in conseguenza d'un prevalere dell'elemento greco sull'impostazione del pensiero: quando si crede la «comunione dei santi», l'idea di 'anima separata' (di cui parla la teologia scolastica) risulta ormai superata.
Tutti questi pensieri ebbero modo di espandersi, in tutto il loro rigoglio, unicamente nella concretizzazione della speranza biblica propugnata dal Nuovo Testamento; l'Antico Testamento, preso isolatamente, lascia in sostanza il problema concernente il futuro dell'uomo del tutto in sospeso. Soltanto con Cristo, l'uomo che «forma una sola cosa col Padre», l'uomo grazie al quale la natura dell'uomo è entrata nell'eternità di Dio, l'avvenire dell'uomo si presenta definitivamente aperto. Solo in lui, nel 'secondo Adamo', quel problema costituito dall'uomo stesso s'avvia ad ottenere una risposta. Cristo è uomo, tipicamente e integralmente uomo; pertanto, è presente anche in lui il problema rappresentato da noi uomini. Egli è però al contempo anche allocuzione di Dio a noi, 'Verbo di Dio'. Il dialogo fra Dio e l'uomo, che sin dai primordi della storia va a tentoni qua e là, è entrato con lui in uno stadio nuovo: in lui, il Verbo di Dio si è fatto `carne', inserendosi realmente nella nostra esistenza. Ora, se il dialogo intavolato da Dio con l'uomo produce la vita, se è vero che l'interlocutore dialogante con Dio, appunto grazie al suo esser apostrofato da colui che vive eternamente, consegue egli stesso la vita, allora ciò significa che Cristo stesso, nella sua qualità di Verbo a noi diretto da Dio, è davvero «la risurrezione e la vita» (Gv11,25).
Ciò significa inoltre che il proiettarsi in Cristo, ossia l'aver fede, diventa in senso specifico un addentrarsi in quell'esser conosciuti ed amati da Dio stesso, che costituisce davvero l'immortalità: «Chi crede nel Figlio, ha la vita eterna» (Gv3,15 ss.; 3,36; 5,24). Solo movendo da queste posizioni, è possibile comprendere la linea di pensiero seguita dal quarto evangelista, il quale, narrandoci la vicenda di Lazzaro, vuol far intendere al lettore che il risorgere non è solo un evento ancor lontano, relegato alla fine dei tempi, bensì un fatto che grazie alla fede si verifica pure adesso. Chi crede è impegnato in un dialogo con Dio, in un colloquio che è vita ed ha ormai partita vinta sulla morte. In tal modo, vengono a coincidere fra loro anche la linea `dialogica', risalente per via diretta a Dio, e la linea comunitaria umana del pensiero biblico concernente l'immortalità. In effetti, nel Cristo fattosi uomo, noi incontriamo Dio; in lui però ritroviamo anche la comunanza con gli altri, il cui itinerario a Dio passa attraverso lui, affiancandosi quindi al nostro. La polarizzazione su Dio costituisce in lui al contempo anche una polarizzazione sulla comunità degli uomini; sicché, soltanto l'accettazione di questa nota comunitaria rappresenta davvero un accostamento a Dio, il quale per noi non esiste avulso da Cristo, e quindi nemmeno avulso dal contesto dell'intera vicenda storica umana e dei suoi compiti umanitari.
Risulta così chiarita anche la questione, assai dibattuta ai tempi dei Padri e nuovamente da Lutero in poi, del cosiddetto «stato intermedio» delle anime tra la morte e la risurrezione: l'essere uniti a Cristo, reso possibile* dalla fede, è già un'iniziale vita di risurrezione che ha ormai vinto la morte (Fil1,23; 2Cor5,8; 1Tess5,10). Il dialogo instaurato nella fede è già sin d'ora vita: una vita che non potrà mai venir troncata dalla morte. Pertanto, l'idea del sonno della morte, continuamente ribadita dai teologi luterani e recentemente rispolverata anche dal catechismo olandese, in base al Nuovo Testamento non si può affatto sostenere, e nemmeno giustificare appellandosi al frequente ricorrere del verbo 'dormire' nello stesso Nuovo Testamento. La mentalità ispiratrice del Nuovo Testamento si oppone per principio e in ogni suo scritto ad un'interpretazione del genere, che del resto, anche tenendo presente il pensiero sulla vita d'oltretomba venuto ad affermarsi nel tardo ebraismo, risulterebbe quasi del tutto incomprensibile...
Giunti a questo punto, s'affaccia alla nostra mente tutta una fitta serie di interrogativi. Il primo è il seguente: in questo modo, l'immortalità non vien forse fatta consistere in una pura grazia, benché in realtà debba spettare alla natura dell'uomo in quanto tale? O, per dirla in altri termini: non si finisce qui per approdare ad una immortalità riservata solo alle persone pie, e perciò stesso per ammettere un'inammissibile differenziazione del destino umano? Teologicamente parlando, non si scambia forse qui l'immortalità naturale della creazione umana col dono soprannaturale dell'eterno amore, che rende l'uomo beato?...
(Joseph Ratzinger - da “Introduzione al cristianesimo”, pp.287-297)

Russia. Anche il patriarca Kirill firma la petizione che chiede di vietare l'aborto in tutte le sue forme

Russia. Anche il patriarca Kirill firma la petizione che chiede di vietare l'aborto in tutte le sue forme

“La fine dell’uccisione legale di bambini non nati”. La chiede la Commissione sulla famiglia e la protezione della maternità e dell’infanzia della Chiesa ortodossa russa.

Ieri, 27 settembre, è giunta la firma del patriarca di Mosca Kirill sulla petizione che “richiede modifiche legislative” per vietare l’aborto chirurgico e medico nonché la pillola del giorno dopo.

“Noi, cittadini della Federazione Russa, siamo per la cessazione esistente nel nostro Paese della pratica legale dell’uccisione di bambini prima della nascita e richiediamo l’inserimento di modifiche nella legislazione”, si legge nel documento.

Nel maggio scorso Kirill aveva definito l’aborto “una vera e propria catastrofe nazionale che prende la vita di oltre un milione di nostri concittadini ogni anno”. Attualmente la Chiesa ortodossa russa gestisce nel Paese 29 centri di assistenza per donne incinte che si trovano in difficoltà. Nel 2015 oltre 5,5 milioni di donne hanno ricevuto aiuto in questi luoghi.

La petizione ha raccolto più di 300mila firme, ha informato uno dei suoi promotori, il leader del Movimento per la Vita russo, Sergei Chesnokov, su Facebook. Egli ha affermato che l’obiettivo è quello di ottenere un milione di adesioni.
LO SPOSO INNAMORATO NON SI ARRENDE DINANZI ALLA CADUTA DELLA SPOSA E LA RAGGIUNGE PER CONDURLA CON SE' NELL'AMORE
Dio è da sempre innamorato di noi, la sua opera più «bella». Eppure non ci basta. Soffocati dalla superbia come Lucifero, l'angelo «perfetto in bellezza» che ci ha ingannati, rifiutando il Figlio di Dio precipitiamo anche noi lontano dall'amore di Dio. Così, nella storia di ogni giorno, il molto bello diventa il molto brutto. Corazin e Betsaida sono le nostre storie ricche di miracoli; Cafarnao è la nostra città, dove il Signore abita con noi in chi ci è accanto; rifiutando perversamente il Creatore, le nostre giornate e i nostri luoghi scendono nella morte. Il «disprezzo» della Grazia infatti, conduce sempre a cadere rovinosamente nei peccati. Abbiamo giudicato un fratello, nonostante la Parola e il soffio dello Spirito Santo ci abbiano suggerito di scusare e pensar bene? Siamo già precipitati negli inferi della lussuria. Sidone e Tiro, città pagane lontane da Dio, sono invece immagine di quanti, umiliati dai propri peccati, attendono con ansia un amore che li tratti «meno duramente» della giustizia del mondo. All'annuncio del Vangelo esse si convertirebbero senza indugio accogliendo la misericordia di Dio, perché il suo giudizio d'amore ha inizio proprio con la predicazione. E Dio non si arrende mai, con nessuno. Innamorato perdutamente, con i suoi «guai» profetici ci apre gli occhi sulla «cenere» in cui è ridotta la nostra vita, per suscitare in noi l'umile attesa del suo perdono. Anche ora Gesù è alla porta e bussa, come lo Sposo del Cantico dei cantici. E' coperto della rugiada del mattino, il mantello di misericordia di cui la resurrezione lo ha avvolto. Il Cielo si gioca sulla soglia del cuore. Basta pochissimo, una fessura non più grande della cruna di un agol'umiltà di chi ha già sofferto abbastanza, anche solo il desiderio di desiderarlo, e la nostra vita tornerà ad essere l'opera più bella di Dio, tanto bella da divenire la sua immagine somigliante, Gesù incarnato e annunciato in noi. Sposi per sempre nel suo amore.




QUI IL COMMENTO COMPLETO E GLI APPROFONDIMENTI


giovedì 29 settembre 2016



COME ANGELI CHIAMATI A VEDERE IL CIELO APERTO DEL NOSTRO DESTINO DALLE FERITE DELLA NOSTRA CARNE


Vedere il cielo aperto è il desiderio più intimo di ogni uomo. Anche a noi oggi, così simili a Giacobbe in quella notte di angoscia, impaurito, solo, ramingo e in fuga dalla storia, appare una scala. È la Croce di Cristo, ben piantata nella nostra vita e che ci schiude il Cielo, garanzia di un fondamento sicuro e di un orizzonte certo. La storia non scorre senza senso, ma "guarda" in alto; ogni avvenimento è "contemporaneo" del Cielo, mentre lo viviamo qui sulla terra è "trascritto" lassù come una primizia della vita beata. Per questo Gesù ci dice che vedremo cose "più grandi": non dobbiamo cercarle chissà dove, esse sono le nostre cose di ogni giorno, impregnate dell'amore di Dio che le strappa alla corruzione e le incastona come gemme nel Cielo. Non manca nulla alla nostra vita. Potremmo morire ora, sazi di giorni e di beni, esattamente come siamo e con quello che abbiamo vissuto, perché Lui, come con Natanaele, ci ha "conosciuto" da sempre, e solo lui ci ha "visto" senza malizia anche se peccatori, in uno sguardo di eterna misericordia che tutto riveste di santità. Ogni cosa che ci appartiene infatti è un frammento di Cielo, una primizia di quella che sarà la vita beata nella sua intimità. E, con la fede che Dio ci dona nella Chiesa, possiamo vedere ora, in questo istante, che tutto è già compiuto: non manca nulla a nessun secondo della nostra vita. Potremmo morire ora, in questo istante, sazi di giorni e di beni, esattamente come siamo e con quello che abbiamo vissuto. Anche se ci sembra di non aver concluso nulla, di essere ancora dispersi nella precarietà degli affetti, del lavoro, della salute: in Lui ogni lembo di terra che calpestiamo è uno spicchio di Cielo, ogni fallimento diviene un successo, ogni debolezza una forza da trasportare le montagne, ogni morte è trasformata in vita. La fede ci apre gli occhi sulla grandezza della nostra vita, perché in essa è stata deposta la scala che svela il destino autentico, la comunione e l'intimità con Colui che è disceso dal Cielo per raggiungere il nostro presente e, attraverso la Parola e i sacramenti, farlo contemporaneo del Cielo, per prenderci ora, e sederci accanto a Lui alla destra del Padre. 

Non c'è bisogno di sforzarsi e inventarsi cose speciali; non si tratta di esperienze da mozzare il fiato. La "cosa più grande", infatti, è restare nella volontà di Dio. Giacobbe dormiva quando ha contemplato il Cielo aperto, Natanaele era seduto sotto il fico quando è stato visto da Gesù. L'incontro tra questi due sguardi che uniscono il Cielo alla terra si dà quindi nella semplicità della gratuità. Quando si entra nei fatti concreti e forse insignificanti della propria storia. Perché il miracolo più grande è vivere in pienezza, come un pezzo di Cielo le cose che ci umiliano, i momenti in cui ci sembra di sprecare la vita, senza sussulti. E' più grande stare nel Getsemani con Gesù e offrirsi con Lui al Padre mentre vorremmo altro, che qualsiasi altra cosa. E' più grande restare crocifissi in una situazione, o un tempo di aridità, di grigiore e impotenza che qualunque altro servizio si potrebbe fare. E' la cosa più grande perché solo chi ha scoperto che Gesù, nonostante i propri peccati, lo ha visto senza malizia, può adagiarsi in pace nella storia crocifissa che la carne rifiuta.E' questa la notizia che gli Arcangeli annunciano salendo e scendendo la scala del Cielo. La loro missione definisce quella della Chiesa, e anticamente i vescovi erano chiamati angeli. Come Michele, per combattere il drago e distruggere le sue menzogne; come Gabriele, per annunciare la notizia che Dio si è fatto carne per salvare ogni carne; come Raffaele, per sanare ogni rapporto nella comunione strappata alla concupiscenza. Anche noi siamo chiamati ad essere angeli che mettono a disposizione la propria carne perché Cristo giunga sulla soglia di ogni uomo; come quella di Santo Stefano, consegnata alla tempesta di pietre dei nemici, mentre il suo volto diveniva proprio come quello di un angelo, sul quale risplendeva la bellezza dell'amore di Cristo. Come sul nostro, mentre consegniamo la vita e perdoniamo, nel martirio quotidiano che offre a tutti la scala che conduce al paradiso. Nell'iconografia Gesù è raffigurato anche mentre sale su una scala per lasciarsi crocifiggere; la Chiesa suo corpo vive allo stesso modo: contemplando la scala che giunge sino al Cielo, vi sale ogni giorno per distendere le braccia dei suoi figli sulla Croce. Nel marito che sale questa scala per la moglie, nella madre che vi ascende per accogliere suo figlio, in ogni cristiano che vive amando così Dio si fa prossimo ad ogni sofferenza, prende carne umana per far santa ogni vita. 
Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno,
papa 
(Om. 34, 8-9; PL 76, 1250-1251)
 
L’appellativo «angelo» designa l’ufficio,
non la natura
 
   È da sapere che il termine «angelo» denota l’ufficio, non la natura. Infatti quei santi spiriti della patria celeste sono sempre spiriti, ma non si possono chiamare sempre angeli, poiché solo allora sono angeli, quando per mezzo loro viene dato un annunzio. Quelli che recano annunzi ordinari sono detti angeli, quelli invece che annunziano i più grandi eventi son chiamati arcangeli.
   Per questo alla Vergine Maria non viene inviato un angelo qualsiasi, ma l’arcangelo Gabriele. Era ben giusto, infatti, che per questa missione fosse inviato un angelo tra i maggiori, per recare il più grande degli annunzi.
   A essi vengono attribuiti nomi particolari, perché anche dal modo di chiamarli appaia quale tipo di ministero è loro affidato. Nella santa città del cielo, resa perfetta dalla piena conoscenza che scaturisce dalla visione di Dio onnipotente, gli angeli non hanno nomi particolari, che contraddistinguano le loro persone. Ma quando vengono a noi per qualche missione, prendono anche il nome dall’ufficio che esercitano.
   Così Michele significa: Chi è come Dio?, Gabriele: Fortezza di Dio, e Raffaele: Medicina di Dio.
   Quando deve compiersi qualcosa che richiede grande coraggio e forza, si dice che è mandato Michele, perché si possa comprendere, dall’azione e dal nome, che nessuno può agire come Dio. L’antico avversario che bramò, nella sua superbia, di essere simile a Dio, dicendo: Salirò in cielo (cfr. Is 14, 13-14), sulle stelle di Dio innalzerò il trono, mi farò uguale all’Altissimo, alla fine del mondo sarà abbandonato a se stesso e condannato all’estremo supplizio. Orbene egli viene presentato in atto di combattere con l’arcangelo Michele, come è detto da Giovanni: «Scoppiò una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago» (Ap 12, 7).
   A Maria è mandato Gabriele, che è chiamato Fortezza di Dio; egli veniva ad annunziare colui che si degnò di apparire nell’umiltà per debellare le potenze maligne dell’aria. Doveva dunque essere annunziato da «Fortezza di Dio» colui che veniva quale Signore degli eserciti e forte guerriero.
   Raffaele, come abbiamo detto, significa Medicina di Dio. Egli infatti toccò gli occhi di Tobia, quasi in atto di medicarli, e dissipò le tenebre della sua cecità. Fu giusto dunque che venisse chiamato «Medicina di Dio» colui che venne inviato a operare guarigioni.

mercoledì 28 settembre 2016

Stereotipi, omofobia e attacchi al Family Day Il corso gender lo offrono Diocesi e Azione Cattolica

                     
    
di Luca Paci                          28-09-2016
Caleidoscopio di Missoni, l'immagine scelta per il corso gender     

Corsi di formazione all’educazione di genere rivolti a insegnanti di ogni ordine e grado per sensibilizzare gli studenti alla lotta alle discriminazioni, all’omofobia e agli stereotipi. Non è l’iniziativa di qualche zelante direzione didattica territoriale che anticipa le linee guida del Ministero dell’Istruzione in uscita ad ottobre, ma il progetto condotto dall’Azione Cattolica pugliese e dall’Ufficio per la Pastorale della Famiglia della Diocesi di Molfetta – Ruvo di Puglia – Giovinazzo – Terlizzi in collaborazione con l’Ufficio per la Pastorale Scolastica.
L’evento è stato segnalato alla Nuova BQ da Generazione famiglia, una delle associazioni protagoniste del Familiy Day che ha seguito la vicenda denunciando più volte tutti i rischi connessi ad una proposta di questo tipo.
Concretamente il corso dal titoloL’Educazione di genere come contributo alla costruzione dell’Identità’ si articolerà come segue: venerdì prossimo ci sarà un incontro pubblico di presentazione. Poi, seguiranno 5 incontri (nel secondo e nel terzo ci saranno una serie di laboratori) della durata di tre ore l’uno, tenuti da diversi professionisti, alcuni dei quali molto noti nell’ambito degli studi di genere e già convolti in eventi e progetti sostenuti dall’attivismo del mondo lgbt.
Basta dare un’occhiata alla locandina dell’evento di presentazione per farsi un’idea dell’impostazione ideologica che sottenderà il percorso di formazione offerto a 120 professori. Anzitutto salta agli occhi la foto al centro del manifesto (tratta dalla mostra Caleidoscopio di Missoni a Gorizia ndr) che ritrae manichini arcobaleno senza volto, dalle sembianze disarticolate e dai tratti indefiniti, con arti e protuberanze che escono dalla testa e altre parti del corpo. In altre parole una massa informe che può essere modellata a piacimento.
La sfortunata scelta stilistica colpisce meno però dei nomi che appaiono nel parterre dei relatori. Se si esclude il vescovo di Molfetta, mons. Domenico Cornacchia (che però nella serata di ieri con la Nuova BQ ha annunciato che non ci sarà ndr) e il dirigente scolastico provinciale, Vincenzo Melilli; è possibile ascrivere gli altri oratori nell’alveo delle correnti ideologiche che hanno una visione dell’antropologia umana e della famiglia agli antipodi rispetto a quella promossa dalla Dottrina sociale della Chiesa. Esperti di segno opposto per dare vita ad un contradditorio equilibrato non sono infatti al momento segnalati.
La giornata di apertura di venerdì prossimo vedrà seduti al fianco al presule Rosangela (detta Rosy) Paparella, Garante Regionale Diritti dei Minori della Puglia e Vanda Vitone, vicepresidente dell’Ordine degli psicologi della Puglia. Per quanto riguarda la prima non sono un mistero il suo impegno in favore dei diritti lgbt e le sue posizioni sull’omogenitorialità: la Paparella ha infatti partecipato come relatrice al ‘Bari Pride Week’ e al ‘Festival delle donne e dei saperi di genere’.
Altrettanto note sono le argomentazioni psico-pedagogiche della Vitone: nel giorno dell’adesione della Puglia alla rete Ready l’ordine degli psicologi della regione pubblicò una nota in cui si affermava che “il sesso è determinato alla nascita, il genere è invece un costrutto socio-culturale che varia a seconda dell’epoca e della cultura in cui viviamo e delle regole sociali. L’identità di genere è la percezione che l’individuo ha di sé come uomo o donna; a volte non coincide con il sesso”.
In un video che è possibile rintracciare su Youtube la Vitone arriva perfino ad affermare che essere cresciti da una coppia di genitori omosessuali non ha alcuna differenza con l’essere figli di una mamma e di un papa. La psicologa sostiene che eventuali criticità sono dovute solo al contesto e all’ambiente di vita, “ovvero ai pregiudizi o a un’omofobia interiorizzata”. Insomma stiamo parlando di tesi assolutamente relativiste, che annullano il dato biologico e ogni diritto del bambino ad avere un padre e da una madre. Ragionamenti che forniscono pericolose giustificazioni ad aberranti pratiche come l’utero in affitto, recentemente condannate anche dal Consiglio d’Europa.
Nelle tavole rotonde che accompagneranno i cinque incontri formativi si legge anche il nome di Rita Torti, formatrice nel campo degli studi di genere e autrice del libro ‘Mamma perché Dio è maschio?’, testo in cui dice che essere maschi e femmine dipende più dai ruoli che ci sono stati assegnati fin dalla nascita che dalle differenze biologiche.
D’altra parte gli scopi del corso sono ben evidenziati in un recente articolo del giornalino diocesano ‘Luce e vita’, in cui si spiega che “manifestazioni di piazza e minacciosi tam-tam sono solo slogan mistificatori”, con chiaro riferimenti ai Family Day, “nell’assoluta mancanza di conoscenza degli studi di genere”. Per questo motivo – riferisce l’articolo della testata diocesana – il corso farà chiarezza su temi quali l’identità di genere, i diritti delle persone omosessuali, il disagio in quanti non si riconoscono nella propria identità sessuale, la questione femminile e il “diritto al figlio”.
Insomma con la solita nobile scusa della lotta ad ogni forma di violenza, discriminazione e pregiudizio si rischia di mettere tutto nel calderone facendo emergere teorie che mostrano anche la famiglia naturale e la procreazione che necessita di due persone di sesso opposto come stereotipi e vincoli culturali da abbattere per arrivare alla piena uguaglianza.
Visti i presupposti sarà quindi necessario che il vescovo faccia subito chiarezza circa le tematiche che saranno trattate e i contenuti che saranno veicolati in questo corso di formazione. Papa Francesco, che ha fondato tutto il suo magistero sulla misericordia divina e l’accoglienza delle “famiglie ferite”, sul gender non ha mai lasciato alcuno spiraglio a fraintendimenti e aperture di ogni sorta: è una nuova forma di “colonizzazione ideologica” ha sempre affermato il Pontefice in numerose occasioni sia pubbliche che private. Il monito contro le ideologie tese a destrutturare l’identità sessuata dei bambini e la stessa antropologia umana è stato ribadito da Francesco appena due mesi fa a Cracovia, nell’incontro in cattedrale del 27 luglio con i vescovi polacchi.
Non esiste quindi un educazione di genere buona e una cattiva, una radicale e una moderata, come potrebbe lasciare intendere il titolo dell’evento (‘L’Educazione di genere come contributo alla costruzione dell’Identità’).
Insomma anche nella Chiesa di Francesco immaginata come “un grande ospedale da campo dopo una battaglia” non c’è spazio alcuno per chi vuole promuove teorie tese alle rieducazione dei bambini con metodi che lo stesso Papa ha definito da “Gioventù Hitleriana” durante la conferenza stampa di ritorno al viaggio nelle Filippine nel gennaio 2015.
A giudicare dal tenore dell’evento organizzato dalla Chiesa pugliese viene da chiedersi se il vescovo di Molfetta non sia effettivamente consapevole dell’identità professionale dei relatori e della loro chiara impostazione ideologica. “Siamo abituati a fronteggiare la colonizzazione ideologica del gender ma che sia sponsorizzata anche da alcuni ambienti della Chiesa questo ci riempie di amarezza”, commenta il portavoce di Generazione Famiglia, Filippo Savarese, che assicura la presenza di delegati del movimento alla giornata di venerdì e il monitoraggio costante dell’iniziativa per i prossimi appuntamenti.
Polonia, primo "sì" in Parlamento contro l'aborto
                    
    
di Ermes Dovico                             27-09-2016
Polonia, stop aborto   

L’identità cristiana della Polonia, sopravvissuta a mezzo secolo di regime comunista e oggi costretta a respingere pressioni internazionali di ogni sorta (dall’Ue all’Onu) e rispondere a vere e proprie campagne di disinformazione, potrebbe far segnare una straordinaria inversione di tendenza sul fronte dei diritti del bambino, proteggendone realmente la vita fin dal concepimento. Con 267 voti a favore e 154 contrari, il parlamento polacco ha infatti pronunciato il suo primo “sì” per approvare una proposta di iniziativa popolare, firmata da 450 mila cittadini e chiamata “Stop Aborcji”, che punta a modificare la legge del 1993 e affermare il principio che l’aborto volontario è un reato senza eccezioni. Tutto parte quindi da una mobilitazione dal basso, che ha visto il coinvolgimento di associazioni, movimenti e centinaia di migliaia di persone, a cui si è andato presto ad aggiungere il deciso sostegno della Chiesa polacca.
Secondo le norme vigenti, in Polonia l’aborto è legale in caso di stupro, incesto, pericolo per la salute e la vita della madre e gravi malformazioni del feto, sebbene nella pratica non siano mancati gli abusi rispetto a questi “paletti” normativi, dal momento che sono stati abortiti anche bambini con handicap o sindrome di Down. Tant’è che la mobilitazione dei cittadini a difesa della vita è diventata inarrestabile da marzo in poi, in seguito al dramma di un bambino lasciato morire, tra urla e pianti, sul tavolo di una sala operatoria dopo che era sopravvissuto a un tentativo di aborto alla ventitreesima settimana.
Ma dicevamo della disinformazione, veicolata dalla stampa di sinistra contraria al governo guidato da Beata Szydlo e spacciata per buona da diversi media internazionali, secondo cui con la nuova proposta di legge la donna che subisce un aborto spontaneo rischierebbe il carcere (falso) e i medici non potrebbero più salvaguardare la vita della madre in caso di pericolo (falso). In realtà, la bozza di riforma, che sarà adesso analizzata dalle apposite commissioni parlamentari, stabilisce che chiunque causi un aborto può essere imprigionato da tre mesi a tre anni, ma si precisa che i dottori non sono responsabili qualora cerchino di salvare la vita della madre e il loro intervento provochi involontariamente la morte del bambino. Nei confronti della madre che abortisce intenzionalmente, il tribunale può decidere di mitigare la pena o anche assolverla del tutto, e viene inoltre prevista assistenza materiale per i bambini che nascono con una malattia grave.
Nello stesso giorno in cui ha votato a favore di “Stop Aborcji”, la Camera bassa polacca ha respinto con 230 voti contro 173 un’iniziativa popolare di opposto tenore, firmata da 215 mila cittadini e intitolata “Save Women”, che avrebbe allargato ulteriormente le maglie dell’aborto, consentendolo fino alla ventiquattresima settimana nel caso di malformazioni (eppure, dalle evidenze mediche risulta che il bambino sarebbe già capace di vita autonoma dopo 18-20 settimane). Un risultato politico significativo, se si pensa che non ci sono state imposizioni di partito e i singoli parlamentari sono stati lasciati liberi di votare secondo coscienza.

Ciò nonostante, i leader del partito di maggioranza Diritto e Giustizia, dalla premier Beata Szydlo al fondatore Jaroslaw Kaczynski, non si sono nascosti e hanno manifestato apertamente il loro sostegno alla proposta di legge («vogliamo distanziarci dal comodo mainstream dell’Europa secolarizzata. È la promessa fatta agli elettori: ritorno alle tradizioni cristiane», si leggeva in un comunicato in primavera), che secondo un recente sondaggio ha l’appoggio del 58% dei polacchi.
Nell’iniziativa a difesa della vita si sono impegnate diverse donne della società civile, come la docente di Diritto Joanna Banasiuk e la direttrice di Human Life International, Ewa Kowalewska, secondo la quale «la battaglia adesso sarà quella di aiutare il popolo polacco a capire gli attacchi che arriveranno dall’Unione europea, dalle ong e dai media finanziati da George Soros. È risaputo che Soros ha versato milioni per salvare dalla bancarotta giornali di sinistra e che finanzia l’opposizione radicale alle iniziative pro-life». Benché la maggioranza dei polacchi sia contraria all’aborto, la Kowalewska nota che la propaganda dei gruppi finanziati da Soros sta avendo successo, specialmente tra i giovani. Eppure, «la Polonia ha un eccellente sistema di cura per la salute materna; le nostre percentuali di mortalità materna sono tra le più basse d’Europa nonostante abbiamo – anzi, proprio perché abbiamo – forti restrizioni sull’aborto: per questo il messaggio che vogliono far passare gli abortisti con la campagna “Save Women” è estremamente disonesto».
Di certo, se la proposta di legge passerà, come fa sperare l’ampio margine parlamentare con cui è stata trasmessa alle commissioni, parte del merito andrà ascritto alla Conferenza episcopale polacca, che ha esercitato con chiarezza il proprio ruolo, esortando ad aprile i sacerdoti a leggere in chiesa una dichiarazione a supporto dell’iniziativa popolare, in cui si ribadiva il Magistero di sempre: «La posizione della Chiesa cattolica - si legge nella dichiarazione dei vescovi -  è chiara e immutabile. Bisogna che ciascuno protegga la vita di ogni persona, dal concepimento alla morte naturale».
Il modello Polonia insegna insomma che la teoria del piano inclinato, secondo cui una volta che per via legislativa viene aperto uno spiraglio al male si scivolerà lentamente verso il baratro, può essere ribaltata con una forte e sana partecipazione dei laici, una classe politica responsabile e pronta ad accogliere le istanze dal basso, e una Chiesa che non abdica alla sua funzione di guida dei fedeli.
FIGLI SALVATI E CHIAMATI A SEGUIRE IL FIGLIO SUL CAMMINO CHE SALVA E CHIAMA OGNI FIGLIO PERDUTO



Con il volto duro del Servo, Gesù cammina sulla strada che lo conduce alla tomba dove è precipitato il figlio prodigo. Non c'è tempo, deve tirarlo fuori da quella disperazione che può diventare, da un momento all'altro, dannazione eterna, esilio senza fine. Gesù, infatti, è il Figlio "adatto", letteralmente "ben messo" per il Paradiso, inviato dal Padre a tutti quelli che, come il figlio minore della famosa parabola, hanno abbandonato la sua casa. Ingannati dalla menzogna del demonio che li ha fatti credere "ben messi" per altre dimore, non hanno ritenuto "adatto" a loro il Regno dei Cieli; ma hanno dovuto sperimentare di "non poter reclinare il capo" in nessun luogo: le "tane" dell'astuzia e della malizia umana e i "nidi" delle sicurezze pagane e dei criteri mondani si sono rivelate dimore inospitali, trasformandosi ben presto in tombe dove i "morti" che non hanno risposte per il male, il peccato e la morte, "seppelliscono i loro morti", e quindi anche il figlio prodigo. Un pochino come accaduto a Pinocchio, finito nella pancia della balena... Ma il Padre non ha mai smesso di seguire quel suo figlio che si stava perdendo; la compassione irrefrenabile per ogni uomo che ha creato nella libertà e nella libertà si è allontanato, si è fatta carne nel Figlio Unigenito - cuore del suo cuore, occhi dei suoi occhi, mani delle sue mani, piedi dei suoi piedi - inviato a camminare sulle sue tracce per raggiungerlo con l'amore capace di farlo rientrare in se stesso. Per questo il brano del Vangelo di oggi descrive innanzitutto il cammino d'amore di Dio alla ricerca della pecora perduta, che ciascuno di noi, raggiunto e issato sulle sue spalle, è chiamato a percorrere con la Chiesa. Il discepolo, infatti, è Cristo stesso che, in ogni generazione, corre verso l'umanità schiava del peccato e della morte. Ascolta le parole del Vangelo e scoprirai di essere l'unica priorità di Gesù; per salvarti non ha ritenuto il suo essere Figlio di Dio, una preda gelosa da difendere, ma si è svuotato di tutto sino a reclinare il capo sulla stessa Croce dove, tuo malgrado, la storia ti ha inchiodato. Nel Getsemani ha preferito te a se stesso, il calice amaro dei tuoi peccati piuttosto che la coppa dolce dell'intimità con il Padre; si è lasciato seppellire nella tomba dove i falsi profeti a cui hai dato ascolto ti hanno tumulato. 


La vita di Gesù è stata dunque il cammino deciso e senza compromessi dell'amore infinito del Padre per ogni figlio perduto e morto; l'amore deposto accanto a ciascuno di loro, a te e a me, per farci convertire, tornare cioè in quella parte di noi incorrotta dove la misericordia desta la nostalgia per l'unica casa per la quale siamo "adatti". In questa luce comprendiamo allora come le tre persone che appaiono oggi accanto a Gesù lungo la strada, sono in fondo l'unico figlio raggiunto su quella via e salvato dalla morte. Ovvi allora l'entusiasmo e la gratitudine che generano il desiderio di seguire il Signore, di stare "appiccicati" a Lui. Ma questo desiderio ha bisogno di purificazione, come quello di Pietro che, sedotto da Gesù, si era detto pronto a morire con Lui. No fratelli, è Lui che ci chiama a seguirlo perché ogni giorno scende nella nostra realtà dove non abbiamo da mangiare neanche il cibo dei porci, seppelliti nelle tane fetide dei peccati dai maestri e dagli idoli "morti" di questo mondo. Seguire Gesù è, infatti, uscire ogni giorno dietro a Lui dal sepolcro, imparando a non guardare a noi stessi e al nostro passato, illudendoci di poter "congedarci" in modo soft da persone e cose. Il discepolo è l'uomo della Pasqua, non può che nutrirsi del pane della fretta, non ha luogo dove riposare; è attratto in un esodo che lo strappa alla schiavitù con un popolo che mostrerà al mondo il destino di libertà preparato per ogni uomo. Per questo si lascia alle spalle gli Egiziani, non ha tempo per guardarsi indietro come fece la moglie di Lot: con Cristo si risuscita e basta, senza guardare Sodoma che ci ha distrutto la vita. Dagli i tuoi peccati, come disse Gesù a San Girolamo, senza tenerne neanche uno per te; diventerebbe un seme di nostalgia che ti spingerebbe a guardare al passato con rammarico per la morte lasciata alle spalle, e resteresti pietrificato in una statua di sale, a mezza strada tra sepolcro e resurrezione. Gesù ci ha raggiunti e, come Elia con Eliseo, ha steso il lembo del suo mantello di misericordia che ha dissolto le opere morte per rivestirci di se stesso. Anche oggi Gesù viene a liberarci, e proprio questo fa di noi i suoi discepoli: la nostra missione, infatti, è fondata sul suo amore gratuito, e si realizza seguendo il Signore sul cammino di conversione che ci riporta a casa. Questa via è, nello stesso tempo, quella che ci conduce a coloro ai quali siamo inviati, a casa, al lavoro, ovunque. La nostra conversione - ovvero il nostro seguire Gesù - fa dell'altro e della sua salvezza la nostra priorità, ci libera dalle sicurezze e dai ricorsi mondani, per reclinare con Lui il nostro capo sulla Croce che ci fa tutto a tutti, la croce di tuo figlio..., per annunciare la Buona Notizia del Regno di Dio preparato per ogni uomo. 

martedì 27 settembre 2016

LA RIVELAZIONE E' CRISTO STESSO. EGLI E' IL LOGOS, LA PAROLA CHE ABBRACCIA OGNI COSA...
...Questa impressione - che il cristianesimo sia essenzialmente una religione del passato, per la quale soltanto il passato sarebbe normativo, talché il presente e l'avvenire rimangono come incatenati a quel passato - è andata sempre più radicandosi tra i contemporanei, contribuendo al loro distacco dal cristianesimo, a motivo di un falso concetto della rivelazione e della sua conclusione con la morte dell'ultimo apostolo.
A voler interpretare la rivelazione come una serie di comunicazioni soprannaturali avvenute durante l'esistenza di Gesù e definitivamente esaurite con la scomparsa degli apostoli, la fede sarebbe di fatto da intendersi come una costruzione concettuale irrimediabilmente vincolata al passato. Ma questa visione storicistica e intellettualistica della rivelazione, stabilitasi progressivamente in epoca moderna, è del tutto errata. La rivelazione non consiste in una serie di affermazioni: la rivelazione è Cristo stesso. Egli è il Logos, la Parola che abbraccia ogni cosa. E poiché Dio esprime tutto se stesso in questa Parola, noi la chiamiamo Figlio di Dio. Quest'unico Logos si è comunicato a noi con parole normative, nelle quali egli manifesta tutto se stesso.
Ma "la" Parola rimane superiore a tutte "le" parole, e queste non possono esaurirla. E tuttavia le parole partecipano all'inesauribilità della Parola, si dischiudono a partire da essa e, si potrebbe dire, crescono col succedersi delle generazioni...
JOSEPH RATZINGER - da "In cammino verso Gesù Cristo"
La Terza guerra mondiale è quella contro la vita
                    
    
di Riccardo Cascioli                             27-09-2016
Hillary Clinton al Summit di Copenhagen

Era il febbraio 1995, dal palco della Conferenza Internazionale dell’ONU sullo sviluppo sociale, a Copenhagen, l’allora first lady americana Hillary Clinton arringava la platea dei delegati invocando il diritto all’aborto “raro, legale, sicuro”. Non era certo una posizione nuova e già pochi mesi prima alla Conferenza del Cairo si era tentato di inserire l’aborto tra i mezzi consigliati di controllo delle nascite.

Ma il pulpito da cui partiva l’appello e l’autorità di chi lo lanciava imprimeva oggettivamente una forza che non poteva passare inosservata. A 21 anni di distanza appare chiaro che quel discorso non era un semplice esercizio di retorica, ma l’esplicitazione di una priorità politica per gli Stati Uniti che era destinata a incidere profondamente sulla realtà di molte popolazioni. Al punto che se vogliamo usare l’espressione “Terza guerra mondiale”, questa andrebbe meglio applicata alla guerra contro la vita che si combatte senza quartiere in tutto il mondo, con un bilancio annuale di 50 milioni di vittime: tanti sono gli aborti che vengono praticati. Nessun'altra guerra è mai stata più cruenta e più globale di questa.
Non a caso Santa Madre Teresa di Calcutta affermò che l’aborto è il più grande distruttore della pace. Ma si sa cosa succede con i santi: se ne esalta un aspetto, più gradito al mondo, e si “dimentica” tutto ciò che potrebbe apparire più fastidioso per il mondo stesso.
Ad ogni modo la guerra viene combattuta su più fronti: il primo e immediato è quello dell’attacco alle legislazioni dei paesi che ancora vietano l’aborto, in toto o con qualche eccezione. Nel mirino sono soprattutto i paesi latino-americani, ma come vediamo anche dalla cronaca di questi giorni, anche in Europa non si scherza: ciò che è avvenuto nel fine settimana per l’Irlanda, con manifestazioni in tutto il mondo a sostegno della richiesta di un referendum costituzionale, è perfino inquietante. Anche la Polonia è nel mirino, e non passa sessione degli organismi Onu a Ginevra che non contempli una condanna per Varsavia. Qui però il popolo sta reagendo, sono state raccolte centinaia di migliaia di firme per la presentazione di un progetto di legge che reintroduce il reato di aborto procurato.
Irlanda e Polonia, conosciute come terre di solida tradizione cattolica, hanno un forte valore simbolico e questo spiega le risorse che la lobby abortista investe per sovvertirne la legislazione. Del resto basta ricordare il modo in cui nel mondo è stato accolto il voto del referendum irlandese che sanciva il riconoscimento dei matrimoni gay.
L’altro fronte è quello dell’obiezione di coscienza, un istituto che si vorrebbe cancellare, anche qui a suon di sentenze e ricorsi presso i tribunali internazionali. Per chi pretende che l’aborto sia una cosa doverosa e comunque scontata, è ovvio il fastidio che provoca una posizione di obiezione di coscienza: essa indica che nella pratica in questione c’è almeno qualcosa di moralmente discutibile, di non normale. È un pensiero intollerabile per chi vuole imporre un sistema di pensiero unico.
A sostegno dell’eliminazione dell’obiezione di coscienza dalle rispettive legislazioni nel mondo, sta anche un altro fronte, ovvero quello della rivendicazione di un presunto “diritto all’aborto”, da annoverarsi fra i diritti fondamentali dell’uomo. In questo stanno giocando un ruolo di primo piano non solo le agenzie dell’ONU ma anche note organizzazioni umanitarie (il caso più clamoroso è senz’altro quello di Amnesty International).
Almeno un altro fronte va sottolineato, è quello della propaganda eco-catastrofista. Riuscire a convincere dell’esistenza di una emergenza climatica, per esempio, rende più accettabile la sospensione di alcune libertà e garanzie personali. Ma soprattutto fa passare l’idea che una eccessiva popolazione – ed eccessivamente consumistica - porti alla distruzione dell’ambiente, della Terra. È la vecchia idea malthusiana delle risorse insufficienti per una popolazione in crescita che ritorna. «La popolazione inquina» fu un fortunato slogan degli anni ’70 che aiutò enormemente la crescita dei movimenti ecologisti. Ma oggi è sostituito da un messaggio ancora più diretto: «Più persone, più emissioni di anidride carbonica».
Non c’è nulla lasciato al caso in questa guerra; non è lo spirito dei tempi che conduce ineluttabilmente a queste conseguenze, ma una precisa politica perseguita sistematicamente e tenacemente, da un potere che non è riconducibile agli interessi e alle azioni di un singolo Stato.
San Giovanni Paolo II chiamava tutto questo “cultura della morte”, cui va opposta la “cultura della vita”, due categorie che però sono state abbandonate, chissà perché. Di sicuro, così facendo – ovvero perdendo le reali dimensioni della posta in gioco - si rende ancora più debole la posizione di chi in questa guerra mondiale è dalla parte della difesa della vita umana.

IL RIFIUTO CHE CI APRE LE PORTE DELLA MISERICORDIA 
L'amore autentico desidera il bene dell'amato, per questo conosce il dolore del rifiuto. Chi ama, infatti, è libero e lascia liberi: accetta che l'altro non lo accolga. Ma qui cominciano i problemi. Anche se sposati da tanti anni, anche se i nostri figli sono ormai adolescenti e maggiorenni, anche se conosciamo i fratelli delle nostre comunità da molto tempo, ci ricadiamo sempre. E' più forte di noi, non tolleriamo che l'altro non ci capisca, non ci ascolti, e ci rifiuti. Quante liti, quante settimane di musi e silenzi; quante crisi e frustrazioni... E vorremmo poter "dire che scenda un fuoco dal Cielo e distrugga" il male, le idee diverse, la freddezza e le incomprensioni degli altri. Fraintendiamo il segno di Elia, che non ha bruciato gli idoli per vincere una partita con i profeti di Baal, ma per annunciare che esiste un solo Dio che ama l'uomo, risponde al suo grido e si fa carico delle sue vicende. 

E restiamo sordi all'annuncio di questo amore. Rifiutiamo la pretesa della Croce di essere l'unico "luogo" dove fare giustizia della menzogna del demonio e dove incontrare e adorare Dio. I samaritani che non accolgono il Signore sono immagine dell'eresia che cova anche nel nostro cuore, quella che rifiuta l'amore perché legato al Monte Garizim, dove essi credevano si dovesse esclusivamente adorare Dio. 

Ogni eresia, infatti, sbuccia la verità per attaccarsi a un pezzo di scorza e farne l'assoluto. Non possiamo accettare il Legno della Croce che brucia il nostro orgoglio e rivela l'amore di Dio perché siamo attaccati ai fatti nella vita nei quali crediamo di avere patito delle ingiustizie. Adoriamo noi stessi e non accettiamo chi ci annuncia che la vera sofferenza è per i nostri peccati e non a causa degli altri; per questo rifiutiamo chi ci profetizza che è nella Gerusalemme del Mistero Pasquale dove si impara il nuovo culto in Spirito e Verità.  

Per questo, a nostra volta, non digeriamo il rifiuto degli altri; siamo noi, infatti, che stiamo rifiutando "i giorni" della storia come occasioni in cui "si compia il nostro essere tolti dal mondo", dove il fuoco dell'amore di Dio, umiliandoci, bruci gli idoli che ci tengono schiavi per farci capaci di amare. Ci difendiamo perché ciò che muove il nostro cuore e la nostra mente, ciò che genera pensieri, parole e gesti non è l'amore che dona la propria vita e lascia che gli altri la "tolgano dal mondo". L'orizzonte delle nostre relazioni non è Gerusalemme dove Gesù si è fatto gettare fuori dal mondo per aprire un cammino verso il Cielo proprio a chi lo rifiutava. Abbiamo dimenticato che l'altro è il nuovo tempio dove siamo chiamati ad offrirci come un agnellino; prima di decidere come parlare e come agire non ci inginocchiamo nel Getsemani per chiedere con Gesù di compiere la volontà del Padre e rinnegare la nostra; non guardiamo ai fatti come al Golgota preparato per noi dove passare al Cielo attraverso la Croce. Usando le difficoltà e le sofferenze il demonio ci ha rubato l'esperienza di essere morti e risorti con Cristo. Non dimoriamo con Lui in Dio nascosti nella Gerusalemme celeste, per questo non possiamo andare alla Gerusalemme terrestre che ci attende. 

Abbiamo dimenticato la missione per la quale siamo stati chiamati, la santità per la quale ci siamo sposati e abbiamo messo al mondo i figli; se preti, è sparito dal radar del discernimento l'altra riva alla quale siamo stati inviati per condurre il popolo che ci è affidato. Quando ci svegliamo non è per "dirigerci decisamente verso Gerusalemme"; abbiamo paura di morirci perché il demonio ci tieni schiavi. Così ha pervertito la nostra vita: chiamati a seguire il Signore e a precederlo nella storia per preparare la sua Pasqua nella vita delle persone che ci sono accanto, non possiamo non condividerne le sorti. Se le rifiutiamo significa che abbiamo smesso d'essere discepoli, che non lo stiamo seguendo verso Gerusalemme. Non ci stiamo convertendo...

La Città della Pace, infatti, è il nostro destino, dove Dio ci svela la verità. Essa è anche quella che uccide i profeti, la santa e prostituta nella quale si riflette la contraddizione che caratterizza ogni uomo: amato come un figlio, è condannato a vivere come un orfano. Se non vi andiamo non saremo liberati, perché Gerusalemme è anche come il fonte battesimale dove spogliarci dell'uomo vecchio e rivestire il nuovo: solo passando attraverso la Gerusalemme terrestre possiamo entrare nella Gerusalemme celeste. Essa è nostra madre, è la carne che ci ha generato e lo Spirito che ci rigenera. Perché a Gerusalemme "si compie" nell'amore il mistero di ogni uomo. Secondo la tradizione ebraica, infatti, erano legati a Gerusalemme la creazione di Adamo e il sacrificio di Isacco al Monte Moria, profezie che si sarebbero compiute in Cristo. Ivi, la stessa tradizione fissava il luogo del sogno di Giacobbe, quando, "addormentato sulle pietre riconciliate e riunite" (Gen R 68), aveva visto "la scala dalla terra fino al cielo" (Gen. 28,10-22), la Croce che avrebbe dischiuso il Regno al Figlio di Dio e a tutti noi. 

Per questo, con il «volto saldo» e pronto per ricevere insulti, sputi e bestemmie, Gesù si reca a Gerusalemme con lo sguardo puntato irrevocabilmente al compimento dell'opera del Padre, deciso a salvare ogni uomo. Passo dopo passo, villaggio dopo villaggio, rifiuto dopo rifiuto, Gesù non poteva che recarsi pellegrino a Gerusalemme, come a visitare il cuore malato di ciascuno di noi; e non poteva che, rifiutato, salire sulla Croce e «compiere» la Pasqua, che è proprio assumere il rifiuto e trasformarlo in accoglienza umile. E' questo il passaggio che trascina l'uomo nell'obbedienza che sana la contraddizione che porta nel cuore. 

La missione di Gesù, infatti, la sua elevazione sulla Croce inizia a compiersi proprio nell'ascesa a Gerusalemme, durante viaggio del profeta che doveva morire a Gerusalemme. Le sue parole e gli eventi che lo attendevano erano tutti parte della profezia di misericordia di Dio sulla storia e sull'uomo. Il Mistero Pasquale di Cristo non è l'avvenimento di un istante circoscritto; è un pellegrinaggio, una salita-elevazione verso e attraverso Gerusalemme, ha una storia, passa per villaggi e incontri; così è anche della nostra vita. Non vi sono eventi isolati, dove improvvisamente essere cristiani. Tutto è legato, anche le relazioni e i fatti che sembrano marginali, la routine quotidiana illuminati dalla Parola di Dio e dall'insegnamento materno della Chiesa, ci preparano ai momenti dove il Moria, come il Golgota, appaiono dinanzi a noi. Nulla si improvvisa, e non si può essere cristiani e vivere da figli di Dio se non si procede in conversione ogni istante. Non si va Gerusalemme se non camminando dietro a Gesù insieme al Popolo di Dio, con i suoi discepoli.

Allora, proprio il cammino che ci conduce a Gerusalemme è quello dove crescere nella fede, immagine del catecumenato della Chiesa primitiva; lo descrive bene il salmo 84, uno di quelli detti delle ascensioni, che cantavano gli ebrei che salivano in pellegrinaggio a Gerusalemme: "Beato l'uomo che trova in te il suo rifugio e ha le tue vie nel suo cuore. Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente; anche la prima pioggia l'ammanta di benedizioni. Cresce lungo il cammino il suo vigore, finché compare davanti a Dio in Sion". La Chiesa ce lo ha annunciato quando abbiamo ricevuto il battesimo, e, con le sue cure materne, ce lo ricorda sempre: la nostra vita è orientata verso Sion perché la vita di un cristiano si "compie" solo sulla Croce. Quando si "è elevati dal mondo (secondo l'originale greco tradotto con "tolti")" appare la fede adulta. Essa cresce nel cammino che, con Cristo e il suo corpo che è la comunità cristiana, passa per le lacrime della sofferenza, anche dei peccati, e le vede cambiare in una sorgente di acqua viva che zampilla per la vita eterna. 

Non è cristiano chi non ha sperimentato il perdono dei peccati che trasforma il cuore perché ami ciò che ha disprezzato e giudicato. Dirigendosi ogni giorno "decisamente", senza ripensamenti verso Gerusalemme il cristiano trova in Cristo il suo rifugio di fronte alle tentazioni, impara ad avere le sue vie nel cuore, cioè a compiere la volontà di Dio, e sperimenta che ogni evento ammanta di benedizioni la valle impervia della vita di ogni giorno.

Abbiamo dunque bisogno di un cammino di preparazione nel quale purificarci per celebrare la pasqua con Cristo, essere in Lui nuove creature. Secondo la tradizione ebraica, la Pasqua esigeva «preparativi» accurati e lunghi, quanto il cammino di Gesù verso Gerusalemme, quanto il nostro sulla via della conversione e della fede. E «messaggeri» scelti per realizzarli. Essi, come i membri di uno staff che conosce intimamente il presidente e ne condivide la missione, sono inviati per bonificare e preparare la visita. Così hanno fatto nella nostra vita gli apostoli che ci hanno annunciato il Vangelo e ci conducono sulle strade della conversione.  

Senza dimenticare di essere stati guariti gratuitamente dalla stessa eresia, anche noi siamo «angeli inviati davanti al volto» di Gesù come recita l’originale greco: in famiglia, al lavoro, a scuola, ci «incamminiamo» ogni giorno verso il «villaggio dei samaritani» eretici che rifiutavano scandalizzati il Tempio di Gerusalemme. Ovunque la Croce sia di scandalo, anche oggi siamo inviati a cercare hametz, il lievito vecchio dell'ipocrisia che rifiuta la verità, e a prenderlo su di noi, perché Gesù possa compiere in tutti la sua Pasqua. Siamo inviati a bruciare con il fuoco dell’amore indiviso a Cristo gli idoli che tengono schiavi gli uomini. Con la pazienza e l’umiltà che impariamo crocifissi con Cristo, le fondamenta sulle quali sorge, incrollabile e decisa, la nostra missione. 

lunedì 26 settembre 2016

Lutero, una differenza incolmabile

                    
    
di Luigi Negri*                                         26-09-2016
Martin Lutero
Nella particolare contingenza storica in cui si muove il mondo ecclesiale ed ecclesiastico mi sembra giusto indicare una linea di lettura del fenomeno di Lutero e, al di là di essa, del fenomeno del Protestantesimo, in modo che siamo attrezzati a vivere quel passaggio che si prospetta così significativo dell’ottobre 2016.
Tenendo presente che al riguardo la migliore storiografia ha già da tempo superato la distinzione fra riformatore ed eretico, si può affermare con evidenza che Lutero si caratterizza per la volontà di introdurre una concezione della fede radicalmente alternativa a quella cattolica.
La fede, nella dottrina cattolica, è l’esperienza di un’appartenenza al mistero di Cristo nel mistero del suo popolo e quindi ha un essenziale riferimento alla struttura sacramentale della Chiesa e una dipendenza concreta della persona dal contesto ecclesiale come condizione della sua maturazione.
La visione dell’uomo a cui fa riferimento Lutero non è più quella della persona in rapporto col mistero di Cristo nel mistero della Chiesa; la sua è un’antropologia di carattere, anticipatamente ma realisticamente, individualistico- soggettivistica.
La fede non è più la chiamata ad un cambiamento totale dell’intelligenza e del cuore al mistero di Cristo ma, in Lutero, diventa il tentativo di salvaguardare una sostanziale sicurezza nella vita, il superamento di un’angoscia ricorrente, legata alla paura del giudizio universale e alla difficoltà di riuscire a superare l’esperienza di quella incoerenza etica che caratterizza sempre la vita di ogni uomo.
La fede - che tutta la tradizione cristiana aveva visto in sintonia profonda con la ragione e l’affettività - non può più fare riferimento ad una ragione che, come esito del nominalismo a cui Lutero si era formato, è eminentemente dialettica, negativa, per cui non si possono chiedere ragioni per la fede: la ragione demolisce e decostruisce la pretesa di certezze reali e radicali, comprese quelle della fede. Il tutto viene ridotto ad un fatto sentimentale e l’esperienza della fede, colta nella sua ultima irriducibilità, diventa il sentimento irresistibile provocato dalla lettura delle Sacre Scritture di essere stati salvati dal mistero di Dio con una giustificazione che è assolutamente gratuita, totalmente svincolata da ogni tipo di opera dell’uomo: sola scriptura, sola fide, sola gratia.
La fede, dunque, con Lutero subisce una modificazione sostanziale e dall’essere partecipazione ad un avvenimento oggettivo diventa esperienza di carattere psicologico e soggettivo. La chiesa degli eletti è la chiesa di coloro che si sentono chiamati a fare esperienza della fede e come tale sono una realtà eminentemente invisibile, che non ha nessuna espressione di carattere sociale ovvero una chiesa invisibile o degli eletti.
Questo salto nella percezione dell’evento cristiano, o dell’evento della fede, porta poi, come è ovvio e comprensibile, alla demolizione sia dell’organismo sacramentale che della realtà della Chiesa stessa, intesa come presupposto essenziale per la custodia, la comunicazione e l’educazione della fede.
La dinamica del credere, come ho già sottolineato, diventa un evento eminentemente soggettivo, in cui il singolo è il padrone dall’inizio alla fine. Una posizione come questa non può avere la pretesa di attuare un’autentica riforma della Chiesa, perché qui stiamo parlando - e la storiografia più importante e più significativa, cattolica e non, lo ha sempre riconosciuto – di una precisa volontà eversiva.
Certamente in Lutero, resta il problema di quelle realtà sociali di fede ancora legate a formulazioni di carattere nazionale, politico, istituzionale, la cosiddetta chiesa intesa come organismo liturgico e soprattutto come congregazione morale ovvero la chiesa come istituzione. È stupefacente, come osservato da alcuni interventi recenti, la soluzione che nel 1526, all’inizio del suo cammino protestante, Lutero individua e propone, ovvero la nascita di una Chiesa di Stato.
La Chiesa come organismo reale di coloro che vivono una pratica religiosa e di pietà, secondo questa concezione, ha come radice ultima la difesa che lo Stato gli offre.
Con i discorsi ai Principi della nazione tedesca avviene qualche cosa che non era mai accaduta nella storia della Chiesa, anzi, era sempre stato vivacissimamente contestato come una delle eresie più gravi, ovvero  la subordinazione della libertà della Chiesa al volere dello Stato. Nasce dunque la Chiesa di Stato di tipo protestantico, vuoi luterano, vuoi calvinista, vuoi anglicano dopo l’esperienza di Enrico VIII, che non hanno nessuna giustificazione sacramentale, ma soltanto socio-politica.
Molti si sono interrogati sulla singolare debolezza di tutte le formulazioni protestanti nei confronti delle degenerazioni totalitarie ma, probabilmente, non esisteva la possibilità di una alternativa al totalitarismo, perché l’esperienza della chiesa protestante già per sua natura tende a costituirsi all’interno della supremazia del politico su qualsiasi altra dimensione della vita personale e sociale.
Io credo che rendersi conto della lontananza, sia teologica sia dogmatica sia ecclesiale, dalla esperienza luterana e quindi dal protestantesimo possa diventare uno spunto per un approfondimento critico ancora maggiore della nostra identità di fede perché, se il dialogo c’è o deve incrementarsi, come tutti si augurano, deve essere un dialogo fra persone coscienti della loro diversità.
A questo punto, vale un’osservazione che deduco da uno dei più grandi filosofi e storici della nostra esperienza e della nostra cultura cattolica del secolo scorso, Jean Guitton, che nel suo capolavoro, Il Cristo dilacerato - che tratta delle eresie e dei Concili nella storia della Chiesa - alla fine di un capitolo dedicato alla crisi protestantica interpretata come il riproporsi di una gnosi, così scrive: «Se invece si tratta nella questione protestantica -come io ritengo- di una differenza abissale che riguarda l’essenza del cristianesimo, tocca a noi cattolici e protestanti, riuniti attorno allo stesso tavolo, vedere insieme, con uno sforzo di tutto il nostro essere e di tutte le nostre conoscenze, la via che Dio ha voluto. E se, dopo questo dialogo, sussiste una differenza incolmabile, che la soluzione sia rimessa alla profondità del segreto di Dio, e ognuno riprenda il suo cammino, nel dolore della separazione, ma con amore, ormai, e con speranza».
Ritengo che sia con questa chiarezza che il mondo cattolico debba prepararsi ad una celebrazione che non può essere puramente formale e che non può essere irrealisticamente fissata in vicinanze che non esistono. Il Concilio di Trento ha parlato chiaramente, e contro un concilio nessuno può andare. È necessario che prendiamo coscienza delle diversità o della vera e propria alternativa che c’è fra cattolicesimo e protestantesimo, in modo che quello che Guitton suggerisce diventi l’ispirazione reale di tutti i nostri incontri e di tutti i nostri dialoghi.
*Arcivescovo di Ferrara e Comacchio