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domenica 31 ottobre 2021

 


IL DISCERNIMENTO PER CAMMINARE VERSO IL CIELO E' POSSIBILE SOLO IN CRISTO ATTRAVERSO LA COMUNITA'
Nel Vangelo di questa Domenica appare di nuovo qualcuno che "si accosta a Gesù" per fargli una domanda. Ma stavolta sembra che ci sia qualcuno che cerchi davvero una risposta: "qual'è il primo di tutti i comandamenti?". In mezzo a tante domande trabocchetto finalmente ecco l'unica importante, alla cui risposta “nessuno oserà più interrogarlo”, neppure noi. Il termine "comandamento" ne traduce diversi ebraici che tra l’altro significano "una parola che affida un incarico". Secondo la tradizione di Israele, i comandamenti sono sempre "parole di vita, il cammino che conduce alla riuscita della vita attraverso il compimento della missione affidata. Lo vediamo anche in italiano: “co - mandare”, ovvero “mandare, inviare con” un incarico. La domanda dello “scriba” può significare: "Che cos'è decisivo e fondamentale nella vita? Quale è il cuore della missione che mi è affidata? Tra le tante che sento ogni giorno, qual'è la Parola che mi guida verso il Regno di Dio?". La nostra vita, infatti, è come una freccia scoccata dall'arco verso un obiettivo ben preciso. "Chet", uno dei termini ebraici che esprime il concetto di “peccato” significa "fallire il bersaglio"; in greco è tradotto con “hamartia”, che significa letteralmente “direzione sbagliata di vita”. Il peccato è dunque il fallimento dei propri obiettivi, un cammino contrario al compimento della propria vita. S. Agostino considera il peccato come un "bene che non ha raggiunto il suo fine". Secondo il Concilio Vaticano II è “una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza”. E’ quello che diciamo tante volte, magari senza accorgercene: “che peccato!”… Allora, chiedendo a Gesù quale sia il primo dei comandamenti, lo scriba è l’immagine di quella parte del nostro intimo che non è contaminata dalla menzogna. Anche oggi dovremo affrontare situazioni difficili e relazioni complicate, e potremmo reagire ribellandoci a Dio, oppure potremmo “ascoltare” questo Vangelo e convertirci, ovvero lasciare che “lo scriba saggio” che è in noi si “avvicini” a Gesù per chiedergli: “Signore, ti prego illuminami, che cosa c’è dietro a quello che mi accade? Qual’è il fondamento sul quale appoggiare i miei pensieri, le mie parole e i miei gesti per compiere la missione alla quale oggi mi chiami?”. Scopriremmo allora che questo giorno non è uno dei tanti usciti alla roulette della vita, ma è unico e irripetibile, e che ci è donato per fondare noi stessi sull’amore di Dio e così compiere l’incarico concreto che ci è affidato. Se sapremo porre umilmente a Gesù la domanda giusta e accogliere altrettanto umilmente la sua risposta, sapremo anche noi come lo scriba “rispondere saggiamente”, cioè amando, agli eventi e alle persone che oggi ci chiederanno risposte concrete in parole e gesti.
Gesù infatti ci risponderà che “il primo dei comandamenti” è un fatto, una verità che Dio stesso ha rivelato compiendola: Lui è l’unico Signore della nostra vita. Se questo fondamento scompare, l’amore verso di Lui e verso il prossimo che ne consegue diventa incomprensibile e quindi impossibile. Come si fa ad amare chi non si conosce? E tu lo conosci Dio? E’ facile rispondere: basta vedere se nella tua vita è “il primo” e “l’unico Signore”. No vero? Allora “ascolta!”: Dio ti ama così come sei! Ti ama oggi che ti sei svegliato schiavo di te stesso e della tua paura di morire. Ti ama infinitamente, come nessuno ti ha mai amato. Lo credi? Forse no, non sino in fondo almeno, perché non abbiamo ancora accettato di essere anche noi i peccatori che hanno crocifisso Cristo. Agiamo “per ignoranza” come quelli che scelsero Barabba, incapaci di comprendere che “il primo di tutti i comandamenti” si stava compiendo dinanzi a loro in quel Messia che si faceva Agnello. Ma non potevano comprenderlo senza riconoscere di essere peccatori, e che proprio per loro era necessario quell’Agnello, “l’unico” che potesse prendere su di sé i loro delitti e perdonarli. Perché l’amore a Dio e al prossimo è “il primo di tutti i comandamenti” solo per chi ha sperimentato di non poter amare a causa dei propri peccati e ha accettato di aver bisogno che Cristo lo perdoni e lo colmi del suo amore. Così è stato per lo scriba che ha compreso che l’amore “val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Egli certo ricordava il Salmo 40: “Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: Ecco, io vengo, sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore”. Sapeva quindi di non poter fondare la propria vita sugli “olocausti”, e che i “sacrifici” offerti per il peccato non potevano di cambiare il suo cuore. Per questo Gesù dice allo scriba che ha “risposto con sapienza” e che “non è lontano dal Regno di Dio”. Non vi era ancora entrato, ma “aprendo gli orecchi” per “ascoltare” la Parola perché si incidesse nel suo cuore, era giunto alle sue porte. Voleva compiere la volontà di Dio e in questo “desiderio” incontra nel suo intimo Gesù che, come leggiamo nella Lettera agli Ebrei, aveva lo stesso “desiderio”. Proprio perché era “impossibile cancellare i peccati con i sacrifici… entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato”. Con la sua saggia risposta lo scriba aveva deposto il suo desiderio nel desiderio di Gesù. Per entrare nel Regno non gli restava che accogliere lo Shemà compiuto per lui da Gesù, il “comandamento” che, nell’amore perfetto a Dio e al prossimo, “valeva più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Coraggio fratelli, oggi si schiude dinanzi a noi il Regno di Dio! Possiamo entrarvi attraverso la porta che è Cristo crocifisso, attraverso cioè gli eventi che ci crocifiggono perché solo in essi Egli potrà compiere in noi il “comandamento più grande”: amare Dio che “non vediamo”, quando sperimentiamo perfino l’abbandono del Padre, amando il prossimo che “vediamo”, debole e peccatore per dire con Cristo “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”.

giovedì 21 ottobre 2021

 

IL FUOCO DELLO ZELO PER LA SALVEZZA DI OGNI UOMO
Nel cuore della Chiesa brucia il fuoco dell’amore che Gesù ha «gettato» sulla terra perché anche su di essa si possa compiere la volontà del Cielo. In ogni apostolo «c’è una passione che deve crescere nella fede e che deve trasformarsi in carità che accenda come fuoco anche l’altro» (Benedetto XVI). La stessa “angoscia” sofferta da Gesù fino al “compimento del battesimo” che lo avrebbe inabissato negli inferi a liberare Adamo e ogni uomo, spinge da duemila anni gli apostoli sul «carro di fuoco» della visione del profeta Ezechiele, per annunciare il Vangelo sino ai confini della terra. Quando però una sua interpretazione sentimentale e orgogliosa induce ad adattarlo alle culture e alle mode, si spegne la profezia, si «discredita il cristianesimo» e si inganna il mondo, offrendogli solo una triste edizione rivisitata di ciò che è già suo e non ha potuto salvarlo: “I vostri volti non sono volti di salvati, per questo io non crederò mai al vostro Signore” (J. P. Sartre). Sono i volti di un genitore, un educatore, un prete, una fidanzata, un amico quando accettano un compromesso. Tradiscono l’amore consegnando l’altro alla menzogna e al peccato. Se un padre, laddove appare - magari nascosta da sofismi sottili - una divisione con il figlio circa la volontà di Dio e l'adesione a Cristo, si lascia ingannare e inizia un dialogo teso a smussare e a frammentare la verità, avrà consegnato suo figlio al demonio. Se un parroco si illude che la divisione nella parrocchia sia causata da una mancanza di dialogo e di comprensione, e cercherà un compromesso non individuando i demoni che si nascondono in certe posizioni che vogliono limitare il soffio dello Spirito, spegnerà lo Spirito e lascerà che l'inganno si radichi.
Così in moltissimi altri casi, perché la divisione portata da Cristo ci spaventa, stentiamo a crederla possibile; l'immagine buonista e sentimentale secondo la quale il Signore debba ricucire sempre tutto e a qualunque prezzo, ci rende tiepidi e lascia campo aperto ad eresie striscianti, scismi incipienti, divisioni autentiche e laceranti: esse restano come germi infetti coperti da compromessi travestiti di pace e benessere. Ma è necessario che avvengano gli scandali, è necessario che appaiono, tristi e violente, le divisioni: chi ha detto che esse sono sempre un male e che debbano essere prontamente risanate? Ma è il Signore che provoca la divisione, come accade con le novità ispirate dallo Spirito Santo: i carismi, i movimenti, gli ordini religiosi, lo zelo rinnovato nelle parrocchie. E’, infatti, la novità di un amore assoluto e radicale, che reclama per sé tutto, perché tutto di sé ha donato; la novità che, abbiamo visto, raggiunge ogni ambito della vita: sessualità, lavoro, affetti, amicizie... Laddove si fa presente la divisione di fronte al Vangelo appare evidente dove sia la novità e chi la accoglie: "Chi è vicino a me, è vicino al fuoco; chi è lontano da me, è lontano dal Regno! (Vangelo sec. Tommaso, in: Origene, In Jerem. lat., 1 [3], v. 104)
Il grigio non è colore cristiano... Per questo, spesso proprio la "divisione" svela il Regno di Dio, e smaschera la sua contraffazione. E' buona solo quella "portata" da Gesù con amore e misericordia; la stessa di un chirurgo che taglia per curare; non certo la divisione insinuata dal diavolo, il padre di ogni discomunione, frutto amaro della superbia e dell'orgoglio che si fanno invidia, come negli scismi e nei divorzi ad esempio: "un cuore geloso è un cuore acido, un cuore che invece del sangue sembra avere l’aceto; è un cuore che non è mai felice, è un cuore che smembra la comunità" (Papa Francesco). Il fuoco di Cristo, invece, divide per evitare di ricorrere alle toppe e annuncia il vino nuovo riversato in otri nuovi! Famiglie nuove, amicizie nuove, fidanzamenti nuovi. Tutto santo e libero perché tutto vissuto in Cristo, nella vera pace, la sua pace, che ci attende anche oggi, quella di un amore libero capace di donarsi gratuitamente.
L'amore al quale Dio ci torna a chiamare nel mezzo del nostro cuore ormai raffreddatosi, preoccupato più dell’apologia che dell’annuncio. Il “fuoco” acceso da Gesù sulla Croce riduce in cenere i legami morbosi che si nascondono nei desideri della carne e ; il "fuoco" che la Chiesa sempre riaccende sino agli estremi confini della terra, ci fa liberi di osare, per amore, la fedeltà alla Verità. Occorre osare di fronte al capoufficio rischiando il posto di lavoro, pur di testimoniare la verità universale e ultima che abbiamo sperimentato. Osare la notte quando, unendosi al coniuge, siamo chiamati ad offrire i nostri corpi alla volontà di Dio, ad aprirci alla fecondità e alla vita, accogliendo il terzo, quinto o decimo figlio, per riaffermare il significato assoluto e universale che Dio ha nella nostra storia come in quella del mondo.
Occorre osare la castità ed il rispetto nel fidanzamento per annunciare la verità dell'amore crocifisso, l'unico autentico che, nel sacrificio, rivela il dono più grande, puro, disinteressato, quello di Cristo, gioia del loro cuore; osare nell'educazione, lottando con i compromessi affettivi, non temendo il rifiuto e la ribellione, perché i figli o gli studenti o i cristiani affidati siano ogni giorno più conformati e uniti a Cristo, pienezza delle loro aspirazioni.
Osare la stolta arrendevolezza della Croce, il non resistere al male che non è in contraddizione con l'affermazione senza smagliature della verità. Perché la Verità è sempre crocifissa, o non sarà Verità, anche se fosse la professione senza se e senza ma dei principi non negoziabili, anche se trovasse il rifiuto violento e la morte eroica. Resterebbe, appunto, una morte eroica, ma non un martirio; la testimonianza, infatti, è sempre l'offerta gratuita e gioiosa della propria vita per amore dell'altro divenuto nemico. Il dogma che abbraccia e infonde vita ad ogni altro dogma è la Croce, l'unico luogo che afferma, senza tema d'essere smentito, la gratuità e l'universalità dell'amore di Dio.
Solo Lui, e coloro che a Lui sono uniti, possono osare il dono totale di sé, senza sperare nulla se non la salvezza del mondo. Solo questo amore è credibile, nel senso che solo chi ama il nemico sino a dare la vita per lui conferisce anche al dogma, ai valori e ai principi morali irrinunciabili e non negoziabili, l'autorevolezza dell'autenticità. L'amore, infatti, li rivela "in presa diretta" mentre si realizzano nei cristiani, come connaturali all'uomo, come gli unici che si addicono alla persona, di qualunque razza e cultura. Solo l'amore riesce a far decodificare il grido nascosto nelle mille grida di dolore dell'umanità, riconoscendo in esso il bisogno di un'accoglienza e di un perdono che superi anche le regole della convivenza civile e finanche la legge naturale.
E' vero, essa è inscritta nel cuore di ogni uomo, non vi è condizionamento capace di cancellarla sino in fondo, ed è altrettanto vero che, usando della libertà, gli uomini l'abbiano infranta. Tu ed io, non meno di un pagano o di un politeista, di un ateo o di un agnostico. Sottolineare all'infinito questa realtà non serve a nulla, neanche battersi perché venga accettata. Essa sarà rivelata solo in carni e vite capaci di superare i limiti della natura e delle leggi che Dio stesso le ha imposto, andando a ripescare chi, liberamente e orgogliosamente, le ha infrante. La legge naturale risplenderà solo in coloro che compiranno leggi soprannaturali, quelle dell'amore che ha sconfitto la morte, il limite estremo e invalicabile della natura. I cristiani lo possono superare, entrano nel regno dei morti, si aggirano negli inferi e toccano, destano e si caricano dei relitti umani che vi si trovano.
Amano senza condizioni chi ha abortito, ucciso, rubato, adulterato; si consegnano ai pedofili, ai terroristi, ai torturatori, agli evasori fiscali, ai corrotti, alla loro moglie e ai loro mariti, gratuitamente, nello stesso modo i cui sono stati amati. In quegli inferi depongono un raggio di speranza, un lampo della luce di Pasqua, la testimonianza credibile della vittoria di Cristo sulla morte e del conseguente perdono di ogni peccato. Non solo, proprio nel buio disperato di chi si disprezza al punto di non saper più vivere secondo natura, la Chiesa osa offrire la possibilità di una vita nuova, la stessa vita di Cristo, quella che scorre nelle sue vene: la vita soprannaturale che include, compie e sublima la legge naturale; il rispetto gioioso di ogni principio non negoziabile, l'affermazione perentoria e incontestabile della vita incastonata nella vita di chi la sta perdendo per puro amore.
Quale migliore e più credibile e autentica affermazione "pro-life" che quella di chi, per difendere la vita che non muore nella carne destinata a morire, offre la propria di vita, nella certezza di conservarla per l'eternità grazie alla resurrezione di Cristo? Quale maggiore difesa della vita nascente nel seno di una madre che quella di chi accoglie nel suo seno di misericordia madre e figlio, educando e accompagnando con il latte della misericordia e il bastone della Croce? E così per la vita di un anziano, di un malato, per il matrimonio, per le persone gay e per l'educazione, per ogni ambito della vita, soprattutto quelli più insidiati.
Soprattutto per le donne, vergini, spose e madri, oggetto dell'attacco più proditorio del demonio: sono le donne a dover essere accolte oggi sotto il manto della misericordia, dove possano gridare, piangere, reclamare, per incontrare la gioia del loro compimento in quanto donne che il mondo le ha sottratto. A tutto questo è chiamata la Chiesa; a questo la chiama Papa Francesco, ad osare l'amore che esce verso le periferie dell'esistenza, quelle di chi è indifferente ma soffre indicibilmente, e ai quelli non si può restare indifferenti; a osare l'amore che non si difende, soprattutto quando è percepito, paradossalmente, come odio.
Occorre osare anche di vedersi rifiutati da chi ci ha dato la vita; come Edith Stein, che, pur soffrendo nella carne, non ha esitato ad abbandonare la propria religione e sua madre per seguire il Signore. E sarà proprio nella camera a gas del suo "doppio" martirio, come ebrea e come cristiana, che tutto si illuminerà e compirà: nell'amore che la consumava attirava e salvava anche ciò che aveva dovuto abbandonare. La divisione che porta Cristo è il distacco dalla carne che prelude alla comunione eterna: "Cara madre superiora, mi permetta di offrirmi in sacrificio di espiazione per la vera pace: perché il regno dell’anticristo sprofondi, se possibile senza un nuovo conflitto mondiale, e che un nuovo ordine s’impianti". Chi vive in Cristo in Lui sarà perseguitato; dal suo uomo vecchio per cominciare e dal mondo perché un cristiano sarà sempre un segno di contraddizione. La sua vita sarà una profezia che, ovunque giungerà, provocherà la divisione. Gesù Cristo infatti non è un Segretario Onu, né tanto meno un gestore di fitness club o di uno di quei centri di pseudo-spiritualità dove ritrovare se stessi. Con Lui si è catapultati dritti dritti dentro le arene di ogni giorno, e leoni e tigri sono lì ad aspettarci.
Ma è proprio questa la vita più piena, buona e vera che fa scaturire il canto di ogni cristiano divorato dai suoi carnefici, il canto nuovo dei martiri di ogni parte del mondo. Il Signore ci chiama ad essere crocifissi con Lui perché il mondo riceva la vita; santi, separati, consacrati, cioè etimologicamente divisi, "pionieri del Cielo" - secondo un altro significato della parola che compare nel Vangelo odierno. Il Cielo offerto anche e proprio a coloro dai quali pareva ci fossimo separati, genitori, figli, sposi, amici, fidanzati. Essere discepolo di Cristo significa essere suo, non ci apparteniamo più. E' questo il senso più profondo delle parole dure e difficili del Vangelo di oggi. Siamo suoi per discendere liberi con Lui nel “battesimo” che ci immerge nel dolore del prossimo perché incontri in noi il suo amore.

lunedì 18 ottobre 2021

 




COME PECORE CHE SI OFFRONO PER SAZIARE CON L'AMORE DI CRISTO I LUPI CHE
CONOSCONO SOLO L'INGANNO DEL DEMONIO
Il mondo muore di fame. In «ogni città e luogo» tutti hanno un urgente bisogno dei discepoli del Signore, come i «lupi» che si aggirano famelici in cerca di cibo, hanno bisogno degli agnelli. Il mondo giace nelle tenebre del peccato, le persone che incontriamo ogni giorno sono lupi affamati, sui loro denti cola la concupiscenza; stanno divorando famiglia, figli, chiunque, anche la propria vita, pur di saziare il vuoto e la solitudine. Solo un «Agnello sgozzato» che si offre mite può saziarli, solo un amore come il suo che arriva «sino alla fine», lì dove si fanno insopportabili i crampi della fame. Ambasciatori «inviati avanti» all'Agnello, i discepoli non possono che essere agnelli, miti e indifesi come Lui, «senza borsa, né bisaccia e calzari». La Chiesa, erede dei «72» anziani collaboratori di Mosè, adempie alla sua missione nel «deserto» del mondo con la sola sapienza della Croce, proprio quella che nessun «piano pastorale», purtroppo, prevede. Ben fondati sulla Croce che ci ha salvati, siamo inviati anche noi ad offrirci «come agnelli in mezzo ai lupi». I fidanzati come agnelli alle proprie fidanzate, per spegnere nel dono, nel rispetto e nel sacrificio gli ardori della lussuria; i genitori come agnelli alle ribellioni e all’immaturità dei propri figli, per educarli trasmettendo loro la fede nella verità e nella misericordia. E così gli sposi l'uno all'altro, i professori agli studenti, i pastori al gregge. Siamo inviati a «curare» i colleghi, gli amici, i parenti «malati», spingendoci con amore sino alla soglia delle loro «case», a quei frammenti di vita dove la paura della morte li spinge a farsi lupi; sin dentro le loro «città», per «mangiare» e prendere su di noi il dolore «che ci è messo dinanzi», senza giudicare, perché «il Medico è venuto dai malati, per guarirli mangiando con loro» (San Pietro Crisologo). Come «paraninfi» siamo inviati a cercare i «figli della Pace» e condurli al Principe della Pace loro legittimo Sposo. Come a Gubbio quel giorno San Francesco si fece capire dal lupo con parole di misericordia che seppero ammansirlo, così con il nostro annuncio e nella nostra vita si fa «vicino» ad ogni uomo il «Regno di Dio», dove Cristo sazia del suo amore la fame di tutti.



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venerdì 15 ottobre 2021

 


15 OTTOBRE. SANTA TERESA D'AVILA
Breve profilo biografico di Santa Teresa di Gesù (d'Avila), Dottore della Chiesa, Madre Riformatrice dei Carmelitani Scalzi - Di P. Antonio Maria Sicari OCD:
Nascita
Teresa di Gesù (de Cepeda y Ahumada), nata in Avila (Spagna) nel 1515 e morta ad Alba de Tormes nel 1582, è universalmente riconosciuta come Maestra di dottrina e di esperienza spirituale, al punto che è stata la prima donna della storia alla quale è stato riconosciuto (da Paolo VI, nel 1970) il titolo di Dottore della Chiesa. Ella stessa ci ha lasciato il racconto della sua vita, ma l’ha narrata come storia di un “incontro d’amore” tra lei e Cristo. La sua infanzia fu segnata dal dono di una nativa familiarità col mondo di Dio, tanto che il pensiero del “paradiso” la faceva fremere di gioia. Celebre è rimasta la sua fuga da casa, in tenera età, intrapresa col desiderio di “voler vedere Dio”. Questo primo ardore si offuscò, tuttavia, al tempo dell’adolescenza, quando Teresa – affascinata dai doni di natura e di grazia che riconosceva in se stessa e dagli ingenui corteggiamenti che suscitava – si lasciò “distrarre” dalla sua innocente passione per Dio. Aveva, però, maturato il convincimento interiore che Dio meritava “tutto” e che solo il cielo contava davvero. Così, a vent’anni, pur sentendosi attratta dalla vita brillante che si svolgeva tra le mura di Avila (mura che la facevano rassomigliare a uno splendido castello), decise di consacrarsi a Dio, fuggendo impetuosamente a “nascondersi” nel monastero carmelitano della sua città.
Pensava d’aver così risolto il suo conflitto interiore, accettando di vivere quaggiù in un “purgatorio” (così giudicava allora il monastero) pur di poter poi meritare il cielo. Ne restò doppiamente sorpresa: il monastero non era così terribile come s’era immaginata, anzi vi sperimentava una grande pace, e la gioia non le mancò mai. Tuttavia il suo turbamento non cessava: quel monastero aveva un numero elevatissimo di monache (quasi cento ottanta) ed era una vera cittadella, molto frequentata da chi voleva intrattenere con le religiose rapporti di amicizia, non privi di qualche mondanità. Teresa, poi, era ricercatissima, a causa del suo fascino personale, accresciuto dal fatto che ella viveva una intensa vita interiore e molti desideravano la sua amicizia, per esserne spiritualmente aiutati e guidati. Così ella si trovò invischiata in uno strano conflitto: da un lato sentiva il bisogno insopprimibile di essere tutta e solo di Dio, dall’altra percepiva la bellezza dell’amicizia umana e dei suoi legami. Teresa sfuggiva con orrore da tutto ciò che avesse anche l’ombra di peccato, ma non si sentiva “intera”, non si sentiva completamente vera, anche se tutti erano pronti a giurare che quella monaca affascinante era proprio “una santa”. Ma lei era lacerata tra l’amicizia di Dio (che esperimentava dolcissima e appagante nella preghiera) e quella delle creature, alimentata in troppo frequenti, anche se buone, conversazioni.
La “conversione”
La “conversione definitiva” – così la definì Teresa stessa – avvenne nel 1554, quando ella stava per toccare i quarant’anni: Gesù le fece “esperimentare” con ogni evidenza (attraverso un’inondazione di grazie interiori, ma anche di visioni) che Egli era “veramente Dio” e “veramente uomo”: nella sua stessa persona c’erano la sintesi e la soluzione del conflitto che Teresa aveva fino ad allora vissuto. Affezionandosi e abbandonandosi a Gesù con tutto il cuore e imparando solo da Lui – come da un “Libro vivente”– era possibile amare Dio solo “con tutto il cuore, l’anima e le forze” e ricevere da Lui in dono tutto il resto, anche la bellezza del creato e il calore dell’amicizia umana. Questo continuo abbandono, poi, si chiamava «preghiera»: una preghiera fatta non solo di “atti” (anche se questi restano importantissimi), ma estesa a tutta la vita, in modo che respirare (ma anche agire, lavorare, pensare, desiderare, gioire, ecc.) e pregare fossero la stessa cosa.
La riformatrice
Nel 1562 Teresa accettò il pressante consiglio di alcune consorelle che le chiedevano di fondare un “piccolo conventino”, abitato da poche suore, tutte dedite a questa esperienza di preghiera totalizzante. Nacque così ad Avila il primo monastero di “carmelitane scalze” (cioè “riformate”, segnate da una vita più austera e ritirata) che, agli occhi di tutti, era un vero e proprio “angolino di cielo”. La fama di Teresa come “madre e maestra”, capace di far innamorare le anime di Dio, si diffuse rapidamente; le vocazioni cominciarono ad affluire numerose ed ella si trovò obbligata (anche per ordine dei suoi superiori) a diventare “fondatrice”. Tutta perduta in Dio e nella sua grazia, ma anche sempre vivace e abile nell’intraprendere progetti, nel tessere rapporti, nell’intrattenere profonde relazioni di amicizia, si trovò a percorrere l’intera Spagna e a disseminarvi diciassette piccoli monasteri, che subito diventarono centri di preghiera e di vita mistica. Teresa li immaginava come “piccoli cenacoli” dove le monache vivevano in compagnia di Cristo (e nutrite della sua Eucaristia); voleva che tutta la loro preghiera fosse finalizzata alle “necessità della Chiesa” allora particolarmente appesantita e lacerata da scismi e da guerre di religione, e dai gravi problemi posti dalla violenta conquista del Nuovo Mondo.
Nel corpo ecclesiale, essi dovevano assomigliare al cuore che non fa mai mancare il sangue necessario alla vita, cioè l’amore. A questo scopo Teresa esigeva non soltanto la serietà e l’austerità della vita, ma anche uno stile di vita capace di dolce cordialità nei rapporti tra le persone. Per dare un aiuto alle sue monache e per estendere la forza della loro preghiera contemplativa all’azione apostolica e missionaria, lavorò per “riformare” il ramo maschile dell’Ordine Carmelitano, riuscendo a coinvolgere nella sua impresa quel Giovanni della Croce, che sarebbe diventato Santo e Dottore della Chiesa.
La scrittrice
Per rispondere alle richieste delle sue monache e dei suoi confessori, dovette dedicarsi anche a una intensa attività magisteriale, affidata a Scritti, occasionali, ma di rara profondità, che oggi sono patrimonio dottrinale di tutta la Chiesa. Di particolare valore è l’Autobiografia - definita da lei Libro delle misericordie del Signore – nella quale Teresa mostra come l’esistenza di una persona (la sua, ma anche la nostra se la leggessimo in profondità) può essere raccontata come "storia di salvezza", come storia di un dialogo tra l’uomo e Dio, come “storia di preghiera”. Nel suo Cammino di Perfezione, invece, Teresa espose la maniera con cui si può educare un’intera comunità, facendola diventare “comunità orante”, comunità che realizza concretamente e quotidianamente tutte le domande del “Padre nostro”. Scrisse la sua opera più bella e decisiva nell’ultimo periodo della sua vita, quando – spinta sempre dall’obbedienza – compose di getto il Castello interiore, che ancor oggi è considerato uno dei vertici di ogni letteratura mistica. In esso l’uomo viene descritto come un Castello, al cui “profondo centro” abita Dio stesso: un castello che, a volte, sembra cadente e disabitato, perché l’uomo s’è ridotto a vivere al di fuori come un mendicante. Ma basta superare la soglia (e la “porta” è, per tutti, la preghiera) per ritrovare la possibilità di attraversare tutte le innumerevoli e meravigliose “dimore del Castello”, fino a raggiungere Dio stesso.
E quando l’anima entra nel più intenso rapporto d’amore con Dio, possibile su questa terra – Teresa lo chiama significativamente «matrimonio spirituale» – capisce che Dio non intende “vezzeggiare” nessuno, ma dona le persone a lui più care (come ha fatto con suo Figlio) al mondo, affinché il mondo possa essere salvato. Più narrativo, ma non meno utile, è il libro delle Fondazioni, in cui Teresa stessa ha voluto raccontare la storia dei monasteri da lei fondati, soffermandosi a lungo sulle vicende vocazionali delle persone – spesso molto giovani – che accorrevano per coinvolgersi nella sua santa avventura. Nel 1582, durante uno dei suoi viaggi, Teresa morì ad Alba de Tormes stremata dalle fatiche, esprimendo in un desiderio e un’unica preghiera i due vertici di maturazione ai quali tutto il suo itinerario mistico l’aveva condotta. Sul letto di morte la udirono mormorare umilmente: «Dopo tutto, Signore, Sono figlia della Chiesa!», e poi con santa impazienza: «Finalmente, o Sposo mio, è ora che ci abbracciamo!».
@paginacarmelitana

mercoledì 13 ottobre 2021

 


13 Ottobre 1917 Fatima

Oggi giornata che c’invita a guardare a Fatima. Mi commuovo ogni volta quando rileggo le cronache di quel 13 ottobre 1917 quando 70.000 persone vennero da tutto il Portogallo per assistere al miracolo che la Madonna aveva promesso. Quel posto sconosciuto al resto del mondo diventò in quell’anno, grazie alla presenza di Maria, il cuore della cattolicità con tante conversioni. Lo spirito di Fatima prosegue e tocca anche a noi mantenerlo vivo. Certamente la pandemia del covid 19 ha scombussolato tutto e nulla è più come prima. Anche in questo possiamo e dobbiamo vedere un “segno” per il mondo e un invito a rivedere la nostra vita cristiana che quando è autentica e fedele al vangelo sempre è chiamata al “martirio” in tante forme e condizioni. Dovunque giunge Maria arriva la pace e la gioia di non sentirsi abbandonati in questa valle di lacrime.
Torno simbolicamente in pellegrinaggio insieme a voi, a quella giornata scura e piovosa di ottobre 1917 nel mezzo della prima guerra mondiale. La pioggia torrenziale non impedì alla gente di accorrere numerosa. Nemmeno il fango dei sentieri fermò i fedeli dall’inginocchiarsi in umile atteggiamento. “Arrivati a Cova da Iria, racconta Lucia, vicino all’elce, spinta da un movimento interiore, chiesi al popolo che chiudessero gli ombrelli per recitare il rosario. Poco dopo vedemmo il riflesso della luce e subito dopo la Madonna sull’elce”.
La Signora apparve e si presentò come la Signora del Rosario. Ribadì il suo desiderio di avere una cappella eretta in suo nome e domandò che tutti recitassero il Rosario ogni giorno, per assicurare la fine del conflitto. Poi aprì le mani e un raggio di luce scaturì da esse illuminando il cielo. I tre bambini videro Maria Gesù Bambino e san Giuseppe, che sembravano benedire il mondo, la Madonna Addolorata e infine la Madonna del Carmelo con lo scapolare in mano. Poi avvenne il miracolo che tutti stavano aspettando: il sole apparve nel cielo, come un disco d’argento opaco, che non scaldava, non proiettava ombra, come quando c’è l’eclissi. Sembrava tremare, danzare nel cielo, diventare ora più grande, ora più piccolo, proiettando raggi multicolore, davanti agli sguardi sbalorditi di tutti i presenti. Tutti lo videro e gridarono al miracolo. Era il segno che la Vergine aveva dato.
Questa la cronaca del 13 ottobre 1917, con l’entusiasmo di una folla innumerevole. Tutti la conoscete ma è sempre bello ritornarci per gustare l’emozione di quei momenti. Abbiamo bisogno di conservarne la memoria perché come allora anche oggi si rinnovi l’entusiasmo popolare attorno a Maria, la Madre di Gesù e madre dell’umanità. Quanta gente cerca luce, chiede pace, ha sete di amore. A chi spaesato dalle circostanze pensa con paura al presente e al futuro, possiamo e dobbiamo indicare la Madonna di Fatima, come stella che guida il nostro cammino nella Chiesa e nella società. Ma dobbiamo farlo più che con le parole con la nostra vita, con il nostro esempio.
Che fare? Tornare a vivere il vangelo sul serio, restare umili, obbedienti fedeli nella Chiesa accanto al Papa e ai Vescovi in comunione con lui; non lasciarci distrarre da tanti richiami fuorvianti che circolano nella società occidentale stanca e scoraggiata, dove però si colgono anche non pochi segni di rinnovamento. La Madonna a Fatina ha indicato le armi per il combattimento della fede: “preghiera e penitenza”. In particolare ripropongo la recita del rosario quotidiana nelle famiglie. Facciamo diventare la preghiera del rosario, tanto raccomandata anche da tutti i pontefici, l’arma per battere il male e la potenza di satana e l’aiuto semplice ed efficace per trasformare il mondo. La Madonna l’ha promesso e io sono sicuro che la vittoria del suo cuore immacolato è ormai imminente. Buona giornata e insieme andiamo spiritualmente pellegrini presso la cappellina delle apparizioni a Fatima dove un mio amico ha portato questi fiori a nome mio e di tutti voi.

martedì 12 ottobre 2021

 


L'AMORE AUTENTICO SI SPORCA IMMERGENDOSI NEL CUORE DELLA SPOSA PER PURIFICARLO E RENDERLO LIBERO DI DONARSI
L’amore autentico è sporco, ma sporco da far ribrezzo. E’ una pattumiera piena di spazzatura, una tuta da lavoro macchiata all’inverosimile. Scandalizza come un barbone lercio e maleodorante capitato in un ricevimento di corte. Come il cuore e le parole intrisi d'amore autentico di Gesù, invitato a casa di un fariseo, un luogo separato dall’esterno e purificato in ogni angolo, dove si è “sdraiato” (secondo l’uso del tempo) a tavola senza prima “lavarsi”. Altro che Hiroshima, in quella casa Gesù aveva fatto scoppiare una bomba devastante: immaginate un contadino appena uscito dalla stalla dove ha munto le sue mucche e pulito i loro escrementi, entrare in una camera sterile di un ospedale: ecco, l'attitudine di Gesù deve aver prodotto più o meno lo stesso effetto deflagrante e sconvolgente dell’amore autentico a contatto con quello ipocrita che si nutre di purificazioni esteriori. Quanti fidanzamenti e matrimoni, quante amicizie e relazioni scivolano tra un maquillage e l’altro, illudendosi di fortificare l’unione lucidando la superficie (il sentimento, per capirci, le parole chattate, i pensieri postati) mentre invece la si accompagna alla tomba perché all’interno continua a covare e a crescere la concupiscenza che “rapina” la dignità dell’altro, facendolo “cattivo”, ovvero “schiavo” di se stesso. Creato a «immagine e somiglianza» di Dio, l'uomo era destinato a una vita pura, nella comunione e nell'intimità con Lui. Mangiando dell'albero però, ha fatto esperienza della morte, la madre di ogni impurità, che lo ha strappato al Paradiso. Il cuore, l' "interno", si è contaminato di una menzogna "malvagia" che lo ha orientato a "rapinare" quello che, invece, gli era stato gratuitamente. Non a caso all'origine del termine "malvagità" vi è anche l'idea di una "fatica dolorosa del male". Fateci caso, il male è sempre faticoso, e lascia nudi e sporchi, come i progenitori che hanno conosciuto la vergogna e la concupiscenza, e "tutto" è divenuto impuro: l’amore tra gli sposi, gli affetti, le amicizie, il lavoro. Tutto è ferito dalla "dolorosa fatica" del male. Ma coraggio, non aver timore di guardare oggi al tuo fidanzamento, al matrimonio, alla relazione con i tuoi figli o i tuoi genitori, con i tuoi fratelli di carne o quelli della comunità cristiana, con i parenti, i colleghi di lavoro o i compagni di scuola; invita anche tu Gesù a casa tua, e lasciati illuminare dalla presenza di Gesù che, per amore, si “sdraia” nel letamaio che si nasconde nel tuo cuore. No, Lui non si lava prima di mangiare, non avrebbe senso perché è giunto accanto a te, nella tua intimità, per “battezzarsi” (Luca ha usato il termine “baptizein” tradotto con “lavare”), immergersi nei tuoi peccati. Il vero amore infatti, quello incorruttibile e celeste che la Chiesa ha annunciato al mondo con il nome di “agape”, si sporca per lavare, si “sdraia” per far risuscitare, si dona per fare della vita di ogni uomo il dono che il Padre ha pensato quando lo ha creato, maschio e femmina, a sua immagine e somiglianza. Gesù non ha bisogno di lavarsi le mani perché il suo amore è puro alla fonte. E anche oggi viene nella Chiesa per compiere nella nostra vita di alienati, il miracolo dell’amore autentico che disintegra l’amore ipocrita dell’uomo vecchio. In fondo la Chiesa è come la casa di quel fariseo, una comunità di poveri uomini che spesso cadono nel tranello antico del demonio e si illudono di invitare Gesù a mensa, dimenticando che, come accadde a casa di Marta e Maria e di quel fariseo, è Lui che ci invita ad accogliere il suo amore fatto Parola da ascoltare e Pane da mangiare, perché viene a visitarci proprio per purificare le nostre case.
Accettiamolo fratelli, anche noi spesso prendiamo il cristianesimo come prendiamo la vita, ingannati cioè dalla menzogna del demonio. Credere di poter diventare come Dio, infatti, significa anche illudersi di raggiungere il suo grado di purezza e “separazione” (fariseo significa “separato”) dal mondo del peccato, con le proprie forze impegnate a lucidare la carrozzeria della vita. E ciò significa concretamente essere diversi dai politici che rubano, come da tuo cugino che ha l’amante. Intendiamoci, un cristiano è “nel” mondo ma non è “del” mondo perché è “santo” nella “santità” di Dio (anche “santo” significa “separato”); ma c’è un particolare che distingue la “stoltezza” di quel fariseo che siamo tutti noi, dalla “sapienza” dei cristiani che hanno camminato nella fede sino ad immergersi con Cristo nel suo stesso battesimo: la Croce. Per caso ci si lavava prima di salire al patibolo più infamante? Tutto il contrario, ci si giungeva sfiancati e sfigurati, come Gesù, che su di essa si è “sdraiato” per te e per me, sporco al punto che il suo aspetto non era più neanche quello di un uomo. Aveva infatti lasciato che il flagello gli straziasse la carne perché con il suo sangue potesse lavare la nostra carne impigliata nell’ipocrisia. Avete presente la Sindone? Ecco, l'Uomo che è stato avvolto in esso e "sdraiato" nel sepolcro è il segno dell'amore autentico. Coraggio allora, perché nella comunità cristiana Gesù si “sdraia” nella tua storia di peccati, per strapparti all’alienazione che ti fa curare maniacalmente l’esterno del bicchiere, nello sforzo di rispettare e far rispettare leggi e codici che ti sei costruito per dare un aspetto presentabile e dignitoso al fidanzamento, al matrimonio e a tutta la tua vita. Basta fratello! “Dai in elemosina quanto è dentro” il tuo cuore, approfitta cioè del marcio che sino ad oggi hai accarezzato e viziato; dai a Cristo il tuo sporco e allora “tutto in te diventerà puro”, cioè autentico perché sarai finalmente immagine e somiglianza di Dio. Attenzione, non a caso il Signore ci dice di “dare in elemosina” quello che abbiamo dentro: il denaro, infatti, è il segno della superbia che ci vorrebbe come Dio, è il potere che ci fa “puri” agli occhi degli altri, cioè inattaccabili e in diritto di comprare ed esigere quello che un dio vuole. Per il denaro il cuore si muove a “rapinare”, perché di esso è “schiavo”, e quindi ogni pensiero, parola e gesto è “cattivo”. Allora, dai in elemosina il denaro che, al tuo interno, usurpa il posto di Dio; oggi, prendi quello che hai nel portafoglio, magari il tuo conto in banca, sì, proprio quello che ti sporca dentro rendendoti invidioso, geloso, pauroso e violento; il denaro di cui ti vesti per non apparire per quello che sei. Prendilo e dallo in elemosina al primo barbone che incontri, o nella cassetta dei poveri nella prima chiesa che ti trovi davanti. Gesù lo ha fatto per te, misero e senza dignità, dandoti in elemosina tutto se stesso. Accogli la sua ricchezza, l’amore e lo Spirito Santo, la misericordia e la vita eterna, e dagli l’ipocrisia fatta denaro che avvelena e sporca il tuo cuore. Allora saranno puri il tuo fidanzamento, il matrimonio, e ogni relazione, perché il tuo cuore e i tuoi occhi purificati sapranno vedere Dio nell’altro, l’amore nel quale donarsi e trascendersi. Solo amando in Cristo saremo davvero “puri”, privi cioè della malizia demoniaca che ci dilania interiormente separando dolorosamente fede e vita, cuore e opere; solo nell’amore che incarna lo Shemà, infatti, saremo immagine e somiglianza di “Colui che ha fatto l’interno e anche l’esterno”, vivendo nella “purezza” della creatura che compie la volontà del suo Creatore.

lunedì 11 ottobre 2021

 


LA NOSTRA VITA QUOTIDIANA E' IL SEGNO DEL TRIONFO DELL'AMORE DI CRISTO SULLE MENZOGNE DEL DEMONIO
Inizia una nuova settimana e, puntuale, la Parola ci viene a scrutare: che "segno" chiediamo al Signore? Come le folle anche noi ci «accalchiamo» per carpire da Gesù un «segno» che ci dia «il successo personale e un aiuto per affermare l’assoluto dell’io» (J. Ratzinger). Ci illudiamo di chiedere a Dio un «segno» per orientare verso di Lui le scelte ma, quando non sono soddisfatte le nostre passioni, si svela la «malvagità» che coviamo nel cuore. Il volto scuro come Caino, e gelosie, invidie, ira e rancori capaci di uccidere il fratello per vendicarsi di Dio. Chi invece con rettitudine di intenzione desidera conoscerlo e convertirsi, non chiede un segno: come la «Regina del Sud», si mette in cammino per «ascoltare la Sapienza di Salomone», il figlio di Davide e Betsabea, ovvero il figlio della misericordia. Come i Nìniviti, ai quali bastò la predicazione di uno straniero per cambiar vita, lascia il centro della scena - che è l'attitudine del cuore che si nasconde nella richiesta di un segno, il protagonismo dei propri desideri, la soddisfazione degli appetiti dell'uomo vecchio che ha creduto di essere come Dio - perché vi sia la Parola di Dio. Noi invece stentiamo a convertirci, nonostante «Uno molto più di Giona» bussi ogni giorno alla nostra vita attraverso gli eventi e le persone che la Chiesa illumina con la sua predicazione. «Meritevoli d’ira» come questa «generazione malvagia», per Grazia siamo stati raggiunti dall'amore di Dio e scelti come una primizia per divenire il «segno del Figlio dell'uomo» per ogni uomo. Che ne abbiamo fatto della nostra primogenitura? Forse l'abbiamo truccata per adattarla ai nostri desideri, e siamo scivolati in un'ipocrisia insopportabile. Forse abbiamo fatto il callo al "segno" di Cristo che il Padre ci dona ogni giorno; non ci accorgiamo più del suo amore, come un marito che neanche guarda più negli occhi sua moglie, tanto sempre uguali sono, quando non si infiammano di rimproveri... Esattamente come facciamo con la predicazione: superflua, come un rumore di fondo a cui ci siamo abituati, ma che però non smette di darci fastidio. Il demonio, infatti, sa bene che la fede viene dall'ascolto della stoltezza della predicazione; e che con la fede il suo regno di male giunge al termine: il demonio sa che l'ascolto salva, per questo cerca di impedire proprio la stolta predicazione di "Uno morto crocifisso ritornato in vita". Come era stolto Giona, testardo, pauroso, uno che umanamente era adatto a tutto meno che a predicare la misericordia di Dio, della quale, invece, si scandalizzava. Eppure gli abitanti di Ninive hanno creduto alla predicazione di quest'uomo così inadeguato secondo i criteri mondani, e si sono convertiti. Hanno creduto a Giona perché lo hanno visto peccatore come loro ma raggiunto da una Grazia soprannaturale, che lo ha reso il "segno" credibile a cui appoggiarsi per cambiare vita. Allora è proprio la tua debolezza, quei pensieri mondani che ti trascinano in fondo al mare nelle fauci di una balena; è proprio dalla tua carne così facilmente corruttibile che Dio parte per dare l'unico segno che può salvare una generazione malvagia. La salvezza cioè, inizia proprio dalla malvagità che ci fa figli di questa generazione, le cui conseguenze di morte il Figlio di Dio fatto carne ha preso su di sé sino a morirne e scendere in un sepolcro. Ma dal ventre della morte è risuscitato, come oggi farà risorgere te con Lui dalle fauci dei fatti e delle relazioni che, affrontati con i pensieri mondani, si sono trasformati in tombe gravide di morte. Solo chi, come Giona e Gesù, è risuscitato dalla morte della sua generazione può diventare un segno credibile, capace cioè di parlare al cuore e prendersi il centro della vita e parlare al cuore con l'autorità della Verità. Il profeta è in tutto simile a coloro ai quali è inviato, come il Figlio di Dio si è fatto uguale a noi, eccetto il peccato. Altrimenti non lo ascolterebbero.
Allora coraggio, perché il segno che Dio vuole offrire a questa "generazione", cioè a chi ti è vicino ed è "generato", come te, nel peccato, è proprio la tua vita, così come è oggi; proprio quella che invece, esigendo da Dio un "segno" illusorio, un miracolo travestito di luce con cui sfuggire l'unica salvezza che viene dalla Croce, il demonio ti spinge a rifiutare. Attenzione però, perché esiste il «giorno del giudizio», la vita non è un gioco e poi "tana libera tutti".... Ci sarà "un giorno" nel quale gli uomini saranno giudicati, e i cristiani ancor più approfonditamente... Il giorno in cui i pagani si "alzeranno" e ci "giudicheranno" per non esserci convertiti e aver loro predicato il Vangelo. Ma il «giorno del giudizio» è anticipato nella storia, giunge a noi anche «oggi»: al lavoro, a scuola, al bar, tra i parenti, la sofferenza di chi non ha conosciuto Cristo ci «giudica» in attesa del segno della nostra conversione, la fede adulta che si fa amore. Il collega di ufficio, lontano dalla Chiesa e nemico dei preti, con una situazione familiare fallimentare eppure incapace di accettarlo, che a sentirlo sembra vivere la migliore delle vite possibili; ebbene, proprio lui "si alzerà" dal suo tavolo di lavoro e ti chiederà aiuto. A te, che ha sempre disprezzato, insultato ed emarginato, a te chiederà luce e consolazione per non impazzire di fronte all'incidente che si è portato via il figlio sedicenne. Se non ti sarai convertito oggi non potrai dargli nulla, e dovrai rimandarlo a mani vuote; e la tua vita, alla quale Dio ha voluto legare la sua, precipiterà all'inferno, nella solitudine dove sono condannati a vivere quanti non hanno accolto l'amore e non hanno potuto diffonderlo. Ma c'è speranza, proprio oggi: basta non difenderci, lasciarci giudicare e convertirci e smettere di chiedere capricciosamente e infantilmente che persone e fatti siano piegati ai rantoli della nostra concupiscenza. Per questo basta "ascoltare" la predicazione e accogliere la sapienza della Croce che ci ricorda la "cenere" dalla quale siamo stati tratti. Accettare di essere andati per la vita come i niniviti, "senza distinguere la destra dalla sinistra", senza discernimento e per questo sbattendo sui muri che ci hanno separato dagli altri, mentre li credevamo amore. Convertiamoci e riconosciamo che quella presa di posizione ha ucciso nostra moglie; che quel criterio ha ferito e umiliato nostro figlio; che quel progetto che abbiamo idolatrato ha escluso e allontanato il fratello. Umiliamoci allora, e "vestiamoci di sacco" anche noi come gli abitanti di Ninive; digiuniamo di parole e cibi, umiliamo il corpo con il quale abbiamo ucciso e scandalizzato. Entriamo nella storia accogliendone ogni centimetro, sperando di sperimentare in essa, per pura Grazia, l'amore di Dio. E ciò significa "alzarci" dall'alienazione di ogni giorno e, come la Regina del Sud, muoverci dagli "estremi confini della terra" dove siamo scappati ingannati dal demonio, e tornare a Cristo, alla Sapienza della Misericordia. Lasciamo che Gesù, nella comunità cristiana, ci faccia una sola cosa con Lui, perché questa è la nostra primogenitura, sperimentare come primizie il "segno" di Giona per diventarlo a nostra volta a favore di questa generazione. Perché nell'ultimo giorno, chi ha atteso di vedere in noi il "segno" della vittoria sulla morte di Cristo, possa giungere in Cielo dicendo a tutti di averlo visto, di averlo incontrato nella nostra predicazione e testimonianza. E così potremo entrare insieme a loro, e con loro godere eternamente delle delizie del nostro Sposo.

giovedì 7 ottobre 2021

 


7 OTTOBRE. BEATA VERGINE DEL ROSARIO


Nel 1212 san Domenico di Guzman, durante la sua permanenza a Tolosa, vide la Vergine Maria che gli consegnò il Rosario, come risposta ad una sua preghiera, a Lei rivolta, per sapere come combattere l’eresia albigese.
Fu così che il Santo Rosario divenne l’orazione più diffusa per contrastare le eresie e fu l’arma determinante per vincere i musulmani a Lepanto. Come già per Poitiers (ottobre 732) e poi sarà per Vienna (settembre 1683), la battaglia di Lepanto fu fondamentale per arrestare l’avanzata dei musulmani in Europa. E tutte e tre le vittorie vennero imputate, oltre al valore dei combattenti, anche e soprattutto all’intervento divino.
La battaglia navale di Lepanto si svolse nel corso della guerra di Cipro. Era il 7 ottobre 1571 quando le flotte musulmane dell’Impero ottomano si scontrarono con quelle cristiane della Lega Santa, che riuniva le forze navali della Repubblica di Venezia, dell’Impero spagnolo (con il Regno di Napoli e di Sicilia), dello Stato Pontificio, della Repubblica di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Granducato di Toscana e del Ducato di Urbino, federate sotto le insegne pontificie.
Dell’alleanza cristiana faceva parte anche la Repubblica di Lucca, che pur non avendo navi coinvolte nello scontro, concorse con denaro e materiali all’armamento della flotta genovese.
Prima della partenza della Lega Santa per gli scenari di guerra, san Pio V benedisse lo stendardo raffigurante, su fondo rosso, il Crocifisso posto fra gli apostoli Pietro e Paolo e sormontato dal motto costantiniano In hoc signo vinces. Tale simbolo, insieme con l’immagine della Madonna e la scritta S. Maria succurre miseris, issato sulla nave ammiraglia Real, sarà l’unico a sventolare in tutto lo schieramento cristiano quando, alle grida di guerra e ai primi attacchi turchi, i militi si uniranno in una preghiera accorata. Mentre si moriva per Cristo, per la Chiesa e per la Patria, si recitava il Santo Rosario: e i prigionieri remavano ritmando il tempo con le decine dei misteri. L’annuncio della vittoria giungerà a Roma 23 giorni dopo, portato da messaggeri del Principe Colonna. Il trionfo fu attribuito all’intercessione della Vergine Maria, tanto che san Pio V, nel 1572, istituì la festa di Santa Maria della Vittoria, trasformata da Gregorio XIII in «Madonna del Rosario».
Comandante generale della flotta cristiana era Don Giovanni d’Austria di 24 anni, figlio illegittimo del defunto Imperatore Carlo V e fratellastro del regnante Filippo II. Al fianco della sua nave Real erano schierate: la Capitana di Sebastiano Venier, capitano generale veneziano; la Capitana di Sua Santità di Marcantonio Colonna, ammiraglio pontificio; la Capitana di Ettore Spinola, capitano generale genovese; la Capitana di Andrea Provana di Leinì, capitano generale piemontese; l’ammiraglia Vittoria del priore Piero Giustiniani, capitano generale dei Cavalieri di Malta. In totale, la Lega schierò una flotta di 6 galeazze e circa 204 galere. A bordo erano imbarcati non meno di 36.000 combattenti, tra soldati, venturieri e marinai.
A questi si aggiungevano circa 30.000 galeotti rematori. Comandante supremo dello schieramento ottomano era Müezzinzade Alì Pascià. La flotta turca, munita di minore artiglieria rispetto a quella cristiana, possedeva 170-180 galere e 20 o 30 galeotte, cui si aggiungeva un imprecisato numero di fuste e brigantini corsari. La forza combattente, comprensiva di giannizzeri, ammontava a circa 20-25.000 uomini. L’ammiraglio, considerato il migliore comandante ottomano, Uluč Alì, era un apostata di origini calabresi, convertitosi all’Islam. Alì Pascià si trovava a bordo dell’ammiraglia Sultana, sulla quale sventolava un vessillo verde, dove era stato scritto, a caratteri d’oro, 28.900 volte il nome di Allah.
I musulmani di allora tagliavano le teste così come le tagliano oggi quelli dell’Isis: essi non hanno mutato i loro sistemi, mentre i cristiani hanno declinato i loro doveri davanti a Dio e alle loro nazioni, asservendosi non più al Re del Cielo e della terra, ma al padrone degli Inferi. Spiegava san Louis-Marie Grignon de Montfort: «Nel Cielo, Maria comanda agli angeli e ai beati. Come ricompensa della sua profonda umiltà, Dio le ha dato il potere e l’incarico di riempire di santi i troni lasciati vuoti dalla superbia degli angeli ribelli». Tutte le grazie passano per Maria, come ci insegnano i grande teologi mariani ed ecco perché san Pio V, Papa mariano e domenicano, affidò a Maria Santissima le armate ed i destini dell’Occidente e della Cristianità, minacciati dai musulmani.
Da allora in poi si utilizzò ufficialmente il titolo di Auxilium Christianorum, titolo che non sembra doversi attribuire direttamente al Pontefice, ma ai reduci vittoriosi, che ritornando dalla guerra passarono per Loreto a ringraziare la Madonna.
I forzati che erano stati messi ai banchi dei remi furono liberati: sbarcarono a Porto Recanati e salirono in processione alla Santa Casa, dove offrirono le loro catene alla Madonna; con esse furono costruite le cancellate poi poste agli altari delle cappelle. Lo stendardo della flotta fu donato alla chiesa di Maria Vergine a Gaeta, dove è tuttora conservato.


 




7 Ottobre 1571

Epica battaglia fu quel giorno a Lepanto. Altrettanto difficili e violente sono le battaglie che ci attendono oggi ed ogni giorno. Ma proprio su ogni giorno che si apre dinnanzi ai nostri occhi risuona l'annuncio di Gabriele: "Non temere, piena di grazia....niente e' impossibile a Dio". Oggi dunque non temere i cannoni delle tentazioni, le spade dei pensieri e dei dubbi, il fuoco delle passioni, il Signore e' con te ad indicarti il sentiero della vita. Oggi la Vergine Maria proteggerà i tuoi passi sino a sperimentare, nella concreta storia che ti e' donata, che davvero nulla e' impossibile a Dio.

lunedì 4 ottobre 2021

 


PASQUA DI S. FRANCESCO 3 OTTOBRE 1226
“Leone, Masseo, Angelo e Ruffino, avvicinatevi e toglietemi tutti i vestiti. Compagni di tante battaglie, non abbiate timore. Il Padre mi ha buttato nudo nel mondo e nudo voglio tornare tra le sue braccia. Voglio morire nudo come il mio Signore Gesù Cristo. Voglio morire tra le braccia di donna povertà e nel seno di madre terra, mia sorella. Spogliatemi dunque di tutti i vestiti”
I quattro frati obbedirono e, man mano che toglievano i poveri indumenti, le lacrime sgorgavano copiose. Anche Ruffino non riusciva più a trattenersi. Il corpo di Francesco era gonfio, paonazzo, martoriato dalle tante penitenze e malattie. Con la mano sinistra cercava di nascondere un po’ la piaga del costato.
Francesco continuò: “E ora mettetemi nudo sopra la nuda terra”
Poi disse ai frati: «Io ho fatto il mio dovere; quanto spetta a voi, ve lo insegni Cristo!»
Francesco, con gli occhi chiusi, si girò per baciare la terra in segno di riconoscenza, ma non ci riuscì. Allora appoggiò le sue mani sulla terra e disse: “Frate Leone, dì a fra Pacifico che canti. Cantate tutti.” Fra Pacifico cantò fino alla fine il “Cantico di frate Sole”.
Le lacrime dei frati si mescolavano con i gesti di tenerezza di Francesco e il loro dolore veniva addolcito dalle ultime parole del santo.
Era una scena che avrebbe commosso anche le pietre. Lacrime sconsolate scendevano sui visi di tutti e fu in quel momento che Francesco “stese la sua destra su di essi e la pose sul capo di ciascuno cominciando dal suo vicario: «Addio figli miei, vivete nel timore del Signore e conservatevi in esso sempre! E poiché si avvicina l’ora della prova e della tribolazione, beati quelli che persevereranno in ciò che hanno intrapreso! Io infatti mi affretto verso Dio e vi affido tutti alla sua grazia».
Benedisse tutti i frati presenti, quelli che erano in giro per il mondo e “quanti sarebbero venuti dopo di loro sino alla fine dei secoli”.
Nel frattempo dal bosco e da tutte le capanne vicine, si alzava senza sosta la melodia del “Cantico”.
Francesco disse: “Ben venga la mia sorella morte!”
E al medico: “Su, frate medico, dimmi pure che è prossima la morte, la quale sarà per me la porta della vita!”
Inaspettatamente l’agonizzante sembrò quasi riprendere le forze e nel tentativo di sedersi, esclamo con ansia e gioia insieme: “Sta arrivando! Sta arrivando!”
Poi chiese ai frati che, in onore di sorella morte, sul suo corpo spargessero polvere e cenere. Disse: “Con la mia voce ho invocato il Signore”. I frati proseguirono quel salmo.
Francesco aveva 45 anni.
Tutto era compiuto.
Nel suo giaciglio non si muoveva più.
Era il tramonto del 3 ottobre 1226.
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