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lunedì 31 maggio 2021

 


ATTRAVERSO LA CHIESA NOSTRA MADRE CRISTO CI VISITA FACENDO DANZARE DI GIOIA LA NOSTRA VITA
Come Elisabetta intuiamo ma abbiamo bisogno d'una visita, perché il miracolo di Grazia si schiuda in un canto di lode. Viviamo l'amore di Dio dentro di noi, ne sentiamo spesso tutta la portata soprannaturale, proprio come una donna incinta vive ogni cosa in modo particolare, come afferrata da una presenza interna, misteriosa che le appartiene e, allo stesso tempo, le sfugge. Con Elisabetta abbiamo bisogno di Maria. Maria, tabernacolo della presenza di Dio tra noi. E' sempre Lei che ci visita, ambasciatrice dell'amore di Dio. E' Lei che ci dona il Signore, celato nelle Sue castissime viscere. E Maria è la Chiesa, il suo saluto che risuona nel profondo è l'annuncio che il nostro cuore attende senza posa, la Parola capace di sciogliere in noi quello che, da sempre, la Grazia ha seminato. La Parola che muove in noi la Vita in un sussulto di gioia. E' l'annuncio che desta la gioia: Dio s'è fatto carne nella nostra carne, proprio nelle vicende che ci visitano per coinvolgerci, la storia nostra di ogni giorno. Maria è il mistero della nostra vita racchiuso nella dolcissima fanciulla di Nazaret, perché nella storia vibra l'eco dell'annuncio della Chiesa. Un annuncio, una parola, la visita di Maria e quello che era perduto sarà riscattato. I passi veloci della Figlia di Sion sul crinale delle montagne di Giuda sono i passi urgenti degli apostoli di ogni tempo. Shalom! Il saluto di Maria che sveglia la gioia nel seno di Elisabetta, che svela l'amore nascosto in ogni evento, in ogni persona che corre al nostro incontro. Pace perché nella carne è disceso Dio, e tutto, ma proprio tutto è ormai divino, parte misteriosa di un Cielo che non conosciamo ma che possiamo cominciare a sperimentare. Pace! Il saluto di Maria che profetizza e anticipa il saluto del Figlio agli apostoli impauriti, il saluto di Colui che ha vinto il peccato e la morte e ha distrutto il muro che separava l'umanità da Dio e dal suo Regno: Pace!, il saluto che con cui il Cielo ci viene a visitare per attirarci nella vita nuova dei beati, pegno e garanzia qui sulla terra del destino che ci attende. Pace! Il saluto di Maria che ridesta la gioia che abbiamo dimenticato tra le tristezze di ciò che ormai pensiamo come perso irrimediabilmente, la gioia della risurrezione di tutto quello che in noi era morto. La risurrezione della speranza. La storia nostra di oggi, e di ogni giorno, ci arriva al cuore attraverso il saluto di Maria. E tutto si illumina, il passato ci ha preparato a questo incontro, ed è questo quello che davvero conta. Anche le debolezze, nell'ascoltare la voce di Maria anche i peccati brillano d'una luce nuova, la stessa che risplende sul volto del Figlio risorto: Lui s'è fatto peccato, e su quel peccato conficcato per sempre sulla Croce, è brillata la misericordia. Pace a voi! Apparteniamo a Gesù, come Maria, con Maria, Donna umile ebbra di gioia, che canta le meraviglie di Dio, nella gioia che scaturisce dalla verità. Maria, donna vera, la creatura pura che non teme e non ricusa d'esser creatura. Maria, una vergine di Nazaret, nulla di più, niente di diverso desiderato. In Lei è ciascuno di noi così come dipinto nella mente di Dio, prima d'ogni inalazione mortifera di superbia originale. La sua umiliazione ci attira nella verità che ci costituisce creature in tutto dipendenti dal Creatore. Il suo seno verginale è tutto quello che di noi appartiene al Creatore. Le sue viscere materne sono la grotta povera, spoglia, di nessun valore che si addice - l'unica - al Dio che si fa uomo. La sua umiliazione accoglie oggi ogni frammento divino che è in noi, il cuore, la mente, il corpo che ci è donato per servire e donarsi, e che giace schiavo del tiranno che ci ha insegnato l'orgoglio con le parole della menzogna. Maria è l'eletta che ha riassunto in sé ogni creatura perduta, immacolata per i macchiati, umile per i superbi, vera per i falsi. E Dio ha guardato la sua umiliazione, gli occhi misericordiosi del Padre hanno fissato in Lei il suo primo progetto, un figlio, una figlia, e l'abbandono totale tra le braccia dell'amore. Dio ha guardato all'umiliazione di Maria, alla verità di Maria fatta di terra, la sua storia, le sofferenze e le angosce di tutti noi scappati dall'ovile della verità. Maria ci accoglie nella sua umiliazione, e ci conduce nel Magnificat della creatura che esiste nel Creatore, che è del Creatore, che vive per il Creatore. Dio guarda l'umiliazione di Maria come ha guardato il popolo gemente sotto il giogo del Faraone. E si prende cura di Lei, e, in Lei, di tutti noi schiavi della menzogna. Maria visita oggi la nostra vita, sulla soglia delle nostre ore, perchè con Lei possiamo accogliere il Salvatore. Maria ci conduce alla verità della nostra condizione e ci insegna a gridare, ad aspettare, ad accogliere. Maria ci mostra il vuoto che ci pervade, ci insegna a non averne paura, ad accettare quello che siamo, a lasciare ogni sogno, ogni desiderio alla volontà di Dio per noi. Maria ci accoglie e ci aiuta a schiuderci alla Grazia, allo stupore di fronte alle meraviglie della misericordia di Dio preparate per ciascuno di noi. Maria è nostra Madre e ci insegna e accompagna a donarci ad ogni persona e in ogni occasione; in fondo siamo suoi figli, i nostri occhi assomigliano ai suoi, sono disegnati e creati per vedere Dio in ogni istante: il suo Shalom li riporta al loro splendore. Maria ci chiama, ci aiuta a lasciare che vengano dispersi i superbi pensieri annidati nei nostri cuori; che Dio faccia vuote le nostre mani piene di false ricchezze per riempirle dei suoi doni incorruttibili; che siamo oggi rovesciati dai troni del potere, dell'arroganza, dei vani sogni di gloria. Maria ci guida nel cammino di conversione che sono la vita e il tempo che ci son donati. Maria ci abbraccia oggi come abbracciò Elisabetta, e ci unisce al suo canto di lode, quello per cui siamo stati creati. La lode di povere, umili creature che, istante dopo istante, sono ricolmate di Grazia dal proprio creatore. Maria ci accompagna oggi, nella verità e nella gioia, pieni di stupore e di esultanza.

domenica 30 maggio 2021

 



IMMERSI NELL'AMORE DEL PADRE, DEL FIGLIO E DELLO SPIRITO SANTO
Per celebrare la Santissima Trinità la Chiesa ci “fa discepoli” dicendoci: “Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te”, apri cioè i libri di storia e chiedi alle vicende che in esse vi sono descritte se “vi fu mai cosa grande come questa”. Chiedi in giro se oggi, nel mondo, si è udita una “cosa simile a questa”. Anche in occasione di questa Solennità, infatti, la Chiesa, non spiega teoricamente un dogma, ma annuncia un fatto concreto, visibile, sperimentabile: Dio esiste, ed è “Padre, Figlio e Spirito Santo”. E’ questa la cosa inaudita, che non leggerai su nessun giornale e non sentirai in nessun telegiornale. E perché, invece, la Chiesa lo può annunciare “andando e ammaestrando tutte le nazioni”? Perché è testimone che “Dio è venuto a scegliersi una nazione in mezzo alle altre con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori”. La Chiesa ha cioè sperimentato che Dio ha scelto un pugno di uomini tra i più poveri e deboli, un resto di “schiavi” per liberarli dalle catene del demonio che soggioga tutte le nazioni della terra, e farne dei “figli di Dio” riuniti in una nazione santa. Questi suoi figli hanno visto “sotto i loro occhi” il “potere” che veniva dal “Cielo”, ovvero più forte della morte, che il Padre ha dato al suo Figlio “sulla terra”; hanno “udito la voce di Dio parlare dal fuoco” e sono “rimasti vivi”, sperimentando cioè l’ardere dello Spirito Santo bruciare ogni peccato, e scrivere nel loro cuore “le Leggi e i comandi” che nessun uomo con le sue forze è in grado di compiere.
Celebrando la Santissima Trinità dunque, la Chiesa narra e canta i memoriali dell’amore di Dio, professando con gratitudine e coraggio la sua fede. Non a caso, infatti, il Credo che recitiamo dopo la proclamazione della Parola di Dio e prima della liturgia eucaristica segue una divisione Trinitaria. E’ questo credo che unisce la Parola predicata, ascoltata e accolta al suo compimento sull’altare. E’ la fede della Chiesa che ci fa passare dalla Parola del Padre alla sua Incarnazione nel Figlio sino al compimento del suo Mistero Pasquale nello Spirito Santo che trasforma, come le specie eucaristiche, la nostra vita. Noi crediamo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo perché siamo stati “battezzati” in loro, “immersi” cioè nell’amore del Padre che non ci ha mai giudicati ma ha provveduto con pazienza e fedeltà alla nostra vita; nell’amore del Figlio che si è fatto uomo come noi per entrare nella morte che, impaurendoci, ci ha tenuti schiavi, e risorgere insieme a noi da tutte le situazioni di peccato che ci impedivano di amare; nell’amore dello Spirito Santo che ci è stato donato e ha fatto di noi i “figli adottivi di Dio per mezzo del quale gridiamo a Dio “Abbà, Padre!”.
Per questo, dopo aver celebrato il Tempo Pasquale, compimento della missione di Gesù che ci ha salvati, siamo chiamati oggi ad “andare” anche noi “in Galilea, sul Monte che Gesù ha fissato” alla sua Chiesa, quello dove aveva annunciato le Beatitudini e profetizzato l’uomo nuovo che vive “guidato dallo Spirito Santo” secondo le parole del Discorso detto appunto della Montagna. Siamo cioè chiamati ad accogliere in noi il suo compimento per uscire in missione e testimoniarlo al mondo. E’ vero che alcuni di noi stanno ancora “dubitando”… E’ davvero impossibile per l’uomo che guarda a se stesso “partecipare alle sofferenze di Cristo per partecipare alla sua gloria”. Insomma, questo blocco granitico di orgoglio e superbia, questo pallone gonfiato dall’ipocrisia che sono io può davvero “ereditare” da Dio la stessa vita eterna che ha “ereditato” Cristo? Si fratelli, tu ed io, così come siamo oggi possiamo diventare “figli di Dio”. O pensate che tra gli “undici discepoli” Gesù abbia scartato per inidoneità quelli che “dubitavano”? Certo che non li ha scartati, Lui conosce tutti quelli che ha “scelto”. Non a caso quella mattina erano “undici”: Giuda, infatti, chiuso nella superbia che gli aveva impedito di abbandonarsi alla misericordia di Dio, si era autoescluso uccidendosi. Ed è stato un segno profetico: per salire sul Monte e obbedire a Gesù dobbiamo dare morte al nostro uomo vecchio che dispera della salvezza e non crede al perdono e alla possibilità di cambiare vita nelle acque di misericordia che ci attendono nel grembo della Chiesa. Esso è il segno del cuore di Dio dove possiamo conoscere l’amore trinitario e credere in Essa, per “sapere oggi e conservare bene nel nostro cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra, e che non ve n’è altro”. Non c’è altro luogo dove imparare a credere al Mistero della Trinità che la comunità cristiana. In essa Gesù “si avvicina” con la Parola, i sacramenti e la carne dei fratelli, per essere “con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”: ciò significa che potremo sperimentare “il potere che gli è stato dato in Cielo” dove è entrato vittorioso sulla morte” in ogni circostanza che vivremo “in terra”. Per “andare e ammaestrare tutte le nazioni” occorre, infatti, avere l’esperienza di essere “usciti dall’Egitto”, perché è lì che Dio viene “tutti i giorni” a “scegliere” ciascuno di noi.
Coraggio allora, perché siamo stati scelti per rivelare alle nazioni l’amore della Trinità, la possibilità offerta da Dio ad ogni uomo di essere “battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” perché tutti, nessuno escluso, consegnino al loro amore i propri peccati e rinascere senza paura come figli di Dio! Ma per “ammaestrare” le nazioni abbiamo bisogno di ascoltare noi per primi il Maestro che insegna “tutti i giorni” nella Chiesa; e in essa sperimentare i “prodigi” che il Padre compie in noi per entrare con il Figlio nelle “battaglie” contro il demonio, il mondo e la carne e lasciarci guidare dal “braccio teso” e dalla “mano potente” dello Spirito Santo per discernere, in tutto, “i comandi e le leggi” che siamo chiamati ad osservare. Solo così saremo “felici noi e i nostri figli dopo di noi, restando a lungo nella terra” che è la comunità cristiana, dove gustare le primizia della vita che “il Signore nostro Dio ci darà per sempre”. Fratelli, il mondo che per essere felice si sta degradando nelle caricature più turpi e tragiche dell’amore che feriscono tanti figli innocenti di matrimoni improbabili, sarà “ammaestrato” solo se vedrà realizzarsi in noi la “felicità” di una vita piena nell’amore autentico, cioè libero e gratuito, trasmessa anche ai nostri figli.

martedì 25 maggio 2021

 



SEGUE GESU' SOLO CHI NELLA SUA CHIAMATA HA SPERIMENTATO LA LIBERTA' AUTENTICA
Pietro, nel Vangelo di oggi, ancora una volta dà voce alla Chiesa in una professione di fede che è un atto d'amore. Ma è un balbettio, non è ancora fede adulta. Centrale è infatti l'enfasi su quel "noi abbiamo...." che, nei passi paralleli degli altri vangeli, si fa anche domanda di ricompensa. Vi è ancora la carne che cerca un premio. Altre volte gli apostoli chiederanno a Gesù i posti migliori, riconoscimenti ufficiali. Nelle parole di Pietro possiamo ravvisare la tensione che sempre anima la Chiesa. E' vero che i suoi figli sono quelli che hanno lasciato tutto per seguire il Signore, ma è ancor più vero che l'abbandono di ogni sicurezza mondana è proprio l'impossibile fatto possibile da Dio, il miracolo che fa presente il Cielo, quello di cui ha parlato Gesù nel passo immediatamente precedente. Seguire Gesù è innanzitutto una liberazione. E' il segno di un incontro con la misericordia che strappa dalla schiavitù del peccato e della carne. La Chiesa che segue Gesù sul cammino della precarietà è così un segno per il mondo, una profezia del Cielo per tutti gli uomini. La risposta di Gesù indica un nuovo modo di vivere sulla terra, quello di coloro che non sono del mondo pur essendo nel mondo. Le parole di Gesù mostrano come nella Chiesa vi sia un rapporto nuovo tra le persone, un anticipo della vita beata che si incarna nella comunione dei santi. Ovunque i cristiani sono a casa propria. Non vi sono barriere legate alla razza, alla lingua, alla condizione sociale. Ovunque vi sono "fratelli, sorelle, madri, figli". Ovunque la vita è feconda, e piena, e realizzata. Per questo anche Pietro, e la Chiesa, nella continua tensione tra il Cielo e la terra, sono chiamati ad uscire da se stessi, dai vincoli della carne; la Chiesa è ogni giorno chiamata a conversione, a lottare con la tentazione di costruire qui la propria patria, di farsi agenzia sociale, di restringere i propri orizzonti e mettere se stessa al servizio di ideali pur nobili ma carnali, di farsi promotrice di assicurazioni per la terra e non per il Cielo, di mettere radici, di cercare riconoscimenti mondani, di essere accettata per sfuggire, in qualche modo, alle persecuzioni. "Come c’è uno zelo amaro che allontana da Dio e conduce all’inferno, così c’è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna. È a questo zelo che i monaci devono esercitarsi con ardentissimo amore: si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore, sopportino con somma pazienza a vicenda le loro infermità fisiche e morali… Si vogliano bene l’un l’altro con affetto fraterno… Temano Dio nell’amore… Nulla assolutamente antepongano a Cristo il quale ci potrà condurre tutti alla vita eterna” (S. Benedetto, Regola Pastorale, capitolo 72).
Non a caso infatti le parole di Gesù che annunciano per la Sua Sposa il centuplo già in questo mondo profetizzano, contemporaneamente, per essa le persecuzioni. La missione della Chiesa e di ogni suo membro consiste nell'essere un segno di contraddizione, una denuncia piena d'amore che, mostrando una vita diversa da quella mondana, ne attira, conseguentemente, le reazioni, anche le più violente. Il rifiuto di chi non accetta che vi sia la possibilità di una vita migliore, più autentica di quella che il mondo propone e che si possiede, e per la quale ci si sforza e si lotta. Il rigetto di chi si è fatto da solo, e i propri criteri ne sono il tesoro più geloso. Basta ricordare come, in una parabola, tra gli invitati al banchetto, vi siano anche quelli che non solo non accettano l'invito, ma uccidono gli inviati del Signore, segno di un'ira incontrollata che non può accettare un annuncio che sveli, in qualche modo, la propria pochezza, la propria incompiutezza. La Chiesa in fondo non "dialoga" mai, secondo l'idea di dialogo che circola di questi tempi, irrimediabilmente coniugata in relativismo. La Chiesa annuncia. E se annuncia una buona notizia, un banchetto, è perchè ha qualcosa da annunciare e offrire, qualcosa che gli altri non hanno. E questo, nella maggior parte dei casi, è inaccettabile. La Chiesa, per sua stessa essenza, è missionaria, è un segno, un sacramento di salvezza: “Noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita… Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui” (Benedetto XVI, Omelia all’inizio del ministero petrino, 24 aprile 2005)”. La Chiesa è il corpo di Cristo vittorioso sulla morte, il suo solo esistere sulla terra, il suo solo essere quello che è costituisce un annuncio: "Se sarete quello che dovete essere, voi incendierete il mondo" (S. Caterina da Siena). La Chiesa, come Cristo, ascolta il gemito, il dolore, e accoglie con misericordia; ma non può mettere in discussione se stessa, che è una cosa sola con quanto annuncia. La Chiesa non va nei salotti televisivi, non si fa irretire nella fiera delle opinioni. Basta leggere il Vangelo e osservare il Signore: ogni dialogo nascondeva insidie, quel suo "ma io vi dico" e quel "Amen, amen (autenticamente, con certezza) io vi dico" rivelavano un'autorità indiscutibile. Lui era, è la Verità. E la Chiesa non può annunciare qualcosa di diverso dalla Verità, l'unica.
Di conseguenza, come il suo Signore, per il solo fatto di essere qui ed ora nella storia, suscita contrasti, spesso violenti. Essi sono il segno dell'autenticità e del successo della sua missione. Perchè per la Chiesa il successo si misura con il rifiuto. Perchè se davvero l'annuncio del Vangelo è rifiutato, significa che ha colto nel segno, non ha lasciato indifferenti, come un amo si è conficcato nel cuore di chi lo ha udito, e la sua vita rimarrà per sempre legata a quel filo che lo conduce al pescatore, a Pietro, alla Chiesa, al cuore stesso di Cristo, pur restando libero di muoversi, scappare, allontanarsi e avventurarsi nel mare aperto dove cercare cibo e realizzazione. Quando il Signore vorrà darà il colpo decisivo - attraverso un problema, una sofferenza, la Croce che si fa evidente - e quell'uomo sarà tratto dall'acqua della morte per essere issato a bordo della barca che lo condurrà al porto della Vita. Sempre libero di divincolarsi sino in fondo, e, alla fine, spezzare quel filo. Alla Chiesa la missione di annunciare e prendere su di sè il rifiuto, il disprezzo, la stessa morte, per lasciare aperta la porta della Vita. Così Cristo ha salvato il mondo, così, attraverso il suo Corpo visibile, continua a farlo nel fluire della storia: "Come l’apostolo Paolo dimostrava l’autenticità del suo apostolato con le persecuzioni, le ferite e i tormenti subiti (cfr 2 Cor 6-7), così la persecuzione è prova anche dell’autenticità della nostra missione apostolica" (Benedetto XVI, Discorso all'Assemblea Generale delle Pontificie Opere Missionarie, 21 maggio 2010). L'orgoglio e la gelosia demoniache emergono con violenza all'apparire della Chiesa. Per questo le parole di Gesù sono anche per tutti noi una luce importantissima. Ci chiamano a conversione. Innanzi tutto ci scrutano perchè possiamo renderci conto, oggi, su che cosa stiamo fondando la nostra vita. Se, in noi, vi siano compromessi tra Gesù e il mondo. Le parole di Gesù illuminano il nostro modo di seguirlo. E poi, penetrando più a fondo, ci rivelano i nostri sentimenti più nascosti. Stiamo forse camminando nella Chiesa con qualche pretesa? Abbiamo sì lasciato tutto, come preti, suore, catechisti, famiglie missionarie, oppure aprendoci alla vita con il quarto, quinto, nono figlio, ma il cuore che cosa cerca davvero? Abbiamo fatto l'esperienza che essere cristiani, essere con Gesù, seguirlo nella Chiesa è stata ed è per noi una liberazione, una Grazia, un'elezione gratuita e meravigliosa, oppure, celata dietro ad un'apparenza di dedizione, vi è la mormorazione, l'attesa di una ricompensa, un'esigenza? Il cuore nostro è oggi colmo di gratitudine o no? Gesù è oggi la nostra ricompensa, quella che sazia di beni e di felicità la nostra vita oppure stiamo cercando qualcosa d'altro? Comunque stiano le cose accogliamo oggi le parole di Gesù come una Buona Notizia, come una parola capace di compiersi nella nostra vita, spezzando le catene che ancora ci fanno schiavi: la reputazione, l'onore, il denaro, la concupiscenza, i nostri progetti, i nostri criteri, i nostri ideali, e ciò che Papa Francesco chiama "il fascino del provvisorio": "Noi siamo “innamorati del provvisorio”. Le “proposte definitive” che ci fa Gesù, “non ci piacciono”. Il provvisorio invece ci piace, perché “abbiamo paura del tempo di Dio” che è definitivo: Lui è il Signore del tempo, noi siamo i signori del momento. Perché? Perché nel momento siamo padroni: fino qui io seguo il Signore, poi vedrò…Ho sentito di uno che voleva diventare prete, ma per dieci anni, non di più… Quante coppie si sposano, senza dirlo, ma nel cuore: ‘fin che dura l’amore e poi vediamo…’ Il fascino del provvisorio: questa è una ricchezza. Mentre io penso a tanti, tanti uomini e donne che hanno lasciato la propria terra per andare come missionari per tutta la vita: quello è il definitivo!” (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, lunedì 27 maggio 2013). Siamo dunque chiamati a vivere l'unico "definitivo", l'amore incorruttibile di Dio rivelato in Cristo Gesù e paradossalmente incastonato come un diadema nella precarietà, nella debolezza, nell'autentica povertà di chi ha consegnato la propria volontà e tutti i suoi beni nelle mani di Colui che ne può fare una benedizione per il mondo intero. Abbandoniamoci all'amore di Dio, l'unico definitivo che, anche oggi, può colmare la nostra vita donandoci una famiglia meravigliosa, quella dei santi figli di Dio.

lunedì 24 maggio 2021

 


FIGLI DELLA MADRE DEL DISCERNIMENTO
Tutti noi, a causa della menzogna originale, abbiamo perso il discernimento. Il demonio ci ha accecati sull'amore di Dio per noi. Non riusciamo a vederlo, in noi stessi, in chi ci è accanto, negli eventi della nostra vita. Come dice il salmo, stiamo di fronte a Dio "come una bestia", priva di intelletto, cioè di discernimento. Per questo soffriamo, ci indigniamo, mente e cuore friggono nel senso di frustrazione e di ineluttabilità. La morte ci accerchia, ne abbiamo paura e viviamo schiavi di essa perché non riusciamo a discernere l'amore di Dio. E nessuna bestia può darsi da sé stessa la facoltà di discernere. Ma la memoria di oggi ci viene in aiuto: "Donna, ecco tuo figlio. Figlio ecco tua Madre". Abbiamo una Madre che ci accoglie nel suo seno di misericordia; una Madre che possiamo accogliere nelle nostre cose, nella familiare quotidianità della nostra esistenza. Maria Madre della Chiesa, ovvero di ciascuno di noi, figli di Colei che, senza il peccato originale, ha saputo discernere l'amore di Dio nelle parole dell'Angelo e poi in tutta la sua storia, come in quella di suo Figlio. Maria Madre della Chiesa perché Madre del discernimento nella fede. Maria Madre che genera figli capaci di discernere come Lei, di vedere in tutto l'amore di Dio. E quindi di entrare nella sua volontà, e rivelare a tutti la verità che il demonio occulta ala mondo. Oggi celebriamo la Madre che, generandoci, custodendoci e formandoci, riapre i nostri occhi al discernimento, primo passo verso la libertà dei figli di Dio, e di Maria.

domenica 23 maggio 2021

 


COLMI DELLO SPIRITO SANTO NELLA COMUNITA' CRISTIANA PER ESSERE PRIMIZIE DEL CIELO IN QUESTA GENERAZIONE DISORIENTATA
Anni fa una bambina di undici anni mi chiese: “Come hanno fatto gli apostoli a toccare il Signore se era uno Spirito capace di passare attraverso le porte?”. La Solennità di Pentecoste risponde a questa domanda, che, semplice solo in apparenza, vibra nell’aria la questione fondamentale per la vita di ogni uomo: Gesù è davvero risorto?
Tutto, infatti, dipende dall’avere o meno una risposta al dramma della vita: c’è vita oltre la morte? Come fare ad oltrepassare queste porte “sprangate” dove mi ha rinchiuso la paura della morte? E’ così l’esperienza di tutti noi, come di quella bambina che il dolore ha già visitato ferendo la sua famiglia: “come si può toccare a vita eterna se non si vede, se è qualcosa che non cade sotto i nostri sensi?”.
E’ possibile sperimentare qui ed ora che Cristo è risorto? Sì, è possibile, perché tutto il Mistero di Gesù conduce alla “sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei”. Oggi.
E’ qui e ora che “viene Gesù” per “fermarsi in mezzo a noi”. Qui, in questo nostro luogo sprangato per la paura; ora, in questa “sera” del giorno di Pasqua, “il primo dopo il sabato”, origine del giorno che non vedrà mai tramonto.La resurrezione di Gesù, infatti, ha abbracciato l’universo e ciascun uomo di ogni generazione: da quell’alba di vittoria ogni “sera” appartiene alla luce dello “splendore del Re che ha vinto le tenebre”.
Ciò significa che la nostra vita, come quella di ogni uomo – anche di chi vive ancora nascosto nella selva e non ha mai sentito parlare di Gesù – è stata raggiunta e accolta dalla vittoria di Cristo: per quante “sere” si avvicendino nella nostra storia, nessuna più è destinata a sciogliersi nel buio della solitudine e della morte.
E’ un fatto, è oggettivo, è la Verità. Ma tu ed io lo crediamo vero oggi? Oppure, come la bambina, non sappiamo ancora come ciò sia possibile? Forse, guardando alle relazioni in famiglia, al lavoro o tra amici, non abbiamo ancora sperimentato che si può vivere nella carne una vita capace di oltrepassare le “porte chiuse”…
Pentecoste, infatti, è il dono che si fa perdono. E’ lo Spirito Santo che si impadronisce della vita di un uomo e di una comunità e la spinge oltre la morte, a oltrepassare le porte sprangate che la chiudono nell’egoismo.
E’ lo Spirito Santo che fa di te e di me una creatura nuova, che, semplicemente, può perdonare. La novità del cristianesimo si rivela nella misericordia che frantuma le mura issate dal peccato. Un cristiano non è più onesto, più gentile, più dolce degli altri uomini. O forse lo è anche, ma non sono queste le caratteristiche che lo definiscono e lo rendono unico.
Il cristiano è un testimone che “annunzia nelle lingue” di ogni uomo “le grandi opere di Dio”. Non le proprie opere, la propria religiosità, i propri sforzi… Ma opere soprannaturali compiute dallo Spirito Santo in lui.
E quale è l’opera di Dio, sua e sua soltanto? Il perdono dei peccati! Questa è stata l’opera annunciata e compiuta da Gesù, quella che l’ha condotto alla Croce. E’ vero, infatti, che solo Dio può perdonare i peccati. Se Gesù ha perdonato, significa che era Dio.
Se la Chiesa perdona i peccati, se tu ed io perdoniamo i peccati significa che Dio è vivo in noi e che ci ha trasmesso il suo stesso potere. E’ questo il dono dello Spirito Santo, che fa di noi figli di Dio, colmi della natura divina. Non so se stiamo capendo che cosa significhi essere cristiani: siamo chiamati a ricevere giorno dopo giorno lo Spirito di Dio, che ricrea in noi l’immagine e la somiglianza con il Padre, che risplende concretamente nel perdono.
E’ il perdono che assicura la “Pace” del cuore, perché passa attraverso le porte sbarrate dall’orgoglio e dai suoi figli, i sette peccati capitali. E’ nel perdono che si possono toccare le piaghe di Cristo risorto! E’ l’esperienza di essere perdonati in ciò che nessuno ha mai accettato; l’esperienza di poter perdonare quello che, sino a ieri, era stato imperdonabile.
E’ il perdono la carne rinnovata dallo Spirito di Cristo risuscitato: parole e gesti che risuscitano un rapporto logorato e morto. Ah, è questa dunque la Pasqua, con il suo compimento nella Pentecoste: tu ed io come gli Undici Apostoli uniti a Maria, la comunità dei figli perdonati e inviati “come Gesù” a perdonare ogni uomo.
E “come” Gesù è stato inviato? Nello Spirito Santo che lo ha gettato nel deserto di ogni vita a combattere con il demonio per sconfiggerlo caricando su di sé i peccati di tutti gli uomini. Non a caso l’evangelista Giovanni indica nello spirare di Gesù sulla Croce un anticipo della Pentecoste che farà coincidere nel Vangelo di questa domenica.
Proprio distendendo le braccia per dilatare ogni sua fibra nell’amore sino alla fine, Gesù ha consegnato il suo Spirito. Per questo oggi rinasce una nuova famiglia, la Chiesa, sposata da Cristo nel dono di se stesso. Oggi tu ed io celebreremo le nozze con lo Sposo al quale siamo stati promessi da sempre. Come in un santo amplesso che unisce Cielo e terra, la Torah sarà scritta con il suo fuoco nei nostri cuori, per sigillare con ciascuno di noi la Nuova ed eterna Alleanza: ci sposiamo con il Signore, capite?
Niente di sentimentale però: chiunque accoglie lo Spirito Santo è perdonato da ogni peccato e, contemporaneamente, colmato dello stesso potere che lo getta a sua volta nel mondo alla ricerca dei peccatori ai quali far giungere il perdono. Chi si unisce a Cristo, infatti, forma un solo Spirito!
Allora, figli della Pentecoste e sposati con Cristo, potremo consumare il nostro matrimonio sul letto fecondo della Croce: qui distenderemo le nostre braccia per accogliere nel perdono nostra moglie e nostro marito, il figlio e la nuora, la figlia e il genero, suocere e suoceri, amici, colleghi, fidanzati e, soprattutto, i nemici.
Da oggi, ogni giorno ci sarà dato per accogliere “la sera” delle debolezze e dei peccati, dell’idolatria e dell’incredulità, dell’egoismo e della divisione, e lasciarvi risplendere la luce del perdono che fa della storia un frammento dell’eternità. Ogni giorno sarà, allora, parte del Giubileo che ogni cinquant’anni condonava tutti i debiti. Le nostre case saranno case del Giubileo, dove chiunque possa incontrare misericordia ed essere rigenerati per camminare in una vita nuova.
Anche oggi è pronto a scendere sulle nostre comunità lo Spirito Santo. Esso rinnoverà i prodigi di “Shavuot”, la Pentecoste ebraica celebrata dagli Apostoli mentre scendeva su di essi lo Spirito Santo. Nel Midrash – il commento rabbinico della Scrittura – troviamo scritto: “Quando Dio consegnò la Torah sul Sinai, manifestò indicibili meraviglie a Israele con la sua voce. Che cosa è successo? Dio ha parlato e la sua voce è risuonata in tutti gli angoli del mondo: Tutto il popolo osservava il gran fragore e i lampi (Es 20,18). Notate che non dice il lampo ma i lampi; per questo R. Johanan disse che la voce di Dio, nel pronunciarsi, si divise e manifestò in settanta voci, settanta lingue, perché tutte le nazioni potessero capire” (Exodo Rabbah 5,9).
Il nostro Sinai è il luogo dove oggi celebreremo la Pentecoste. Esso è il Cenacolo che segna l’intersecarsi del tempo e della storia che stiamo vivendo: oggi, dunque, laddove siamo e così come siamo, lo Spirito Santo scenderà su di noi, perché attraverso di noi risuoni nel mondo la “sua” voce. Nelle nostre parole e nei nostri gesti risplenderanno “i lampi” del suo amore e del suo perdono declinati nelle lingue di chi ci è accanto, perché tutti possano conoscere Lui.
Nessuno deve cambiare, non tuo marito, non tua moglie, non i tuoi figli; non le persone alle quali siamo mandati. Non è per questo che siamo inviati: il cambio morale è frutto dello Spirito Santo. Piuttosto tutti hanno diritto di “ascoltare” la “voce di Dio” in noi; tutti aspettano il suo perdono, è la loro eredità e nessuno può rubargliela, perché Gesù ha redatto testamento per loro con il suo sangue. Così, dalla Pentecoste che ci rinnova irrorandoci con lo Spirito Santo, il perdono che genera la comunione arriva a ogni uomo disperso dall’orgoglio che a Babele ha confuso le lingue. A casa, al lavoro, a scuola, ovunque giunga un cristiano il Cielo discende come l’autentica primizia di Shavuot, per tutti coloro che, ingannati dal demonio, hanno inutilmente tentato di scalarlo.

venerdì 21 maggio 2021

 

Don Giussani: La virtù dell'amicizia di Cristo. Meditazioni su Gv. 21

Brani da alcune meditazioni di Luigi Giussani intorno al capitolo 21 del Vangelo di san Giovanni
1994-1995


Pomeriggio tardo, sera. Una casupola sui monti della Giudea. Seduti ad un tavolo due extrapaesani (moltissimi che viaggiavano si ritrovavano in quel posto) e uno che parlava. Ci siamo raccomandati tante volte di immaginarci come fossero quegli occhi che «mangiavano vivo» l'uomo che parlava: «Lo guardavano parlare». Abbiamo usato come termine più chiaro l'espressione «Lo guardavano parlare». Era la posizione di Giovanni e Andrea di fronte a Cristo: «Lo guardavano parlare». Siccome non capivano niente, come spesso accade, Lo guardavano parlare. E non capivano niente. Ma l'accento che quell'Uomo usava si ripercuoteva in loro e loro non ne facevano l'analisi, lo sentivano (Gv 1, 35 ss).
Folla. Lui parlava come a Giovanni e Andrea e tutta la folla era là a guardarLo come Lo avevano guardato Giovanni e Andrea. Sono colpiti, tant'è vero che un giovane di una famiglia ricca si è avvicinato e il servo gli fa largo, gli fende la folla, finché arriva vicino a Chi parla. Per un po' non può non rimanere con la bocca aperta, colpito da quella Presenza; poi, ad un certo punto, supera questo stato di frustrata contrizione e dice: «Senti» - vuole entrare in dialettica con Lui, entrare in dialettica vuol dire affermare, cercare di affermare la propria via di fronte al Tu - «Maestro buono, che cosa devo fare per entrare nella vita eterna?». «Osserva i Comandamenti». «Tutte queste cose le ho osservate da quando ero bambino». «Gesù lo scrutò e lo amò [e ha pensato: è vero, è un puro]: "Se vuoi raggiungere il Regno dei cieli, va' a casa, da' via tutto quello che hai, poi vieni con me". Quello - immaginiamocelo - si ritira e se ne va triste. Era infatti molto ricco» (Mc 10, 17-20; Mt 19, 16-22). È il giovane ricco.
Matteo, cap. 26, 69-75. In quel momento il gallo cantò per la terza volta. Gesù uscì dalla sala trascinato dai soldati, incatenato, guardando dalla sua parte. Simon Pietro, che era là in un angolo ad aspettare, seguendo il rumore, Lo vide. E «pianse amaramente».
Giovanni, cap. 21. Lo stesso Pietro, che da quel momento era diventato vergognoso e intimidito, perennemente intimidito, anche se non riusciva a trattenere i suoi slanci abituali (li compiva e poi si fermava, bloccato dalla vergogna del ricordo), era là in disparte quella mattina sulla riva, e tutti mangiavano il pesce preparato dal Signore. Il Signore gli si stese vicino. Lo guardava. Lui «sguardava», sguardava ma non guardava, perché aveva vergogna più del solito. Finché Gesù gli disse: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?». «Signore, Tu lo sai che Ti amo». Non poteva non voltare la faccia e dirgli la sua risposta. Non poteva, sarebbe stata una menzogna. Gli voleva bene. L'aveva tradito, ma Gli voleva bene e perciò si è voltato verso di Lui, si è voltato verso di Lui e Gli ha dato quella risposta che non era mai venuta meno, eccetto che in quei momenti terribili. Gli ha dato la risposta per cui lui era continuamente voltato verso di Lui, dovunque fosse; dovunque fosse, sulla barca in mare come quel mattino, o tra la folla sulla montagna. Anche quando era a casa e Lui non c'era, sempre era rivolto a Lui.
Avete dunque quattro esempi di «conversione» come posizione verso la presenza di Cristo.
La prima: ingenua e grande, da uomini grandi. La posizione più bella, fino in fondo al cuore, senza sapersi dare ragione.
La seconda, quella di un uomo giovane, come l'ha chiamato il Vangelo, di un uomo che non era voltato verso Gesù come Giovanni e Andrea, che Lo guardavano parlare. Anche lui guardava Gesù parlare, ma, oltre il breve centimetro del primo fascino, voleva interloquire. Voleva raggiungere un suo scopo, voleva servirsi di quell'Uomo per essere tranquillo con la sua coscienza: per essere onorato nella sua onorabilità di giovane morale, moralmente ben educato. Voleva che tutti sapessero che lui meritava le lodi di quell'Uomo. Perciò era uno voltato a Cristo problematicamente, meglio, forse, criticamente (la problematica e la critica sono sempre in funzione di uno scopo fissato da sé): voltato verso Cristo, ma centrato su di sé.
La terza posizione è quella dell'uomo voltato verso Cristo con il cuore schiantato, con la coscienza della propria meschinità e vigliaccheria: vigliacco, potremmo dire un «peccatore». Il giovane ricco non era un «peccatore»: lo divenne per la posizione che acquistò verso Cristo. Invece Pietro, al tribunale di Pilato, era un uomo schiacciato dalla sua coscienza di essere peccatore, schiacciato dal suo sbaglio, che era proprio il contrario di quello che avrebbe mai voluto, il contrario dei sentimenti che aveva sempre nutrito per Gesù. Cosa mi è successo? Come mai ho fatto così? Chi sono io? Cos'è l'uomo?
La quarta posizione: lo stesso uomo, lo stesso identico uomo - con la stessa identica coscienza di essere un povero disgraziato che ha contraddetto se stesso ed è diventato menzogna - che ha il coraggio di assumere una posizione in cui la sua menzogna, il suo delitto è come soffiato via. Rinnega il suo delitto: «Non è vero che io Ti ho odiato, non è vero che non Ti ho amato, perché Tu lo sai, Signore, io Ti amo».
Quattro posizioni: di entusiasmo, di atteggiamento critico, di senso del proprio niente; e, infine, nello stesso tempo, dentro questo senso del proprio niente, una evidenza permanente di rapporto, l'evidenza di un rapporto permanente: «Signore, Tu lo sai che io Ti amo». Ma è il contrario di quel che hai fatto? «Io non so come sia, so che è così».
Il primo punto, dunque, è la conversione come «posizione» di fronte a una presenza. Potete prendere tutti i sostantivi e gli aggettivi che volete: indifferenza, menefreghismo, passione, curiosità, superficialità, pietà. Andate sul vocabolario e tirate fuori tutte le parole che possono applicarsi a: «posizione di fronte ad una presenza». Nella nostra vita ci sono tutte. Nella vita degli apostoli, dei primi cristiani, ci furono tutte. Alcune di queste posizioni erano giuste, comprensibili, ragionevoli, corrispondevano a quello che quell'Uomo era, e altre no. Alcune corrispondevano a quello che Cristo era, alcune posizioni erano giuste, e altre sbagliate.
Possiamo definire quale sia la posizione giusta? Era giusta la posizione di Andrea e di Giovanni, ma era giusta anche la posizione di Pietro che rispose: «Signore, Tu lo sai che Ti amo». Quando la posizione è giusta? Si potrebbe definire? C'è un evento per definirla? Sì. Quando uno è nella posizione del bambino che guarda. Il rapporto che c'è tra un bambino che guarda e la realtà che lui guarda è analogo al rapporto che c'è tra noi che guardiamo e Cristo. Che differenza stabilisce, a che cosa dà l'allarme questa osservazione? Dà l'allarme al fatto che la posizione giusta verso una presenza, cioè la conversione, non c'è attraverso lo sforzo razionale e volontaristico di una scelta e di un giudizio, anche se, ultimamente, si arriva a queste due parole: giudizio e scelta. Ciò che però produce questo giudizio e questa scelta è un altro atteggiamento: quello del bambino che guarda con gli occhi sbarrati e la bocca aperta una cosa che ha davanti.
Matteo, cap. 11, 25-27. «In quel tempo Gesù disse: "Ti ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché non hai svelato queste cose a chi è dotto o a chi è scaltro, ma le hai svelate a chi è piccolo"».
Marco, cap. 8, 31-33. Gesù disse per la prima volta che il Figlio dell'Uomo avrebbe dovuto «molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso». San Pietro non aveva ancora sbagliato grosso, perciò si sentiva sicuro, tranquillo del suo sentimento, e disse che piuttosto si sarebbe fatto tagliare la testa. E Gesù gli disse: «Lungi da me, Satana!», va' via da me, Satana. Pietro aveva giudicato la previsione di Cristo secondo una scelta e un giudizio basati su un progetto suo, di uomo. Attaccato a Cristo, discepolo di Cristo e uomo affezionato a Cristo, aveva pensato: «Per l'amor di Dio, piuttosto che ammazzino Te, passino sul mio cadavere». Ma non era giusta come posizione, perché non era quella del bambino.
Dopo aver tradito risponde: «Sì, Signore, Tu lo sai che io Ti amo», traforando tutta la memoria di ciò che aveva fatto: questo è l'atteggiamento del bambino.
Ciò che definisce una posizione giusta verso la Presenza è lo sguardo del bambino di fronte al reale. Ma l'uomo non è un bambino. Nello sguardo del bambino vibra tutto quanto il grido che il cuore dell'uomo suggerisce alla mancanza di interiorità propria di chi è piccolo. Lo sguardo del bambino conforma ad essere in una posizione giusta di fronte alla presenza della realtà, cioè di Cristo: domanda. (.

 


FONDATI SULLA ROCCIA DEL PERDONO PER DIRE A CRISTO: "TI AMO"
Bisogna conoscere sino in fondo che cosa sia l'angoscia della precarietà, quella che ti prende dentro, che ti atterrisce, ti svuota nonostante all'apparenza ci sembra di avere tutto per essere sereni e in pace. La precarietà spirituale.
Lo scoprire la propria completa debolezza, l'incertezza dei propri sentimenti, l'impossibilità di appoggiarsi alle proprie decisioni e alle proprie ragioni. Il guardarsi indietro e accorgersi di aver sbagliato tutto o quasi, anche ciò che si pensava aver fatto per amore. La precarietà che avvolge ogni istante della vita, e ti fa sentire perduto, e ti spinge a cercare qualcosa, anche piccolo, cui appoggiarti. Qualcosa che dia un minimo di sicurezza, in mezzo a tanta precarietà. Dev'essere stata questa l'esperienza più profonda dei discepoli, così come appare in questo Vangelo.
E' la pericope che narra della terza apparizione di Gesù, quella decisiva. Gli Apostoli avevano già visto il Signore risuscitato. Avevano mangiato con Lui. Tommaso aveva fissato e forse toccato le sue piaghe gloriose. Avevano ricevuto lo Spirito Santo e l'invio in missione ad annunciare al mondo la Buona Notizia del perdono dei peccati. Ma, sorprendentemente, si ritrovano al punto di partenza. Sono lì, sulla riva del solito lago, impegnati nel solito lavoro, l'unica certezza della loro vita, quella che avevano lasciato tre anni prima per seguire Gesù. Obbedendo alla Parla di Gesù che gli aveva dato appuntamento in Galilea, erano tornati all'unica cosa che pensavano di saper fare. Gerusalemme, i tumulti, il chiasso, gli avvenimenti della Città santa erano lontani. Ora era la pace dolce della Galilea, il mare, i tramonti, le barche. E quella spiaggia, quello spicchio di mare, i luoghi del primo amore.
Chissà, al di là degli stessi incontri pasquali, era quel primo incontro con il Maestro a percuotere il loro petto di un'invincibile nostalgia. Pietro, secondo alcuni Padri e molti esegeti, come per vincere un'impasse che sembra pervadere mente e cuore, decide, e va a pescare. Non c'è altro da fare, nonostante quella struggente nostalgia. Gli altri lo seguono. Si infilano nella notte, come tante altre volte, ma non succede assolutamente nulla, rientrano sul far del mattino con le reti vuote. Alla nostalgia s'era così aggiunto il fallimento. Anche l'ultima speranza, la fredda routine che chiude le ore, i sentimenti e i pensieri nel freddo cellophane degli automatismi ripetuti, conosciuti e senza pericoli, anche l'unica certezza s'era fatta incertezza.
L'alba che incede e spinge alla vita e una morte dentro a strozzare speranze e desideri. La realtà di Pietro, di quel gruppo di amici, di ciascuno di noi. E un uomo, e una parola. Una domanda, secca, tagliente, a svellere la vergogna, e a far luce sul lato più oscuro, il fondo del fallimento: "Figlioli, avete qualcosa da mangiare?". Mangiare nel Vangelo di Giovanni è sempre riferito alla vita. Quell'uomo si pone dinnanzi agli Apostoli ed inizia uno scrutinio serio e profondo. Proprio laddove tutto era iniziato, sul luogo esatto del primo amore, della prima parola che li aveva messi in cammino, gli apostoli si debbono ora confrontare con quegli anni, con gli esiti della loro vita, con loro stessi. E niente, non avevano preso nulla, niente pesce, niente cibo, niente vita.
Gli Apostoli sono ora sul bordo di quel mare, davanti a quelle acque, e non avrebbero mai pensato che di lì ad un istante si sarebbero trasformate per loro nella sorgente della Vita, le acque benedette del battesimo. Possono lasciare ora, sulla domanda di quell'uomo, le ultime difese, spogliarsi e arrendersi. Ora, riconoscendo il loro nulla, possono ascoltare l'invito a ritornare in mare, e fare qualcosa di assurdo, come Naaman invitato ad immergersi sette volte nel Giordano per vedere curata la propria lebbra, esattamente come pescare quando normalmente non c'è pesce. In una parola, ora possono gettarsi nella morte.
Quell'uomo li invita infatti a tornare in mare, a gettare la rete alla destra, il luogo di Cristo risuscitato, dello Spirito Paraclito, della sorgente di vita scaturita dal Tempio.Laddove l'uomo carnale, intelligente della sapienza mondana fallisce, s'apre il cammino per l'uomo celeste. E i discepoli, disperati, incapaci di balbettare la minima obiezione, obbediscono. Ascoltano quelle parole e fanno esattamente come gli è stato detto. Gli esiti sono incredibili, una quantità enorme di pesci, la vita laddove era stata solo la morte. "Troverete" gli aveva detto quell'uomo, ed era risuonata la voce del Maestro che, fissandoli, aveva chiesto "Che cercate?". Quel giorno andarono e videro dove Gesù abitava. E anche ora sono andati, hanno gettato, e hanno trovato. E, trovando, hanno visto. "E' il Signore!" grida il discepolo amato, e un brivido, qualcosa d'irrefrenabile, e Pietro si riveste della veste bianca della vita nuova, emerge da quelle acque dove aveva trovato la Vita, e si getta all'incontro con quell'uomo che gli aveva rapito il cuore, ma al quale era rimasto sino ad un istante prima legato così affettivamente, così carnalmente, così piantato in se stesso.
Ma ora Pietro era un altro uomo, ora era sceso alle acque della rigenerazione, ora era libero, colmo di quel miracolo d'amore che gli aveva dischiuso gli occhi e dilatato il cuore oltre la carne. Ora ha compreso, per la propria personale esperienza, che l'unica vita era Lui, che l'unico cibo era compiere la sua volontà. Ora l'amore rispondeva ad un'elezione misteriosa eppure concretissima, ed entra nella barca e trascina solo quella quantità smisurata di vita, come fu per Giacobbe al pozzo quando rotolò la pietra dal peso sovrumano per far abbeverare le pecore condotte da Rachele, colei che le aveva rapito il cuore.
Ora era un amore che era passato oltre la barriera della morte. E può nutrirsi Pietro con i suoi amici, di quel banchetto celeste, già pronto, servito dal Servo vittorioso sul peccato. Ora Pietro con i suoi fratelli erano introdotti nella cella del vino, nell'intimità del Signore. Ora si compiva la Pasqua, e il pane e il pesce - il cibo escatologico secondo i rabbini, quello che avrebbe portato il messia - era finalmente il senso stesso della loro vita.
Ora, dal fondo delle loro angosce, dei loro fallimenti, nella totale precarietà avevano trovato l'ancora per la loro vita. Ed era l'amore, il perdono, la misericordia. Per questo, dopo essersi nutrito di quella vita sovrabbondante d'amore, la nuova vita celeste ricevuta in dono, Pietro può inoltrarsi con Gesù nell'intimità più intima, e ricevere il sigillo del primato, a nome di ogni fratello che nei secoli della storia sarebbe stato pescato dalla rete della Chiesa, che mai sarà spezzata perché intessuta nel filo incorruttibile della misericordia.
Pietro si trova ora avvinto dallo sguardo di Gesù, e le sue parole, più dolci del miele, son puro amore. Gesù e Pietro, come Abramo ed Isacco, l'intreccio d'un amore che non si esaurirà mai. "Mi ami?". Ecco scoccare il dardo della domanda più importante, eco di quella fatta da Gesù poco prima, "Avete qualcosa da mangiare?". Il cibo è la vita, e la vita è l'amore. Vivere è amare Cristo, nulla anteporre a Lui. Senza quest'amore la vita è solo morte, angoscia, tenebra. Ora questa domanda gli azzanna il petto, gli apre il cuore, ora è il momento Decisivo.
Tre volte Gesù ripete la domanda, a significare la solennità e l'importanza della questione. Tre volte, come recita lo Shemà, amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze. Tre volte, come le apparizioni di Gesù nel vangelo di Giovanni. Tre volte, come il tradimento consumato, segno d'un'apostasia completa, "solenne", senza scusanti. Le prime due volte Gesù usa il verbo che rimanda all'agape, all'amore celeste, e Pietro risponde che sì, lo ama, ma d'un amore d'amicizia, bello, bellissimo, ma ancora stretto nei vincoli della carne. Nell'ultima domanda Gesù rovescia la cosa, e chiede a Pietro, quasi come in un sussurro, se lo ama, usando il verbo utilizzato da Pietro, ed è come se gli avesse chiesto: "mi sei amico, mi ami almeno come amico?". E qui accade il miracolo, il più grande. Qui sorge la dichiarazione d'amore vero, celeste, l'agape di Pietro.
"Sì, si tu sai tutto di me, sai che sino ad ora t'ho amato d'amore umano, ed è stata un'amicizia stupenda, ma tu lo sai come si sia infranta nella mia debolezza. Sino ad ora t'ho amato a modo mio, ed era un modo destinato a fallire, perché fondato sul nulla. Ma tu lo sai che in quel nulla hai deposto il tuo amore, il tuo perdono. Tu sai tutto Signore, tu sai che ora non sono più io a vivere, ma tu in me, ora che mi hai nutrito del cibo venuto dal Cielo, della tua stessa vita, del tuo stesso amore. Signore tu sai tutto, tu sai che ora sì che ti amo". Ecco il cuore di Pietro rinato a vita nuova, ecco il cuore della Chiesa. Ecco l'umiltà vera, reale, e non di facciata, quella che scioglie le labbra di Pietro sigillate da tante, troppe parole fallite, in una parola sincera perché sgorgata dalla Verità stessa che ha preso dimora in lui.
E' questo l'amore di Pietro, l'amore stesso di Cristo che ne ha assorbito ogni fibra, ormai svuotata dell'orgoglio tipico di chi crede di potercela fare da solo. L'amore semplice di chi s'appoggia solo nella misericordia di Dio, e non teme guardando le proprie debolezze, ma che ne è invece come rafforzato, certo del potere del Signore.
La fede di Abramo che non resistette nell'incredulità guardando la morte che lo schiacciava, e credette contro ogni speranza. L'amore di Pietro, l'amore della Chiesa, che ama contro ogni speranza. Pietro e con lui la Chiesa madre di tutti i popoli, consegna finalmente a Dio la Gloria d'una fede fatta amore, quello capace di vincere la morte d'una carne incapace d'amare. L'amore di Pietro che accoglie la chiamata definitiva, quella che lo condurrà dove lui non vorrà andare, sulle orme del suo Signore che nel Getsemani ha sperimentato lo stesso cammino oltre i desideri della carne. L'amore che lo crocifiggerà ad immagine del Suo amato. L'amore che stenderà le sue mani nella consegna al martirio che completerà in lui, e in tutti i Pietro e tutti i figli della Chiesa, quello che in ogni generazione manca alla passione del Signore per la salvezza di ogni uomo.
Pascere gli agnelli, guidare e governare la Chiesa sarà allora, sempre, una questione di amore. E di perdono. Scrive il Card. Ratzinger: "Nel cuore stesso del nuovo ministero di sciogliere e legare, di rimettere i peccati, quello che toglie energia alle forze della distruzione, c'è la grazia del perdono. E' essa che costituisce la Chiesa. La Chiesa è fondata sul perdono. Pietro stesso rappresenta nella sua persona questo fatto: colui che è caduto nella tentazione, ha confessato e ricevuto il perdono, può essere detentore delle chiavi. La Chiesa è nella sua intima essenza luogo del perdono in cui viene bandito il caos. Essa viene tenuta insieme dal perdono... essa non è la comunità dei perfetti, ma la comunità dei peccatori, che hanno bisogno del perdono e lo cercano. Dietro l'autorità diventa visibile il potere di Dio come misericordia, e quindi come pietra angolare della Chiesa; in sottofondo udiamo la parola del Signor: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori". La Chiesa può sorgere solo là dove l'uomo giunge alla propria verità, e questa verità consiste precisamente nel fatto che ha bisogno di questa Grazia" (J. Ratzinger, Il primato di Pietro e l'unità della Chiesa, In La Chiesa, Milano 1991).
In Pietro siamo invitati a guardare tutti oggi la nostra vita. A tornare con lui alla nostra storia, alla prima chiamata, a guardare cosa abbiamo fatto in questi anni della nostra vita con il Signore. A riconoscere oggi il fallimento guardando senza timore al fondo del nostro cuore. A rispondere al Signore che ci chiede se, oggi, abbiamo davvero vita in noi. E ad essere sinceri per nutrirci, dal fondo della nostra realtà, della sua misericordia. Per abbandonarci, nell'abbraccio misericordioso di Gesù, alla dichiarazione d'amore che sola può dare consistenza e senso alla nostra vita, qualunque essa sia.
E' questo l'incredibile, lo straordinario dell'essere di Cristo: potere ogni giorno ricominciare, riascoltare per pura misericordia il desiderio d'amore del Signore. E, senza orgoglio e nella perfetta umiltà che solo chi conosce se stesso può avere, gridare a Gesù il nostro amore. Certi che non è altro che il suo stesso amore, quello che ogni giorno ci perdona, ci ricrea, ci dà vita. Seguirlo non è altro che amarlo, del suo stesso amore. E' la nostra chiamata, l'elezione che ci ha colti, la strada che ci conduce al Cielo, le orme di Dio che il mondo può trovare e, con esse, la salvezza.

lunedì 17 maggio 2021

 


PIGIATI NEL TORCHIO CON CRISTO
Nelle parole di Gesù del Vangelo di oggi si ode l'eco dello Shemà: "Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze". Un solo Dio, e un Popolo scelto ed eletto per manifestarlo al “mondo”. La santità di Dio, infatti, il suo essere totalmente altro, "separato" (significato della parola "santo") si sarebbe manifestata nella santità del suo Popolo: "Siate santi, perché io sono santo (Lv 11,45). Ma, oggi come allora, è difficile essere santi, anzi impossibile; come fare allora per essere fedeli a questa missione in un "mondo" occupato e dominato dai pagani? "Un gruppo di farisei proporrà una soluzione radicale: se si crede nel regno di Dio occorre opporsi fortemente al «regno dell'impertinenza». E la resistenza si organizzerà proprio in Galilea" (F. Manns), dove Dio, non a caso, si era fatto carne, e nella quale erano stati scelti gli Apostoli. Essa era diventata ormai “la Galilea degli zelanti della legge… L'insurrezione in Galilea, organizzata dagli zeloti dopo l'anno 50, si radica in una profonda tradizione religiosa: Dio è il re d'Israele e il padrone della storia. Il dono della terra è il segno dell'alleanza. Arrogarsi la proprietà della terra come fanno i romani significa dar prova di un orgoglio smisurato, dell'appartenenza al regno dell'impertinenza. Essendosi i romani imposti con la forza, occorre fare tutto il possibile per liberare la terra. Alla violenza bisogna rispondere con la violenza. La sete di libertà che animava i rivoltosi scaturiva dal più stretto monoteismo. Era lo zelo della legge a spingerli ad agire" (F. Manns). Occorre tenere presente l’ambiente nel quale erano cresciuti gli Apostoli, e non dimenticare che, nonostante i tre anni passati insieme al Maestro, per loro “il suo parlare era rimasto oscuro”. Per questo le parole di Gesù nel Cenacolo toccano profondamente i loro cuori in attesa del Messia che “avrebbe ristabilito il Regno di Israele”. Si illudono di capire le sue parole: “ecco, adesso parli chiaramente e non fai più uso di similitudini”. Sono convinti di “conoscere” Gesù: “Ora conosciamo che sai tutto e non hai bisogno che alcuno t'interroghi". E “credono” che sia Lui “il Santo uscito da Dio” per liberare il Popolo dalla dittatura dei romani. Come noi, che pensiamo di aver capito il Signore e di credere in Lui.
Ebbene oggi, all’inizio di questa settimana che ci prepara alla Pentecoste culmine della Pasqua, Gesù ci inchioda alla Verità: “Adesso credete?”. No cari fratelli, non crediamo, perché siamo ancora profondamente "scandalizzati" dalla Croce sulla quale Gesù ha compiuto lo Shemà rivelandosi come un Messia completamente diverso da quello atteso da Israele. Siamo "scandalizzati" della “santità di Dio” che non condanna il mondo ma "vince" il suo male per salvarlo; del suo essere “separato” dal nostro orgoglio sino a farsi il servo di tutti. Per questo come gli Apostoli, abbiamo "lasciato solo" il Signore. "E' arrivata l'ora" del Calvario e siamo scappati: la malattia di nostro figlio, il lato sconosciuto e oscuro del carattere del nostro coniuge, il licenziamento, il tradimento dell'amico, la nostra debolezza che ci fa cadere sempre negli stessi peccati. E il male nel mondo, la sofferenza degli innocenti, le guerre, i terremoti, i disastri, le ingiustizie, il cancro. Sì, la Croce ci ha "dispersi ognuno per conto proprio”, a ribellarci lontani da essa. Come "il mondo" abbiamo bisogno di essere salvati, che cioè sia "vinta" in noi la radice del male che ci "scandalizza" e "disperde" nella solitudine. Ma proprio l'abisso della nostra solitudine ha incontrato la solitudine di Cristo, e in essa, la sua intimità con il Padre. Lui non era solo! Proprio sulla Croce era inchiodato alla volontà del Padre; nell'amore che compiva lo Shemà gli era più intimo che mai e ci ha accolti nella loro intimità. Ti senti solo e sconfitto? Ascolta questo Vangelo e convertiti! Apri il tuo cuore a Cristo perché vi scenda per "vincere" il demonio che ti sta ingannando. La sua "vittoria sul mondo", infatti, è Lo Shemà compiuto, la santità di Dio incarnata nella tua "dispersione". Così, la Galilea dei Gentili, immagine di questo "mondo" disperso e rancoroso nel quale sei chiamato a vivere, non sarà più il luogo dove sperare un Messia giustiziere, ma quello dove tu possa ritornare ad essere "santo" a immagine e somiglianza di Dio: "Io ho vinto il mondo! significa forse che Cristo è contro il mondo? No, piuttosto il contrario: questo mondo, che scaccia Dio dai cuori, viene restituito da Cristo a Dio e all’uomo come spazio dell’alleanza originaria, che deve essere anche l’alleanza definitiva quando Dio sarà tutto in tutti". (Giovanni Paolo II). Non esiste un cristianesimo elitario che disprezza il mondo e i peccatori! Come Pietro e gli Apostoli dobbiamo scoprire che non siamo migliori né diversi dai figli del "regno dell'impertinenza". Non del capoufficio, non del vicino di casa, neanche di chi ruba e uccide. Non ti scandalizzare per favore, perché il Signore ti “dice queste cose perché tu possa avere pace in Lui” che ti conosce e ti ama così come sei. Accetta dunque di avere bisogno, come tutti, che, attraverso la Chiesa, Cristo ti "restituisca" il mondo come un luogo dove poter amare e donarti.
Lo sai? La prova che Dio ti ama è proprio che "avrai tribolazioni nel mondo", tu che hai sperimentato di non essere capace di accettare la più piccola sofferenza. In esse, infatti, una volta salvato e rigenerato dalla Parola di Dio e dai sacramenti, potrai vivere pienamente nella “santità” di Dio perché crocifisso con Cristo si compirà in te lo Shemà; nell’amore a Dio con tutto te stesso,il Signore ti fa vittorioso sul male “separandoti” dal mondo per potergli annunciare la salvezza. Non si scappa: l'amore autentico è soprattutto solitudine, perché ci fa partecipi della solitudine di Cristo: "nella donazione di sé sulla croce, Gesù depone, per così dire, tutto il peccato del mondo nell'amore di Dio e lo scioglie in esso" (Benedetto XVI). Fratelli, è necessaria "la tribolazione", l'essere "schiacciati, pestati", secondo il significato del termine greco. Anche oggi, infatti, il male e il peccato saranno deposti nel tino della nostra storia, dove con Cristo saremo schiacciati dall'amore di Dio: “Ma ben fecondo è questo essere spremuti nel torchio. Finché è sulla vite, l'uva non subisce pressioni: appare intera, ma niente da essa scaturisce. La si mette nel torchio, la si calpesta e schiaccia; sembra subire un danno, invece questo danno la rende feconda, mentre al contrario, se le si volesse risparmiare ogni danno rimarrebbe sterile” (S. Agostino). Il trofeo della vittoria di Cristo, infatti, è proprio la solitudine che potremo assumere per il mondo che non può soffrire per amare: "Allora Balaam pronunziò il suo poema e disse: ecco un popolo che dimora solo e tra le nazioni non si annovera. Possa io morire della morte dei giusti e sia la mia fine come la loro. Come sono belle le tue tende, Giacobbe, le tue dimore, Israele!" (cfr. Nm. 23-24). Un popolo che dimora solo, e proprio per questo testimone e vessillo di salvezza. Israele prima, e il Messia che ha compiuto questa profezia, e la Chiesa poi, sino a ciascuno di noi: soli con il Solo, per strappare il mondo alla sua solitudine. Soli nel rifiuto del figlio, per salvarlo. Soli nella gelosia della moglie, per amarla. Soli ovunque, nell'intimità piena con Gesù, e in Lui con il Padre, per mostrare a tutti la "bellezza" della vita divina nella debole "tenda" della carne dei figli della Chiesa. Perché ogni uomo possa desiderare la stessa "fine dei giustificati", ovvero il compimento della vita in Cristo che risplende nei cristiani, frutto della sua "vittoria" sulla morte e il peccato.
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"Mi calpestano sempre i miei nemici, molti sono quelli che mi combattono. / Nell'ora della paura io in te confido leggiamo "... Perché è tenuto nel torchio il suo corpo, cioè la sua chiesa. Che significa " nel torchio" ? Nelle angustie. Ma ben fecondo è questo essere spremuti nel torchio. Finché è sulla vite, l'uva non subisce pressioni: appare intera, ma niente da essa scaturisce. La si mette nel torchio, la si calpesta e schiaccia; sembra subire un danno, invece questo danno la rende feconda, mentre al contrario, se le si volesse risparmiare ogni danno rimarrebbe sterile. Orbene tutti i santi che soffrono persecuzioni da parte di coloro che si sono allontanati dai santi, stiano attenti a questo salmo e vi riconoscano sé stessi ... Il primo grappolo d'uva schiacciato nel torchio è Cristo. Quando tale grappolo venne spremuto nella passione, ne è scaturito quel vino il cui calice inebriante quanto è eccellente!"
S. Agostino, Esposizione sui Salmi, 55

venerdì 14 maggio 2021

 


LA GIOIA DELLA CHIESA CHE PARTORISCE I SUOI NUOVI FIGLI
Congedandosi dagli anziani di Mileto San Paolo disse: "Avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazione. Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di dare testimonianza al Vangelo della grazia di Dio" (At. vv. 22-24). Afferrato da Cristo sulla via di Damasco, dove lo aveva visto vivo, San Paolo ardeva dal desiderio di afferrare la perfezione dell'intimità e dell'amore di Lui. Per questo aveva reputato ogni cosa spazzatura e danno di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze per diventargli conforme nella morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Sapeva dunque che cosa lo attendeva, ma era anche consapevole che l'aver conosciuto Cristo secondo la carne, l'averlo visto risorto e vivo, non era sufficiente per arrivare al premio che Dio lo chiamava a ricevere. Per lui era decisivo l'essere creatura nuova, dimentica del passato e protesa verso il futuro, per vivere ogni giorno lanciato nella corsa verso la mèta, fissando lo sguardo al Cielo nell'attesa ansiosa del ritorno del suo Signore. La visione di Cristo risorto lo aveva salvato, perdonato, eletto e inviato, ma era stato solo l'inizio. Afferrato da Cristo era ormai cittadino del Cielo, ma viveva ogni momento per afferrare, nell'ultimo istante, il suo amore; aveva trovato l'amato del suo cuore, desiderava stringerlo forte per non lasciarlo più. L'esperienza di San Paolo è il compimento delle parole di Gesù che appaiono nel vangelo di oggi. In esse la vita del discepolo è paragonata a un parto. Sullo sfondo vi è la profezia di quanto sarebbe accaduto di lì a poco: Gesù sta per affrontare il rifiuto, sarà crocifisso e morirà. L'annuncio di questo destino aveva turbato e rattristato i discepoli. Ma la tristezza sarebbe cambiata in una gioia che nessuno avrebbe più potuto sottrarre perchè "Gesù stesso è la loro gioia, in perfetta armonia con ciò che dice l'Apostolo: Una volta risuscitato dai morti, Cristo non muore più, e la morte non ha più dominio sopra di lui (Rm 6, 9)" (S. Agostino, Omelie sul vangelo di Giovanni). E così è stato: la sera di Pasqua "i discepoli gioirono nel vedere Gesù". Ma Egli, partendo dall'annuncio del suo mistero pasquale che avrebbe coinvolto l'esperienza dei discepoli nella trasformazione del dolore in gaudio, dice ancora di più. Per questo introduce l'immagine della donna in parto, non a caso descritta da Giovanni anche nell'Apocalisse, quale segno del combattimento escatologico nel quale è posta la Chiesa. Gesù con il suo scomparire nella morte e il suo riapparire vittorioso, pone le fondamenta per quella che sarebbe stata la vita della Chiesa nascente, e, in essa, di ogni discepolo. Quell'esperienza è essa stessa annuncio e profezia della storia che in quel giorno stava iniziando. Esattamente come è stato per San Paolo. Il primo giorno, il giorno della gioia senza fine, ha inaugurato una storia nuova, perché le porte del Cielo si erano ormai dischiuse: era sorto il giorno che non muore, origine e meta della vita. L'esperienza di vedere il Signore risorto aveva infuso nei discepoli la gioia ma, contemporaneamente, aveva loro rivelato il destino cui, insieme ad ogni altro uomo, erano chiamati. Da quella gioia scaturisce immediatamente la missione, il senso ed il contenuto della nuova storia che aveva avuto inizio in quell'incontro sconvolgente: la storia della Chiesa, la storia di ciascuno di noi: "la risurrezione di Gesù va al di là della storia, ma ha lasciato una sua impronta nella storia. Per questo può essere attestata da testimoni come un evento di una qualità tutta nuova. Solo un avvenimento reale di una qualità radicalmente nuova era in grado di rendere possibile l'annuncio apostolico, che non è spiegabile con speculazioni o esperienze interiori, mistiche. Nella sua audacia e novità, esso prende vita dalla forza impetuosa di un avvenimento che nessuno aveva ideato e che andava al di là di ogni immaginazione" Benedetto XVI). L'impronta nella storia dell'evento di Pasqua è l'impronta lasciata dai piedi degli apostoli; essi, come san Paolo, hanno ritenuto tutto spazzatura e danno di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo: assetati della pienezza di questa conoscenza sconvolgente, hanno percorso le strade del mondo correndo verso la meta che li avrebbe dissetati. Un'esperienza, una gioia ineffabile, come un'eruzione dalla storia che la supera, che da essa prende il suo inizio e che in essa si dilata attraverso l'annuncio del Vangelo. Perché "la gioia è il gigantesco segreto del cristiano" (Chesterton).
Sì, l'evangelizzazione è l'impronta gioiosa della resurrezione nella storia, l'annuncio della notizia che ogni uomo attende perso e schiavo in alienazioni che sono solo delle caricature di quel destino per cui egli è nato. L'annuncio del vangelo è l'impronta di Cristo risorto nella storia offerta agli uomini perché, nel seguirla, possano incontrare la gioia preparata per loro, la misericordia e l'amore rivelati in Cristo Gesù. Si comprende allora come la vita di San Paolo, avvinta da Cristo, fosse unita al Vangelo. Fonte di gioia perenne, sostegno della sua vita, ne era divenuto l'unico scopo, il senso primo ed ultimo, l'origine e la meta della sua esistenza: "Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; una necessità mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero... mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro". Tutto a tutti e tutto per il Vangelo, ecco la vita di San Paolo e di ogni apostolo, della Chiesa, di ciascuno di noi.

 


San Mattia Apostolo

L'apostolo Paolo scrive: «O profondità della ricchezza, della sapienza,della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11,33)... E un salmo dice: «Tutto hai fatto con saggezza» (Sal 103,24), cioè nel tuo Verbo, nella tua Parola eterna. Poiché nel Verbo e per mezzo del Verbo tutto è stato fatto (Gv 1,3), chi potrà dubitare che con saggezza è stato fatto, e che egli ha perfettamente scelto i suoi discepoli, senza parzialità? «In lui ci ha scelti, dice l'apostolo Paolo, prima della creazione del mondo» (Ef 1,4)... Consideriamo la scelta di Mattia. Gli apostoli avevano scelto Giuseppe detto Barsabba e Mattia...; poi hanno proposto la loro scelta a colui che giudica secondo il cuore, e che «conosce il cuore di tutti», affinché egli mostrasse quali di questi due aveva designato. E sicuramente egli aveva scelto Mattia per questo onore prima che fossero gettate le sorti, anzi prima che il mondo fosse... Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato» (Mc 11,24). Per questo la Chiesa è solita pregare di comune accordo ogni volta che pensa di dovere domandare qualche cosa al Signore. Nessun mezzo ha presa sulla volontà di Dio quanto la preghiera, almeno se viene fatta con fede, serenità, umiltà e perseveranza. Il sorteggio non ha quindi recato nessun pregiudizio alla scelta di quel glorioso apostolo poiché, come testimonia la Scrittura, gli apostoli hanno cominciato col pregare; è piuttosoto in risposta alla loro preghiera che Dio ha ispirato loro di gettare le sorti per questa elezione. D'altra parte Mattia non ha ricevuto una grazia meno grande di Pietro, o degli altri apostoli, benché fosse stato chiamato per ultimo. Ha ricevuto lo Spirito Santo con la stessa pienezza degli altri, e gli stessi doni spirituali riservati a loro. Lo Spirito Santo posandosi su di lui l'ha riempito di carità; gli ha dato di esprimersi in tutte le lingue, di fare dei miracoli, di convertire le nazioni, di predicare Cristo e di ottenere il trionfo del martirio.

San Lorenzo Giustiniani, Omelia per la festa di San Matti