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martedì 26 agosto 2014

La Francia riabilita l'Humanae Vitae di Paolo VI

di Lorenzo Bertocchi  26-08-2014
Paolo VINel caso dei treni è una benedizione che i binari siano paralleli, la stessa cosa purtroppo non vale in altri ambiti, come ad esempio quello del magistero della Chiesa. In questo caso un “magistero parallelo” è più facile che porti al deragliamento, piuttosto che a destinazione; l’esempio da manuale è fornito dalla reazione a cui andò incontro l’ultima enciclica di Paolo VI, ormai prossimo beato.
Era il 29 luglio del 1968 quando fu presentata l’Humanae Vitae, il pronunciamento del pontefice sul tema scottante dell’amore coniugale e della “regolazione” delle nascite, appena due giorni dopo si alzava violento il vento del dissenso. Al n°14 dell’enciclica si ribadiva con chiarezza che «è altresì esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione». Una sconfitta colossale per i molti che da anni tentavano, dentro e fuori la Chiesa, di forzare la mano per ottenere un pronunciamento favorevole sul tema della contraccezione. Il 31 luglio 1968, a pagina 16 del New York Times, si poteva già leggere la “dichiarazione Curran”, dal nome del teologo della Catholic University of America che raccolse la diffusa opposizione all’enciclica. Fu solo la prima di una lunga serie di azioni e dichiarazioni che teologi cattolici, e anche alcuni vescovi, fecero in aperto contrasto al magistero del Papa. Sul quotidiano Le Monde l’abate Oraison ne faceva un nuovo caso Galileo: con questo pronunciamento la Chiesa stava rifiutando di riconoscere «le acquisizioni della moderna antropologia».
Dopo 46 anni, proprio sulle pagine del quotidiano francese, viene pubblicata un’inchiesta che sembra “riabilitare” l’Humanae

lunedì 25 agosto 2014

Europa e valori, tra ragione e rivelazione

Nel primo giorno del Meeting di Rimini, Joseph H.H. Weiler, presidente dell'Istituto Universitario Europeo, ha svolto un percorso affascinante tra gli interrogativi che oggi più provocano l'Europa    

Rimini,       Anna Minghetti |
Cosa separa un ideale da un’idolatria? E dove si colloca la concezione che noi oggi abbiamo di Europa? Nella prima giornata della XXXV edizione del Meeting di Rimini, Joseph H.H. Weiler, presidente dell’Istituto Universitario Europeo, ha svolto un percorso affascinante tra gli interrogativi che oggi più provocano l’Europa, e non solo. Europa: ideale o idolatria? è stata solo la prima di una serie di domande che hanno visto il professore americano in dialogo con il docente di Diritto costituzionale all’Università di Firenze Andrea Simoncini, partendo dall’intervento che il presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione Julián Carrón  aveva scritto in occasione delle ultime elezioni europee.
“L’idolatria è quando si prende una cosa giusta e la si esagera”, ha esordito il professor Weiler. La pace, la prosperità, l’altro e l’individuo sono ideali  solo se concepiti secondo il pensiero originario di chi li ha voluti alla base del concetto di Europa. Se la pace così com’era stata pensata in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, come portatrice dell’idea di perdono, si riduce a quieto vivere, non è valore ma idolatria. La prosperità diventa idolatria quando è smania di ricchezza e non più desiderio di una dignitosa autosufficienza economica, solidarietà che tiene sempre un occhio sul bisogno dell’altro. “Il metodo europeo di rapporto con l’altro è molto originale - ha continuato Weiler - differente da quello americano, dove l’altro è accettato, ma deve diventare americano. L’Europa non ha mai voluto fare l’unione del popolo europeo, ma tra i popoli europei”.  Se si esce dall’idea di altro come risorsa proprio in quanto portatore di un'alterità, anche questo ideale diventa idolatria. Così come, da ultimo, una distorsione del concetto di individuo può portare il rischio della perdita dell’aspetto comunitario.
Di fronte alla deviazione dai valori su cui è stata costruita l’Europa, “oggi è giusto chiedere un maggiore spazio di libertà per incontrare i sinceri cercatori di verità?”, ha domandato Andrea Simoncini. “Non  mi sembra che oggi l’Europa non dia spazio a questa libertà”, ha obiettato Weiler. “Le minacce alla libertà ci sono e ci sono sempre state, ma per secoli il credente cristiano è stato in maggioranza mentre ora non lo è più. Non  siete abituati e quindi vivete come sotto attacco”.  Ma l’uomo religioso è “chi, malgrado tutta la difficoltà, non perde il suo credo. Quello che ci vuole è un atteggiamento più fiducioso del credente verso la società contemporanea. Prima di lamentarsi, bisogna ascoltarla”.  Non a caso, infatti, un punto determinante del testo di Carrón che entrambi i relatori hanno voluto porre in evidenza è stata l’importanza della non confessionalità dello Stato. “La fede forzata non è vera fede, solo avere la possibilità di dire di no a Dio vale il sì a Dio”, ha aggiunto Weiler.
Da ultimo il dialogo si è soffermato su uno dei temi più complessi che il mondo religioso, e in particolare

venerdì 22 agosto 2014

Negri sui crimini dell'Islam: «Il coraggio della verità è fondamentale per essere testimoni cristiani»

di mons. Luigi Negri
arcivescovo di Ferrara
Negri sui crimini dell'islam: «Il coraggio della verità è fondamentale per essere testimoni cristiani»
È un fatto enorme questo gigantesco esodo in massa di cristiani espulsi dai luoghi dove da millenni era radicata la presenza cristiana, esclusivamente perché cristiani.
Quindi per quello che la tradizione cattolica chiama l'odio della fede. E questo deve essere detto esplicitamente: non sono soltanto buttati fuori dalle loro case, privati di tutti i loro beni, privati di tutti i loro diritti e quindi della possibilità di sussistenza; ma la ragione di tutto questo è la fede.
E questo i cristiani, la Chiesa, non possono non sentirlo come un evento terribile e insieme grandioso, perché è l'evento del martirio.
Ho ascoltato con molta gratitudine gli interventi di papa Francesco, così forte, così appassionato e insieme così profondamente compreso di dolore, di compassione. Con non meno gratitudine ho letto la lunga intervista del cardinale Kurt Koch all'Osservatore Romano, che ha offerto un momento di dolorosa riflessione su questo evento. Non si capisce perché alcune cose vengano chiamate Shoah e per queste non venga usato lo stesso termine, che dice di una spaventosa e dissennata ideologica violenza contro l'altro semplicemente perché ha una posizione religiosa diversa dalla propria.
Ma il cardinale Koch ha insistito su un aspetto che non è sempre in primo piano negli interventi del mondo cattolico. Il problema è che c'è una grande difficoltà a una denuncia esplicita. I responsabili di questi spaventosi avvenimenti hanno nomi e cognomi espliciti, e non soltanto quelli degli ultimi, degli epigoni di questa vicenda di criminalità ideologica. Ma c'è una tradizione che risale lungo i secoli della presenza islamica nel Medio Oriente e in Europa.
Ora, il cardinale Koch dice che dovremmo essere più coraggiosi nella denuncia. Ecco, il coraggio è sempre un elemento fondamentale per una presenza cristiana, ma più che mai in un momento come questo. Il

giovedì 21 agosto 2014

Solennità di Sant'Agapito Martire

Morte e lotta, ma io ci sono
Tre parole ci stampa la sacra scrittura nella coscienza stasera: la morte, la lotta, una compagnia.

La morte è guardata dal punto di vista di Dio. E' la morte per l'uccisione spietata di Agapito, per una persecuzione senza sosta contro i cristiani che in questo tempo sta aumentando come ai tempi di Agapito in quei giorni romani, efferati, di agosto, in cui furono ammazzati crudelmente tanti giovani: Lorenzo, Sebastiano, Tarcisio, i quattro diaconi di papa Sisto... Abbiamo pregato per loro il giorno dell'Assunta e oggi assieme ad Agapito vogliamo rendere loro onore.

Ma c'è anche una sfida, una lotta: chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada...? Ma che sto a dire io vescovo di Palestrina? Che tribolazione, che angoscia, che persecuzione abbiamo noi cristiani prenestini? Non vi sembra che invece stiamo navigando mollemente di nuovo nel paganesimo dei tempi di sant'Agapito? Allora si veniva al tempio a farsi predire il futuro, per tentare la fortuna portando animali per essere sacrificati.

Oggi c'è una fila continua di prenestini davanti ai maghi, ai fattucchieri, a chi legge la mano. Tornano di moda sette sataniche; c'è gente disturbata da fenomeni strani, malata dentro nello spirito e si affida a tutti, agli oroscopi pure, fuorchè a Dio. Siamo in difficoltà di lavoro, di economia, ma non abbiamo più speranza; pensiamo ciascuno ai fatti nostri; non osiamo rischiare carità. La celebrazione eucaristica non è più un appuntamento cercato, scritto nella vita di una persona, di una famiglia, nel programma della domenica. E' ridotto solo a un gesto formale e occasionale, l'ultima cosa da tenere in considerazione.

Chi ci separa dall'amore di Cristo? Non c'è angoscia o persecuzione, ma maldicenza, calunnia, sfruttamento,

lunedì 18 agosto 2014

"Una Chiesa senza identità non può dialogare con gli altri"

Ai vescovi asiatici riuniti nel Santuario di Haemi, Papa Francesco rivolge l'invito a "riappropriarci della nostra identità di cristiani". E mette in guardia da relativismo, cultura dell'effimero e arroccamento   

Citta' del Vaticano,      Federico Cenci |

Un luogo piccolo ma dal grande significato. È quello in cui oggi, nel suo quarto giorno di visita in Corea, si è riunito papa Francesco con 68 vescovi provenienti da 35 Paesi dell’Asia. Si tratta del Santuario di Haemi, immerso nel verde e in una silenziosa pace, ma che ha conosciuto, nel 1868, il martirio di 132 cattolici, molti sepolti vivi e la maggior parte dei quali rimasti senza nome.
“La loro testimonianza di carità - ha esordito nel suo discorso ai vescovi papa Francesco - ha portato grazie e benedizioni alla Chiesa di Corea ed anche al di là dei suoi confini: le loro preghiere ci aiutino ad essere pastori fedeli delle anime affidate alla nostra cura”. E fuori dai confini della Corea c’è un Continente sterminato, “nel quale - ha ricordato il Papa - abita una grande varietà di culture”. In un simile contesto, “la Chiesa è chiamata ad essere versatile e creativa nella sua testimonianza al Vangelo, mediante il dialogo e l’apertura verso tutti”.
Apertura che deve coinvolgere “la mente e il cuore” per instaurare una “sincera accoglienza verso coloro ai quali parliamo”, ma che non può prescindere dal mantenere salda la propria identità come Chiesa. “Se vogliamo comunicare in maniera libera, aperta e fruttuosa con gli altri, dobbiamo avere ben chiaro ciò che siamo - il monito del Papa -, ciò che Dio ha fatto per noi e ciò che Egli richiede da noi”.
È tuttavia un esercizio impervio, quello di “appropriarci della nostra identità e di esprimerla”. Il Vescovo di Roma segnala tre tentazioni dello “spirito del mondo” che ostacolano i nostri tentativi. Anzitutto, richiamandosi a un tema chiaro al suo predecessore Benedetto XVI, fa riferimento al relativismo, “abbaglio ingannevole”, che “oscura lo splendore della verità e, scuotendo la terra sotto i nostri piedi, ci spinge verso sabbie mobili, le sabbie mobili della confusione e della disperazione”.
Il Papa si sofferma su questa tentazione che “nel mondo di oggi colpisce anche le comunità cristiane, portando la gente a dimenticare che ‘al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli’ (Gaudium et spes, 10; cfr Eb 13,8)”. Un relativismo inteso non solo come “sistema di pensiero”, ma anche come realtà quotidiana che, “in maniera quasi impercettibile, indebolisce qualsiasi identità”.
Strettamente legata al relativismo è la superficialità. Che il Papa indica in quella “tendenza a giocherellare con le cose di moda, gli aggeggi e le

venerdì 8 agosto 2014

Maschio e femmina, altre stravaganze offendono la ragione

 Avvenire Noi      del 27 luglio 2014

Su Facebook è ora possibile scegliere tra 58 identità di genere. Divertimento rischioso perché le manipolazioni semantiche nascondono inganni profondi. Pretendere di sgretolare il dualismo uomo-donna significa scambiare la realtà con l'ideologia
di Nicoletta Martinelli
Dando un nome alle cose le rendiamo concrete, pensabili. Identificabili e condivise. Le consegniamo all'esistenza. La scena biblica della nominazione degli esseri viventi ci insegna il potere creativo delle parole. Eccole qua le mie creature, brulicano nelle acque, volano nel cielo, passeggiano sulla terra, lo le ho fatte e ora tu, caro Adamo, trova loro un nome. Non sarà stato così banale il dialogo tra Dio e il suo prediletto, ma il succo quello resta: all'uomo viene affidato il compito di chiamare le cose per nome, di dare consistenza -individualizzandoli - agli uccelli, ai pesci, ai rettili e alle fiere. Alla donna, parte di sé, l'unica davanti alla quale si entusiasma.
Adamo, però, non è più quello di una volta. E neppure Eva: proprio loro che hanno dato origine al linguaggio -e a molto altro... - dalle parole sono stati traditi, consegnati all'incertezza da un vocabolario mutevole e capriccioso.
Maschio e femmina Dio li creò. Ma, si dice ora e si vorrebbe che fosse scritto per sempre, Facebook poi li trasformò in agender, bigender, transgender, cisgender, fluidi, intersessuali, asessuali, incerti e in ricerca... E non solo Facebook, che si è limitato a cavalcare - con un'operazione furbetta - l'ideologia gender che va per la maggiore. Sono 56 - 58 in Italia - le identità di genere con cui gli utenti del social network possono descriversi presso la comunità di amici. Per ognuna c'è anche la sottile distinzione - così sottile che sfugge al buon senso - tra uomo e maschio e donna e femmina. Infine ma non ultimo, si può anche prendere la decisione - questa sì temeraria -di definirsi "persona". E se ancora non

giovedì 7 agosto 2014

Cañizares: «Chi pensa che il Summorum Pontificum attenti al Concilio ignora cosa ha detto il Concilio»

Di seguito, alcuni passi tratti da un testo del cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Si tratta della prefazione a una tesi in diritto canonico del benedettino spagnolo Alberto Soria Jiménez sui principi interpretativi del motu proprio Summorum Pontificum, discussa alla Università ecclesiastica San Damaso di Madrid e di prossima pubblicazione.
Cañizares: «Chi pensa che il Summorum Pontificum attenti al Concilio ignora cosa ha detto il Concilio»«Non vi è dubbio che alla metà del XX secolo un approfondimento e un rinnovamento della liturgia si erano rese necessarie, ma sotto molti aspetti l’operazione non è perfettamente riuscita. E’ stata attuata una “riforma”, un cambio di forme, ma non un vero rinnovamento come desiderava la Sacrosanctum Concilium. A volte il cambiamento è stato fatto con superficialità, il criterio è sembrato quello di allontanarsi a ogni costo da un passato percepito come totalmente negativo e superato, come se si trattasse di scavare un abisso tra prima e dopo il Concilio, in un contesto dove la parola “pre-conciliare” era usata come un insulto. Tuttavia il vero spirito del documento conciliare non era quello di impostare la riforma come una rottura con la Tradizione ma, al contrario, come una conferma della Tradizione nel suo significato più profondo».
«Per questo è assolutamente infondato dire che le prescrizioni del Summorum Pontificum costituiscono un “attentato” al Concilio. Una simile affermazione manifesta una grande ignoranza del Concilio stesso, dal momento che quello di offrire a tutti i fedeli la possibilità di conoscere e apprezzare i numerosi tesori della liturgia della Chiesa era precisamente ciò che desiderava quella grande assemblea: “Il sacro Concilio, obbedendo fedelmente alla Tradizione, dichiara che la santa madre Chiesa considera come uguali in diritto e in dignità tutti i riti legittimamente riconosciuti; vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati” (Sacrosanctum Concilium 4)».
«Il motu proprio Summorum Pontificum ha inoltre dato luogo a un fenomeno per molti sorprendente e che rappresenta un vero “segno dei tempi”: l’interesse che la forma straordinaria del rito romano suscita tra i

sabato 2 agosto 2014

Palestrina sarà consacrata alla Madonna

L'annuncio durante i festeggiamenti della Madonna del Carmine

Palestrina,       Paolo Schiavella |

La città di Palestrina nella primavera del prossimo anno sarà consacrata alla Madonna dal vescovo
diocesano, monsignor Domenico Sigalini. Sarà la conclusione di un percorso di catechesi che coinvolgerà tutte e nove le parrocchie cittadine e che sarà guidato dai padri carmelitani della Provincia d’Italia fino a coinvolgere anche il priore generale, lo spagnolo padre Fernando Millan Romeral.
“Maria è discepola che si rimette alla volontà del Signore”, ha precisato lunedì 21 luglio scorso il carmelitano padre Simone Gamberoni, parroco di Sant’Antonio abate, nell’omelia della solenne Messa della Reposizione della Vergine del Carmelo, alla quale ha assistito la confraternita omonima, il Terz’Ordine carmelitano e la folla di benefattori e fedeli particolarmente sensibili al carisma del Carmelo. “Adesso - ha continuato padre Simone - inizia la vera devozione. Stasera dobbiamo riscoprire cosa significa camminare con Maria. Essere discepoli significa amare il comando del Signore. Ricercarne la volontà e concretizzarla nelle proprie scelte”, sicché ha esortato: “manteniamo viva la nostra devozione mariana”.
Invocazione non casuale in una comunità di fedeli da secoli rivolta alla venerazione di Maria nel titolo del Carmelo. “Il libretto che viene distribuito ai fedeli - ha scritto il vescovo prenestino, monsignor Domenico Sigalini - ha il compito di aiutare a riscoprire i valori della tradizione, di motivare la devozione alla Madonna del Carmine, di essere strumento di approfondimento di fede, di dare insomma alla festa il suo carattere di manifestazione religiosa, di ricerca di fedeltà al Signore e di lode a Maria, la Vergine del Carmine”.
Della devozione alla Madonna del Carmine a Palestrina si ha notizia sin dal Cinquecento, quando prima del