Omelia alla Santa Messa Del Crisma 2021
San Vittorino Romano, Santuario di Nostra Signora di Fatima, Giovedì 1° aprile 2021
Carissimi fratelli nel sacerdozio,
per la prima volta dopo l’inizio della pandemia, ci ritroviamo insieme, presbiterio di Tivoli e di Palestrina, non per un incontro di di formazione ma per celebrare l’Eucaristia!
In questo giorno – nel quale Gesù istituì l’Eucaristia e il sacerdozio ministeriale – desideriamo rinnovare la comunione che, in quanto tutti chiamati da Dio, deve sussistere e sempre più rafforzarsi tra noi e con il popolo santo di Dio che oggi, per ovvi motivi, è purtroppo soltanto qui rappresentato, e con il quale desideriamo essere segni di speranza per l’umanità intera.
In questo spirito saluto quanti, dall’ultima Messa Crismale celebrata nel 2019, sono entrati nella nostra famiglia presbiterale e tutti coloro che da allora ad oggi hanno celebrato o celebreranno nel corso di questo anno 2021 particolari anniversari di sacerdozio. Con loro non vogliamo e non possiamo dimenticare i nostri confratelli anziani o ammalati e in particolare coloro che anche oggi si trovano in ospedale, vittime del Covid, condividendo con tanti uomini e donne la croce di questa pandemia che non guarda in faccia a nessuno e ci ha fatto comprendere – come con una immagine efficace ricordava Papa Francesco il 27 marzo dello scorso anno – che “siamo tutti sulla stessa barca”.
Non possiamo infine non presentare a Dio nella preghiera i confratelli defunti dalla Messa Crismale del 2019. Essi sono: Padre Angelo Foschi, OAD; Don Mario Renna, Padre Jozep Roman Lebiedziuk, CR e Don Romano Massucco – per la Diocesi di Tivoli –. Don Antonino Maniscalco, Padre Benedetto Torsi, Don Romeo Mancini e Mons. Vito Cinti, per la Diocesi di Palestrina. Il Signore che tutto vede e sa conceda loro il premio della pienezza eterna della Vita promesso ai servi buoni e fedeli del Vangelo.
Celebriamo dunque, mentre intorno a noi sentiamo ancora odore di morte, questa Messa del Crisma che come ogni Messa deve essere incontro con Colui che dà gioia, speranza e prospettiva di vita: Gesù, il Signore! Durante questa celebrazione benediremo gli oli e consacreremo il Crisma: olio profumato, intriso di quel buon profumo del Risorto che siamo chiamati a spandere per dare speranza a questo nostro mondo che non è “altro da noi” ma nel quale anche noi siamo immersi e nel quale camminiamo.
Una speranza – quella che siamo chiamati a dare al nostro mondo – che deve essere compresa da tutti guardando semplicemente alla nostra solidarietà che non è quella di una casta che si copre a vicenda per difendere i propri interessi e magari coprire i propri abusi, ma che deriva da quella reciproca carità che siamo chiamati ad esercitare nella verità tra noi e verso tutti, in quanto credenti, così come esemplarmente hanno fatto e fanno anche in questo momento tanti uomini e donne che negli ospedali, nelle protezioni civili, nelle associazioni di volontariato, nelle nostre Caritas e in tanti altri luoghi e modi si sono fatti e si stanno facendo vicini all’uomo riconoscendo in ciascuno, al di là della razza, della provenienza e della religione, un fratello da amare.
Se soprattutto in questo tempo di pandemia abbiamo incontrato e incontriamo anche tanti non credenti, non praticanti, uomini e donne di altre religioni, ricchi o poveri, stranieri che si sono fatti fratelli dei più bisognosi, tanto più siamo chiamati a vivere così noi cristiani e in particolare noi presbiteri che tra poco rinnoveremo le nostre promesse sacerdotali.
Per aiutarci vorrei fermarmi con voi a provare a dare risposta a tre domande:
- Ma perché dare speranza?
- Dove dare speranza?
- E come? Con quale stile?
1- Testimoniare speranza perché, crediamo e aderiamo con tutto il cuore a Lui che ci ha scelti e chiamati. A Lui che come ci ha detto Gesù stesso nel Vangelo appena ascoltato, è il Messia, che con la sua venuta realizza la profezia di Isaia che, alla Sinagoga di Nazaret, Egli riferisce a sé, rivelando che è Lui – Gesù – l’unto, ossia colui su cui si compie la presenza di Dio in mezzo agli uomini. Colui che il Padre ha mandato per inaugurare il Regno di Dio che Gesù viene ad attuare nella storia annunciando l’evangelo ai poveri, proclamando il grande giubileo della liberazione, della luce, della gioia e della pace. E tutto questo in un “oggi” che non è soltanto il Suo, quello di duemila anni fa … ma è un “oggi” che si prolunga nel tempo della Chiesa, in questo tempo che è ancora in svolgimento e che è il nostro tempo.
Nel Vangelo di Luca che ogni anno ascoltiamo in questa Messa mi colpisce la reazione degli ascoltatori di Gesù alla Sinagoga di Nazaret: “gli occhi di tutti erano fissi su di Lui!”. Fissi e attoniti! Ebbene, noi saremo capaci di speranza se terremo fissi nella nostra vita personale, nelle nostre assemblee e anche in questo tempo così strano i nostri occhi su Gesù. Ma – come scrive Origene – “non gli occhi del corpo, ma gli occhi della mente” sicuri che – continua il teologo e filosofo greco – “quando lo guarderete, i vostri occhi risplenderanno per la luce del suo sguardo; allora potrete dire: La luce del tuo volto, Signore, ha lasciato il suo segno su di noi (Sal 4,7)”[1]. Domandiamoci allora: i nostri occhi sono rivolti a Lui affinché illuminati dal Suo amore possano guardare con il Suo stesso sguardo di amore puro e misericordioso il mondo per dare ad esso speranza?
2- La seconda domanda circa la nostra chiamata a dare speranza riguarda il dove? La risposta – che in fondo abbiamo già accennata – potrebbe essere semplice quanto scontata: il mondo!
Ma lo conosciamo il nostro mondo?
Abbiamo compreso come esso è cambiato e come lo troveremo ancor più cambiato, al termine di questa pandemia?
Non oso pretendere di descrivere dettagliatamente i cambiamenti di questo mondo a causa dei quali la nostra pastorale e il nostro essere preti si trovano spesso già da tempo come inadeguati, ma provo a fare con voi una rapida carrellata che occorrerà in seguito approfondire per essere nel mondo, in questo mondo e non in un mondo ormai passato, riflesso di speranza non solo a parole ma con i fatti.
- Il mondo in cui viviamo ha subito dal 1859 ad oggi una rivoluzione copernicana: un vero e proprio “cambiamento d’epoca” con il quale non possiamo rinviare il confronto. Ho parlato di 1859 perché in quella data Charles Darwin, con il libro L’origine della specie, sganciò la comparsa dell’uomo sulla terra dal legame con Dio, invitando a guardare l’origine della specie umana, piuttosto che in direzione dell’alto, in direzione della comune parentela con gli animali. E da allora è iniziato quel tempo che evolvendo progressivamente oggi è giunto ad essere definito della “postmodernità”. Tempo al quale siamo arrivati passando per il pensiero di Marx, Freud, la seconda rivoluzione industriale, l’arte e la letteratura moderna e contemporanea, nonché le pubblicazioni scientifiche di inizio ‘900, fino ad Auschwitz – che affermerà quale unica legge quella della sperimentazione potenzialmente infinita anche snaturando l’uomo – e poi ancora ai moti del 1968, della emancipazione della donna, della messa in discussione di ogni differenza sessuale e di genere, dell’introduzione delle leggi a favore del divorzio e dell’aborto, della collusione tra politica e affari privati, fino all’attuale rivoluzione digitale … E così, progressivamente, siamo stati condotti a dimenticare, se non addirittura a considerare Dio, come “altro da noi” a favore di un inedito e affascinante apprezzamento del proprio io, che segna la vittoria di quest’ultimo rispetto a tutte le gerarchie, a tutte le élite, a tutti gli apparati e i governi che sinora hanno preteso di parlare a nome di tutti e quindi a nome suo. Quell’io umano che tuttavia continua a desiderare parole di speranza cristiana tra “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce”[2] che le persone anche oggi sperimentano e che anche oggi possono offrire orientamento all’azione pastorale della Chiesa.
- Per comprendere il nostro mondo occorre poi che la Chiesa sappia che anche grazie all’allungamento medio della vita, non esistono più la fanciullezza, l’adolescenza, la giovinezza e l’età adulta dopo la quale ci si prepara all’incontro con l’eterno. Ma che dopo la fanciullezza, l’adolescenza e la giovinezza, a causa dell’allungamento della vita media dell’uomo, esiste sì una vita adulta anagraficamente ma che consiste in una serie di più giovinezze, dove l’essere sempre giovani è divenuto un mito. Mito che favorisce in tanti giovani l’incapacità di compiere scelte di vita definitive, e vengono meno così coloro che desiderano generare, adulti desiderosi e capaci di generare e di affrontare e superare le difficoltà tipiche dell’età adulta nonché di educare i figli riducendosi a divenire più loro amici che padri e madri.
- E in questo contesto di crisi del senso di Dio, dell’adultità e delle capacità di scelta vocazionale sia alla famiglia che alla vita sacerdotale o consacrata, anche la nostra pastorale è entrata ed entrerà sempre più in panne. E con la nostra pastorale anche noi preti che tanto ci sforziamo, specialmente nella catechesi ai piccoli, con l’impressione, giunti a sera, di battere l’aria e le conseguenti demoralizzazioni e caso mai ricerche di fughe consolatorie in questo mondo sempre più lontano da Dio.
3- E allora: come e con quale stile riflettere la speranza che ci viene dal tenere gli occhi fissi su Gesù il Cristo: ieri, oggi e sempre?
Provo a dare qualche risposta senza pretendere di esaurire in un brandello di omelia un grande lavoro di “conversione pastorale” alla quale giustamente da tanto tempo Papa Francesco ci chiama e che sentiamo tutti come ormai inderogabile anche se poi non abbiamo moltissime idee circa il come realizzarla.
Innanzitutto occorre che nelle nostre comunità si scopra e viva uno stile sinodale, una vera e propria fraternità solidale che si esprima in fatti di prossimità dopo una sempre più estesa e accentuata formazione ecclesiale. Non a caso il Papa sta stimolando tutta la Chiesa italiana nella sua interezza: dalle parrocchie, alle Diocesi a porsi in stato di sinodo per mettere a fuoco le domande dell’uomo e dare ad esse risposte calzanti e adeguate.
Domande non di ieri ma di oggi per dare ad esse risposte non di ieri ma di oggi.
Non possiamo rassegnarci a che le uniche domande che vengono poste a noi presbiteri e alle nostre comunità siano quelle di ricevere i sacramenti o i sacramentali dopo un po’ di catechismo nozionistico che in un corpo come è il nostro mondo rischia di essere un vaccino iniettato ma senza effetto. Cari confratelli occorre prendere il coraggio di assumere vie nuove – e la proposta almeno nella Diocesi di Tivoli è stata fatta da vari anni con la Nota Pastorale Cristiani non si nasce ma si diventa – dove ai sacramenti per la vita cristiana non ci si arriva come appunto andiamo a farci vaccinare, forse avremo qualche linea di febbre per un giorno o due … e poi viviamo quasi dimenticandoci del vaccino ricevuto. Occorre invece entrare in un dialogo profondo con l’uomo di oggi, ascoltarlo e rispondergli proponendogli insieme Cristo. Favorendogli l’incontro con Lui come comunità di adulti che sono tali non anagraficamente ma perché cristiani e il vero cristiano configurato a Cristo che dona la vita per gli altri sa cosa voglia dire essere adulto.
Innanzitutto, però, le domande dobbiamo rivolgerle a noi presbiteri per primi.
Anche noi stiamo vivendo nella postmodernità, anche noi siamo sulla barca di questa umanità … ebbene cosa ha detto e cosa dice al mio e nostro essere cristiano e prete questo tempo? Come ci stimola? O basta passarci in mezzo ignorandolo, con nostalgie di un passato che non tornerà più, dove Dio era dato per scontato e certo e la nostra pastorale si consumava in pratiche tradizionali, processioni, novene … e in fare il catechismo per dare i sacramenti?
Alle domande dobbiamo rispondere – la dico in una parola sola – diventando cristiani, puntando maggiormente il nostro sguardo, come quello degli ascoltatori della Sinagoga di Nazaret, su Gesù con uno stile di vita incentrato sull’essenziale a partire dalla domenica, giorno del Signore.
Domandiamoci: essa è veramente il centro della nostra azione pastorale? Senza la domenica – dicevano i martiri di Abitene – non possiamo vivere, non possiamo essere! Ma è così per noi? E per chi viene a cercarci, cosa proponiamo alla domenica? Una liturgia accurata, una omelia che risponda a qualche domanda vera dell’uomo di oggi, una comunità – caso mai piccola – ma capace di accogliere, ascoltare, aiutare concretamente? O liturgie stanche, disincarnate, dove forse fatichiamo pure a comprendere quanto viene proclamato?
Nelle nostre comunità si legge il Vangelo? Ci lasciamo forgiare dalla Parola di Dio? Esistono occasioni per proporla dopo che noi ci siamo lasciati intridere da essa?
Che impegno viviamo nel fare, anzi nell’essere, carità?
Vorrei tanto che sulle porte di tutte le nostre chiese fosse affissa una scritta: “Qui si diventa cristiani”. Ossia qui c’è una comunità che guardando fissa a Gesù con il suo sguardo guarda il mondo. C’è una comunità che si meraviglia della novità di Gesù così come viene narrata nei Vangeli, che prega, celebra l’Eucaristia, si sostiene e al di là dei tempi, delle classi scolastiche di appartenenza, delle tradizioni, insegna a guardare a Gesù per guardare ai fratelli partendo dai più poveri, i soli, i giovani affinché tutti divengano cristiani e quindi capaci di oblatività e perciò adulti.
Vorrei concludere citando quanto Papa Francesco ha detto del nostro padre Abramo nella Piana di Ur il 6 marzo scorso: “Oggi … – diceva – onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra”. Abramo guardava le stelle e al contempo camminava sulla terra compiendo passi concreti verso la scoperta del volto dell’altro. Cari amici, come ricordava il Cardinale Bassetti lo scorso 22 marzo, il popolo di Dio ci chiede anzitutto una parola “alta” che sappia indicare il cielo, che non si ripieghi a logiche personalistiche o campanilistiche. Ci viene chiesta una visione prospettica a lungo termine, che mostri la bellezza delle grandi imprese. Che sia anche per noi così. Guardando sempre al Cielo, come Abramo camminava al ritmo della sua famiglia lungo i percorsi indicati dal Signore così anche noi mettendo al centro della nostra pastorale innanzitutto la famiglia il cui bene è decisivo per il futuro della Chiesa e della società e che forse abbiamo lasciata un po’ a se stessa senza coinvolgerla appieno in un cammino dove anche essa è chiamata a divenire cristiana e perciò adulta e generatrice.
Maria Santissima e San Giuseppe, l’uomo dal coraggio creativo del quale stiamo celebrando un anno a lui dedicato, ci aiutino ad intraprendere strade nuove per portare speranza al mondo. Amen.
+ Mauro Parmeggiani
Vescovo di Tivoli e di Palestrina
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