Pagine

domenica 10 aprile 2022

 Pilato e Gesù

 

 

  1. Nella Settimana della passione del Signore, che iniziamo oggi, Domenica delle Palme, il pensiero ed il cuore della Chiesa sono presso la croce. È la croce della nostra fede e della nostra speranza.

La croce della redenzione dell’uomo e del mondo.

«Crux fidelis inter omnes arbor una nobilis».

 

Questa croce chiederanno per Cristo gli uomini, ammassati davanti al pretorio di Pilato, il Venerdì Santo.

«Crocifiggilo, crocifiggilo…!».

In quella stessa Gerusalemme, nella quale erano risuonate le parole «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna al figlio di Davide!», grideranno: «Crocifiggilo!».

Pilato si laverà le mani e dirà:

«Non sono responsabile… di questo sangue…» (Mt 27, 24). E le stesse voci risponderanno: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Mt 27, 25). E in questo modo verrà sigillata la condanna a morte sulla croce.

Cristo prenderà la croce sulle sue spalle.

«Crux fidelis…».

 

  1. Attraverso tutte le generazioni degli uomini rimarrà questa croce, senza staccarsi da Cristo.

Diventerà il suo ricordo e il suo segno. Diventerà una risposta alla domanda fatta a Dio dall’uomo, e rimarrà un mistero.

La Chiesa la circonderà con il corpo della sua viva comunità, la circonderà con la fede degli uomini, con la loro speranza e con il loro amore.

La Chiesa porterà con Cristo la croce attraverso le generazioni. Renderà testimonianza ad essa. Ad essa attingerà la vita. Dalla croce crescerà con quella misteriosa crescita dello Spirito, che nella croce ha il suo inizio.

L’apostolo scriverà: «Io completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).

La Chiesa crescerà dalla croce come il corpo misterioso mistico di Cristo, completando la croce.

Bisogna ricordare ciò qui, a Roma, dove tante generazioni hanno completato la croce di Cristo attraverso i corpi immolati dei martiri nei primi tre secoli, condannati a terribili sofferenze e alla morte, a causa della fede.

La Chiesa è maturata e cresciuta dal mistero della croce di Cristo. La Chiesa è maturata e cresciuta scrivendo il suo martyrologium, uno dei più preziosi documenti della storia della salvezza dell’uomo.

«Crux fidelis…».

 

  1. Anche la Chiesa dei nostri tempi scrive il suo martyrologium, i suoi capitoli sempre nuovi, contemporanei. Non si deve dimenticare. Non si possono volgere gli occhi da questa realtà, che è la dimensione fondamentale della Chiesa dei nostri tempi. La Chiesa dei nostri tempi continua a scrivere il suo martyrologium.

Non si possono dimenticare coloro che nel corso della nostra epoca hanno subito la morte per la fede e per l’amore di Cristo; che in diversi modi sono stati incarcerati, torturati, tormentati, condannati a morte; ed anche scherniti, disprezzati, umiliati e socialmente emarginati. Non si può dimenticare il martyrologium della Chiesa e dei cristiani della nostra epoca. Questo martyrologium è scritto con eventi differenti da quelli primitivi. Sono altri metodi di martirio ed un altro modo di testimoniare; ma tutto scaturisce dalla stessa croce di Cristo e completa la stessa croce della nostra redenzione.

«Crux fidelis…».

 

Gli uomini che vivono nelle condizioni di libertà e di benessere non possono voltare gli occhi da questa croce e far passare sotto silenzio la testimonianza di coloro che appartengono a quella che si è soliti chiamare «la Chiesa del silenzio». La Chiesa costretta al silenzio, nelle condizioni della ateizzazione obbligatoria, cresce ulteriormente dalla croce di Cristo e, con il suo silenzio, proclama la più grande verità.

La stessa verità, che Dio stesso ha inscritto nei fondamenti della nostra redenzione.

«Crux fidelis…».

 

  1. Nel corso della Quaresima intera abbiamo cercato le vie della conversione a Cristo, sulle quali la Chiesa deve entrare se vuole esser fedele al Redentore. Oggi, alla soglia della Settimana Santa, la stessa croce diventi fonte di rinnovamento di tutti noi, che in essa riponiamo la speranza fino alla fine.

 

[San Giovanni Paolo II – Angelus 30 marzo 1980]

 

mercoledì 23 febbraio 2022

 




Dalla «Lettera della Chiesa di Smirne sul martirio di san Policarpo».



Quando il rogo fu pronto, Policarpo si spogliò di tutte le vesti e, sciolta la cintura, tentava anche di togliersi i calzari, cosa che prima non faceva, perché sempre tutti i fedeli andavano a gara a chi più celermente riuscisse a toccare il suo corpo. Anche prima del martirio era stato trattato con ogni rispetto, per i suoi santi costumi. Subito fu circondato di tutti gli strumenti che erano stati preparati per il suo rogo. Ma quando stavano per configgerlo con i chiodi disse: «Lasciatemi così: perché colui che mi dà la grazia di sopportare il fuoco mi concederà anche di rimanere immobile sul rogo senza la vostra precauzione dei chiodi». Quelli allora non lo confissero con i chiodi ma lo legarono.
Egli dunque, con le mani dietro la schiena e legato, come un bell'ariete scelto da un gregge numeroso, quale vittima accetta a Dio preparava per il sacrificio, levando gli occhi al cielo disse: «Signore, Dio onnipotente, Padre del tuo diletto e benedetto Figlio Gesù Cristo, per mezzo del quale ti abbiamo conosciuto; Dio degli Angeli e delle Virtù, di ogni creatura e di tutta la stirpe dei giusti che vivono al tuo cospetto: io ti benedico perché mi hai stimato degno in questo giorno e in quest'ora di partecipare, con tutti i martiri, al calice del tuo Cristo, per la risurrezione dell'anima e del corpo nella vita eterna, nell'incorruttibilità per mezzo dello Spirito Santo. Possa io oggi essere accolto con essi al tuo cospetto quale sacrificio ricco e gradito, così come tu, Dio senza inganno e verace, lo hai preparato e me l'hai fatto vedere in anticipo e ora l'hai adempiuto.
Per questo e per tutte le cose io ti lodo, ti benedico, ti glorifico insieme con l'eterno e celeste sacerdote Gesù Cristo, tuo diletto Figlio, per mezzo del quale a te e allo Spirito Santo sia gloria ora e nei secoli futuri. Amen». Dopo che ebbe pronunciato l'Amen e finito di pregare, gli addetti al rogo accesero il fuoco. Levatasi una grande fiammata, noi, a cui fu dato di scorgerlo perfettamente, vedemmo allora un miracolo e siamo stati conservati in vita per annunziare agli altri le cose che accaddero.
Il fuoco si dispose a forma di arco a volta come la vela di una nave gonfiata dal vento e avvolse il corpo del martire come una parete. Il corpo stava al centro di essa, ma non sembrava carne che bruciasse, bensì pane cotto oppure oro e argento reso incandescente. E noi sentimmo tanta soavità di profumo, come di incenso o di qualche altro aroma prezioso.

martedì 22 febbraio 2022

 


SULLA CATTEDRA DELLA CROCE
«Ipse est Petrus cui dixit: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam”. Ubi ergo Petrus, ibi Ecclesia; ubi Ecclesia, ibi nulla mors, sed vita aeterna» (S. Ambrogio, Enarrationes in XII Psalmos davidicos). «Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa; dove c'è la Chiesa, lì non c'è affatto morte ma vita eterna». Pietro e la Chiesa, la vita e la fine della morte. Pietro sulla soglia del desiderio di ogni uomo, il nostro d'oggi, il più profondo, il più intenso, l'anelito che freme insopprimibile in ogni parola, pensiero, o gesto: La vita e mai più nessuna morte. I peccati stessi gridano il nostro desiderio di felicità eterna, che si tramuta purtroppo in fuga da ogni sofferenza confondendo il piacere con l'eterno esistere a cui aspiriamo. Le guerre, i divorzi, gli aborti, gli abomini genetici, e le nostre ore intrise di rabbia, malinconia, ribellioni e mormorazioni, in fondo tutto esprime la volontà di non arrendersi all'ineluttabile scorrere, spesso purtroppo in forma paradossale che sa invece proprio di morte. Ma anche quando si uccide in nome della vita, dietro l'egoismo, la paura e l'inganno, si nasconde la nostalgia di pienezza che non accetta la corruzione, e vorrebbe cancellarla, goffamente e perversamente chissà, ma è comunque un grido che getta un accorato appello alla vita che sfugge ad ogni presa. Tutti drogati di qualcosa o di qualcuno, sperando il cristallizzarsi, seppur effimero, d'un secondo almeno, un istante di tregua e di pace dove cullare le deluse speranze vissute solo in un sogno. Leopardi descriveva magistralmente i sentimenti che s’affastellano in noi: "Questo è quel mondo? questi i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano" (G. Leopardi, A Silvia). Il "vero" della storia di ogni giorno ci travolge, e ci spalanca "ignude tombe", e dolori, e lacrime, e delusioni. La vita come il cammino dei due discepoli di Emmaus, che avevano sperato in Gesù di Nazaret, profeta potente in parole ed opere, dal quale si attendevano la liberazione e che invece.... Anche Lui era chiuso in una "tomba ignuda", anche Lui "all'apparir del vero" era caduto "misero" e solo. Ed erano passati tre giorni ormai. E quelle lacrime aspre di Pietro, sgorgate dal tradimento di un amore strozzato nella paura di morire, di fare la stessa fine atroce del suo amico. Come noi, come tutti. Lacrime e delusioni, sconfitte e "ignude tombe". E nudo il Signore è sceso nella tomba, un sudario a venerarne le piaghe, e una pietra a sigillare le speranze. Tre giorni là dentro, un'eternità di silenzio. E fuori le lacrime della Maddalena, scorrevano sulla pietra che aveva recluso ogni speranza e desiderio.
E poi ecco la sera del primo giorno dopo il sabato: i chiavistelli della vita ben serrati, la stanza d’una pasqua appena volata via, all'imbrunire d'un giorno di paura, d’improvviso un volto incandescente di luce, e una voce, un saluto di Pace che trapassa i muri e i cuori. La sua voce, il suo volto, le sue piaghe: è Lui, è proprio il Signore, la prova inconfutabile risplende nei segni del suo amore inchiodato ad un legno, in quella luce unica che sembra accarezzare le sue ferite. E la gioia incontenibile, indescrivibile, per un desiderio neanche osato che si era compiuto gratuitamente: Gesù era morto, lo avevano visto, e ora era lì vivo, tornato dall'ignuda tomba, e lo stavano vedendo, mentre mangiavano con Lui. In quel cenacolo era esplosa la vita sperata da ogni uomo, di ogni tempo. e luogo, e cultura. La morte non faceva più paura, il suo pungiglione, il peccato non c'era più, era rimasto inchiodato sul Legno piantato sul Golgota. In mezzo a quel manipolo terrorizzato, che era scappato, che aveva tradito, era planato l'amore, disceso come rugiada il perdono. E tra tutti Pietro, la pietra che s'era sfaldata, il primo ad essere perdonato. Il primato del perdono lo rendeva finalmente la roccia su cui il Signore aveva fondato la sua Chiesa. La beatitudine di Pietro e di tutti noi, è tutta in questa esperienza: per confermare nella fede la Chiesa attraverso i secoli, Pietro, il primo Papa, ha conosciuto un perdono che né carne e né sangue possono rivelare, quello che viene dal sepolcro, che ha attraversato l'inferno, e per questo gratuito e immeritato. Perdonato, sanato e salvato, da quella sera Pietro ha gli occhi purificati, aperti con fede in quelli di ogni Papa della storia. Solo uno sguardo purificato nel vedere e sperimentare il perdono, può riconoscere Dio onnipotente in un povero rabbì di Nazaret, innocente in un condannato a morte, vivo in un relitto d'uomo appeso esanime a una croce. Nella precarietà, nelle contraddizioni della carne, in un corpo corruttibile, abita Dio, la Vita nella morte. Questa è la fede della Chiesa, la risposta ad ogni desiderio e speranza, sulla strada di Emmaus e su quelle d'ogni uomo, all'apparir d'ogni vero e in tutte le ignude tombe. Pietro è chiamato a confermare questa fede, perché essa offra al mondo attraverso la Chiesa i segni autentici e credibili della vita che risplende nel perdono più forte della morte. Per questo la Cattedra di Pietro è la cattedra della misericordia; nella Chiesa, infatti, si apprende l'amore. Pietro, ed ogni Papa, schiude le porte del Cielo offrendo gratuitamente ad ogni uomo l'amore di Dio, gettando le reti del perdono sui mari di morte che avvolgono il mondo. Sulla porta del mondo, Pietro dischiude le porte della sua casa, la Chiesa dov'è vivo Cristo, le viscere di misericordia di Dio. Dialogo, tolleranza, rispetto, tutto va bene per le umane, povere forze spese ad arginare il male. La casa di Pietro invece spalanca il Cielo, l'amore eterno, che il mondo non conosce, unico scoglio ad infrangere ogni male.

martedì 8 febbraio 2022

 



7 febbraio MARTIRI DI SIROKI BRIJEG
Medjugorje, piccolo villaggio della Bosnia-Erzegovina, è conosciuto da tanti fedeli cattolici, soprattutto italiani, per le apparizioni mariane che si susseguono dal 1981. Ai tanti pellegrini che affollano il villaggio può capitare di visitare, nelle vicinanze del paesino, il santuario di Siroki Brijeg, titolato alla Madonna Assunta in Cielo, santuario che costituisce l'autentico vessillo religioso dell'Erzegovina, riconosciuto anche al di fuori dei confini della piccola regione.
Quel monastero, vero e proprio scrigno della storia e delle memorie del popolo croato di Erzegovina, fu teatro, il 7 febbraio 1945, di una delle più efferate stragi commesse dai partigiani comunisti locali, eccidio rimasto indelebile nella memoria della gente del luogo nonostante tutti i tentativi, anche violenti, delle autorità comuniste di far dimenticare l'episodio.
Il complesso comprendente il santuario, il convento, una scuola e una chiesa, era stato costruito nel 1846 (durante la dominazione turca), grazie alla dedizione di dodici francescani originari dell'Erzegovina e provenienti da Kresevo, in Bosnia. Col passare degli anni, quel luogo era divenuto il simbolo cristiano più importante di tutta l'Erzegovina; per questo motivo un gruppo di partigiani comunisti decise di distruggerlo dalle fondamenta, al fine di sradicare dal cuore del popolo la fede cattolica e la benevolenza e la riconoscenza verso i frati francescani.
Arrivati a Siroki Brijeg alle tre del pomeriggio del 7 febbraio 1945, i partigiani trovarono nel monastero trenta religiosi, alcuni dei quali erano professori nel ginnasio adiacente il santuario. Con minacce e bestemmie cercarono di persuadere i frati a lasciare l'abito religioso; al rifiuto di questi, presero i francescani uno ad uno, li portarono fuori dal convento e li uccisero.
Testimoni oculari hanno successivamente raccontato che i frati andarono incontro alla morte pregando e cantando le litanie della Madonna. Terminata l'esecuzione i loro corpi furono cosparsi di benzina e bruciati. Non paghi di questo, i partigiani oltraggiarono e cancellarono la scritta sulla pietra invocante Dio e la Madonna, posta sopra l'ingresso del convento, e distrussero la biblioteca, contenente circa 150 mila volumi, che documentavano le tappe della storia e delle sofferenze del popolo croato di Erzegovina.
Di seguito i nomi dei trenta martiri di Siroki Brijeg:
- Fra Bruno Adamcik, di 37 anni;
- Fra Marko Barbaric, di 80 anni. Quel 7 febbraio 1945 giaceva a letto ammalato di tifo. Gli ufficiali comunisti ordinarono di portarlo fuori, trasportandolo su una coperta. Quindi fu ucciso e buttato nel fuoco assieme agli altri confratelli;
- Fra Jozo Bencun, 76 anni;
- Fra Marko Dragicevic, 43 anni, professore di greco e latino;
- Fra Miljenko Ivankovic, 21 anni;
- Fra Andrija Jelcic, 41 anni;
- Fra Rudo Juric, 20 anni;
- Fra Fabijan Kordic, 55 anni;
- Fra Viktor Kosir, 21 anni;
- Fra Tadija Kozul, 36 anni, professore di filosofia, greco e latino;
- Fra Krsto Kraljevic, 50 anni;
- Fra Stanko Kraljevic; 74 anni;
- Fra Zarko Leventic, 26 anni. Anch'egli ammalato di tifo, fu preso e ucciso come gli altri confratelli;
- Fra Bonifacije Majic, 62 anni, professore e catechista;
- Fra Stjepan Majic, 20 anni, avevaappena terminato il noviziato;
- Fra Arkandeo Nuic, 49 anni, professore di greco, latino, tedesco e francese;
- Fra Borislav Pandzic, 35 anni, professore di religione;
- Fra Kresimir Pandzic, 53 anni, professore di lingua classica e direttore della scuola;
- Fra Fabijan Paponja, 48 anni;
- Fra Nenad Venancije Pehar, 35 anni, professore di filosofia;
- Fra Melhior Prlic, 53 anni;
- Fra Ludovik Rados, 20 anni, aveva appena terminato il noviziato;
- Fra Leonard Rupcic, 38 anni, professore di francese;
- Fra Mariofil Sivric, 32 anni,
- Fra Ivo Sliskovic, 68 anni;
- Fra Kornelije Susac, 20 anni;
- Fra Dobroslav Simovic, 38 anni, professore ed educatore dei seminaristi;
- Fra Radoslav Vuksic, 51 anni, professore di matematica e fisica, direttore del ginnasio per sei anni;
- Fra Roland Zlopasa, 33 anni, professore;
- Fra Leopold Augustin Zubac, 55 anni, professore.

sabato 5 febbraio 2022

 





5 febbraio - San Gennadio di Kostroma -


La vita di San Gennadio di Kostroma è una di quelle che ci richiama alla mente l’importanza di una esistenza modesta accompagnata da una fervente fede in Cristo

Nato nella città di Mogilёv, in una ricca famiglia di boiardi, fin da giovane mostrò un forte sentimento religioso, tanto da essere spinto a peregrinare per le chiese e i monasteri del suo paese. Nonostante provenisse da una famiglia agiata, decise di abbandonare la ricchezza materiale e dedicare la sua vita al Signore.
Partito alla volta di Mosca, finì per trasferirsi nella foresta di Vologda. Quivi fu consacrato monaco con il nome di Gennadio.
Assieme all’abate Cornelio di Komel partì per la foresta di Kostroma, vicino al lago di Sura dove, nel 1529, venne fondato Monastero della Trasfigurazione del Signore. La fama di Gennadio, diventato nel frattempo abate, divenne ben presta nota anche ai nobili russi dell’epoca.
Figura fondamentale per il monachesimo di quell’epoca, la notorietà del santo era dovuta, soprattutto, al dono della chiaroveggenza ricevuto da Dio e al suo occuparsi delle varie mansioni all’interno del monastero. In particolar modo è da ricordare il suo amore per la pittura iconografica.
Divenuto confessore di Ivan il Terribile, battezzò la figlia dello zar con il nome di Anna.
San Gennadio morì il 23 Gennaio del 1565. Alcuni anni dopo, all’apertura della bara, le sue reliquie vennero trovate incorrotte.
Il suo lascito spirituale ai posteri è di una importanza significativa e, nel mondo di oggi, andrebbe letto e meditato più volte. Lo sforzo costante per cercare di essere in pace con tutti, la dedizione ai lavori manuali e la lettura di libri spirituali erano al centro degli insegnamenti di questo santo asceta.

venerdì 28 gennaio 2022

 


San TOMMASO D'AQUINO
Roccasecca, Frosinone, 1225 circa – Fossanova, Latina, 7 marzo 1274
Martirologio Romano: Memoria di san Tommaso d’Aquino, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori e dottore della Chiesa, che, dotato di grandissimi doni d’intelletto, trasmise agli altri con discorsi e scritti la sua straordinaria sapienza. Invitato dal beato papa Gregorio X a partecipare al secondo Concilio Ecumenico di Lione, morì il 7 marzo lungo il viaggio nel monastero di Fossanova nel Lazio e dopo molti anni il suo corpo fu in questo giorno traslato a Tolosa.
(7 marzo: Nel monastero cistercense di Fossanova nel Lazio, transito di san Tommaso d’Aquino, la cui memoria si celebra il 28 gennaio).
San Tommaso d'Aquino rappresenta una delle colonne del pensiero filosofico occidentale e offre l'esempio di un ricercatore che ha saputo vivere intensamente ciò che stava al centro dei suoi studi: il messaggio di Cristo. Per questo egli è ancora oggi un testimone profetico, che ci ricorda come parola e azioni debbano sempre corrispondere. Tommaso è noto per la sua monumentale opera teologica e filosofica, in particolare per quel prezioso lavoro di intessitura tra i classici del pensiero e la tradizione cristiana. La sua eredità di fatto è diventata parte integrante del patrimonio di fede e ha contribuito a modellare il volto della Chiesa. Nato nel 1224 a Roccasecca (Frosinone) e divenuto domenicano a Montecassino, studiò a Napoli, Colonia, Parigi dove cominciò anche l'impegno dell'insegnamento. Morì a Fossanova nel 1274.
Era un giovane piuttosto robusto, proveniente dal centro Italia: si chiamava Tommaso, nato nel 1225, dai Conti d’Aquino nel castello di Roccasecca, non lontano da Montecassino. Proprio tra i “pueri oblati” era stato portato Tommaso, di 5 anni, perché studiasse e diventasse, crescendo, non solo monaco di san Benedetto, ma abate, onorando la sua famiglia nobile e ricca.
Ma il ragazzo, quando poté disporre di sé, uscì dal monastero, diciottenne, e tornò in famiglia, per iscriversi all’università di Napoli, a studiare Filosofia. Era già un innamorato di Gesù, così che presto, attraverso lo studio condotto con serietà nell’illibatezza della sua vita verginale, gli nacque la vocazione domenicana. Lui era nobile, mentre l’Ordine di san Domenico, come quello di san Francesco, era un Ordine “mendicante”, senza alcuna nobiltà.
Così i parenti pensarono di impedirgli di seguire la sua strada. A Montefiascone c’è una cappella dove Tommaso sfuggì dalle mani dei fratelli che volevano acciuffarlo nella sua fuga verso lo Studio di Parigi, dove lo attendevano Maestri e confratelli domenicani. Pensando a questo “scontro”, Tommaso scriverà una pagina sulla nobiltà di tutti gli uomini, perché creati da Dio e redenti da Gesù suo Figlio fatto uomo, senza attendere la dichiarazione dei diritti dell’uomo, fatta dai superficiali e spesso violenti “enciclopedisti” del Settecento.
Sfuggendo ai suoi inseguitori, Tommaso valicò le Alpi e giunse a Parigi. Trent’anni dopo i Maestri delle Arti di quella città potranno vantare che «omnium studiorum nobilissima parisiensis civitas» (Parigi, nobilissima città di tutti gli studi) era stata la maestra del Dottore Angelico, la quale «prius ipsum educavit, nutrivit et fovit» (per prima lo educò, lo nutrì e lo promosse).
Ormai i Domenicani avevano espugnato lo “Studium” parigino: sulla cattedra di Teologia sedeva come maestro il domenicano Alberto Magno, che intuì subito la capacità intellettuale, anzi il genio, di Tommaso d’Aquino ancora studente. Fu proprio Alberto, che sentendolo chiamare dai compagni “il bue muto” per la taciturnità – colma di Dio, e di pensiero terso come il cielo azzurro – disse, presago: «Un giorno i muggiti della sua dottrina saranno uditi in tutto il mondo».
Poco più che ventenne, Tommaso fu ordinato sacerdote e sperimentò il Paradiso, quando ebbe Gesù-Ostia tra le mani, lui che era e sarà sempre più un’anima grandissima proprio perché eucaristica. Sarà lui a scrivere la Messa e l’Ufficio divino del Corpus Domini, quando papa Urbano IV, nel 1264, con la bolla Transiturus estese la festa a tutta la Chiesa.
“La Sapienza più preziosa”
La sua fu vita di preghiera, di meditazione e di studio tutta incentrata in Gesù, come l’Unico della sua giornata terrena. Vita di insegnamento, secondo l’essenza dello spirito dell’Ordine: “Contemplari, contemplata aliis tradere” (contemplare Dio, trasmettere, comunicare agli altri Dio e le realtà di Dio contemplate). Questo però non vuol dire vita tranquilla.
La sua battaglia contro gli errori insidiosi, le tendenze pericolose, contro le dottrine accondiscendenti all’eresia – l’eresia è sempre la gnosi, antica o moderna che sia – sempre latente quando non è aperta, comunque sempre minacciosa, non ebbe mai tregua.
Quando saliva in cattedra, portava con sé una mela, la mostrava agli studenti e chiedeva: «Che cos’è questa?». Qualcuno sorrideva, ma si rispondeva: «Una mela!». «Va bene – ribatteva Maestro Tommaso –, ma chi non fosse d’accordo, esca dall’aula». Non era una battuta per ridere, ma l’affermazione che la sua filosofia parte da ciò che è, dall’ente che, prima di tutto, esiste e che può essere conosciuto dalla mente umana.
Così Tommaso definisce la Verità: «Adaequatio intellectus et rei», «corrispondenza dell’intelletto alla realtà». Insomma, una filosofia dell’essere, la filosofia pertanto perenne, la filosofia del buon senso.
Tutto qui? Ma è cosa grandissima: i sofisti prima di Tommaso e dopo Tommaso negano che si possa conoscere la realtà nella sua essenza, ma si conoscerebbe solo “il pensiero”, “il pensabile”, quindi ognuno ha “la sua” verità, pensa ciò che gli pare e gli piace. È una conoscenza umana separata dall’essere, che si allontana dal reale e pertanto da Dio: sofisma e gnosi.
Così attorno alla sua cattedra, come contro uno scoglio, si abbatterono non le ondate della persecuzione o della ribellione, ma gli errori, le eresie che sono le cose più ostinate, più insistenti e più logoranti, che in breve tempo o alla lunga rendono ciechi. Serio, sereno, silenzioso, sempre più lucido di mente, di analisi e di sintesi. Maestro Tommaso li confutava alla luce della ragione, illuminata dalla fede. Così molto presto, Alberto Magno, già suo maestro, lo chiamò «splendore e fiore del mondo».
Intelligentissimo, intuitivo come mosso da una luce superiore, il suo pensiero non era fatto di lampeggiamenti fuggevoli, e di geniali impennamenti, ma come uno specchio limpidissimo, ravvolgeva la luce della Verità (studiava e contemplava) e la trasmetteva agli altri (insegnava, predicava) in una sintesi perfetta di contemplazione e predicazione. Tutto con tranquillo fulgore. Tramite lui, la Verità si presentava con evidenza, che è appunto «fulgor veritatis consensum mentis rapiens» lo splendore, la chiarezza della verità che conquista, rapisce il consenso della mente).
Immerso nella riflessione, nello studio della Verità, mentre stava su una nave, non avvertì la burrasca, mentre una notte con la candela in mano, non sentì il bruciore della fiamma, sulla mano. Un vero puro di cuore, Dio lo aveva liberato dall’amor proprio e dall’impurità, consentendogli di vedere Dio, secondo l’evangelica beatitudine.
In fondo il suo studio, il suo magistero, nelle università di Parigi e d’Europa, era rivolto a Gesù Cristo: tutto doveva servire a conoscerlo di più, a fondare la sua conoscenza, a stabilire i preambula fidei (i preliminari della Fede), per amarlo di più, per farlo amare dai semplici e dai dotti, dalla gioventù studiosa d’Europa, dai candidati al titolo accademico, dagli apostoli del suo Ordine e degli altri Ordini religiosi.
Mai sazio di sapere, insaziabile di amare Dio e il Figlio suo Gesù Cristo e di farlo amare, dilatava fino all’ultima falda, fino all’incredibile, la sua indagine. “Ruminava” fino a ridurre tutto al “cibo essenziale della Verità”, che in fondo è Gesù solo.
«Maestro – gli domandarono un giorno i suoi allievi, tornando da una passeggiata –, guardate quanto è bella Parigi. Vi piacerebbe essere il suo signore?». Rispose Maestro Tommaso: «Preferisco le Omelie di san Giovanni Crisostomo sul Vangelo di Matteo. Non basta tutta Parigi a pagarle».
Alla destra della sala capitolare di Santa Maria Novella a Firenze, una celebre pittura rappresenta il trionfo della Sapienza. Nel mezzo dell’affresco, san Tommaso è seduto in trono con un gran libro aperto sul petto. La Sapienza di cui l’affresco celebra il trionfo, si è raccolta in maggior abbondanza in lui, il “Dottore Angelico”, che mostra non un suo libro ma quello della Sapienza stessa alle pagine dove si legge: «Ho desiderato l’intelligenza e mi è stata data; ho invocato e lo spirito della Sapienza è venuto in me. L’ho preferita ai regni e ai troni e ho stimato la ricchezza un nulla a confronto della Sapienza».
La “Summa” come poema
Tommaso è il santo di questa intelligenza: la sua dottrina si regge sul primato dell’intelletto, che è la condizione stessa dell’amore. Solo un essere intelligente è capace di amore. «Quello che vi è di più perfetto nell’uomo è l’operazione dell’intelligenza – dice Tommaso nel primo trattato della sua Summa Theologiae (il suo capolavoro, ma tutto è capolavoro in Tommaso) – per cui la beatitudine di un essere dotato di intelligenza consiste nell’intelligenza stessa, nel conoscere».
Dante ha espresso questa affermazione di Tommaso nei suoi mirabili versi «Luce intellettual piena d’amore; / amore di vero ben pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolore». La chiave di tutta la Summa – ossia la costruzione più mirabilmente pensata e connessa –, è proprio in questa intelligenza che è letizia, perché è la gioia di ogni essere dotato di intelligenza.
Così le controversie, le discussioni, le insidie quasi non hanno lasciato traccia nella Summa. Anzi, ogni controversia, ogni discussione, ogni insidia è diventata come il materiale da costruzione, nel sillogismo tomistico. Ne risulta che la Summa è come un poema, con un ritmo costante e tranquillo. Ogni verità è discussa, messa in dubbio, provata e infine definita attraverso quelle luminose strofe dei “videtur” (sembra), dei “sed contra” (in contrario), infine dei “respondeo” (rispondo) e delle “soluzioni”.
Proprio questo “poema”, dove l’intelligenza è illuminata dalla fede e dalla grazia, depose in favore della sua santità. Giunto alla morte non ancora cinquantenne, il 7 marzo 1274, egli aveva dichiarato che “a confronto di quanto aveva visto [= il mondo di Dio], le sue opere gli sembravano solo vile paglia”. Ma quali non potevano essere le sue virtù eroiche? Il Crocifisso stesso aveva elogiato la sua opera dicendogli: «Hai scritto bene di me». Nessuno negava la sua umiltà, la sua angelica purezza, la sua obbedienza, la sua povertà, il suo spirito di semplicità, di infanzia nello spirito. Era stato un eccellente cattolico, un ottimo religioso, ma questo non appariva sufficiente a decretargli gli onori degli altari. Si diceva che “il bue muto” era rimasto muto anche dopo la sua morte, astenendosi dal fare strepitosi miracoli.
Ma il papa Giovanni XXII, volendolo canonizzare, alle obiezioni canoniche rispose: «Tommaso ha illuminato la Chiesa più di tutti gli altri Dottori e un uomo fa più profitto sui suoi libri in un solo anno, che non sulle dottrine degli altri per tutto il tempo della sua vita».
Anche oggi la luce da cui può partire una nuova primavera della Chiesa, non viene dalla cosiddetta “aria fresca” del pensiero moderno, che subito si rivela gelida e distruttiva di ogni verità e di ogni frutto, ma solo dal Cristo accolto dalla filosofia e dalla teologia perenne di Maestro Tommaso. Così insegna il Magistero della Chiesa: citiamo tra tutti quelli che gli hanno reso omaggio, i Pontefici Leone XIII, san Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, che lo hanno definito “garante della Fede cattolica”.

lunedì 24 gennaio 2022

 


24 gennaio SAN FRANCESCO DI SALES, Vescovo e Dottore della Chiesa
« … “Dieu est le Dieu du coeur humain” [𝗗𝗶𝗼 𝗲̀ 𝗶𝗹 𝗗𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗰𝘂𝗼𝗿𝗲 𝘂𝗺𝗮𝗻𝗼] (Trattato dell’Amore di Dio, I, XV): in queste parole apparentemente semplici cogliamo l’impronta della spiritualità di un grande maestro, del quale vorrei parlarvi oggi, san Francesco di Sales, Vescovo e Dottore della Chiesa.
Nato nel 1567 in una regione francese di frontiera, era figlio del Signore di Boisy, antica e nobile famiglia di Savoia. Vissuto a cavallo tra due secoli, il Cinquecento e il Seicento, raccolse in sé il meglio degli insegnamenti e delle conquiste culturali del secolo che finiva, riconciliando l’eredità dell’umanesimo con la spinta verso l’assoluto propria delle correnti mistiche. La sua formazione fu molto accurata; a Parigi fece gli studi superiori, dedicandosi anche alla teologia, e all’Università di Padova quelli di giurisprudenza, come desiderava il padre, conclusi in modo brillante, con la laurea in “ utroque iure”, diritto canonico e diritto civile.
Nella sua armoniosa giovinezza, riflettendo sul pensiero di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, ebbe una crisi profonda che lo indusse a interrogarsi sulla propria salvezza eterna e sulla predestinazione di Dio nei suoi riguardi, soffrendo come vero dramma spirituale le principali questioni teologiche del suo tempo. Pregava intensamente, ma il dubbio lo tormentò in modo così forte che per alcune settimane non riuscì quasi del tutto a mangiare e dormire.
Al culmine della prova, si recò nella chiesa dei Domenicani a Parigi, aprì il suo cuore e pregò così: “Qualsiasi cosa accada, Signore, tu che tieni tutto nella tua mano, e le cui vie sono giustizia e verità; qualunque cosa tu abbia stabilito a mio riguardo …; tu che sei sempre giusto giudice e Padre misericordioso, io ti amerò, Signore […], ti amerò qui, o mio Dio, e spererò sempre nella tua misericordia, e sempre ripeterò la tua lode… O Signore Gesù, tu sarai sempre la mia speranza e la mia salvezza nella terra dei viventi” (I Proc. Canon., vol I, art 4).
Il ventenne Francesco trovò la pace nella realtà radicale e liberante dell’amore di Dio: amarlo senza nulla chiedere in cambio e confidare nell’amore divino; non chiedere più che cosa farà Dio con me: io lo amo semplicemente, indipendentemente da quanto mi dà o non mi dà. Così trovò la pace, e la questione della predestinazione - sulla quale si discuteva in quel tempo – era risolta, perché egli non cercava più di quanto poteva avere da Dio; lo amava semplicemente, si abbandonava alla Sua bontà. E questo sarà il segreto della sua vita, che trasparirà nella sua opera principale: il Trattato dell’amore di Dio.
… Dalla figura di questo Santo emana un’impressione di rara pienezza, dimostrata nella serenità della sua ricerca intellettuale, ma anche nella ricchezza dei suoi affetti, nella “dolcezza” dei suoi insegnamenti che hanno avuto un grande influsso sulla coscienza cristiana. Della parola “umanità” egli ha incarnato diverse accezioni che, oggi come ieri, questo termine può assumere: cultura e cortesia, libertà e tenerezza, nobiltà e solidarietà. Nell’aspetto aveva qualcosa della maestà del paesaggio in cui è vissuto, conservandone anche la semplicità e la naturalezza. Le antiche parole e le immagini in cui si esprimeva suonano inaspettatamente, anche all’orecchio dell’uomo d’oggi, come una lingua nativa e familiare.
A Filotea, l’ideale destinataria della sua Introduzione alla vita devota (1607), Francesco di Sales rivolge un invito che poté apparire, all’epoca, rivoluzionario. E’ l’invito a essere completamente di Dio, vivendo in pienezza la presenza nel mondo e i compiti del proprio stato. “La mia intenzione è di istruire quelli che vivono nelle città, nello stato coniugale, a corte […]” (Prefazione alla Introduzione alla vita devota). Il Documento con cui Papa Pio IX, più di due secoli dopo, lo proclamerà Dottore della Chiesa insisterà su questo allargamento della chiamata alla perfezione, alla santità. Vi è scritto:“[la vera pietà] è penetrata fino al trono dei re, nella tenda dei capi degli eserciti, nel pretorio dei giudici, negli uffici, nelle botteghe e addirittura nelle capanne dei pastori […]” (Breve Dives in misericordia, 16 novembre 1877).
Nasceva così quell’appello ai laici, quella cura per la consacrazione delle cose temporali e per la santificazione del quotidiano su cui insisteranno il Concilio Vaticano II e la spiritualità del nostro tempo. Si manifestava l’ideale di un’umanità riconciliata, nella sintonia fra azione nel mondo e preghiera, fra condizione secolare e ricerca di perfezione, con l’aiuto della Grazia di Dio che permea l’umano e, senza distruggerlo, lo purifica, innalzandolo alle altezze divine. A Teotimo, il cristiano adulto, spiritualmente maturo, al quale indirizza alcuni anni dopo il suo Trattato dell’amore di Dio (1616), san Francesco di Sales offre una lezione più complessa.
Essa suppone, all’inizio, una precisa visione dell’essere umano, un’antropologia: la “ragione” dell’uomo, anzi l’“anima ragionevole”, vi è vista come un’architettura armonica, un tempio, articolato in più spazi, intorno ad un centro, che egli chiama, insieme con i grandi mistici, “cima”, “punta” dello spirito, o “fondo” dell’anima. E’ il punto in cui la ragione, percorsi tutti i suoi gradi, “chiude gli occhi” e la conoscenza diventa tutt’uno con l’amore (cfr libro I, cap. XII).
Che l’amore, nella sua dimensione teologale, divina, sia la ragion d’essere di tutte le cose, in una scala ascendente che non sembra conoscere fratture e abissi, san Francesco di Sales lo ha riassunto in una celebre frase: “L’uomo è la perfezione dell’universo; lo spirito è la perfezione dell’uomo; l’amore è quella dello spirito, e la carità quella dell’amore” (ibid., libro X, cap. I).
In una stagione di intensa fioritura mistica, il Trattato dell’amore di Dio è una vera e propria summa, e insieme un’affascinante opera letteraria. La sua descrizione dell’itinerario verso Dio parte dal riconoscimento della “naturale inclinazione” (ibid., libro I, cap. XVI), iscritta nel cuore dell’uomo pur peccatore, ad amare Dio sopra ogni cosa. Secondo il modello della Sacra Scrittura, san Francesco di Sales parla dell’unione fra Dio e l’uomo sviluppando tutta una serie di immagini di relazione interpersonale.
Il suo Dio è padre e signore, sposo e amico, ha caratteristiche materne e di nutrice, è il sole di cui persino la notte è misteriosa rivelazione. Un tale Dio trae a sé l’uomo con vincoli di amore, cioè di vera libertà: “poiché l’amore non ha forzati né schiavi, ma riduce ogni cosa sotto la propria obbedienza con una forza così deliziosa che, se nulla è forte come l’amore, nulla è amabile come la sua forza” (ibid., libro I, cap. VI). Troviamo nel trattato del nostro Santo una meditazione profonda sulla volontà umana e la descrizione del suo fluire, passare, morire, per vivere (cfr ibid., libro IX, cap. XIII) nel completo abbandono non solo alla volontà di Dio, ma a ciò che a Lui piace, al suo “bon plaisir”, al suo beneplacito (cfr ibid., libro IX, cap. I). All’apice dell’unione con Dio, oltre i rapimenti dell’estasi contemplativa, si colloca quel rifluire di carità concreta, che si fa attenta a tutti i bisogni degli altri e che egli chiama “estasi della vita e delle opere” (ibid., libro VII, cap. VI).
Si avverte bene, leggendo il libro sull’amore di Dio e ancor più le tante lettere di direzione e di amicizia spirituale, quale conoscitore del cuore umano sia stato san Francesco di Sales. A santa Giovanna di Chantal, a cui scrive: “[…] Ecco la regola della nostra obbedienza che vi scrivo a caratteri grandi:𝗙𝗔𝗥𝗘 𝗧𝗨𝗧𝗧𝗢 𝗣𝗘𝗥 𝗔𝗠𝗢𝗥𝗘, 𝗡𝗜𝗘𝗡𝗧𝗘 𝗣𝗘𝗥 𝗙𝗢𝗥𝗭𝗔 - 𝗔𝗠𝗔𝗥 𝗣𝗜𝗨̀ 𝗟’𝗢𝗕𝗕𝗘𝗗𝗜𝗘𝗡𝗭𝗔 𝗖𝗛𝗘 𝗧𝗘𝗠𝗘𝗥𝗘 𝗟𝗔 𝗗𝗜𝗦𝗢𝗕𝗕𝗘𝗗𝗜𝗘𝗡𝗭𝗔. Vi lascio lo spirito di libertà, non già quello che esclude l’obbedienza, ché questa è la libertà del mondo; ma quello che esclude la violenza, l’ansia e lo scrupolo” (Lettera del 14 ottobre 1604). Non per niente, all’origine di molte vie della pedagogia e della spiritualità del nostro tempo ritroviamo proprio la traccia di questo maestro, senza il quale non vi sarebbero stati san Giovanni Bosco né l’eroica “piccola via” di santa Teresa di Lisieux.
Cari fratelli e sorelle, in una stagione come la nostra che cerca la libertà, anche con violenza e inquietudine, non deve sfuggire l’attualità di questo grande maestro di spiritualità e di pace, che consegna ai suoi discepoli lo “spirito di libertà”, quella vera, al culmine di un insegnamento affascinante e completo sulla realtà dell’amore.
San Francesco di Sales è un testimone esemplare dell’umanesimo cristiano; con il suo stile familiare, con parabole che hanno talora il colpo d’ala della poesia, ricorda che l’uomo porta iscritta nel profondo di sé la nostalgia di Dio e che solo in Lui trova la vera gioia e la sua realizzazione più piena. »
Benedetto XVI , Udienza generale, 02/03/2011

venerdì 21 gennaio 2022

 


21 gennaio SANT’AGNESE, vergine e martire
« ... Sant’Agnese è una delle famose fanciulle romane, che hanno illustrato la bellezza genuina della fede in Cristo e dell’amicizia con Lui.
La sua duplice qualifica di Vergine e Martire richiama la totalità delle dimensioni della santità. Si tratta di una completezza di santità che è richiesta anche a voi dalla vostra fede cristiana e dalla speciale vocazione sacerdotale con la quale il Signore vi ha chiamato e vi lega a Sé.
Martirio – per sant’Agnese – ha voluto dire la generosa e libera accettazione di spendere la propria giovane vita, nella sua totalità e senza riserve, affinché il Vangelo fosse annunziato come verità e bellezza che illuminano l’esistenza.
Nel martirio di Agnese, accolto con coraggio nello stadio di Domiziano, splende per sempre la bellezza di appartenere a Cristo senza tentennamenti, affidandosi a Lui. Ancora oggi, per chiunque passi in Piazza Navona, l’effige della Santa dall’alto del frontone della chiesa di Sant’Agnese in Agone, ricorda che questa nostra Città è fondata anche sull’amicizia per Cristo e la testimonianza del suo Vangelo, di molti dei suoi figli e figlie.
La loro generosa donazione a Lui e al bene dei fratelli è una componente primaria della fisionomia spirituale di Roma.
Nel martirio, Agnese sigilla anche l’altro elemento decisivo della sua vita, la verginità per Cristo e per la Chiesa. Il dono totale del martirio è preparato, infatti, dalla scelta consapevole, libera e matura, della verginità, testimonianza della volontà di essere totalmente di Cristo.
Se il martirio è un atto eroico finale, la verginità è frutto di una prolungata amicizia con Gesù maturata nell’ascolto costante della sua Parola, nel dialogo della preghiera, nell’incontro eucaristico.
Agnese, ancora giovane, aveva imparato che essere discepoli del Signore vuol dire amarlo mettendo in gioco tutta l’esistenza.
Questa duplice qualifica – Vergine e Martire – richiama alla nostra riflessione che un testimone credibile della fede deve essere una persona che vive per Cristo, con Cristo e in Cristo, trasformando la propria vita secondo le esigenze più alte della gratuità. ... »
Benedetto XVI, Discorso alla comunità dell’Almo Collegio Capranica, 20/01/2012

giovedì 20 gennaio 2022

 




20 gennaio, San SEBASTIANO Martire

Milano, 263 circa – Roma, 304 circa
Martirologio Romano: San Sebastiano, martire, che, originario di Milano, venne a Roma, come riferisce sant’Ambrogio, al tempo in cui infuriavano violente persecuzioni e vi subì la passione; a Roma, pertanto, dove era giunto come ospite straniero, ebbe il domicilio della perpetua immortalità; la sua deposizione avvenne sempre a Roma ad Catacumbas in questo stesso giorno.
I dati storici circa la figura di san Sebastiano sono limitati alla menzione nel più antico calendario della Chiesa di Roma, la «Depositio Martyrum», confluita nel «Cronografo» risalente al 354, e a una citazione nel «Commento al Salmo 118» di sant’Ambrogio vescovo di Milano. Una “Passio” scritta intorno al V secolo aggiunge che Sebastiano era un membro dei pretoriani, le guardie al diretto servizio dell’imperatore di Roma, ed era cristiano dalla nascita. Grazie al suo servizio, poteva portare conforto ai cristiani che erano destinati al supplizio. A sua volta fu denunciato come cristiano e condannato al supplizio delle frecce, per aver tradito la fiducia dell’imperatore Diocleziano. Ne uscì vivo ma non illeso: dopo le cure, si ripresentò a Diocleziano per rimproverarlo aspramente di quanto aveva commesso contro i cristiani. A quel punto, fu nuovamente condannato: frustato a morte, venne gettato, ormai cadavere, nella Cloaca Massima. Le sue spoglie furono però ritrovate e deposte nelle catacombe della via Appia. Le sue reliquie sono oggi venerate nella basilica di San Sebastiano fuori le Mura a Roma, tranne quella del cranio, custodita nella basilica dei Santi Quattro Coronati a Roma.
Alcuni manoscritti della “Passio”, datati dall’850 in poi, attestano che Sebastiano era nato e cresciuto a Milano, da padre di Narbona (nella Francia meridionale) e da madre milanese, ed era stato educato nella fede cristiana. Tutti concordano invece nel dichiarare che si trasferì a Roma e intraprese la carriera militare, fino a diventare tribuno della prima coorte della guardia imperiale, i pretoriani, a Roma.
Era stimato per la sua lealtà e intelligenza dagli imperatori Massimiano e Diocleziano, che non sospettavano fosse cristiano. Grazie alla sua funzione, poteva aiutare con discrezione i cristiani incarcerati, curare la sepoltura dei martiri e riuscire a convertire militari e nobili della corte, dove era stato introdotto da Castulo, cubicolario (domestico) della famiglia imperiale, che poi morì martire.
Un giorno furono arrestati due giovani cristiani, Marco e Marcelliano. Il loro padre, Tranquillino, ottenne un periodo di trenta giorni di riflessione prima del processo da Agrezio Cromazio, “praefectus Urbis” (magistrato con poteri civili o penali), affinché potessero salvarsi sacrificando agli dei.
I due fratelli stavano per cedere alla paura, quando intervenne il tribuno Sebastiano, riuscendo a convincerli a perseverare nella fede. Mentre lui parlava ai giovani, i presenti lo videro circondato di luce.
Tra di loro c’era anche Zoe, moglie di Nicostrato, capo della cancelleria imperiale, d muta da sei anni. La donna si inginocchiò davanti a Sebastiano, il quale, dopo aver implorato la grazia divina, fece un segno di croce sulle sue labbra, restituendole l’uso della parola.
Davanti alla guarigione della moglie, lo stesso Nicostrato si prostrò ai piedi del tribuno, chiedendogli perdono per aver imprigionato Marco e Marcelliano, cui diede subito la libertà. I due fratelli, però, scelsero di non lasciare il carcere. Zoe e Nicostrato e altre persone chiesero il Battesimo, che fu loro amministrato dal sacerdote Policarpo.
Allo scadere dei trenta giorni, Cromazio chiese a Tranquillino se i due fratelli fossero pronti a sacrificare agli dei. L’uomo rispose che lui stesso era diventato cristiano e condusse a credere anche lo stesso Cromazio, che fu battezzato col figlio Tiburzio.
Tuttavia, Sebastiano fu denunciato come cristiano e condotto davanti a Diocleziano. L’imperatore, vedendo conferma della voce per cui nel palazzo imperiale erano presenti cristiani, persino tra i pretoriani, lo condannò a morte. Sebastiano fu denudato, poi legato a un palo e colpito da frecce. Fu quindi creduto morto e abbandonato in pasto agli animali selvatici.
Poco dopo, la nobile Irene, vedova del martire Castulo, andò a recuperarne il corpo per dargli sepoltura: i cristiani infatti usavano fare così, a costo di essere arrestati a propria volta. La donna si accorse che il tribuno non era morto: lo fece trasportare in casa propria e lo curò.
Sebastiano riuscì a guarire e si ripresentò all’imperatore, che stava salendo al tempio del Sole Invitto, rimproverandolo per quanto aveva operato contro i cristiani. L’imperatore ordinò che quella volta fosse flagellato a morte: il corpo fu gettato nella Cloaca Massima, affinché i cristiani non potessero recuperarlo.
La notte dopo, il martire apparve in sogno alla matrona Lucina, indicandole il luogo dov’era approdato il suo cadavere e ordinandole di seppellirlo accanto alle tombe degli apostoli. Le catacombe della via Appia avevano ospitato temporaneamente, durante la persecuzione di Valeriano, le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo: erano quindi dette “Memoria apostolorum”.
Fino a tutto il VI secolo, i pellegrini che vi si recavano visitavano anche la tomba del martire Sebastiano, la cui figura era per questo diventata molto popolare. Nel 680 si attribuì alla sua intercessione la fine di una grave pestilenza a Roma: da allora fu considerato il terzo patrono della città, dopo i due apostoli Pietro e Paolo, e cominciò a essere invocato contro le pestilenze.
Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica costantiniana già detta “Basilica Apostolorum”, furono divise durante il pontificato di papa Eugenio II, il quale ne mandò una parte alla chiesa di San Medardo di Soissons il 13 ottobre 826.
Il suo successore Gregorio IV fece traslare il resto del corpo nell’oratorio di San Gregorio sul colle Vaticano. Il capo fu inserito in un prezioso reliquiario, che papa Leone IV trasferì poi nella Basilica dei Santi Quattro Coronati, dov’è tuttora venerato.
Gli altri resti di san Sebastiano rimasero nella Basilica Vaticana fino al 1218, quando papa Onorio III concesse ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di San Sebastiano, il ritorno delle reliquie risistemate nell’antica cripta. Nel XVII secolo l’urna venne posta in una cappella della nuova chiesa, sotto la mensa dell’altare, dove si trovano tuttora.

mercoledì 19 gennaio 2022

 



LE NOSTRE FERITE SONO LA PORTA DISCHIUSA SULLA SALVEZZA, STIGMATE LUMINOSE TESTIMONI DELLA VITTORIA DI CRISTO
"E' lecito in giorno di sabato salvare una vita o toglierla, fare il bene o il male?": la domanda di Gesù, ormai sotto processo per aver attentato alle prescrizioni sul Sabato, colloca il bene per la vita al centro della questione. Di più, mettendo "in mezzo" l'uomo con la mano inaridita, rovescia il processo e, da imputato si fa giudice. "In mezzo", come imputato, è ora il "cuore indurito" dei farisei e degli erodiani, inaridito come la mano di quell'uomo. In giorno di sabato, pur rispettando ogni prescrizione, si può fare il bene come il male: loro, con la malizia con cui "osservavano" Gesù per vedere se amava anche in quel giorno santo e "per accusarlo e farlo morire", avevano fatto il male. Dunque, se per loro, in giorno di sabato, era lecito "tenere consiglio" per "togliere una vita", come poteva non essere lecito guarire e salvare una vita? Con questo paradosso Gesù svela l'ipocrisia malvagia di chi, nel nome di una Legge spogliata dello Spirito, stava decidendo nel cuore di uccidere chi stava facendo del bene. In quella sinagoga si trattava di salvare o togliere la vita ad “un uomo”, anthrōpos, immagine di ogni uomo. Per lui, infatti, Dio ha “fatto il sabato”, il riposo preparato per chi ha sperimentato, durante la settimana, la durezza della vita, la conseguenza del peccato di Adamo. Ma esso può essere sporcato dall'ipocrisia, e trasformarsi in luogo di male e di morte. Scoccando la domanda, Gesù penetra sino al fondo del cuore, e non ci si può più nascondere, si può solo “tacere”. Ai suoi occhi che, come un periscopio, secondo l’originale greco “periblepsamenos”, scrutano e abbracciano ogni pensiero a 360 gradi, non sfugge il cuore indurito di chi gli era accanto. E non può trattenere l”ira” divina con la quale il Padre aveva corretto “gelosamente” il suo Popolo; esplode in Lui lo “zelo” mosso dalla “tristezza” per ogni anima arida ed arsa, senz'acqua e fecondità, dei farisei e degli erodiani come dell'infermo. Per questo, Gesù colma il silenzio calato nella sinagoga con la parola creatrice, offrendo a tutti la possibilità di salvarsi. Attraverso quella mano incapace di stendersi per accogliere e donare, mostra cosa significhi dare al sabato pieno compimento. Anche un cuore indurito può alzarsi e risuscitare, ed è il giudizio di misericordia di Gesù, offerto a tutti in quell'oggi nel quale stava compiendo la Parole profetiche sul Messia.
Proprio la debolezza che ci costituisce è la prova che "scagiona" Gesù, giustificando con la necessità e l'urgenza dell'amore, la liceità di fare il bene e salvare una vita, non solo anche di sabato, ma proprio e in maniera definitiva di sabato: il cuore e la mano, infatti, sono induriti anche di sabato, come ogni altro giorno. E proprio nel sabato della tomba, nella sepoltura e nella discesa agli inferi, Gesù avrebbe mostrato la liceità di amare perché, compiendo in esso il precetto di non fare niente - non vi è nulla di più inattivo di un morto - ha sanato e salvato la vita dal peccato e dalla morte; per questo dice “Alzati e mettiti in mezzo!”, “destati” dall'aridità, come recita, non a caso, il termine originale greco usato anche per la "risurrezione" di Gesù. Questo pover'uomo è incapace di tutto, come quando si dice "sono senza una mano": prendere, scrivere, guidare, mangiare, qualunque relazione è compromessa. Per lui ogni giorno è sabato, ma, invece d’essere di festa e riposo, è un sabato di condanna e di morte che si spalma su tutta l’esistenza. In quest’uomo si scorge l’esito di una religione vestita d’ipocrisia: in quel sabato, infatti, si trova nella sinagoga e non fa nulla, compiendo così la Legge. Ma vi è costretto dall’infermità, immagine dei legalismi che obbligano a compiere i precetti dall'esterno, lasciando sudicio l’interno. C’è una bella differenza tra il non poter e il non voler fare nulla, come quella che passa tra l’amore e il timore. Ma a quell’uomo una cosa non è impedita, l'obbedienza, l'unica che apre il cammino alla risurrezione. Anche a noi non è preclusa, per quanto deboli, aridi, insensibili e incapaci siamo, e i peccati, le sofferenze, le difficoltà, ci ostacolino e ci blocchino. Gesù ha obbedito, ha "steso" le sue mani sulla Croce e "disteso" il corpo nel sepolcro, è entrato nella morte, l'ha vinta e ci consegna gratuitamente l'obbedienza per risorgere. "Alzati e mettiti nel mezzo!", "stendi la mano": anche noi siamo chiamati dal Signore ad alzarci dall'egoismo e a metterci in mezzo, affinché si veda bene la mano sterile che guarisce per opera di Dio, la ferita sanata dalla misericordia. Come Gesù, che tutti hanno potuto vedere crocifisso, perché doveva essere evidente la risurrezione proprio attraverso la certezza della crocifissione. Lo stesso Uomo crocifisso era l'Uomo resuscitato. Così Dio sceglie la sterilità, la piccolezza, la debolezza, i peccatori, come Giacobbe, Davide, Sansone, e Pietro, il traditore. Dio sceglie “il nulla” per mostrare che cosa significhi il sabato, il giorno in cui “nulla” si fa perché è Dio che fa "tutto". Le nostre ferite “stese” davanti al mondo, infatti, sono il luogo della misericordia di Dio che “ristabilisce” la vita laddove era la morte; il suo amore la fa ritornare ad essere, secondo il significato del termine greco tradotto con "risanata", com'era al principio, nel progetto del Padre: “aperta” per donare, come la mano guarita, come il cuore inondato d’amore. La nostra debolezza, che il mondo, "tenendo consiglio" nelle aule parlamentari o nei circoli culturali, come nelle nostre riunioni familiari o anche parrocchiali, vorrebbe "togliere di mezzo", è la porta spalancata sul Signore, il preludio alla sua opera. Come fu per Gesù dopo la risurrezione, quando, proprio attraverso le sue ferite, provava agli apostoli la risurrezione della sua carne: quelle ferite erano la memoria della sua carne crocifissa per amore, e la prova che proprio con quella carne lì aveva vinto il peccato. Come le nostre ferite poste in mezzo facendoci arrossire, perché chi ci è accanto possa vedervi l’opera soprannaturale che le guarisce e trasfigura, l’amore infinito di Dio che vi ha preso dimora.