Pagine

martedì 28 dicembre 2021

 


28 DICEMBRE   SANTI INNOCENTI


Come scriveva Peguy, i Santi Innocenti sono stati dei privilegiati: hanno offerto il sangue per Cristo prima ancora di poter parlare: “O meraviglioso dono della grazia! Quali meriti hanno avuto questi bambini per vincere in questo modo? Non parlano ancora e già confessano Cristo! Non sono ancora capaci di affrontare la lotta perché non muovono ancora le membra, e tuttavia già portano trionfanti la palma della vittoria” (Dai «Discorsi» di san Quodvultdeus ). In questo mistero, scandaloso per i più, come la sofferenza che colpisce ogni innocente, si cela la Buona Notizia che illumina la nostra storia, proprio tra le ferite incomprensibili di bambini sterminati al posto di uno solo. Brilla in questi fanciulli una Grazia simile a quella che ha colmato e resa immacolata, ancor prima d’essere concepita, la Vergine Maria. E si svela il mistero dell'elezione di ciascuno di noi, la primogenitura che ci fa appartenere a Cristo ancor prima d'essere nati: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni” (Ger. 1,). Certo, è facile sbattere contro il muro d’irragionevolezza che, a prima vista, circonda questo evento che ha bagnato di sangue i primi vagiti del Signore. Come ci scandalizza ogni avvenimento di sofferenza degli innocenti, cioè di coloro che, letteralmente, "non conoscono", non sanno cioè il perché gli accadano certe cose: i terremoti, i bambini violati e uccisi, le malattie, la guerra. Restiamo senza parole, sbigottiti, dinanzi alla furia di Erode, e ancor più, se pensiamo che tutto quel sangue ha coperto la fuga del Signore. Muti, infanti, etimologicamente senza favella, come i Santi Innocenti, capaci di esprimersi solo con grida e lacrime. E non abbiamo risposte, se non andiamo a cercarle in quel Bimbo messosi miracolosamente in salvo, grazie al martirio di tanti altri. Esule e perseguitato sin dalla nascita, Gesù scende in Egitto che, in ebraico, significa angoscia. Inizia così per Lui il lungo cammino che lo condurrà alla Croce, l’ingiustizia più grande. Occorre oggi, e ogni giorno della nostra vita, fermarsi presso la Croce, come Maria, e imparare a “custodire e meditare nel cuore” ogni avvenimento della nostra vita, perché ciascuno di essi fa parte della vita di Cristo, perché apparteniamo a Lui, sin dall’eternità: “Quando gli eventi ci avvicinano a Cristo, quando soffriamo per Cristo, è sicuramente un privilegio indicibile – qualunque sia la sofferenza, anche se sull'istante, non siamo coscienti di soffrire per lui” (Beato John Henry Newman). E’ la Croce che illumina la storia, anche quella che ha inghiottito i Santi Innocenti: gli eventi drammatici sono soprattutto una Parola viva di Dio che come una spada discende sino al midollo dell'esistenza. La Chiesa è chiamata a mostrare Cristo per annunciarlo vivo e capace di dare senso ad ogni dolore, anche a quello più assurdo. Al dolore e alla sofferenza degli innocenti. Quel giorno che ha segnato con il sangue dei bambini di Betlemme l’inizio della via crucis di Gesù, è la data annotata in rosso sul taccuino di Dio. Quel giorno, e tutti i giorni che partoriscono dolore innocente, ci svelano il suo cuore, il suo progetto di amore per ogni uomo: per amore Gesù è disceso nell’Egitto e nella tomba di ogni uomo a compatirne angosce e sofferenze per deporvi la speranza che non delude, e liberare tutti insieme con Lui: “Dall’Egitto ho chiamato ogni mio figlio” nel Figlio che ha consegnato se stesso.

martedì 21 dicembre 2021

 


6-gennaio-3

Il segno di Dio è la semplicità. Il segno di Dio è il bambino. Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo per noi. È questo il suo modo di regnare. Egli non viene con potenza e grandiosità esterne. Egli viene come bambino – inerme e bisognoso del nostro aiuto. Non vuole sopraffarci con la forza. Ci toglie la paura della sua grandezza. Egli chiede il nostro amore: perciò si fa bambino. Nient’altro vuole da noi se non il nostro amore, mediante il quale impariamo spontaneamente ad entrare nei suoi sentimenti, nel suo pensiero e nella sua volontà – impariamo a vivere con Lui e a praticare con Lui anche l’umiltà della rinuncia che fa parte dell’essenza dell’amore. Dio si è fatto piccolo affinché noi potessimo comprenderLo, accoglierLo, amarLo.

I Padri della Chiesa, nella loro traduzione greca dell’Antico Testamento, trovavano una parola del profeta Isaia che anche Paolo cita per mostrare come le vie nuove di Dio fossero già preannunciate nell’Antico Testamento. Lì si leggeva: “Dio ha reso breve la sua Parola, l’ha abbreviata” (Is 10, 23; Rom 9, 28). I Padri lo interpretavano in un duplice senso. Il Figlio stesso è la Parola, il Logos; la Parola eterna si è fatta piccola – così piccola da entrare in una mangiatoia. Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile. Così Dio ci insegna ad amare i piccoli. Ci insegna così ad amare i deboli. Ci insegna in questo modo il rispetto di fronte ai bambini. Il bambino di Betlemme dirige il nostro sguardo verso tutti i bambini sofferenti ed abusati nel mondo, i nati come i non nati. Verso i bambini che, come soldati, vengono introdotti in un mondo di violenza; verso i bambini che devono mendicare; verso i bambini che soffrono la miseria e la fame; verso i bambini che non sperimentano nessun amore. In tutti loro è il bambino di Betlemme che ci chiama in causa; ci chiama in causa il Dio che si è fatto piccolo. Preghiamo in questa notte, affinché il fulgore dell’amore di Dio accarezzi tutti questi bambini, e chiediamo a Dio di aiutarci a fare la nostra parte perché sia rispettata la dignità dei bambini; che per tutti sorga la luce dell’amore, di cui l’uomo ha più bisogno che non delle cose materiali necessarie per vivere.

Con ciò siamo arrivati al secondo significato che i Padri hanno trovato nella frase: “Dio ha abbreviato la sua Parola”. La Parola che Dio ci comunica nei libri della Sacra Scrittura era, nel corso dei tempi, diventata lunga. Lunga e complicata non solo per la gente semplice ed analfabeta, ma addirittura ancora di più per i conoscitori della Sacra Scrittura, per i dotti che, chiaramente, s’impigliavano nei particolari e nei rispettivi problemi, non riuscendo quasi più a trovare una visione d’insieme. Gesù ha “reso breve” la Parola – ci ha fatto rivedere la sua più profonda semplicità e unità. Tutto ciò che ci insegnano la Legge e i profeti è riassunto – dice – nella parola: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente… Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22, 37-40). Questo è tutto – l’intera fede si risolve in quest’unico atto d’amore che abbraccia Dio e gli uomini. Ma subito riemergono delle domande: Come possiamo amare Dio con tutta la nostra mente, se stentiamo a trovarlo con la nostra capacità mentale? Come amarLo con tutto il nostro cuore e la nostra anima, se questo cuore arriva ad intravederLo solo da lontano e percepisce tante cose contraddittorie nel mondo che velano il suo volto davanti a noi?

A questo punto i due modi in cui Dio ha “fatto breve” la sua Parola s’incontrano. Egli non è più lontano. Non è più sconosciuto. Non è più irraggiungibile per il nostro cuore. Si è fatto bambino per noi e ha dileguato con ciò ogni ambiguità. Si è fatto nostro prossimo, ristabilendo in tal modo anche l’immagine dell’uomo che, spesso, ci appare così poco amabile. Dio, per noi, si è fatto dono. Ha donato se stesso. Si prende tempo per noi. Egli, l’Eterno che è al di sopra del tempo, ha assunto il tempo, ha tratto in alto il nostro tempo presso di sé. Natale è diventato la festa dei doni per imitare Dio che ha donato se stesso a noi. Lasciamo che il nostro cuore, la nostra anima e la nostra mente siano toccati da questo fatto! Tra i tanti doni che compriamo e riceviamo non dimentichiamo il vero dono: di donarci a vicenda qualcosa di noi stessi! Di donarci a vicenda il nostro tempo. Di aprire il nostro tempo per Dio. Così si scioglie l’agitazione. Così nasce la gioia, così si crea la festa. E ricordiamo nei banchetti festivi di questi giorni la parola del Signore: “Quando offri un banchetto, non invitare quanti ti inviteranno a loro volta, ma invita quanti non sono invitati da nessuno e non sono in grado di invitare te” (cfr Lc 14, 12-14). E questo significa, appunto, anche: Quando tu per Natale fai dei regali, non regalare qualcosa solo a quelli che, a loro volta, ti fanno regali, ma dona a coloro che non ricevono da nessuno e che non possono darti niente in cambio. Così ha agito Dio stesso: Egli ci invita al suo banchetto di nozze che non possiamo ricambiare, che possiamo solo con gioia ricevere. Imitiamolo! Amiamo Dio e, a partire da Lui, anche l’uomo, per riscoprire poi, a partire dagli uomini, Dio in modo nuovo!…

martedì 14 dicembre 2021

 



14 dicembre SAN GIOVANNI DELLA CROCE, dottore della Chiesa

Fontiveros, Spagna, c. 1540/2 - Ubeda, Spagna, 14 dicembre 1591
Giovanni nacque a Fontiveros non lontano da Avila nel 1542 in una famiglia ricca di amore ma povera di mezzi materiali. Il padre, Gonzalo de Yepes, apparteneva ad una nobile e ricca famiglia di Toledo. Nei suoi viaggi d’affari incontrò Caterina, una tessitrice, orfana, povera e bella. Innamoratosi di lei, la sposò, per amore e contro la dura volontà dei parenti, ricchi, che per questo lo diseredarono. Gonzalo così diventò poverissimo, tanto che è Caterina stessa ad accoglierlo nella sua casetta, e ad insegnargli il mestiere di tessitore. Il loro matrimonio d’amore fu allietato dalla nascita di tre figli.
L’amore tra loro era grande, ma anche la povertà. Giovanni, il terzo genito, rimase presto orfano: Caterina dopo aver ricevuto uno sdegnoso rifiuto di aiuto dai parenti del marito, cercò lavoro a Medina del Campo, importante centro commerciale. Qui Giovanni fece i suoi primi studi e nello stesso tempo accettò di fare dei piccoli lavori: fu così apprendista sarto, falegname, intagliatore e pittore. Fece anche l’infermiere, sempre amorevole con i malati: in questo modo si pagava gli studi che contemporaneamente faceva nel collegio dei Gesuiti. Terminati brillantemente questi, nel 1563 entrò nell’Ordine Carmelitano: era ormai Fra Giovanni di San Mattia.
L’incontro con Teresa
Proprio per la sua intelligenza e la serietà di vita, i superiori lo inviarono a Salamanca, nella famosa Università. Qui Giovanni non solo crebbe nella conoscenza della filosofia e teologia, ma intensificò anche la propria vita spirituale, fatta di preghiera, di lunghe ore di contemplazione davanti al tabernacolo e di ascesi pratica. Si sentiva portato alla vita contemplativa ed è per questo che stava meditando di cambiare Ordine ed entrare tra i Certosini.
Ma poco prima di essere ordinato sacerdote, ecco l’incontro provvidenziale con una affascinante monaca carmelitana di nome Teresa di Gesù, di quasi trent’anni più di lui. Questa era una donna dalla forte personalità arrivata ormai alla piena maturità spirituale. Vi era giunta attraverso un lungo travaglio vocazionale e spirituale e proprio in quegli anni stava lavorando con successo alla riforma delle Carmelitane. In quel periodo stava anche pensando di estendere la riforma al ramo maschile dell’Ordine. Questo era molto importante per Teresa, perché gli uomini potevano legare la contemplazione del mistero di Dio alla missione. Potevano lavorare cioè non solo alla propria santificazione nel chiuso del convento ma anche per quella degli altri. Teresa espose a Giovanni il proprio progetto di riforma e gli chiese nello stesso tempo di soprassedere alla decisione di cambiare ordine. E questi accettò.
Nel 1568, Teresa finalmente riuscì a fondare il primo convento maschile, a Duruelo, presso Avila. Giovanni (che da questo momento si chiamerà Giovanni della Croce) iniziava così una forma di vita religiosa, condividendo con Teresa l’ideale di riforma della vita carmelitana. Anzi fu lei stessa a cucirgli il primo saio di lana grezza. Nascevano così i Carmelitani Scalzi.
In prigione a pane e acqua
Nel 1572, Teresa venne nominata priora del grande convento di Avila (non riformato), con 130 monache, alcune delle quali erano poco sante e molto turbolente. E volle accanto a sé per la loro rieducazione spirituale proprio Giovanni della Croce: confessore e direttore spirituale delle monache. I risultati spirituali furono brillanti grazie all’opera congiunta dei due santi riformatori. Ma nello stesso tempo, erano cresciuti anche i rancori e l’opposizione di alcuni carmelitani non riformati, che remavano contro questa riforma. E ben presto si fecero sentire, duramente e dolorosamente, attraverso un tragico intreccio fatto di incomprensioni, giochi di potere, dispute sulla giurisdizione religiosa, ambizioni personali mascherate da argomenti teologici e difficoltà di comunicazione (lettere in ritardo).
Ma mentre Teresa (che aveva protettori molto in alto, addirittura in Filippo II) non venne toccata, la cattiveria umana si scatenò contro il povero Giovanni. Per ordine superiore, sotto l’accusa di essere un frate ribelle e disobbediente, fu arrestato e incarcerato in un convento a Toledo. Gli lasciarono in mano solo il breviario. Fu maltrattato, umiliato e segregato in un’angusta prigione, con poca luce e molto freddo. Nove mesi di prigione: a pane e acqua (e qualche sardina), con una sola tonaca che gli marciva addosso, con il supplemento di sofferenza (flagellazione) ogni venerdì nel refettorio davanti a tutti.
Divorato dalla fame e dai pidocchi, consumato dalla febbre e dalla debolezza, dimenticato da tutti. Ma non da Teresa (che protestò vigorosamente anche in alto, ma invano) e tanto meno da Dio. Sì Dio non solo non lo aveva dimenticato, anzi era sempre stato con lui, con la sua grazia. Giovanni sapeva che anche nella notte della prigione Dio era nel suo cuore, presentissimo in ogni istante.
E il miracolo avvenne. In una situazione che per molti versi e per molte persone poteva essere di collasso psico fisico e di naufragio spirituale, Giovanni della Croce (possiamo immaginare per un “input” dall’alto) compose, con materiale biblico, le più calde e trascinanti poesie d’amore, ricche di sentimenti, di immagini e di simboli. Vivendo in Dio e di Dio anche in quelle circostanze, egli attingeva così a Lui, fonte perenne di ogni novità e creatività, “anche se attorno era notte”.
Maestro di vita spirituale
Alla vigilia dell’Assunta del 1578, fuggì coraggiosamente dal carcere, rischiando seriamente la vita, qualora fosse stato preso.
Le sofferenze inaudite di 9 mesi di carcere non furono vane. Infatti, due anni dopo, i Carmelitani Scalzi ottennero il riconoscimento da Roma, che significava autonomia. Giovanni della Croce era finalmente libero di espletare il suo ministero con tutte le sue qualità di cui era dotato, influendo positivamente tutti: confratelli e monache Carmelitane (e molti laici) che lo conobbero o che lo ebbero come superiore o come confessore e direttore spirituale, negli anni seguenti fino alla morte.
Fu inviato anche al sud della Spagna, in Andalusia, dove il clima, la natura, l’assenza di contrasti e il successo della riforma di Teresa di Gesù (e sua) gli diedero il tempo e l’ispirazione per comporre la maggior parte delle opere di spiritualità, tanto da farne uno dei grandi maestri nella Chiesa.
Tra i suoi scritti ricordiamo, oltre il già citato Cantico Spirituale in poesia, la Salita al Monte Carmelo e la Notte Oscura. Pur avendo una solida formazione filosofica e teologica (il che lo aiutava certamente), ciò che Giovanni ha scritto non è tanto il risultato di sistematiche ricerche in biblioteca quanto il frutto della propria esperienza ascetica e spirituale.
Due tappe per crescere
Per Giovanni della Croce l’uomo è essenzialmente un essere in cammino, in perenne ricerca: di Dio naturalmente, essendo stato fatto da Lui e per Lui. Questo ritorno verso Dio egli lo immagina come la salita di una montagna, il Monte Carmelo, che rappresenta simbolicamente la vetta mistica, cioè Dio stesso nel suo amore e nella sua gloria. Per arrivare alla meta che è l’unione d’amore trasformante con Dio (o santità cristiana) l’uomo deve affrontare con coraggio e pazienza le due fasi o tappe, della educazione dei sensi (notte dei sensi) e del rinnovamento del proprio spirito (notte dello spirito) ambedue esperienze misteriose e dolorose di spoliazione interiore.
Con la notte dei sensi (attraverso un duro ed esigente impegno ascetico) l’anima si libera dall’attaccamento disordinato catturante e spiritualmente paralizzante delle cose sensibili, dal modo di giudicare e di scegliere basati sul proprio egoismo e sul proprio interesse immediato, sull’utilitarismo quotidiano nei rapporti interpersonali, sulle comodità di ogni genere e sull’abbondanza superba e gaudente. L’uomo dei sensi e quello totalmente prigioniero di un’unica prospettiva, quella terrena, difficilmente capirà le esigenze di Dio e del Vangelo.
Con la notte dello spirito invece ci si affranca dalle false certezze e dai falsi assoluti della propria intelligenza, affidandosi così totalmente e liberamente a Dio, attraverso l’esercizio delle virtù teologali, quali la fede e la speranza in Cristo, e la carità verso Dio e il prossimo. Si tratta del passaggio doloroso e lungo tanto che può durare tutta la vita dall’uomo “vecchio” all’uomo “nuovo”, da quello “terreno” a quello “spirituale”, da quello mosso dall’egoismo (la carne) a quello sospinto e motivato dallo Spirito, di cui parla San Paolo: un morire per rinascere in Cristo.
Farsi nulla per Dio per essere tutto in Lui
Giovanni della Croce parla di rinunce, di lasciare tutto, di nulla (quali sono le cose rispetto a Dio), di salita, di notte oscura, tutta una terminologia che caratterizza la vita spirituale secondo lui come un lavoro (di auto correzione e autocontrollo nelle proprie azioni e decisioni), un impegno serio, una fatica dura, una ascesi costosa, graduale e continua... che non si può realizzare dall’oggi al domani. Giovanni della Croce non comprende (e scoraggia) quelli che “scalpitano tanto... che vorrebbero essere santi in un giorno”. Non è possibile. Allora come oggi. Egli afferma che se l’anima vuole il Tutto (Dio), deve impegnarsi a lasciare tutto e a voler essere niente:
“Per giungere dove non sei, devi passare per dove non sei. Per giungere a possedere tutto, non volere possedere niente. Per giungere ad essere tutto, non volere che essere niente”.
Naturalmente per Giovanni la parola più importante in questo discorso spirituale non è rinuncia ma amore. Per lui non si tratta tanto di lasciare o rinunciare a qualcosa ma di amare Qualcuno. Egli invita a lasciare amori piccoli per un amore più grande anzi per l’Amore Totale che è Dio Trinità. Amore è la parola decisiva: amore di Dio per noi, amore della creatura per Dio, visto come risposta alla nostra ricerca di amore, fino a consumarsi nel Dio Amore (unione sponsale o mistica). E Giovanni della Croce si è consumato nell’amore per Dio Amore fino alla fine che arrivò il 14 dicembre 1591 in Andalusia, a Ubeda.
Ad una monaca che gli aveva scritto accennando alle difficoltà che egli aveva sofferto rispose:
“Non pensi ad altro se non che tutto è disposto da Dio. E dove non c’è amore, metta amore e ne riceverà amore”.

domenica 12 dicembre 2021

 


12 DICEMBRE. BEATA MARIA VERGINE DI GUADALUPE
La storia religiosa di Guadalupe inizia 480 anni fa nel 1531 quando la Santa Vergine, Madre di Nostro Signore Gesù Cristo, apparve più volte a Guadalupe, in Messico.
Colui al quale la Madonna volle manifestarsi era un azteco e si convertì al Cristianesimo. Il suo nome era Juan Diego Cuauhtlatoatzin e vide Maria Santissima per più di una volta dal 9 al 12 dicembre. Il 31 Luglio del 2002 l'apparizione di Guadalupe fu riconosciuta dalla Chiesa Cattolica e Juan Diego Cuauhtlatoatzin fu canonizzato da Giovanni Paolo II, un passo molto importante per la fede di milioni di pellegrini. Maria apparve per la prima volta a Juan Diego il 9 dicembre su un colle, egli udì un canto celestiale e vide una Signora di una bellezza perfetta:
"I suoi abiti sembravano raggi di sole, e la roccia e le pietre su cui stava, ricevendo queste frecce luminose, sembravano preziosi smeraldi, scintillavano come gioielli, la terra brillava con lo splendore dell’arcobaleno, Le zanzare, il cactus, e i semi tutti intorno sembravano piume di quetzal, e gli steli turchesi, i rami, le foglie e persino le spine risplendevano di luce dorata."
Maria apparve all'indiano in tutta il suo splendore e gli chiese di far erigere ai piedi di esso un santuario in suo onore:
In essa, mostrerò e darò al mio popolo tutto il mio amore, la compassione, l'aiuto e la difesa, poiché sono la vostra madre misericordiosa e la madre di tutte le nazioni che vivono su questa terra [...] Ascolterò le loro preghiere e li conforterò, alleviando tutte le loro miserie, sfortune e sofferenze.
Così Juan Diego si recò dal Vescovo Juan de Zummarràga e gli riferì l'evento ma il Vescovo purtroppo non gli credette.
Nella seconda apparizione Maria disse al veggente di tornare dal Vescovo, che questa volta lo ascoltò ma chiese una prova che confermasse il fatto. Juan Diego tornò sul colle e Maria gli promise un segno per il giorno dopo, ma il veggente l'indomani non poté recarsi sul colle poiché suo zio era gravemente malato. Così il giorno ancora seguente Juan Diego vide Maria lungo la strada e lo rassicurò dicendogli che suo zio era già guarito chiedendogli di tornare al colle. Quando Juan Diego giunse al colle trovò dei fiori di Castiglia il segno che avrebbe fatto ricredere il Vescovo, poiché si trovavano in una pietraia e una tipologia floreale insolita per la stagione. Juan Diego li mise nel sua tilma (mantello) e tornò nuovamente dal Vescovo.
Il Vescovo era insieme ad altre persone e quando Juan Diego aprì il suo mantello di fronte a tutti per mostrare i fiori, ecco che su di esso vi rimase l'immagine della Madonna, visibile da tutti. Ecco un segno ancora più grande! Così Juan Diego poté mostrare il luogo dove Maria aveva chiesto fosse costruito un santuario in suo onore.
Nel giro di un secolo, nel luogo delle apparizioni di Guadalupe, iniziarono la costruzione di una piccola cappella, poi di una più grande, e si giunse all'edificazione di un vero e proprio santuario, che venne consacrato nel 1622. Per poi approdare all'inaugurazione dell'odierna Basilica nel 1976. Intitolata a Nostra Signora di Guadalupe.
Oggi il mantello si conserva all'interno della Basilica di Nostra Signora di Guadalu

venerdì 10 dicembre 2021

 



10 dicembre BEATA VERGINE MARIA DI LORETO
« … il dimorare del Figlio di Dio nella «casa vivente», nel tempio, che è Maria, ci porta ad un altro pensiero: dove abita Dio, dobbiamo riconoscere che tutti siamo «a casa»; dove abita Cristo, i suoi fratelli e le sue sorelle non sono più stranieri. Maria, che è madre di Cristo è anche nostra madre, ci apre la porta della sua Casa, ci guida ad entrare nella volontà del suo Figlio. È la fede, allora, che ci dà una casa in questo mondo, che ci riunisce in un’unica famiglia e che ci rende tutti fratelli e sorelle.
Contemplando Maria, dobbiamo domandarci se anche noi vogliamo essere aperti al Signore, se vogliamo offrire la nostra vita perché sia una dimora per Lui; oppure se abbiamo paura che la presenza del Signore possa essere un limite alla nostra libertà, e se vogliamo riservarci una parte della nostra vita, in modo che possa appartenere solo a noi. Ma 𝗲̀ 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗼 𝗗𝗶𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝗮 𝗹𝗮 𝗻𝗼𝘀𝘁𝗿𝗮 𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝘁𝗮̀, la libera dalla chiusura in se stessa, dalla sete di potere, di possesso, di dominio, e la rende capace di aprirsi alla dimensione che la realizza in senso pieno: quella del dono di sé, dell’amore, che si fa servizio e condivisione.

La fede ci fa abitare, dimorare, ma ci fa anche camminare nella via della vita. Anche a questo proposito, la Santa Casa di Loreto conserva un insegnamento importante. Come sappiamo, essa fu collocata sopra una strada. La cosa potrebbe apparire piuttosto strana: dal nostro punto di vista, infatti, la casa e la strada sembrano escludersi. In realtà, proprio in questo particolare aspetto, è custodito un messaggio singolare di questa Casa.
Essa non è una casa privata, non appartiene a una persona o a una famiglia, ma è un’abitazione aperta a tutti, che sta, per così dire, sulla strada di tutti noi. Allora, qui a Loreto, troviamo una casa che ci fa rimanere, abitare, e che nello stesso tempo ci fa camminare, ci ricorda che siamo tutti pellegrini, che dobbiamo essere sempre in cammino verso un’altra abitazione, verso la casa definitiva, verso la Città eterna, la dimora di Dio con l’umanità redenta (cfr Ap 21,3).
C’è ancora un punto importante del racconto evangelico dell’Annunciazione che vorrei sottolineare, un aspetto che non finisce mai di stupirci: Dio domanda il «sì» dell’uomo, ha creato un interlocutore libero, chiede che la sua creatura Gli risponda con piena libertà. San Bernardo di Chiaravalle, in uno dei suoi Sermoni più celebri, quasi «rappresenta» l’attesa da parte di Dio e dell’umanità del «sì» di Maria, rivolgendosi a lei con una supplica: «L’angelo attende la tua risposta, perché è ormai tempo di ritornare a colui che lo ha inviato… O Signora, da’ quella risposta, che la terra, che gli inferi, anzi, che i cieli attendono.
Come il Re e Signore di tutti desiderava vedere la tua bellezza, così egli desidera ardentemente la tua risposta affermativa… Alzati, corri, apri! Alzati con la fede, affrettati con la tua offerta, apri con la tua adesione!» (In laudibus Virginis Matris, Hom. IV, 8: Opera omnia, Edit. Cisterc. 4, 1966, p. 53s). Dio chiede la libera adesione di Maria per diventare uomo. Certo, il «sì» della Vergine è frutto della Grazia divina. Ma la grazia non elimina la libertà, al contrario, la crea e la sostiene. 𝗟𝗮 𝗳𝗲𝗱𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝘁𝗼𝗴𝗹𝗶𝗲 𝗻𝘂𝗹𝗹𝗮 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗰𝗿𝗲𝗮𝘁𝘂𝗿𝗮 𝘂𝗺𝗮𝗻𝗮, 𝗺𝗮 𝗻𝗲 𝗽𝗲𝗿𝗺𝗲𝘁𝘁𝗲 𝗹𝗮 𝗽𝗶𝗲𝗻𝗮 𝗲 𝗱𝗲𝗳𝗶𝗻𝗶𝘁𝗶𝘃𝗮 𝗿𝗲𝗮𝗹𝗶𝘇𝘇𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲. … »
Benedetto XVI, Omelia, Loreto 04/10/2012

 


ICONA DELLA SANTA SAPIENZA
Nell’immagine appare chiaro un asse verticale che si muove da Dio verso il creato, passando attraverso Cristo e giungendo alla Sua prima Creatura: la “Sofia”. E’ interessante notare come le figure del Cristo e della Sua Santa Madre siano separate dalla Sofia. La sapienza siede su un trono riccamente decorato e poggia i suoi piedi sul mondo. "A me appartiene il consiglio e il buon senso, io sono l'intelligenza, a me appartiene la potenza. Per mezzo mio regnano i re e i magistrati emettono giusti decreti; per mezzo mio i capi comandano e i grandi governano con giustizia."(Prov. 8,14-16)
Secondo i Padri greci, il cristiano scopre la posizione sovrastante della Sofia perché ne scorge un riflesso in tutti gli esseri che il Divino Amore ha voluto creare.
Io sono uscita dalla bocca dell'Altissimo
e come nube ho ricoperto la terra.
Io ho posto la mia dimora lassù,
il mio trono era su una colonna di nubi.
Ho percorso da sola il giro del cielo,
ho passeggiato nelle profondità degli abissi.
Sulle onde del mare e su tutta la terra,
su ogni popolo e nazione ho preso dominio.
(Siracide 24, 3-6)
La Sofia è rappresentata come una creatura angelica "infuocata" dotata di grandi ali, spesso rosse, recante in una mano il "merillo" simbolo della sua dignità angelica, nell'altra il rotolo delle Sacre Scritture: la Parola di Dio. Il trono della Sofia riccamente adornato è sostenuto da ben sette colonne "La Sapienza si è costruita la casa, ha intagliato le sue sette colonne."(Prov. 9,1). Chiarissima l'allusione alla sua "nuova Dimora" nell'umanità: la Chiesa, la Gerusalemme Celeste. Il tutto è inscritto in una mandorla di luce chiara, che in alcune icone procedendo nello spazio si evolve in luce blu increata. La Sofia è dono di Dio all'umanità perché è porta d'accesso alla contemplazione di Dio. La Sofia designa la Chiesa, e la Madre di Dio come tramiti dell'intera umanità per la divinizzazione, che però può aver luogo soltanto attraverso il Cristo, da qui la posizione preminente di Gesù benedicente racchiuso nella mandorla di luce increata, sopra la Sofia. Sopra Gesù è rappresentata l'Etimazia, il trono preparato per Cristo nel giorno del Giudizio. Due gruppi, ciascuno di tre angeli, sono in adorazione del Santo Trono del Cristo.
La composizione generale dell'Icona è fortemente ispirata ai canoni della Deesis. Ai lati della Sofia in atteggiamento di intercessione, la tutta Santa Madre di Dio (Panaghia) dipinta in piedi, qualche volta anche con il modulo detto del "segno". Tutta la vita di Maria fu in effetti un continuo incontro tra il visibile corporeo e l'invisibile increato. Da un lato la Santissima Vergine vedeva, accarezzava e toccava il Dio fatto uomo, dall'altra parte nel suo animo fu sempre ben impressa la visione spirituale del Lògos. "Se tutta l'umanità è la Sofia, la Chiesa che è l'anima e la coscienza dell'umanità è la Sofia universale. Se la Chiesa dei santi è la Sofia, Maria è colei che intercede per tutte le creature presso il Verbo Divino..., è Sofia per eccellenza."(Pavel Florenskij)
Contemplando lo sguardo di Maria sembra quasi di udire i Suoi pensieri: "Dio ha scelto voi piccoli per realizzare i suoi grandi progetti. Figli miei, siate umili. Dio attraverso la vostra umiltà con la sua sapienza, delle vostre anime farà la sua dimora scelta. Pregate, cari figli, specialmente per i doni dello Spirito Santo, affinché nello spirito dell' amore ogni giorno ed in ogni situazione siate più vicini al fratello e nella sapienza e nell'amore superiate ogni difficoltà. Mettete Dio al centro del vostro essere cosicché possiate testimoniare nella gioia le bellezze che Dio vi dona continuamente nella vostra vita."
Dall'altro lato San Giovanni Battista: il primo testimone dell'Epifania. Il concetto stesso di Epifania è intimamente legato alla Conoscenza di Dio, la Sofia; in greco il termine epiphanein assume il valore semantico di mostrare, cioè rivelare l'essenza stessa e più intima di ciò che è stato creato. Ecco quanto si è rivelato a Giovanni sulla riva del Giordano: gli occhi di una creatura si posarono sul Creatore fattosi creatura, mentre lo spirito di Giovanni contemplava Dio. "Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo. E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio"(Gv 1,32-34). La figura stessa di Giovanni è quindi una personificazione del riflesso della Sofia intesa come chiave, porta di accesso, alle realtà invisibili.
Ancora una volta ecco la rappresentazione della Sofia; la creatura angelica infuocata che siede in una chiara luce, comprensibile agli occhi delle creature, per progredire via via che ci si muove nello spazio dell'icona in una luce blu, simbolo della luce increata di Dio.
L'intera icona è continuamente ispirata ad uno schema trinitario: quattro gruppi di tre figure ciascuna. In alto due gruppi di tre angeli contrassegnano la parte divina dell'Icona (Dio Padre), al centro in modo verticale le tre visioni che colgono, rispettivamente, il Padre, il Lògos, la Sofia intesa come superficie delle cose. In basso le creature, spesso poggiate su una superficie verde, simbolo della terra, in atteggiamento di intercessione: la Santissima Vergine, il Battista e la personificazione della Sofia.
“Vi sono presentate le tre visioni, che colgono, rispettivamente, la superficie, le Idee e Dio Padre. Ma siccome avevano paura che questo fosse un panteismo, dicevano: «C’è dentro la sapienza divina. Invece di ritrarre Dio, dipingono un angelo in forma femminile, che rappresenta la sapienza che è dentro tutte le cose: la Sophia».” (T. Rupnik). Il numero trinitario simboleggia Dio, mentre quattro sono i bracci della croce cui fu attaccato il Dio fattosi uomo, quella stessa croce ove Gesù raccolse la sofferenza dell'intera umanità, ma che a noi ha procurato la salvezza, la divinizzazione, l'unione con Dio. La Sapienza, questo immenso dono di Dio, grande fondamento del Creato, indica la via verso il ponte che porta l'uomo verso l'invisibile, quel ponte costruito sull'abisso stesso della nostra esistenza. Scoprendo Dio, Cirillo, come abbiamo visto, esclamò: "Da questo momento non sono più servo né dell'imperatore né di alcun uomo sulla terra, ma solo di Dio onnipotente. Non esistevo, ma ora esisto ed esisterò in eterno. Amen".
Ecco perché nel centro della cristianità d'Oriente a questa odigitria fu dedicata la più importante chiesa del mondo cristiano, patrocinata, guarda caso, dalla tutta Santa Madre di Dio: l'Odigitria.

giovedì 9 dicembre 2021

 










LA VIOLENZA DEI PICCOLI CHE LI FA ADULTI NELLA FEDE
"I nati di donna" sono concepiti nel peccato. Come ogni profeta, come Giovanni il Battista, il "più grande" tra tutti i profeti, possono giungere sulle soglie del Regno dei Cieli, non vi possono entrare. Non per una questione giuridica, ma sostanziale. Chi non è rinato dall'alto non può vedere il Regno dei Cieli; chi non rinasce dallo Spirito nelle acque del Battesimo non vi può entrare. E sono le parole di Gesù rivolte a Nicodemo: quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è Spirito. Occorre rinascere e diventare come bambini, come "il più piccolo" tra i bambini, un bimbo appena nato; un neofita liberato dal peccato e rinato in Cristo è il più grande nel Regno dei Cieli. Vi è entrato, vive nella Grazia e non più nella Legge. I due regimi non si possono neanche paragonare, anche se quello della profezia ha preparato quello del compimento. Per questo "il Battista è il più grande tra i nati dalla carne": i suoi occhi avevano visto quanto tutti gli altri profeti avrebbero voluto vedere, esultando per il compimento della stessa gioia che sperimentò Abramo quando vide profeticamente il giorno di Gesù. Per questo "la Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni"; ma con lui si inaugura la pienezza dei tempi, la sua profezia è diversa da tutte le altre, è il grido che annuncia il compimento dell'evento atteso da sempre. E' Elia che "doveva venire", il profeta che, rapito in Cielo, dal Cielo doveva tornare per aprire al Messia la porta della terra; Elia, che con il fuoco dello zelo aveva mostrato effimeri gli idoli del mondo e lo strazio della carne che essi serviva, con la sua ascesa aveva profetizzato il destino celeste di ogni uomo rinnovato nello Spirito Santo. Così Giovanni, sulla soglia del Regno dei Cieli ne dischiudeva le porte perché la carne potesse prepararsi all'incontro con lo Spirito di Dio. E grida ancora nel deserto di questa generazione, attraverso la Chiesa ci indica il cammino di conversione, identico a quello al quale si riferisce Gesù. Quello percorso dai cristiani delle prime generazioni, certi del martirio che avrebbero incontrato diventando cristiani. Un percorso "violento", durante il quale la misericordia si faceva spesso strada nella durezza dei cuori con le spine della corona intrecciata sul capo di Gesù o i chiodi che ne avevano trapassato le membra. La violenza della Croce che scolpisce il marmo più duro, perché giunga a somigliare al modello.
Non c'è conversione, infatti, senza un serio senza un serio cammino di conversione nel quale, come nella Chiesa primitiva coloro che si preparavano a ricevere il battesimo, fare "violenza" alla carne, le "opere degne della conversione" di cui parlava il Battista, con le quali manifestare a Cristo il desiderio di diventare suoi. La stessa "violenza" che la vita cristiana esige ogni giorno nel combattimento contro satana. Non si scherza, ci aspetta il martirio, perché senza le stigmate nella carne non si è cristiani, il segno cioè della presenza di Dio tra gli uomini. Nella pienezza della storia inaugurata dal Battista, "il Regno dei Cieli soffre la violenza" del demonio: "il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e Satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra... pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo" (Cfr. Ap. 12). Ha fretta il demonio, deve strappare gli uomini a Gesù, e per questo muove guerra alla "discendenza" di Maria, ai "più piccoli del regno dei Cieli", "contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù". Per questo si impadroniscono del Regno dei Cieli solo quanti hanno saputo combattere con violenza. Con l'inerme violenza della Croce: "essi lo hanno vinto grazie al sangue dell'Agnello e alla parola della loro testimonianza, e hanno odiato la loro vita fino a morire". Ecco dunque la violenza alla quale ci chiama oggi il Signore: quella che ci fa andare dietro a Gesù odiando la carne per rivestirci di Lui ed essere colmi di Spirito Santo. La violenza che apre le braccia per caricarsi della violenza del male, la violenza di un bambino appena nato. E' Lui che il drago vuole divorare, perché sa che, una volta fatto fuori il più piccolo può far cadere anche i più grandi. E' a noi che muove guerra, in famiglia e al lavoro. Il demonio sa che, se riesce a farci insuperbire, può distruggere il rapporto con il coniuge e i figli, e trascinare tutti nella disperazione. La vera guerra, infatti, non è contro tuo figlio! Il demonio sta attaccando te; tuo figlio può cadere da un momento all'altro, ma la tua umiltà e la tua violenza crocifissa possono salvarlo! Quanto siamo ingannati.... Ci accaniamo contro gli altri, perché in fondo li giudichiamo, e non ci rendiamo conto che la battaglia vera sta infuriando contro di noi. Se stiamo giudicando moglie, marito, figli o chi sia, per quanto deboli e peccatori siano, possiamo starne certi: il demonio ci ha puntato per far fuori anche gli altri. Quando nostro figlio sta peggio è il momento di umiliarci di più, di lasciarci trafiggere dagli insulti, dalle menzogne, dal rifiuto, ovunque e soprattutto con lui. La storia e le persone che ci chiamano a conversione, infatti, sono "quell'Elia che deve venire" per annunciarci l'avvento del Messia. Che fare? Umiliarci in questo Avvento, perché contro la "violenza dell'umiltà" il demonio non può nulla..

 


9 dicembre SAN JUAN DIEGO CUAUHTLATOATZIN, veggente di Guadalupe
« … Come era Juan Diego? Perché Dio fissò il suo sguardo su di lui? Il libro dell'Ecclesiastico, come abbiamo ascoltato, ci insegna che "grande è la potenza del Signore e dagli umili egli è glorificato" (3, 20). Ugualmente, le parole di san Paolo proclamate in questa celebrazione illuminano questo modo divino di realizzare la salvezza: "Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio" (1 Cor 1, 28.29).
È commovente leggere le narrazioni guadalupane, scritte con delicatezza ed intrise di tenerezza. In esse la Vergine Maria, la serva "che glorifica il Signore" (Lc 1, 46), si manifesta a Juan Diego come la Madre del vero Dio. Ella gli dona, come segno, alcune rose preziose e lui, quando le mostra al Vescovo, scopre raffigurata sul suo mantello la benedetta immagine di Nostra Signora.
"L'evento Guadalupano - come ha rilevato l'Episcopato Messicano - significò l'inizio dell'evangelizzazione con una vitalità che superò ogni aspettativa. Il messaggio di Cristo, attraverso sua Madre, riprese gli elementi centrali della cultura indigena, li purificò e diede loro il definitivo significato di salvezza". Pertanto, Guadalupe e Juan Diego possiedono un profondo significato ecclesiale e missionario e sono un modello di evangelizzazione perfettamente inculturata..
Amato Juan Diego, "l'aquila che parla"! Insegnaci il cammino che conduce alla Virgen Morena del Tepeyac, affinché Ella ci accolga nell'intimo del suo cuore, giacché Ella è la Madre amorosa e compassionevole che ci conduce fino al vero Dio. Amen. »
San Giovanni Paolo II, Omelia, Città del Messico, 31/07/2002

mercoledì 24 novembre 2021

 


24 novembre SANT’ANDREA DUNG LAC E 117 COMPAGNI MARTIRI VIETNAMITI
« ...Dal 1533, cioè dall’inizio della predicazione cristiana nel sud-est asiatico, la Chiesa in Vietnam ha subito, nel corso di tre secoli, diverse persecuzioni che si sono succedute, con qualche tregua, come quelle che hanno colpito la Chiesa in Occidente nei primi tre secoli di vita. Ci furono migliaia di cristiani mandati al martirio, e moltissimi sono coloro che sono morti sulle montagne, nelle foreste, nei territori insalubri dove erano stati esiliati.
Come ricordarli tutti? Anche se ci limitassimo a quelli canonizzati oggi, non potremmo soffermarci su ciascuno di loro. Sono 117, tra cui otto vescovi, cinquanta sacerdoti, cinquantanove laici, e tra di essi troviamo una donna, Agnese Le Thi Thành, madre di sei bambini.
È sufficiente richiamare una o due figure, come quella del padre Vincent Liem, domenicano, mandato al martirio nel 1773; è il primo di 96 martiri di nazionalità vietnamita. E poi un altro sacerdote, Andrè Dung-Lac, i cui genitori, pagani, erano poverissimi; affidato dall’infanzia ad un catechista, diventa prete nel 1823, e fu parroco e missionario in diverse località del Paese. Salvato dalla prigione più di una volta, grazie ai riscatti generosamente pagati dai fedeli, desiderava ardentemente il martirio. “Chi muore per la fede” diceva “sale in cielo; al contrario, noi che ci nascondiamo continuamente, spendiamo del denaro per sottrarci ai persecutori! Sarebbe molto meglio lasciarci arrestare e morire”. Sostenuto da un grande zelo e dalla grazia del Signore, subì il martirio della decapitazione ad Hanoi il 21 dicembre 1839. ...
... I martiri vietnamiti “seminando fra le lacrime”, in realtà iniziarono un dialogo profondo e liberatore con la popolazione e la cultura della loro nazione, proclamando prima di tutto la verità e l’universalità della fede in Dio, proponendo inoltre una gerarchia di valori e di doveri particolarmente adeguata alla cultura religiosa di tutto il mondo orientale. Sotto la guida del primo catechismo vietnamita, diedero testimonianza del fatto che è necessario adorare un solo Dio, come Dio unico che ha creato cielo e terra.
Di fronte alle disposizioni coattive delle autorità riguardo alla pratica della fede, essi affermarono la propria libertà di credo, sostenendo con umile coraggio che la religione cristiana era l’unica cosa che non potevano abbandonare, poiché non potevano disobbedire al supremo sovrano: il Signore. Inoltre proclamarono con forza la loro volontà di essere leali nei confronti delle autorità del Paese, senza contravvenire a tutto ciò che fosse giusto e onesto; insegnarono a rispettare ed a venerare gli antenati, secondo gli usi della propria terra, alla luce del mistero della resurrezione.
La Chiesa vietnamita, con i suoi martiri e mediante la propria testimonianza, ha potuto proclamare il proprio impegno e la propria volontà di non rifiutare la tradizione culturale e le istituzioni legali del Paese; al contrario ha dichiarato e dimostrato che vuole incarnarsi in questa, contribuendo con fedeltà alla vera crescita della patria. ...
... Sanguis martyrum, semen christianorum”. “Semen christianorum”. Oltre alle migliaia di fedeli che, nei secoli passati, hanno camminato sui passi di Cristo, vi sono ancora oggi coloro che lavorano, talvolta nell’angoscia e nell’abnegazione, con la sola ambizione di poter perseverare nella vigna del Signore come fedeli che comprendono i beni del Regno di Dio.
“Semen chrstianorum”, sono tutti coloro che, ancora oggi, in mezzo al loro popolo e per la causa di Dio si sforzano di comprendere il senso del Vangelo di Cristo e della sua croce, con il dovere che ciò comporta di lavorare e di pregare per la venuta del Regno del nostro Padre in tutte le anime, e particolarmente nel Paese dove il Signore li ha chiamati a vivere. Questo dovere, questa attività interiore costante e rigorosa, esigono la pazienza e l’attesa fiduciosa di chi sa che la Provvidenza di Dio lavora con loro per rendere efficaci i loro sforzi e anche le loro sofferenze.
“La vita dei giusti è nella mani di Dio” (Sap 3, 1).
Il libro della Sapienza proclama questa splendida verità che inonda con tanta luce l’avvenimento che oggi celebriamo.
Sì. “La vita dei giusti è nella mani di Dio e non patiranno tormenti”. Potrebbe sembrare che queste parole non corrispondano alla realtà storica: in effetti i martiri patirono tormenti, e in che misura!
Ma l’autore ispirato sviluppa maggiormente il suo pensiero:
“La gente insensata pensava che morissero,
consideravano il loro trapasso come una disgrazia,
la loro dipartita da noi come una distruzione;
ma loro sono in pace.
La gente pensava che fossero stati castigati;
ma loro aspettavano sicuri l’immortalità” (Sap 3, 2-4).
Santi martiri! Martiri vietnamiti! Testimoni della vittoria di Cristo sulla morte! Testimoni della vocazione dell’uomo all’immortalità. ...
... Colui che è venuto nel mondo - non per “giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3, 17).
Questo Cristo!
Come avete partecipato alla sua sofferenza e alla sua croce, così abbiate parte nella salvezza del mondo, da lui operata.
La vostra messe duri nella gioia! »
San GiovanniPaoloII, Dall’ Omelia per la Canonizzazione di 117 martiri vietnamiti, 19/06/1988

domenica 21 novembre 2021

 


NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL'UNIVERSO
Al termine dell’Anno liturgico si celebra la 34a domenica del cosiddetto «Tempo ordinario». La solennità, che cade di norma negli ultimi dieci giorni di novembre, è dedicata a Gesù Cristo Re dell’universo. In tal modo si vuole sottolineare che Cristo redentore è il Signore della storia, l’inizio e la fine del tempo.
L’istituzione della festa fu decisa da papa Pio XI, l’11 dicembre 1925, a conclusione del Giubileo che si celebrava in quell’anno. Come ha scritto lo studioso padre Francesco Maria Avidano, la relativa devozione si pone in riparazione del grido blasfemo contro Gesù, riportato dai Vangeli: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Nei tre giorni precedenti la solennità di Cristo Re i devoti recitano uno specifico Triduo. Le invocazioni domandano in particolare che il Cuore di Gesù trionfi su tutti gli ostacoli al regno del suo amore. Mediante l’intervento della Madonna, poi, si auspica che tutti i popoli – disuniti dalla ferita del peccato – si sottomettano all’amore di Cristo.
Papa Leone XIII, l’11 giugno 1899, consacrò la Chiesa, il mondo e tutto il genere umano a Cristo. La formula dell’orazione, se viene recitata pubblicamente nella solennità di Gesù Cristo Re dell’universo, fa acquisire l’indulgenza plenaria.
L’atto di consacrazione è ricco di richiami all’amore di Cristo per l’intera umanità. Un amore che si è reso visibile proprio nella totale donazione di se stesso sulla croce. La preghiera è anche una richiesta di perdono collettivo e recita fra l’altro: «Molti, purtroppo, non ti conobbero mai; molti, disprezzando i tuoi comandamenti, ti ripudiarono. O benignissimo Gesù, abbi misericordia e degli uni e degli altri e tutti quanti attira al tuo sacratissimo Cuore. O Signore, sii il re non solo dei fedeli che non si allontanarono mai da te, ma anche di quei figli prodighi che ti abbandonarono».
Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l'umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo – scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 – “in senso pieno, proprio e assoluto, … è re”.
Il suo regno, spiegava ancora Pio XI, “principalmente spirituale e (che) attiene alle cose spirituali”, è contrapposto unicamente a quello di Satana e delle potenze delle tenebre. Il Regno di cui parla Gesù nel Vangelo non è, dunque, di questo mondo, cioè, non ha la sua provenienza nel mondo degli uomini, ma in Dio solo; Cristo ha in mente un regno imposto non con la forza delle armi (non a caso dice a Pilato che se il suo Regno fosse una realtà mondana la sua gente “avrebbe combattuto perché non fosse consegnato ai giudei”), ma tramite la forza della Verità e dell'Amore.
Gli uomini vi entrano, preparandosi con la penitenza, per la fede e per il battesimo, il quale produce un’autentica rigenerazione interiore. Ai suoi sudditi questo Re richiede, prosegue Pio XI, “non solo l’animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce”.
Tale Regno, peraltro, già mistericamente presente, troverà pieno compimento alla fine dei tempi, alla seconda venuta di Cristo, quando, quale Sommo Giudice e Re, verrà a giudicare i vivi ed i morti, separando, come il pastore, “le pecore dai capri” (Mt 25, 31 ss.). Si tratta di una realtà rivelata da Dio e da sempre professata dalla Chiesa e, da ultimo, dal Concilio Vaticano II, il quale insegnava a tal riguardo che “qui sulla terra il Regno è già presente, in mistero; ma con la venuta del Signore, giungerà a perfezione” (costituzione “Gaudium et spes”).
Con la sua seconda venuta, Cristo ricapitolerà tutte le cose, facendo “cieli nuovi e terra nuova” (Ap 21, 1), tergendo e consolando ogni lacrima di dolore e bandendo per sempre il peccato, la morte ed ogni ingiustizia dalla faccia della terra. Sempre il Concilio scriveva che “in questo regno anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio” (costituzione dogmatica “Lumen Gentium”).
Per questo i cristiani di ogni tempo invocano, già con la preghiera del Padre nostro, la venuta del Suo Regno (“Venga il tuo Regno”) ed, in modo particolare durante l’Avvento, cantano nella liturgia “Maranà tha”, cioè “Vieni Signore”, per esprimere così l’attesa impaziente della parusia (cfr. 1 Cor 16, 22).

lunedì 15 novembre 2021

 


MENDICANTI DELL'AMORE AUTENTICO CHE DISCHIUDE GLI OCCHI SUL VOLTO DI CRISTO INCARNATO NEI FRATELLI
"Gerico era saldamente sbarrata dinanzi agli Israeliti; nessuno usciva e nessuno entrava" (Gs. 5,13). Gerico, "città della luna", è la porta di accesso alla Terra Promessa. La sua conquista, narrata nel capitolo 6 del libro di Giosuè, appare come una liturgia con suoni di tromba e il grido assordante del popolo. Per comprendere il segno di Gesù descritto nel Vangelo, occorre rileggere l'episodio della conquista di Gerico: "Disse il Signore a Giosuè: «Vedi, io ti metto in mano Gerico e il suo re. Voi tutti prodi guerrieri, tutti atti alla guerra, girerete intorno alla città, facendo il circuito della città una volta. Così farete per sei giorni. Sette sacerdoti porteranno sette trombe di corno d’ariete davanti all’arca; il settimo giorno poi girerete intorno alla città per sette volte e i sacerdoti suoneranno le trombe. Quando si suonerà il corno dell’ariete, appena voi sentirete il suono della tromba, tutto il popolo proromperà in un grande grido di guerra, allora le mura della città crolleranno e il popolo entrerà, ciascuno diritto davanti a sé»... Al popolo Giosuè aveva ordinato: « Non urlate, non fate neppur sentire la voce e non una parola esca dalla vostra bocca finché vi dirò: Lanciate il grido di guerra, allora griderete ». L’arca del Signore girò intorno alla città facendo il circuito una volta... Così fecero per sei giorni. Al settimo giorno si alzarono al sorgere dell’aurora e girarono intorno alla città in questo modo per sette volte; soltanto in quel giorno fecero sette volte il giro intorno alla città. Alla settima volta i sacerdoti diedero fiato alle trombe e Giosuè disse al popolo: «Lanciate il grido di guerra perché il Signore vi dà in potere la città...». Allora il popolo lanciò il grido di guerra e si suonarono le trombe. Come il popolo udì il suono della tromba ed ebbe lanciato un grande grido di guerra, le mura della città crollarono; il popolo allora salì verso la città, ciascuno diritto davanti a sé, e occuparono la città".
Sino al momento in cui passa Gesù, il cieco era rimasto a mendicare. Silenzioso, come intimato da Giosuè al Popolo. Come ciascuno di noi, forse inconsapevolmente, si trova a mendicare silenzioso, senza sussulti o grida, sulla strada dei giorni, dove scorrono le relazioni, le cose da fare, e i pensieri e le decisioni. Chiediamo, semplicemente, vita, felicità, affetto, dignità. Mendichiamo l'essere, chiediamo di entrare a prendere possesso della Terra che ci è stata promessa; tutti abbiamo dentro un desiderio inappagato che ci muove a mendicare: "L’uomo aspira ad una gioia senza fine, vuole godere oltre ogni limite, anela all’infinito" (J. Ratzinger, Luce del mondo, p. 95).
Il Catechismo rintraccia il fondamento del desiderio: “Mediante la creazione Dio chiama ogni essere dal nulla all’esistenza… Anche dopo aver perduto la somiglianza con Dio a causa del peccato, l’uomo rimane ad immagine del suo Creatore. Egli conserva il desiderio di colui che lo chiama all’esistenza.” (n. 2566). Si tratta del desiderio che muove il cieco, immagine dell'uomo ferito dal peccato, incapace di tutto eppure spinto a superare la sua situazione, il limite imposto da quegli occhi chiusi sul mondo. Il suo mendicare ogni giorno lungo la strada definisce il suo desiderio. Malamente, accontentandosi forse, cedendo a compromessi grossolani, eppure, in quella mano tesa, si fa presente il gemito di un cuore che, custode del seme divino deposto dal Creatore, conserva il desiderio, balbetta la nostalgia della perfezione e pienezza di Colui che lo ha chiamato all'esistenza dal nulla.
Il nostro mendicare di ogni giorno è la traccia di questa nostalgia fattasi desiderio. Per questo i sacerdoti ed il popolo girano per sei giorni intorno a Gerico: è l'immagine della nostra vita alle porte della Terra Promessa, della pienezza della vita, della corrispondenza unica e autentica al nostro desiderio. Sei giorni, la ferialità della vita trascorsa mendicando. Ma, conservata e custodita, al centro dei giorni, del lavoro, della famiglia, delle amicizie che sembrano tirate via elemosinando lo straccio di un senso, vi è l'Arca, la presenza di Dio. La mendicanza è positiva, è già una liturgia! E' attesa, inconsapevole eppure struggente, di Lui, del suo passaggio risanatore. Ogni nostro giorno, anche se mendicante, è creativo, perché Dio, con amore, continua a creare dal nulla la nostra storia per farci felici. Dio crea durante i primi sei giorni "cose buone", in attesa della "cosa molto buona", dell'uomo a sua immagine. Così noi mendichiamo nell'attesa dello Shabbat, del giorno del Messia, di Cristo e della sua risurrezione, del riposo di chi, affaticato e oppresso, può trovare solo nella sua umiltà e mitezza. Mendichiamo, e in questo, Dio alimenta e sostiene il nostro desiderio, accompagnandoci, perdonandoci e tirandoci su quando, deboli e feriti, ci volgiamo a idoli e menzogne.
Ogni nostro giorno è già lanciato alla presa di Gerico! Anche se ce ne stiamo seduti a mendicare, Dio sta preparando lo scrigno dove depositare la fede. Per questo anche quanto, nella nostra vita, ci sembra fallimentare, meschino e abietto ha un valore immenso. La stessa Grazia donata al cieco: trovarsi in quel luogo, su quella strada alle porte di Gerico, in quel momento, a quell'ora. Quel suo mendicare protrattosi da non si sa quanto tempo, lo aveva condotto, misteriosamente, ad esser lì, dentro a quell'appuntamento che, di certo, non aveva fissato lui. Così è per ciascuno di noi. Desideriamo e mendichiamo, e non ci rendiamo conto che tutta la storia spesa a stendere la mano, ci ha preparato e condotto ad essere puntuali ad un appuntamento che Lui ha preso, da sempre, con noi.
Il Vangelo di oggi ci annuncia dunque una buona e inaspettata notizia: ogni giornata della nostra storia, ogni evento, ogni persona, ci accompagnano ad entrare in possesso dell'oggetto autentico del nostro desiderio. Anche attraverso la debolezza e le cadute intrecciate al nostro povero mendicare. Anzi, proprio attraverso l'esperienza dell'estrema indigenza, Dio scrive, lettera dopo lettera, la sua dichiarazione d'amore, il suo invito all'appuntamento nel quale donarsi totalmente. Possiamo guardare con fiducia a questa nostra vita mendicante. Il Signore è in cammino, è vicino a noi, passa proprio accanto a quel metro quadro di strada che definisce la nostra vita di oggi. Esattamente in questo momento. Giunge il settimo giorno, la Pasqua della Vita e del perdono, nel quale prorompere in grida altissime. L'Arca è, da sempre, con noi. Le trombe dei sacerdoti, la preghiera incessante della Chiesa, lo zelo di chi ha a cuore la nostra sorte, hanno custodito la presenza di Dio in noi. Passa Gesù, è arrivato il Messia. Ce lo annunciano quelli che "camminano avanti", il Popolo in procinto di entrare in Gerico, coloro che vanno "ciascuno diritto davanti a sé".
Certo, lo stupore è grande, come la tentazione di star zitto e non disturbare. Dentro e fuori di noi i pensieri, i consigli, il buon senso, il "religiosamente corretto", ci vogliono indurre a tacere. Un mendicante cieco è sempre, agli occhi legalistici e moralistici, un indegno: reca impresso nella sua cecità il segno del disordine del peccato; è un fallito, un pigro, preferisce starsene seduto aspettando da fuori l'aiuto che dovrebbe procurarsi da sé. Non si impegna, non si sforza, mendica.... E invece il cieco continua, "ancora più forte" del moralismo, dei sensi di colpa, dei rimorsi. Prende forza dalla sua debolezza e dalla fede accolta attraverso l'ascolto della predicazione - "Passa Gesù Nazareno!" - che innesca la scintilla capace di schiudergli la salvezza. Tutto è Grazia! Perfino quel suo stare là... E' bastato il passaggio di Gesù ad accendere la fede donata dalla predicazione, a decodificarla in un grido, a professarla con semplici parole, umili perché vere: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". Abbi pietà tu di me: la mano tesa del mendicante, la nostra mano, ha trovato la pietà vera, cercata come la può cercare un cieco, nel matrimonio, nei figli, nel prestigio, nell'amicizia, nel lavoro; spesso nei peccati...
E quel grido ferma il passaggio di Gesù. E' il potere della fede fatta preghiera. Attraverso di essa, cifra della libertà orientata alla Verità, l'appuntamento diviene realtà. La preghiera ha il potere di far compiere la volontà di Dio: il suo pensiero di bene circa quel cieco si realizza grazie a quel grido. Occorre che Gesù si accorga di lui e si fermi. Occorre che la scintilla della fede raggiunga Cristo, lo tocchi, scenda al suo cuore e "liberi"la sua commozione, la sua pietà. Come hanno fatto l'emoroissa, il centurione, il buon ladrone sulla croce. Perchè l'appuntamento cui siamo destinati si traduca in un avvenimento reale, è necessario dare del "tu" a Gesù: la mia preghiera mendicante lo rende un "tu" per me, Qualcuno che ha relazione con me, con la mia vita. La preghiera gli consegna l'autorità per fare quello che ha pensato, per compiere la volontà del Padre in noi. "Si trovano l’uno di fronte all’altro: Dio con la sua volontà di guarire e l’uomo con il suo desiderio di essere guarito. Due libertà, due volontà convergenti: "Che vuoi che io ti faccia?", gli chiede il Signore. "Che io riabbia la vista!", risponde il cieco. "Va’, la tua fede ti ha salvato". Con queste parole si compie il miracolo. Gioia di Dio, gioia dell’uomo" (Benedetto XVI).

martedì 9 novembre 2021

 

IL "FLAGELLO" DI CRISTO CHE, PURIFICANDO CUORE, MENTE E CARNE, CI "DEDICA" A CRISTO E AI FRATELLI
Si avvicina la Pasqua dei Giudei, il compimento della missione, la testimonianza della Verità. E, profeticamente, il Vangelo di oggi rivela quello che Gesù farà nella sua Pasqua, quale martire della Verità. Il Tempio, il luogo della presenza di Dio, era divenuto un luogo di mercato: all'adorazione e all'amore era subentrato l'interesse. Il Tempio, centro e fondamento dell'universo, era profanato. Gesù, divorato dallo zelo divino, vi entra per riprenderne possesso, per tornare a dedicarlo a Dio. E, per questo, compie un gesto che è insieme segno dell'avvento del Messia e profezia dell'autentica dedicazione che realizzerà nella sua Pasqua. In ebraico, il termine hebel, tradotto con "sferza di cordicelle", il flagellum romano dal greco phragellion che compare nel vangelo, significa allo stesso tempo corda e dolori, in particolare quelli del parto. Gesù prende un flagello e comincia a seminare terrore, come annunciato dai Profeti e come anche la tradizione rabbinica immaginava l'avvento del Messia. Esso infatti sarebbe stato un vero e proprio flagello brandito dal Messia, e che avrebbe provocato dolori frutti della purificazione dei vizi e dei peccati. Per questo i Giudei non si indignano per il gesto in sé, ma chiedono a Gesù il segno che legittimi il suo "fare queste cose". Il punto su cui verte il Vangelo di oggi non è il Tempio ma la figura di Gesù. E non è un caso che, per celebrare la Dedicazione della Cattedrale di Roma, "madre e capo di tutte le chiese dell’Urbe e dell’Orbe" si proclami questo brano. Non celebriamo un Tempio di mattoni, per quanto bello e importante. Celebriamo Cristo, l'autentico Tempio di Dio, la sua dimora tra gli uomini. In Lui e nel suo amore infatti, siamo chiamati proprio a dimorare, per vivere la vita come un'interrotta liturgia di lode.
E Gesù, nel rispondere all'obiezione dei Giudei, rivela se stesso profetizzando la sua Pasqua. Essa non sarà più quella dei Giudei, un rito ormai vuoto compiuto in un luogo di mercato. Sarà la Pasqua dell'Agnello senza macchia, puro, che libererà le pecore dalla mano del nemico. Sarà la Pasqua di Gesù che dedicherà il suo Tempio all'autentica lode nell'unico e valido sacrificio. Il flagello che ha brandito durante la loro Pasqua, lacererà le sue carni, e sarà perdono per ogni uomo. Il flagello che avrebbe dovuto percuotere noi, mercanti avidi e avari che hanno pervertito la santità del tempio facendone un luogo di traffici, compromessi e adulteri, ha raggiunto il corpo senza peccato del Signore. Il nostro corpo donatoci per amare, ridotto ad una sentina di vizi, di perversioni, dove commerciare affetto, prestigio, potere, non avrebbe potuto schivare il flagello dello zelo geloso di Dio se il corpo benedetto del Signore non ne avesse catalizzato i colpi. "Non fu per appagare la rabbia dei demoni, la ferocia dei giudei, la brutalità dei pagani che il corpo di Gesù fu scarnificato ed infranto, ma per servire da medicina alla nostra salute. Oh mistero, dunque! Quanto più orribile fu per parte degli uomini, altrettanto più tenero fu per parte di Dio, il quale — nell'eccesso della sua misericordia — dispose che tutto servisse per la salvezza del genere umano!" (Sant'Agostino, Sermone CXIV, De tempore).
Gesù usa termini inequivocabili: "sciogliete" il "Santo dei Santi" e lo farò "sorgere" in "tre giorni". In una frase rivela la sua missione e la sua identità. Egli è il cuore del Tempio, il Luogo della Presenza dove era custodita l'Alleanza. In esso aveva accesso una volta all'anno il solo Sommo Sacerdote, nel giorno solenne dello Yom Kippur, il giorno del perdono e dell'espiazione. Vi entrava pronunciando il Nome del Dio Altissimo, nel quale ogni peccato era perdonato. Il velo che divideva il Santo dei Santi dal resto del Tempio precludendone l'accesso sarà squarciato in due, sciolto, al momento della morte del Signore. "Cristo invece... non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna... Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso" (Eb. 9-10). Gesù è il Nome di Dio che ci è dato per essere perdonati, oggi, come sempre. Nella sua Pasqua ciascuno di noi è riconciliato con Dio, può accedere al Santo dei Santi, ed offrire la propria vita a Colui che l'ha riscattata. Per mezzo di Cristo siamo così nuovamente dedicati a Dio; come nel Rito della dedicazione di una Chiesa, anche noi, unti dello Spirito nel quale Gesù si è offerto al Padre, diveniamo altari consacrati per dedicare a Dio la nostra vita. Ogni giorno possiamo allora celebrare un'anticipo della liturgia celeste che canta la vittoria di Cristo sulla morte. Ogni evento, ogni persona, tutto ciò che costituisce la nostra storia è attratta in questa liturgia dove, in noi, il Signore offre il suo corpo ed il suo sangue per salvare questa generazione. Portiamo infatti nel nostro corpo lo stesso morire di Cristo che scioglie la carne perché si doni senza riserve. La carne trasfigurata e deposta nel Santo dei Santi, nell'intimità di Dio, nel cuore di Cristo, può donarsi, può essere Tempio dello Spirito Santo. Così possiamo vivere secondo l'esortazione di San Paolo ai fratelli della comunità di Roma: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm. 12, 1-2).
Siamo chiamati a vivere il matrimonio, il fidanzamento, il lavoro, le amicizie, lo studio come un culto spirituale, elevando al Cielo la lode e il rendimento di grazie: ogni relazione, ogni attività è come un'eucarestia che ci conduce a offrirci e prendere su di noi il peccato degli altri, e a portare tutti e tutto nel Santuario del Cielo. “Voi siete pietre del tempio del Padre, destinate alla costruzione di Dio Padre, portate in altro dall’argano di Gesù Cristo, che è la croce, usando per fune lo Spirito Santo... La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio. Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo". (S. Ignazio di Antiochia, Agli Efesini, 9,1). La Chiesa è il Corpo benedetto di Cristo dedicato a Dio che si offre come barriera a raccogliere i flagelli destinati ad ogni generazione. Nell'insulto che oggi ci toglierà l'onore; nella calunnia che ci metterà alla berlina; nella ribellione del figlio; nell'incomprensione del coniuge; nella tentazione della concupiscenza; nella malattia che ci indebolisce; nei fallimenti della missione; in tutto, si nasconde il flagello geloso di Dio che, da un lato ci purifica giorno dopo giorno, e dall'altro lacera il nostro corpo perché il mondo, il prossimo e anche il nemico, abbia accesso alla vita. La Chiesa completa nel suo corpo quello che manca alla Passione di Gesù, e proprio per questo è dedicata a Dio. L'autentica dedicazione infatti si realizza attraverso i colpi della flagellazione che rendono la Chiesa, paradossalmente, bella e senza macchia; ma è proprio attraverso le ferite profonde inferte dai flagelli che i flagellatori possono trovare un pertugio per il quale entrare nel Cielo. La vita della Chiesa, la nostra vita, è racchiusa nei tre giorni del mistero di Cristo, tra il flagello che strazia la carne, il dolore del parto, e la nascita di una vita nuova. Dedicati a Dio sin dal seno materno siamo chiamati a vivere in pienezza il mistero che dedica a Dio ogni uomo, anche il più lontano, perduto, dedicato al demonio e alle sue menzogne.