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sabato 12 giugno 2021

 


ACCOLTI NEL CUORE DI MARIA CHE E' LA COMUNITA' DOVE IMPARARE LA MITEZZA E L'UMILTA' DEL CUORE DI CRISTO
Celebriamo oggi il Cuore Immacolato della Vergine Maria. E' anche il cuore della Chiesa, il riflesso nella storia del cuore di Cristo. Esso è immacolato perché si ferma umilmente nello stupore di fronte al mistero di suo Figlio; perché non esige una risposta al suo "perché?". Chiede, vorrebbe capire, come è naturale, e in questo, come nella domanda "come è possibile?" rivolta all'arcangelo Gabriele, esprime quello che tutti abbiamo nel cuore. Ma Lei sa stupirsi e vi sa riporre le domande e le risposte avvolte nel mistero, per custodirle nella "meditazione" dischiusa sull'impossibile. Il cuore di Maria è immacolato perché è rimasto vergine come il suo corpo e la sua mente. L'infezione mondana non l'ha contaminato. Ha saputo fermarsi sul limite tracciato dall'incomprensione. E' qui il segreto della purezza. Eva, invece, sollecitata dal demonio, ha voluto spingersi oltre, e ha scoperto di "essere nuda"; aveva perduto l'innocenza che le faceva guardare senza malizia Dio, se stessa e Adamo. La sua mano distesa verso il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male aveva solo realizzato quanto già deciso nel suo cuore ormai impuro. Accettando il dialogo con il serpente, infatti, aveva aperto le sue porte. Le domande e le risposte l'avevano irretita nelle trame subdole della menzogna, e, senza rendersene conto, aveva fatto entrare e accomodare il demonio nel suo cuore. Eva lo aveva ascoltato, solo ascoltato eh, e così ha macchiato il suo cuore. Non ha saputo resistere alla possibilità prospettatale dal demonio di capire e conoscere come capisce e conosce Dio. E guarda come è finita... Guarda la televisione, scendi al bar, entra in ufficio, vai allo stadio; scendi nel tuo cuore, e in quello di tua moglie o di tuo marito, dei tuoi figli, di ogni persona che conosci. Guerre, violenze, dolore, e il male che si spande, e sembra non avere argini. E' bastato solo prestare attenzione alla voce del serpente, un momento, e la morte è entrata nel mondo, e anche oggi, proprio ora, o no? si è infilata nelle nostre storie macchiandole di dolore che niente e nessuno sa e può lenire. Quante volte accettiamo di dialogare con il demonio? Non si contano.
Cosa fare allora? Ce lo illumina il Vangelo di oggi. Ci racconta la vicenda di una famiglia: padre, madre e figlio. Come le nostre, si trova ad affrontare un momento importante, decisivo. Questa volta, il viaggio a Gerusalemme era speciale: si andava a celebrare la Bar Mitswa di Gesù: come ogni ragazzo ebreo, giunto ai dodici anni, va al Tempio per divenire "figlio della Legge". Per Maria si trattava di un nuovo parto: suo Figlio stava per entrare nel mondo degli adulti, e Lei era lì ad accompagnarlo, come quella notte a Betlemme. Non a caso i due momenti nei quali l'evangelista Luca afferma che "sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore" sono proprio quelli della nascita di Gesù e della sua Bar Mitswa a Gerusalemme. A Betlemme Maria ha partorito suo Figlio nel mondo, al Tempio lo doveva partorire all'obbedienza che accoglie e si sottomette alla volontà di Dio espressa nella Torah. Gesù era figlio di un Popolo diverso da tutti gli altri popoli, e come tale stava per entrare nell'arena della vita; cominciava per Lui il combattimento per non cedere come Eva alle menzogne con cui il demonio lo avrebbe tentato per strapparlo alla sua elezione, alla missione con cui avrebbe compiuto la volontà del Padre. Per questo doveva prendere la Torah come lampada per illuminare gli eventi che gli sarebbero accaduti, e indirizzare ogni suo passo sulle orme lasciate del Padre. Doveva imparare ad ascoltarla, a studiarla, a custodirla e a meditarla nel suo cuore, per difendersi con essa dai dardi infuocati del maligno. Cosa che avrebbe fatto puntualmente nella sua vita pubblica, quando, nel deserto, avrebbe fatto "tacere" il demonio attraverso la retta e autentica interpretazione della Parola di fronte ai fatti e alle tentazioni; e poi, smascherando la malizia satanica di scribi e farisei, e, infine, lottando nel Getsemani e sulla Croce, sotto la quale il demonio lo avrebbe aspettato per indurlo a scendere e vanificare la sua missione.
Per Maria e Giuseppe era il momento del distacco, passaggio fondamentale nella loro missione di trasmettere la fede: con la Bar Mitswa dovevano consegnare il loro Figlio alle sue responsabilità; lo avevano istruito, e avrebbero certo continuato a farlo, come si desume dal fatto che poi Gesù "partì con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso". Ma ora era Lui che doveva accogliere la Torah come il giogo per la sua vita. Diventava adulto legandosi totalmente ad essa, per camminare sul sentiero tracciato dai suoi comandamenti. L' "angoscia" di Maria inizia qui, nel suo cuore immacolato che comincia ad essere trapassato dalla spada; come quello di ogni madre di fronte al futuro adulto dei figli. Per la maggior parte delle madri, però, sono lo studio, il lavoro e il matrimonio che inquietano. In Maria, invece, risuonavano le parole della profezia di Simeone, pronunciate in quello stesso Tempio, dodici anni prima: "Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima". In quei giorni drammatici, i primi "pensieri del cuore" ad essere svelati erano i suoi, ed erano pensieri immacolati. Certamente Maria aveva intuito che quella di Gesù non era una Bar Mitswà come tutte le altre; era la Madre del Messia, questo lo sapeva bene: quel ragazzo era carne della sua carne, ma le era stato donato dallo Spirito Santo, non da un uomo. Per Lui aveva sofferto il dubbio di Giuseppe, e poi il disonore, le calunnie infamanti, il rifiuto e la fuga; c'era insomma una trama di dolore nella loro storia, ed era lì, nel suo "cuore immacolato" posto dinanzi al mistero rinnovato di suo Figlio. Insieme a Giuseppe lo avevano portato a Gerusalemme "secondo l'usanza"; ma nell'aria c'era qualcosa di diverso, stava per accadere il compimento definitivo della Legge: il suo Autore s'era fatto carne perché la Legge accogliesse lo Spirito; e quella carne era entrata nel Tempio, per "sedersi in mezzo ai dottori", il Maestro tra i maestri, per "ascoltare e interrogare" e così insegnare con "intelligenza", e "rispondere" a coloro che non avevano risposte. Ma ora, Lui non era con Lei. Che cosa era accaduto? Sì, sì, il suo "cuore" stava meditando e custodendo tutto, ma... ma quel Figlio le era sfuggito, "senza che se ne accorgesse".
Nonostante la storia, nonostante le parole di Gabriele, il rimanere incinta senza conoscere uomo, la gravidanza della sterile Elisabetta, la nascita nell'ultimo angolo del mondo, i pastori e i Magi; nonostante la profezia di Simeone e la benedizione di Anna, nonostante esserle stata accanto per dodici anni, nel suo "cuore" continuava a "crederlo nella carovana", e così "fa una giornata di viaggio" senza di Lui. Una lunghissima giornata nella quale avrà pensato a suo Figlio, ma sicuramente era a giocare con gli altri bambini della famiglia, tra "i parenti e i conoscenti", suvvia, mezza Nazaret era "salita a Gerusalemme" con loro. Ma qualcosa non andava; troppo lungo quel giorno senza vederlo, il suo "cuore immacolato" di madre cominciava a battere più forte, e non poteva più aspettare, e comincia a "cercarlo". Ma Maria doveva imparare ancora: non era nella carne che doveva "cercarlo". Anche questo fa un "cuore immacolato": "cerca" nella carne, negli affetti, nelle abitudini, nelle mappe dell'esistenza disegnate faticosamente con l'esperienza, quelle con le quali tutti cerchiamo di orientarci tra gli eventi e le persone; "cerca", e, "non avendolo trovato, torna in cerca di lui a Gerusalemme". Il "cuore immacolato" di Maria sa tornare sui suoi passi, accetta cioè di "non aver capito"; è disposto ad abbandonare il cammino di "ritorno" che conosceva per intraprendere umilmente un cammino nell'assurdo e nell'angoscia che non conosceva: lo avrebbe ritrovato o lo avrebbe perso per sempre? Per saperlo c'era una sola possibilità, tornare a Gerusalemme, laddove quel Figlio avrebbe compiuto la sua missione. Ma in quel momento Lei non poteva saperlo; doveva andare e basta, e un altro evento da "meditare e custodire" si sarebbe deposto nel suo "cuore". Ma ora, nel suo "cuore", c'era solo la lama della spada che vi si infilava sottile e acuminata, da schiantare... Ma era "immacolato" quel "cuore" di madre, nessuna menzogna, nessun dubbio, nessuna tentazione vi aveva lasciato traccia. Era "vergine", come il suo corpo, pronto cioè ad accogliere ancora la volontà di Dio, la sua Parola che le veniva incontro attraverso quel fatto drammatico. Era pronto a dire ancora "eccomi", e a lasciarsi trafiggere dalla storia, perché la conversione, ovvero il ritorno alla Verità, è lasciarsi spogliare di ogni certezza per entrare, "immacolati", nudi e indifesi, nella notte che segna il passaggio al giorno della risurrezione. Dopo "tre giorni", infatti, "trovarono Gesù nel Tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte". E' una profezia di ciò che, dopo la sua resurrezione, il Signore avrebbe compiuto nella sua Chiesa attraverso i secoli, sino ai confini della terra: colma dell' "intelligenza" della Croce, offrirà la "risposta" della resurrezione alla grande domanda di ogni uomo, quella che sorge impetuosa di fronte al dolore e alla morte.
E Maria era giunta proprio lì, dentro a quella profezia. Vi era "discesa", come in un catecumenato, per cercare suo Figlio, vi ha trovato il Messia Figlio di Dio che "deve occuparsi delle cose del Padre suo". No, non era una risposta comprensibile quella... Il suo "perché" le ritornava indietro insieme a un altro "perché". Non sei tu a doverci spiegare "perché ci hai fatto questo", ma noi a doverti dire "perché ti stavamo cercando"? Quale madre, di fronte a una risposta così, per di più al colmo dell'angoscia, non si adirerebbe? Ma come, ti chiedo di spiegarmi le ragioni della tua fuga, e tu mi rispondi che siamo io e tuo padre a "non capire"? Ma Maria tace. Il suo "cuore immacolato" accetta che non capisce e che non avrebbero dovuto cercarlo. E' il momento della fede, senza la quale nessuna Bar Mitswà è autentica. E Maria ha fede, e lascia andare suo Figlio, stringendo nel cuore quel mistero, nell'attesa umile che sia Dio, nel suo "cuore immacolato", a spiegarglielo, se, come e quando avrebbe voluto. Questa è la fede che purifica il cuore, perché possa vedere Dio in ogni evento. Ma vedere Dio significa lasciarsi "stupire dalla sua intelligenza e dalle sue risposte", anche quando non sono quelle che ci aspetteremmo o desidereremmo. Un "cuore immacolato" è quello di Maria, che non esige di capire, ma sa "vedere Dio" con gli occhi di Dio, cioè riesce a discernere il suo amore negli eventi e nelle persone perché si sente amata in ogni istante, e in ogni circostanza può amare e donarsi a ogni persona. Perché nella Scrittura la purezza non è mai fine a se stessa. Si è purificati, giustificati, perdonati per celebrare il culto, ovvero per vivere in comunione con Dio nell'amore a Lui e ai fratelli. Quante Bar Mitswà abbiamo celebrato con i nostri figli? Nessuna, probabilmente, e non perché non siamo ebrei. Quante volte ci siamo fermati dinanzi al loro mistero? O al mistero della moglie e de marito, del fidanzato e dell'amica, delle persone che ci sono accanto e dei fatti che siamo chiamati a vivere? Forse mai. Mai con il "cuore immacolato" di Maria. Noi vogliamo capire, esigiamo spiegazioni che rispondano alla nostra logica. Chiediamo negli altri la stessa intelligenza delle cose che abbiamo noi. Pretendiamo di condurre le persone e gli eventi. Siamo schiavi dei nostri "perché" che non trovano risposta; ci innervosiscono, ci adirano, ci deprimono, ci uccidono. Tuo figlio, non ti suscita mille "perché" al giorno? E non ti basta dire che anche tu da giovane eri come lui. No, ci sono atteggiamenti, parole, gesti incomprensibili. Peccati inaccettabili. E sul piano umano hai perfettamente ragione. Ma resta il fatto che tu, come tuo figlio, siete caduti preda del demonio. Vi siete attardati a discutere con lui come Eva, forse anche stamattina. E questo significa che il rapporto tra padre o madre e figlio, come ogni altro, è viziato all'origine, e le conseguenze sono sotto gli occhi. Manca un'apertura che lasci filtrare la speranza del Cielo, che ponga ogni relazione sul piano divino. Manca la fede, ovvero un "cuore immacolato". Anche di fronte al peccato inaccettabile dell'altro, c'è una possibilità diversa: l'amore che sgorga da un "cuore immacolato". Uno sguardo puro che veda Dio dove non si vede altro che il demonio e il male. Come cambierebbe il tuo modo di educare... Come cambierebbe il rapporto con gli altri... Ma è impossibile.
Sì, è impossibile agli uomini, ma non presso Dio. Impossibile a te e a me, ma non alla Chiesa, che è il corpo vivo del Figlio di Dio. In essa, alla scuola di Maria, possiamo imparare come Lei cosa sia pensare, discernere e amare con un "cuore immacolato"; con Lei, nutriti della Parola e dei sacramenti, attraverso i mille "perché" senza risposta e i dolori di spada che trafiggono l'anima, lasciare che Dio ci tolga il cuore di carne per far posto al "cuore immacolato". Non per nascita ma come un dono della Grazia. Un cuore capace di accompagnare i figli alla loro Bar Mitswà, quando scelgono la scuola, quando chiedono di uscire con gli amici, quando si fidanzano e si sposano, quando lavorano ed educano i loro figli. Un "cuore immacolato" e senza pregiudizi, che non dialoga con satana perché la Parola di Dio vi scaturisce come da una sorgente; che si ferma umilmente dinanzi alla soglia del mistero che ogni persona nasconde, all'opera spesso invisibile e impercettibile di Dio. Perché amare come Maria ha amato suo Figlio, significa amare innanzitutto la volontà di Dio in Lui, servire prima di ogni altra cosa l'opera del Padre nel Figlio. Per te e per me significa amare Dio più di tuo figlio, del tuo figlio nella carne, delle tue speranze e dei tuoi progetti, di tutto quello che si impara e si vive "nella carovana, tra parenti e conoscenti". Significa "tornare a Gerusalemme", al luogo del compimento di ogni vocazione, e "cercare" nel Tempio tuo figlio e ogni persona, ad "occuparsi delle cose del Padre suo". Perché se sei un cristiano, sei figlio della Vergine Maria, e anche a te è stata annunciata la stessa profezia di Simeone: anche tuo figlio ha un'elezione speciale, sarà un segno di contraddizione, e per questo, e non per altro, sarà trapassato anche oggi il tuo cuore da una spada. Capito? Tuo figlio, e tuo marito, tua moglie, la tua dolce fidanzata, il tuo simpatico fidanzato, o, se sei prete, i fratelli che ti sono affidati, chiunque è se stesso solo occupandosi delle cose di Dio! Concretamente, significa amare l'altro "distaccandosi" da lui, lasciandolo libero per Dio, perché chi non odia suo padre, sua madre, i suoi figli e anche la propria vita non può essere discepolo di Cristo. Significa educare e aiutare gli altri a compiere la volontà di Dio, prima di ogni altra cosa. Perché a chi cerca prima il Regno di Dio e la sua Giustizia, tutto sarà dato in aggiunta. Maria lo ha fatto, e ha "ritrovato" suo Figlio per l'eternità, dopo i "tre giorni" nei quali è scomparso nel sepolcro. Al punto di essere assunta in Cielo anche Lei senza passare per la tomba. Questo è il destino preparato per ogni "cuore immacolato", quello che Dio vuole donare a te e a me. In esso, come Maria, sapremo allora "meditare e custodire" i fatti e le persone che non comprendiamo e che la carne non accetta, anche quando ci scappano dalle mani e scendono in una tomba; per aspettare con fede che passino i tre giorni che preparano la risurrezione; per vedere in tutto e in tutti l'amore infinito di Dio, e così abbracciare ogni istante e ogni fratello nell'amore che ci ha raggiunto e salvato.
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venerdì 11 giugno 2021

 


TRAFITTI DALL'AMORE NEL CUORE DI CRISTO
Fratelli è arrivato per noi il “giorno solenne”, il giorno del compimento di ogni Parola della Scrittura. Osserviamo la scena del brano che la Chiesa ha scelto per celebrare la Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù. Pochi momenti prima Gesù aveva detto “tutto è compiuto”, e “chinato il capo” era “spirato”. Sotto la superficie delle normali operazioni per le condanne a morte per crocifissione in uso presso i romani, è celato proprio l’“adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell’universo”. E in che cosa consiste il “compimento della Scrittura” di cui Giovanni ci “dà testimonianza perché anche noi crediamo”? Che cosa “ha visto” di così decisivo al punto di mettersi in gioco con una “testimonianza” che afferma perentoriamente di essere “vera” perché suffragata dalla sua esperienza diretta e personale? Un cuore che ha smesso di battere trafitto da una lancia. Come? Tutta la Scrittura si compie in un morto? Sì fratelli, e proprio per questo oggi è il “giorno solenne”, il “grande sabato”, perché “l’Agnello ha redento il gregge, Cristo l’innocente ha riconciliato noi peccatori al Padre” (Inno “Alla Vittima Pasquale”). Quello indicato da Giovanni, infatti, era “il giorno della preparazione” della Pasqua, e quell’anno cadeva di “sabato”. Che strana coincidenza, proprio un “mistero”. “Shabbat” è il ”settimo giorno” in cui “Dio portò a termine la sua opera, e cessò ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò” (Gen 2,2-3). In questa benedizione e consacrazione la tradizione di Israele ha visto un’altra opera di Dio: “Dopo i sei giorni della creazione, che cosa mancava ancora nell’universo? La “menuchà”. Venne il Sabato, venne la menuchà, e l’universo fu completo” (da A. J Heshel, Il Sabato). Per Israele, dunque, il compimento dell’opera di Dio ha relazione con la “menuchà”, che non è un semplice riposo fisico: “che cosa è stato creato il settimo giorno? La tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Gen Rabbà, 10,9). Nel corso del tempo la “menuchà” divenne un sinonimo della vita dopo la morte, la sorgente dell’eternità”. Ma quel “sabato”, di certo la sera della sua vigilia perché gli ebrei contano i giorni iniziando dal loro vespro, era “solenne” perché coincideva con il giorno della “preparazione” della Pasqua, nel cui pomeriggio si sacrificavano gli agnelli pasquali. Sappiamo che Giovanni Battista vedendo Gesù venire verso di lui per farsi battezzare dice: “ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. Ed ecco dove è celato il “mistero” che oggi la Chiesa ci svela: in “quel “giorno solenne”, il sabato della “menuchà”, profezia e anticipo della vita eterna, è coinciso con il sacrificio di Cristo, l’agnello mite a cui “non è stato spezzato alcun osso”. Ciò significa che il “disegno eterno” di Dio era quello di ricondurci presso di Lui nel riposo del “giardino di Eden”, da dove ci “scacciò, perché lavorassimo il suolo da dove eravamo stato tratti” (Gen 3,23). E lo ha “attuato in Cristo Gesù nostro Signore”, che, offrendosi in sacrificio, “ci dà coraggio di avvicinarci a Dio per la fede in Lui”. Fratelli, non è oggi la nostra vita un faticosissimo “lavoro” con la testa china sul “suolo”, obbligati a contemplare la precarietà di cui siamo fatti? Possiamo oggi ripetere con Qoelet: “Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento. Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica... Quale profitto c'è per l'uomo in tutta la sua fatica e in tutto l'affanno del suo cuore? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte”. Non riusciamo proprio a “riposare” perché il nostro cuore è gravemente malato. Il demonio ci ha ingannato, e per questo oggi siamo fuori dal Paradiso. Il Dio della vita ci ha creati per essere “fecondi e moltiplicarci” e invece che cos’è oggi la nostra vita? No aspetta, non pensare che hai tanti figli e fai molte cose per gli altri; rifletti se per caso non stai giudicando un fratello, se hai pensato male di qualcuno, se hai parlato male di lui. Dai, che in questo, purtroppo, ci siamo dentro tutti. E chi non ama è nella morte dice San Giovanni. Ma proprio per questo egli “ha visto” in Gesù morto e trafitto dalla lancia il segno del compimento della Scrittura.
“Era già morto”, era già entrato nella nostra situazione; aveva cioè già oltrepassato la barriera che ci separava dalla vera vita; e proprio in quel momento, “il colpo di lancia squarciò il suo cuore, e dalla sacca del pericardio uscì sangue ed acqua. Da tale dettaglio si deduce che Gesù era morto di crepacuore o di infarto, o più esattamente di “emopericardio postinfartuale” come spiegano i medici esperti di sindonologia” (S.A. Panimolle). Come il velo del Tempio nell’istante della sua morte, il suo cuore si era squarciato per amore, per dischiuderci le porte del Santo dei Santi, l'unico luogo dove si poteva chiamare Dio per nome. Questo amore fratelli, è il “mistero” nascosto agli intelligenti e ai sapienti di questo mondo che la Chiesa ci rivela oggi. Un amore che ha spezzato il cuore di Cristo perché la morte lo potesse afferrare per deporlo accanto a noi. E morto nella nostra morte ha lasciato che la “lancia” affilata da tutti i nostri peccati “aprisse” lo scrigno dove custodiva i suoi tesori di Grazia preparati per noi. Doveva essere “già morto” per effondere su di noi il “sangue” della sua vita offerta per lavare i nostri peccati, e “l’acqua”, immagine nel Vangelo di Giovanni dello Spirito Santo. Sant’Ippolito scriveva: “per mezzo del sangue noi abbiamo l’acqua dello Spirito”, perché solo dopo che il sangue di Gesù ha sradicato in noi la radice del peccato che ci ha fatto morire, possiamo rinascere con Lui e ricevere la vita nuova dello Spirito Santo: “Come il fianco di Adamo fu toccato da Dio durante il sonno, così Cristo ci ha dato il sangue e l’acqua durante il sonno della sua morte. Vedete in che modo Cristo unì a sé la sua Sposa, vedete con quale cibo ci nutre. Per il suo sangue nasciamo, con il suo sangue alimentiamo la nostra vita. Come la donna nutre il figlio col proprio latte, così Cristo nutre costantemente col suo sangue coloro che ha rigenerato” (San Giovanni Crisostomo). Allora coraggio fratelli, qualunque sia oggi la nostra situazione, non dobbiamo far altro che “guardare a Colui che abbiamo trafitto”. Giovanni cita un passo del Profeta Zaccaria che parla della contemplazione di un “trafitto” dal quale si sarebbe “riversato su Gerusalemme” e su tutti “uno spirito di grazia e di consolazione” (cfr. Zc 12,10). Il profeta si riferisce alla morte violenta del re Giosia, che Dio ha lasciato giustiziare dagli egiziani, nonostante “prima e dopo di lui non fosse esistito nessun re che come lui si era convertito al Signore” (cfr. 2 Cr. 35,1ss). L’evangelista ha visto in lui la profezia dell’Agnello di Dio che, innocente, si è lasciato trafiggere dalle nostre iniquità. E l’ha vista compiuta in “quel sabato solenne” che oggi ci viene incontro con questa Solennità. Ancora oggi gli ebrei il venerdì sera pregano dicendo “accoglici sotto la tenda della tua pace”. Gesù è ora accanto a ciascuno di noi, ha posto la sua “tenda” nel nostro matrimonio, nella malattia e nei fallimenti; si è fatto peccato e maledizione perché i nostri peccati e la morte non ci impedissero di essere accolti “sotto la tenda della sua pace”. Lo abbiamo già trafitto, vero? Allora, per entrare nel Sabato eterno che abbiamo perduto, basta solo inginocchiarsi come il soldato nel film di Mel Gibson, e lasciarsi bagnare e pervadere sin dentro il nostro cuore dal “sangue” e dall’“acqua” che, nei sacramenti, sgorgano dal suo cuore. Così, il suo stesso cuore batterà in noi, la nostra carne sarà irrorata dal suo sangue, e Cristo sarà vivo in ogni istante della nostra vita. Allora potremo compiere nell’amore sino alla morte tutta la Scrittura, perché il prossimo possa contemplare in noi Colui che ha trafitto, e conoscere così il disegno di salvezza che Dio ha per lui.

giovedì 3 giugno 2021

 


IL DISCERNIMENTO PER CAMMINARE VERSO IL CIELO E' POSSIBILE SOLO IN CRISTO ATTRAVERSO LA COMUNITA'
Ci svegliamo un giovedì di giugno, stiamo per infilarci in uno dei tanti normalissimi giorni dell'anno, e forse non immaginiamo che oggi può diventare un giorno decisivo. Vediamo perché. Nel Vangelo appare di nuovo qualcuno che "si accosta a Gesù" per fargli una domanda. Ma stavolta sembra che ci sia qualcuno che cerchi davvero una risposta: "qual'è il primo di tutti i comandamenti?". In mezzo a tante domande trabocchetto finalmente ecco l'unica importante, alla cui risposta “nessuno oserà più interrogarlo”, neppure noi. Il termine "comandamento" ne traduce diversi ebraici che tra l’altro significano "una parola che affida un incarico". Secondo la tradizione di Israele, i comandamenti sono sempre "parole di vita, il cammino che conduce alla riuscita della vita attraverso il compimento della missione affidata. Lo vediamo anche in italiano: “co - mandare”, ovvero “mandare, inviare con” un incarico. La domanda dello “scriba” può dunque significare: "Che cos'è decisivo e fondamentale nella vita? Quale è il cuore della missione che mi è affidata? Tra le tante che sento ogni giorno, qual'è la Parola che mi guida verso il Regno di Dio?".
La nostra vita, infatti, è come una freccia scoccata dall'arco verso un obiettivo ben preciso. "Chet", uno dei termini ebraici che esprime il concetto di “peccato” significa "fallire il bersaglio"; in greco è tradotto con “hamartia”, che significa letteralmente “direzione sbagliata di vita”. Il peccato è dunque il fallimento dei propri obiettivi, un cammino contrario al compimento della propria vita. S. Agostino considera il peccato come un "bene che non ha raggiunto il suo fine". Secondo il Concilio Vaticano II è “una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza”. E’ quello che diciamo tante volte, magari senza accorgercene: “che peccato!”…
Allora, chiedendo a Gesù quale sia il primo dei comandamenti, lo scriba è l’immagine di quella parte del nostro intimo che non è contaminata dalla menzogna. Anche oggi dovremo affrontare situazioni difficili e relazioni complicate, e potremmo reagire ribellandoci a Dio, oppure potremmo “ascoltare” questo Vangelo e convertirci, ovvero lasciare che “lo scriba saggio” che è in noi si “avvicini” a Gesù per chiedergli: “Signore, ti prego illuminami, che cosa c’è dietro a quello che mi accade? Qual’è il fondamento sul quale appoggiare i miei pensieri, le mie parole e i miei gesti per compiere la missione alla quale oggi mi chiami?”.
Scopriremmo allora che questo giorno non è uno dei tanti usciti alla roulette della vita, ma è unico e irripetibile, e che ci è donato per fondare noi stessi sull’amore di Dio e così compiere l’incarico concreto che ci è affidato. Se sapremo porre umilmente a Gesù la domanda giusta e accogliere altrettanto umilmente la sua risposta, sapremo anche noi come lo scriba “rispondere saggiamente”, cioè amando, agli eventi e alle persone che oggi ci chiederanno risposte concrete in parole e gesti.
Gesù infatti ci risponderà che “il primo dei comandamenti” è un fatto, una verità che Dio stesso ha rivelato compiendola: Lui è l’unico Signore della nostra vita. Se questo fondamento scompare, l’amore verso di Lui e verso il prossimo che ne consegue diventa incomprensibile e quindi impossibile. Come si fa ad amare chi non si conosce? E tu lo conosci Dio? E’ facile rispondere: basta vedere se nella tua vita è “il primo” e “l’unico Signore”. No vero? Allora “ascolta!”: Dio ti ama così come sei! Ti ama oggi che ti sei svegliato schiavo di te stesso e della tua paura di morire. Ti ama infinitamente, come nessuno ti ha mai amato.
Lo credi? Forse no, non sino in fondo almeno, perché non abbiamo ancora accettato di essere anche noi i peccatori che hanno crocifisso Cristo. Agiamo “per ignoranza” come quelli che scelsero Barabba, incapaci di comprendere che “il primo di tutti i comandamenti” si stava compiendo dinanzi a loro in quel Messia che si faceva Agnello. Ma non potevano comprenderlo senza riconoscere di essere peccatori, e che proprio per loro era necessario quell’Agnello, “l’unico” che potesse prendere su di sé i loro delitti e perdonarli. Perché l’amore a Dio e al prossimo è “il primo di tutti i comandamenti” solo per chi ha sperimentato di non poter amare a causa dei propri peccati e ha accettato di aver bisogno che Cristo lo perdoni e lo colmi del suo amore.
Così è stato per lo scriba che ha compreso che l’amore “val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Egli certo ricordava il Salmo 40: “Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: Ecco, io vengo, sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore”. Sapeva quindi di non poter fondare la propria vita sugli “olocausti”, e che i “sacrifici” offerti per il peccato non potevano di cambiare il suo cuore. Per questo Gesù dice allo scriba che ha “risposto con sapienza” e che “non è lontano dal Regno di Dio”. Non vi era ancora entrato, ma “aprendo gli orecchi” per “ascoltare” la Parola perché si incidesse nel suo cuore, era giunto alle sue porte. Voleva compiere la volontà di Dio e in questo “desiderio” incontra nel suo intimo Gesù che, come leggiamo nella Lettera agli Ebrei, aveva lo stesso “desiderio”. Proprio perché era “impossibile cancellare i peccati con i sacrifici… entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato”.
Con la sua saggia risposta lo scriba aveva deposto il suo desiderio nel desiderio di Gesù. Per entrare nel Regno non gli restava che accogliere lo Shemà compiuto per lui da Gesù, il “comandamento” che, nell’amore perfetto a Dio e al prossimo, “valeva più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Coraggio fratelli, oggi si schiude dinanzi a noi il Regno di Dio! Possiamo entrarvi attraverso la porta che è Cristo crocifisso, attraverso cioè gli eventi che ci crocifiggono perché solo in essi Egli potrà compiere in noi il “comandamento più grande”: amare Dio che “non vediamo”, quando sperimentiamo perfino l’abbandono del Padre, amando il prossimo che “vediamo”, debole e peccatore per dire con Cristo “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”