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venerdì 11 giugno 2021

 


TRAFITTI DALL'AMORE NEL CUORE DI CRISTO
Fratelli è arrivato per noi il “giorno solenne”, il giorno del compimento di ogni Parola della Scrittura. Osserviamo la scena del brano che la Chiesa ha scelto per celebrare la Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù. Pochi momenti prima Gesù aveva detto “tutto è compiuto”, e “chinato il capo” era “spirato”. Sotto la superficie delle normali operazioni per le condanne a morte per crocifissione in uso presso i romani, è celato proprio l’“adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell’universo”. E in che cosa consiste il “compimento della Scrittura” di cui Giovanni ci “dà testimonianza perché anche noi crediamo”? Che cosa “ha visto” di così decisivo al punto di mettersi in gioco con una “testimonianza” che afferma perentoriamente di essere “vera” perché suffragata dalla sua esperienza diretta e personale? Un cuore che ha smesso di battere trafitto da una lancia. Come? Tutta la Scrittura si compie in un morto? Sì fratelli, e proprio per questo oggi è il “giorno solenne”, il “grande sabato”, perché “l’Agnello ha redento il gregge, Cristo l’innocente ha riconciliato noi peccatori al Padre” (Inno “Alla Vittima Pasquale”). Quello indicato da Giovanni, infatti, era “il giorno della preparazione” della Pasqua, e quell’anno cadeva di “sabato”. Che strana coincidenza, proprio un “mistero”. “Shabbat” è il ”settimo giorno” in cui “Dio portò a termine la sua opera, e cessò ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò” (Gen 2,2-3). In questa benedizione e consacrazione la tradizione di Israele ha visto un’altra opera di Dio: “Dopo i sei giorni della creazione, che cosa mancava ancora nell’universo? La “menuchà”. Venne il Sabato, venne la menuchà, e l’universo fu completo” (da A. J Heshel, Il Sabato). Per Israele, dunque, il compimento dell’opera di Dio ha relazione con la “menuchà”, che non è un semplice riposo fisico: “che cosa è stato creato il settimo giorno? La tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Gen Rabbà, 10,9). Nel corso del tempo la “menuchà” divenne un sinonimo della vita dopo la morte, la sorgente dell’eternità”. Ma quel “sabato”, di certo la sera della sua vigilia perché gli ebrei contano i giorni iniziando dal loro vespro, era “solenne” perché coincideva con il giorno della “preparazione” della Pasqua, nel cui pomeriggio si sacrificavano gli agnelli pasquali. Sappiamo che Giovanni Battista vedendo Gesù venire verso di lui per farsi battezzare dice: “ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. Ed ecco dove è celato il “mistero” che oggi la Chiesa ci svela: in “quel “giorno solenne”, il sabato della “menuchà”, profezia e anticipo della vita eterna, è coinciso con il sacrificio di Cristo, l’agnello mite a cui “non è stato spezzato alcun osso”. Ciò significa che il “disegno eterno” di Dio era quello di ricondurci presso di Lui nel riposo del “giardino di Eden”, da dove ci “scacciò, perché lavorassimo il suolo da dove eravamo stato tratti” (Gen 3,23). E lo ha “attuato in Cristo Gesù nostro Signore”, che, offrendosi in sacrificio, “ci dà coraggio di avvicinarci a Dio per la fede in Lui”. Fratelli, non è oggi la nostra vita un faticosissimo “lavoro” con la testa china sul “suolo”, obbligati a contemplare la precarietà di cui siamo fatti? Possiamo oggi ripetere con Qoelet: “Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento. Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica... Quale profitto c'è per l'uomo in tutta la sua fatica e in tutto l'affanno del suo cuore? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte”. Non riusciamo proprio a “riposare” perché il nostro cuore è gravemente malato. Il demonio ci ha ingannato, e per questo oggi siamo fuori dal Paradiso. Il Dio della vita ci ha creati per essere “fecondi e moltiplicarci” e invece che cos’è oggi la nostra vita? No aspetta, non pensare che hai tanti figli e fai molte cose per gli altri; rifletti se per caso non stai giudicando un fratello, se hai pensato male di qualcuno, se hai parlato male di lui. Dai, che in questo, purtroppo, ci siamo dentro tutti. E chi non ama è nella morte dice San Giovanni. Ma proprio per questo egli “ha visto” in Gesù morto e trafitto dalla lancia il segno del compimento della Scrittura.
“Era già morto”, era già entrato nella nostra situazione; aveva cioè già oltrepassato la barriera che ci separava dalla vera vita; e proprio in quel momento, “il colpo di lancia squarciò il suo cuore, e dalla sacca del pericardio uscì sangue ed acqua. Da tale dettaglio si deduce che Gesù era morto di crepacuore o di infarto, o più esattamente di “emopericardio postinfartuale” come spiegano i medici esperti di sindonologia” (S.A. Panimolle). Come il velo del Tempio nell’istante della sua morte, il suo cuore si era squarciato per amore, per dischiuderci le porte del Santo dei Santi, l'unico luogo dove si poteva chiamare Dio per nome. Questo amore fratelli, è il “mistero” nascosto agli intelligenti e ai sapienti di questo mondo che la Chiesa ci rivela oggi. Un amore che ha spezzato il cuore di Cristo perché la morte lo potesse afferrare per deporlo accanto a noi. E morto nella nostra morte ha lasciato che la “lancia” affilata da tutti i nostri peccati “aprisse” lo scrigno dove custodiva i suoi tesori di Grazia preparati per noi. Doveva essere “già morto” per effondere su di noi il “sangue” della sua vita offerta per lavare i nostri peccati, e “l’acqua”, immagine nel Vangelo di Giovanni dello Spirito Santo. Sant’Ippolito scriveva: “per mezzo del sangue noi abbiamo l’acqua dello Spirito”, perché solo dopo che il sangue di Gesù ha sradicato in noi la radice del peccato che ci ha fatto morire, possiamo rinascere con Lui e ricevere la vita nuova dello Spirito Santo: “Come il fianco di Adamo fu toccato da Dio durante il sonno, così Cristo ci ha dato il sangue e l’acqua durante il sonno della sua morte. Vedete in che modo Cristo unì a sé la sua Sposa, vedete con quale cibo ci nutre. Per il suo sangue nasciamo, con il suo sangue alimentiamo la nostra vita. Come la donna nutre il figlio col proprio latte, così Cristo nutre costantemente col suo sangue coloro che ha rigenerato” (San Giovanni Crisostomo). Allora coraggio fratelli, qualunque sia oggi la nostra situazione, non dobbiamo far altro che “guardare a Colui che abbiamo trafitto”. Giovanni cita un passo del Profeta Zaccaria che parla della contemplazione di un “trafitto” dal quale si sarebbe “riversato su Gerusalemme” e su tutti “uno spirito di grazia e di consolazione” (cfr. Zc 12,10). Il profeta si riferisce alla morte violenta del re Giosia, che Dio ha lasciato giustiziare dagli egiziani, nonostante “prima e dopo di lui non fosse esistito nessun re che come lui si era convertito al Signore” (cfr. 2 Cr. 35,1ss). L’evangelista ha visto in lui la profezia dell’Agnello di Dio che, innocente, si è lasciato trafiggere dalle nostre iniquità. E l’ha vista compiuta in “quel sabato solenne” che oggi ci viene incontro con questa Solennità. Ancora oggi gli ebrei il venerdì sera pregano dicendo “accoglici sotto la tenda della tua pace”. Gesù è ora accanto a ciascuno di noi, ha posto la sua “tenda” nel nostro matrimonio, nella malattia e nei fallimenti; si è fatto peccato e maledizione perché i nostri peccati e la morte non ci impedissero di essere accolti “sotto la tenda della sua pace”. Lo abbiamo già trafitto, vero? Allora, per entrare nel Sabato eterno che abbiamo perduto, basta solo inginocchiarsi come il soldato nel film di Mel Gibson, e lasciarsi bagnare e pervadere sin dentro il nostro cuore dal “sangue” e dall’“acqua” che, nei sacramenti, sgorgano dal suo cuore. Così, il suo stesso cuore batterà in noi, la nostra carne sarà irrorata dal suo sangue, e Cristo sarà vivo in ogni istante della nostra vita. Allora potremo compiere nell’amore sino alla morte tutta la Scrittura, perché il prossimo possa contemplare in noi Colui che ha trafitto, e conoscere così il disegno di salvezza che Dio ha per lui.

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