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martedì 25 giugno 2013

Maria tra teologia e pastorale (Giovanni Tangorra)



Punti consolidati per una corretta teologia mariana sono il suo fondamento cristologico e il riferimento ecclesiale. Le affermazioni di Lumen gentiumMarialis cultus e Redemptoris mater. Il culto liturgico e popolare, luoghi importanti per la pastorale. L’opportunità offerta dal mese di maggio.
Un punto ormai stabilito per fare una corretta teologia mariana è il fondamento cristologico. Rahner è perentorio: «Chi non condivide la fede cattolica, secondo la quale il Verbo di Dio si fece uomo nella carne di Adamo per inserire il mondo nella vita di Dio e redimerlo, non può comprendere il dogma mariano cattolico» (Saggi di cristologia e di mariologia, Roma 19672, 416). Anche per il Catechismo della chiesa cattolica, «ciò che la fede cattolica crede riguardo a Maria si fonda su ciò che essa crede riguardo a Cristo» (n. 487). Così è stato nella storia dei dogmi a partire dal riconoscimento della theotokos, così è se si guarda alla Scrittura. Nel mistero della salvezza che si è compiuto con l’incarnazione, il Verbo ha scelto la mediazione di una donna: «Nacque da donna» (Gal 4,4), mediazione non puramente strumentale, ma che ha richiesto il libero consenso della donna di Nazaret.

La chiave cristologica guida l’ispirazione conciliare sui diversi titoli mariani, compreso il più discusso della «mediatrice», spesso associato a quello di «corredentrice». Preso in senso lato, questo secondo riconoscimento non fa problema, visto che lo si può applicare anche ad ogni cristiano. La questione si sposta sul linguaggio (ambiguo) e sul modo di precisare la natura specifica di questo ruolo. Nonostante la consistente richiesta di molti padri per una definizione del titolo, il concilio ha rifiutato di adoperarlo, preferendo quelli più sfumati, ma non meno carichi di significato, di «cooperatrice» o di «associata alla redenzione». Sono però intesi in senso eminente e «a titolo assolutamente unico» (Lumen gentium, 61), per questo, nel mistero della chiesa, Maria occupa «il primo posto» (n. 63).
Presente è invece quello di «mediatrice» dei doni della grazia, però con la costante preoccupazione di non generare equivoci, ribadendo i termini condizionanti della fondazione cristologica: «La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce l’unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l’efficacia» (n. 60). Maria non si frappone tra Cristo e i fedeli, ma tutto in lei parte da Cristo ed è a lui finalizzato. Una volta stabilito questo principio ermeneutico, il concilio intende la funzione mediatrice non solo in riferimento al passato, bensì in senso perenne: «Difatti, anche dopo la sua Assunzione in cielo, non ha interrotto deposto questa funzione salvifica, ma con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna» (n. 62).
Nella Marialis cultus, Paolo VI adopera una volta sola il titolo di «mediatrice», mentre nella Redemptoris mater, Giovanni Paolo II ne parla più volte, indicandone l’originalità nella linea materna: «Maria si pone tra suo Figlio e gli uomini nella realtà delle loro privazioni, indigenze e sofferenze. Si pone «in mezzo», cioè fa da mediatrice non come un’estranea, ma nella sua posizione di madre» (n. 21). Il pontefice ribadisce però che «tale cooperazione è mediazione subordinata alla mediazione di Cristo» (n. 39).
È vero comunque che, col passare del tempo, quasi dando per scontato tale presupposto, la predicazione (teologica e pastorale) dei contenuti si è spesso staccata dal “centro”, sviluppandosi in modo indipendente. Si è così potuto giungere a porre la «Madre» accanto al «Figlio», come se si trattasse di due punti focali equivalenti, oppure direttamente di fronte al Padre quasi fosse una seconda linea di mediazione. Considerando l’ambito trinitario, ancora più problematico è il rapporto con lo Spirito Santo. La denuncia di Congar che, in un capitolo della sua trilogia pneumatologica, sostiene che molti aspetti e qualità dello Spirito sono stati trasportati alla Madonna, merita di essere approfondita.

Un modello per l’umanità
Un altro difetto in cui è incorsa la mariologia (o marialogia) è di aver prodotto un’esaltazione spesso astratta, perdendo il contatto storico con la vicenda personale della giovane ebrea di Nazaret. La riflessione odierna, contraddicendo il luogo comune che vorrebbe i vangeli cauti e discreti, sta qui trovando nuova linfa, anche se a volte si incorre nel difetto contrario di trascurare gli aspetti propriamente teologici. Così come viene tracciato nei vangeli canonici, il profilo esistenziale di Maria si rivela dinamico, offre diversi punti di consonanza con valori contemporanei, tracciando un modello antropologico attuale. Penso soprattutto al ruolo della donna e alla solidarietà sociale.
Alcune letterature femministe hanno rivolto severe critiche alla devozione mariana, considerandola motivo di alienazione. L’osservazione è vera quando, condizionati dalla cultura corrente, si è voluto rinchiudere Maria nelle qualità esclusive di vergine e madre, vedendo la prima solo nel suo aspetto biologico e la seconda nei termini della “casalinga” confinata nel mondo domestico. Il passaggio spirituale consisteva nell’idealizzare questi ruoli. Eppure, senza per niente forzare i testi, il primo impatto che si riceve dalla descrizione evangelica è quella di una donna che Dio stesso vuole autonoma, soggetto attivo delle proprie decisioni, capace di scelte libere e responsabili.
Il sì dell’annunciazione, pronunciato non senza un serrato dialogo in cui Maria ha avuto il coraggio di presentare il proprio punto di vista, mostra un aspetto importante dell’economia salvifica che è il rapporto tra la volontà divina e la libertà umana. La scena, presentata non con colori tenui ma con quelli del dramma, indica il coraggio di questa donna che non va a chiedere consigli al marito su ciò che deve fare, ma assume da sé le conseguenze della personale risoluzione. Scrive Paolo VI: «La donna contemporanea, desiderosa di partecipare con potere decisionale alle scelte della comunità, contemplerà con intima gioia Maria che, assunta al dialogo con Dio, dà il suo consenso attivo e responsabile non alla soluzione di un problema contingente, ma a quell’opera di secoli, come è stata giustamente chiamata l’incarnazione del Verbo […]. Così constaterà con lieta sorpresa che Maria di Nazaret, pur completamente abbandonata alla volontà del Signore, fu tutt’altro che donna passivamente remissiva» (Marialis cultus, 37).
Parlare di sensibilità sociale in Maria dà l’immediata sensazione di essere condizionati dall’orientamento odierno, ritornando al procedimento deduttivo che si denunciava per il passato. L’influsso culturale è inevitabile in teologia, tuttavia è suo compito ascoltare le voci del tempo, ricavando dalla verità cose nuove. Paolo VI parla dell’amore «operante della Vergine a Nazaret, nella casa di Elisabetta, a Cana, sul Golgota», che deve portare la chiesa a condividere l’ansia materna «nella sua cura per gli umili, i poveri, i deboli, nell’impegno costante per la pace e per la concordia sociale, nel prodigarsi perché tutti gli uomini abbiano parte alla salvezza, meritata per loro dalla morte di Cristo» (ivi, 28).
Il Magnificat esercita in questo campo una forte attrazione. La lettura storico-sociale è ermeneuticamente corretta quando lo si legge attraverso le categorie della soteriologia giudaica. L’ebreo che attendeva il Messia non si aspettava da lui solo un regno spirituale, chiuso nei cuori, ma una liberazione globale in grado di rendere particolare giustizia alle vittime della storia.
Il documento dei vescovi latino-americani di Puebla (1979) dà spunti interessanti, ma anche Giovanni Paolo II nella Redemptoris mater, quando scrive che l’amore preferenziale della chiesa nei confronti dei poveri «è inscritto mirabilmente nel Magnificat di Maria […] Attingendo dal cuore di Maria, dalla profondità della sua fede, espressa nelle parole del Magnificat, la chiesa rinnova sempre meglio in sé la consapevolezza che non si può separare la verità su Dio che salva, su Dio che è fonte di ogni elargizione, dalla manifestazione del suo amore di preferenza per i poveri e gli umili» (n. 37).

Il modello della chiesa
La principale innovazione del concilio è di aver privilegiato ciò che è chiamata la linea ecclesiotipica. Anziché vedere Maria solo nel suo esclusivo rapporto con Cristo (linea cristotipica), ponendola fuori-sopra la chiesa, si è voluto inserirla in essa. Ciò ha determinato la nota operazione di inserire il capitolo mariologico all’interno della costituzione ecclesiologica, anziché farne un documento a parte come desiderava una maggioranza considerevole di padri (1.074 su 2.188). L’idea rispetta la convinzione dei padri. Nel Discorso 72/A, Agostino scrive: «Maria è una parte della chiesa, un membro santo, eccellente, superiore a tutti gli altri, ma tuttavia un membro di tutto il corpo. Se è un membro di tutto il corpo, senza dubbio più importante d’un membro è il corpo. Il capo è il Signore, e capo e corpo formano il Cristo totale. Che dire? Abbiamo un capo divino, abbiamo Dio per capo» (n. 7)
La Lumen gentium propone Maria «quale membro sovreminente e singolarissimo (della chiesa), sua figura e modello eccellentissimo nella fede e nella carità» (n. 53). Il termine modello, da intendere sul piano dell’esempio e della conseguente imitazione, è ricorrente nella Marialis cultus: «I fedeli sono invitati ad assumerla come modello» (n. 4); la Vergine è modello del nuovo popolo di Dio» (n. 7), modello nella vita spirituale e nel culto, «eccellentissimo modello della chiesa nell’ordine della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo» (n. 16). Nella sua adesione piena alla volontà del Padre, all’opera redentrice del Figlio e alla comunione con lo Spirito, ella è tipo di ciò che la chiesa è ed è chiamata a diventare.
Modello in tutte le sue scelte, di Maria primeggia la fede: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). È con fede che ella ascolta e accoglie l’annuncio, che accompagna il mistero degli eventi e delle parole del Figlio custodendoli nel cuore (Lc 2,19). Una fede al tempo stesso gravosa, che ha conosciuto il dubbio e l’esercizio di una maternità «oscura e dolorosa» (Redemptoris mater, 16). Basta anche solo la potente espressione evocatrice dello stabat mater: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre [...]» (Gv 19,25), luogo in cui Giovanni, al di là delle diverse interpretazioni esegetiche che si possono fare, inserisce un significativo episodio che serve a indicare la presenza della «madre».
La tradizione ha inteso come un riconoscimento alla fede di Maria due episodi evangelici, quello in cui Gesù dice: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50) e quello in cui, rispondendo a una donna che benediva chi l’aveva generato, dice: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28).
Commentando questi due brani, Agostino, nel medesimo discorso sopra citato, scrive: «Non fece forse la volontà del Padre la vergine Maria, la quale per la fede credette, per la fede concepì, fu scelta perché da lei la salvezza nascesse per noi tra gli uomini, e fu creata da Cristo prima che Cristo fosse creato nel suo seno? Santa Maria fece la volontà del Padre e la fece interamente; e perciò vale di più per Maria essere stata discepola di Cristo anziché madre di Cristo; vale di più, è una prerogativa più felice essere stata discepola anziché madre di Cristo. Maria era felice poiché, prima di darlo alla luce, portò nel ventre il Maestro […]. È per questo che Maria fu beata, poiché ascoltò la parola di Dio e la mise in pratica. Custodì la verità nella mente più che la carne nel ventre. La verità è Cristo, la carne è Cristo: Cristo verità nella mente di Maria, Cristo carne nel ventre di Maria; vale di più ciò che è nella mente anziché ciò che si porta nel ventre. Santa è Maria, beata è Maria».
Che Maria sia nella chiesa un membro privilegiato «che primeggia tra gli umili e i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza» (Catechismo della chiesa cattolica, 489), non impedisce alla chiesa stessa di guardare a lei «anche come a colei che le è stata data come madre da Cristo» (ivi, 970). Essere nella chiesa non significa che in essa non si possano esercitare ruoli e funzioni specifiche. Quello di Maria è la maternità spirituale, di essere la «madre nostra», un’estensione naturale del titolo cristologico di «madre di Cristo». I padri lo richiamano collegando la figura di Maria a quello della nuova Eva, parallelismo presente già in Giustino. Una delle pagine di cronaca conciliare è stata la proclamazione di Maria, Madre della chiesa, celebrata da Paolo VI il 21 novembre 1964, nello stesso giorno in cui si promulgava la Lumen gentium, ricevendo in questo l’approvazione di tutta l’assemblea dei padri.

Il culto mariano
Le considerazioni finora condotte, sul piano della cristologia, dell’antropologia e dell’ecclesiologia, trovano il loro naturale esito nella riflessione sul culto, liturgico e popolare, due luoghi molto importanti per l’azione pastorale.
Il rapporto liturgia-marialogia si rivela molto fecondo, al punto da poter dire che il contributo della prima è persino superiore a quello che può aver attuato la teologia. Basti pensare all’importanza di alcune feste per il dogma, come quella della Concezione di Maria, presente già nell’VIII secolo, o quella dell’Assunzione (o Dormizione) conosciuta prima del 600. Due delle testimonianze più antiche di preghiera mariana sono il tropario Sub tuum praesidium, di origine pre-efesina, e l’inno liturgico dell’Akáthistos, termine che letteralmente significa «in piedi», segno della venerazione con cui doveva essere cantato. In esse i riferimenti teologici sono numerosi.
Indicazioni di rinnovamento si trovano in Sacrosanctum concilium 103, ma il riferimento principale resta la Marialis cultus. Paolo VI traccia un panorama interpretativo delle feste liturgiche, riporta i diversi riferimenti presenti nel Messale romano e nelle preghiere eucaristiche, scorre i testi del Lezionario e della liturgia delle ore. Lo fa mostrando l’intreccio tra lex orandi e lex credendi, indicando accorgimenti metodologici: la continuità con il passato, l’adesione al tesoro della Scrittura e dei padri, l’esigenza di seguire gli sviluppi teologici più recenti.
La tipologia del culto, che Tommaso chiama di iperdulia, è descritta dal papa con un linguaggio dinamico e più pastorale, carico di caratteristiche fatte derivare dai diversi titoli mariani: venerazione profonda, amore ardente, fiduciosa invocazione, servizio di amore, operosa imitazione, commosso stupore (n. 22). Un aspetto poco considerato, che Paolo VI mette poi in evidenza, ricavandolo dalla nuova riflessione sulla relazione ecclesiologica, è di indicare Maria «modello dell’atteggiamento spirituale con cui la chiesa celebra e vive i divini misteri». Il tema tocca otto numeri (16-23) che tracciano una quasi biografia della «vergine in preghiera», documentata con episodi biblici.
L’aspetto più discusso riguarda la devozione popolare, espressione che già di per sé solleva problemi e spesso molte critiche ingiuste. Se si deve sottolineare un suo pregio, questo consiste nel fatto che, nonostante alcune deformazioni, le molte forme di tale devozione sono riuscite a mantenere in stretto contatto la figura di Maria e il vissuto della famiglia umana, la fede e le emozioni, il linguaggio spesso astratto degli esperti e quello immediato degli strati più popolari. L’osservazione vale anche per altri ambiti, come quello più delicato dell’eucaristia, dove non è difficile documentare che proprio la devozione popolare ha provveduto a riempire vuoti creati dagli orientamenti ufficiali. Il fatto che ciò sia stato perseguito a discapito della correttezza teologica o della liturgia è un problema che, oltre a un attento discernimento culturale, dovrebbe mettere in discussione i responsabili di queste due discipline.
Le devozioni popolari costituiscono un bacino per la pastorale facendola arrivare lì dove altri strumenti dell’evangelizzazione non riescono ad arrivare, purché si riesca a cogliere il nucleo profondo che essa vuole rappresentare ed esprimere. Scrive il documento Cei, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: «Cercare di comprendere questo linguaggio, purificarlo e vivificarlo, permette di far incontrare con la fede la vita di tanta gente semplice e disponibile» (n. 55).
La Marialis cultus critica due atteggiamenti, quelli che disprezzano a priori i pii esercizi, dimenticando che il concilio ha detto di armonizzarli con la liturgia e non di sopprimerli; quelli che uniscono insieme pii esercizi e atti liturgici costruendo celebrazioni ibride (n. 31). Dopo aver sottolineato il principio ispiratore, non distaccare il culto della Vergine dal suo punto di riferimento necessario, che è Cristo (n. 4), Paolo VI dà quattro orientamenti: biblico, liturgico, antropologico, ecumenico. L’impronta biblica in ogni forma di culto è avvertita come «un postulato generale della pietà cristiana» (n. 30), rilevante il richiamo all’aspetto ecumenico, perché contiene un’indicazione che si può estendere alla pastorale mariana nel suo insieme: «È volontà della chiesa cattolica che in tale culto, senza che ne sia attenuato il carattere singolare, sia evitata con ogni cura qualunque esagerazione che possa indurre in errore gli altri fratelli cristiani circa la vera dottrina della chiesa cattolica, e sia bandita ogni manifestazione cultuale contraria alla retta prassi cattolica» (n. 32). Per Giovanni Paolo II, l’onore e la celebrazione del culto della Vergine costituiscono «una luce mariana proiettata sull’ecumenismo» (Redemptoris mater, 50).
Una delle “pie pratiche” è il mese di maggio; di origine medioevale, ma di istituzione recente, la si fa risalire alla pubblicazione del Mese di Maria di A. Dionisi, nel 1725. L’aspetto più difficile in questo caso è la presenza di motivi culturali arcaici e la mancanza di appoggi liturgici e teologici. Occorrono approfondimenti attualizzati (senza però imporre sterili intellettualismi), riscoprire il significato degli appuntamenti del tempo, impostare un corretto orientamento verso le celebrazioni sacramentali (senza operare sostituzioni), superare l’intimismo aprendo le intenzioni della preghiera alle necessità del mondo, coniugare culto e vita. Il concilio dà alcune norme per il culto mariano, invitando i fedeli a ricordare ogni volta «che la vera devozione non consiste né in uno sterile passeggero sentimentalismo, né in una certa qual vana credulità, bensì procede dalla fede vera, dalla quale siamo portati a riconoscere la preminenza della Madre di Dio, e siamo spinti al filiale amore verso la Madre nostra e all’imitazione delle sue virtù» (Lumen gentium, 67).
Il mese mariano resta una possibilità singolare per riflettere e costruire insieme l’azione degli operatori di pastorale, sintonizzandola con tutti i suoi destinatari. Questa pratica, oltre che ritmata dall’omaggio e dalla preghiera, può diventare, infine, una possibilità per incontri di catechesi, dove riflettere sull’identità reale e il ruolo di Maria, ad esempio commentando il capitolo VIII della Lumen gentium. A volte il popolo più semplice può rivelare delle sorprese, se lo si considera adulto.

Giovanni Tangorra

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