Hea Woo scoprì il cristianesimo attraverso il martirio di suo marito, un ex comunista che a sua volta venne convertito da un gruppo di cristiani sotterranei in Cina, mentre cercava di fuggire dalla Corea del Nord. Arrestato dalla polizia cinese e riconsegnato ai suoi aguzzini, morì in carcere sotto tortura. In una delle ultime visite che poterono fargli i suoi figli, riuscì a scrivere sulle loro mani “Credete in Gesù”. «Ero scioccata al sapere che fosse diventato un cristiano – ricorda Hea Woo – ma istintivamente ho realizzato che lui avesse trovato la verità, mentre io vivevo ancora nella menzogna. Dopo sei mesi di carcere mio marito morì. Più tardi incontrai i suoi compagni di cella, che mi dissero quanto era stato buono con loro. Io iniziai a vendere tutto quel che avevo, volevo andare in Cina e trovare là una chiesa. Avevo bisogno di conoscere la verità. Trovai alcuni cristiani coreani che mi insegnarono il Vangelo. Grazie alle preghiere di mio marito e di mia madre, io abbracciai la fede».
Esattamente come per i primi cristiani, anche la conversione di Hea Woo passa per una fase di tribolazione e martirio, che la portò più volte sul punto di morire. Lei attribuisce la sua sopravvivenza a un miracolo. O meglio: a una serie di miracoli, avvenuti grazie alla sua fede incrollabile. Fallita la sua fuga in Cina, venne arrestata e torturata «Mi hanno colpita a calci e bastonate. Ero talmente prostrata che iniziai a dubitare di Dio. Ma ricordai quel che Gesù passò durante la Passione e la croce e le mie torture apparvero nulla in confronto». In carcere si ammalò e non riuscì più a mangiare. Perse sangue, l’uso delle gambe, quasi completamente l’udito e la vista. Il medico del carcere le disse che aveva solo tre giorni da vivere. Visto che non ci sentiva bene, una guardia glielo urlò nell’orecchio. Quando, al processo, la condannarono a tre anni di lavori forzati, i giudici ridevano: nel loro sadico umorismo erano divertiti dal fatto che avesse solo pochi giorni di vita e dunque non avrebbe scontato tutta la sua pena. Eppure Hea guarì, anche senza medicine, grazie alla compassione di alcune guardie e dei compagni di prigionia. E grazie anche alla sua fede incrollabile.
Come “premio” per la sua resistenza e miracolosa guarigione, venne realmente mandata ai lavori forzati in un gulag. “Non provate a fuggire, verrete uccisi!” era la scritta sul portone del campo. Quanto di più vicino si possa leggere al “Lasciate ogni speranza oh voi che entrate” nell’Inferno di Dante. Il gulag, in effetti, ci viene descritto da Hea Woo come un vero inferno in terra. La sopravvissuta non ci racconta tutti gli orrori che ha vissuto. Solo qualche frammento di quella realtà: prigionieri costretti a spaccar le ossa e bruciare i corpi dei loro compagni defunti; un prigioniero fuggiasco, catturato, ferito, esposto alla vista degli altri fino alla sua morte per fame; lotte per accaparrarsi insetti e rospi da mangiare, per riuscire a sopravvivere alle 12 ore di lavoro quasi senza cibo; internati destinati a svuotare le latrine che regolarmente morivano dopo pochi mesi per infezioni e malattie. Il tutto accompagnato da crudeli sessioni di autocritica, denunce reciproche e lezioni di indottrinamento marxista, per uccidere la mente e lo spirito, oltre al corpo. «Ogni giorno era una tortura – dice Hea Woo – Spesso ricordavo le sette piaghe d’Egitto. Essere in quel campo era come subirle tutte e sette e tutte assieme. Tutti i giorni gli internati morivano e venivano cremati e le guardie spargevano le ceneri sui campi e sulla strada. Ogni giorno dovevamo marciare sulle loro ceneri, ogni giorno pensavo al momento in cui qualcun altro avrebbe calpestato le mie».
Hea non solo sopravvisse, ma riuscì anche a compiere la sua opera di evangelizzazione, convertendo altri prigionieri. «Io volevo solo vivere. Come poteva Dio chiedermi di parlare di Gesù ad altri internati? Sarei stata uccisa, se mi avessero scoperto. Ma Dio insistette. Mi mostrò quali prigionieri avrei dovuto avvicinare. Mi dava un’intuizione: “Quella persona, parlane con lui”». Ne convertì diversi, “facilmente”, come tiene a precisare: «Non solo ascoltavano quel che dicevo, ma vedevano anche lo Spirito che lavorava in me. Talvolta davo ad altri un po’ della mia piccola razione di riso. Quando le persone si ammalavano, andavo da loro e li aiutavo, lavando i loro panni». Si formò una piccola comunità cristiana segreta. Si riunivano in segreto per celebrare la messa, a volte nelle camerate dei dormitori, più spesso nelle latrine: erano talmente fetide che le guardie avevano orrore a entrarvi.
Dopo anni di inferno, Hea tornò “libera” a casa sua. Ma sentiva di non poter più restare in Corea del Nord. Non avrebbe mai accettato di farsi “rieducare”, né di inchinarsi alla statua del “padre della patria” Kim Il Sung, unica divinità consentita nel regime ateo nordcoreano. La sua fuga in Cina e di lì in Corea del Sud ha, anch’essa, del miracoloso. Perché è sempre una missione quasi del tutto impossibile uscire dai confini fortificati del “regno eremita”. Ma ora è libera, a parlare della sua esperienza e testimoniare la sua fede, perché si preghi per quei milioni di uomini e donne ancora rinchiusi in quell’inferno della Corea del Nord.
Esattamente come per i primi cristiani, anche la conversione di Hea Woo passa per una fase di tribolazione e martirio, che la portò più volte sul punto di morire. Lei attribuisce la sua sopravvivenza a un miracolo. O meglio: a una serie di miracoli, avvenuti grazie alla sua fede incrollabile. Fallita la sua fuga in Cina, venne arrestata e torturata «Mi hanno colpita a calci e bastonate. Ero talmente prostrata che iniziai a dubitare di Dio. Ma ricordai quel che Gesù passò durante la Passione e la croce e le mie torture apparvero nulla in confronto». In carcere si ammalò e non riuscì più a mangiare. Perse sangue, l’uso delle gambe, quasi completamente l’udito e la vista. Il medico del carcere le disse che aveva solo tre giorni da vivere. Visto che non ci sentiva bene, una guardia glielo urlò nell’orecchio. Quando, al processo, la condannarono a tre anni di lavori forzati, i giudici ridevano: nel loro sadico umorismo erano divertiti dal fatto che avesse solo pochi giorni di vita e dunque non avrebbe scontato tutta la sua pena. Eppure Hea guarì, anche senza medicine, grazie alla compassione di alcune guardie e dei compagni di prigionia. E grazie anche alla sua fede incrollabile.
Come “premio” per la sua resistenza e miracolosa guarigione, venne realmente mandata ai lavori forzati in un gulag. “Non provate a fuggire, verrete uccisi!” era la scritta sul portone del campo. Quanto di più vicino si possa leggere al “Lasciate ogni speranza oh voi che entrate” nell’Inferno di Dante. Il gulag, in effetti, ci viene descritto da Hea Woo come un vero inferno in terra. La sopravvissuta non ci racconta tutti gli orrori che ha vissuto. Solo qualche frammento di quella realtà: prigionieri costretti a spaccar le ossa e bruciare i corpi dei loro compagni defunti; un prigioniero fuggiasco, catturato, ferito, esposto alla vista degli altri fino alla sua morte per fame; lotte per accaparrarsi insetti e rospi da mangiare, per riuscire a sopravvivere alle 12 ore di lavoro quasi senza cibo; internati destinati a svuotare le latrine che regolarmente morivano dopo pochi mesi per infezioni e malattie. Il tutto accompagnato da crudeli sessioni di autocritica, denunce reciproche e lezioni di indottrinamento marxista, per uccidere la mente e lo spirito, oltre al corpo. «Ogni giorno era una tortura – dice Hea Woo – Spesso ricordavo le sette piaghe d’Egitto. Essere in quel campo era come subirle tutte e sette e tutte assieme. Tutti i giorni gli internati morivano e venivano cremati e le guardie spargevano le ceneri sui campi e sulla strada. Ogni giorno dovevamo marciare sulle loro ceneri, ogni giorno pensavo al momento in cui qualcun altro avrebbe calpestato le mie».
Hea non solo sopravvisse, ma riuscì anche a compiere la sua opera di evangelizzazione, convertendo altri prigionieri. «Io volevo solo vivere. Come poteva Dio chiedermi di parlare di Gesù ad altri internati? Sarei stata uccisa, se mi avessero scoperto. Ma Dio insistette. Mi mostrò quali prigionieri avrei dovuto avvicinare. Mi dava un’intuizione: “Quella persona, parlane con lui”». Ne convertì diversi, “facilmente”, come tiene a precisare: «Non solo ascoltavano quel che dicevo, ma vedevano anche lo Spirito che lavorava in me. Talvolta davo ad altri un po’ della mia piccola razione di riso. Quando le persone si ammalavano, andavo da loro e li aiutavo, lavando i loro panni». Si formò una piccola comunità cristiana segreta. Si riunivano in segreto per celebrare la messa, a volte nelle camerate dei dormitori, più spesso nelle latrine: erano talmente fetide che le guardie avevano orrore a entrarvi.
Dopo anni di inferno, Hea tornò “libera” a casa sua. Ma sentiva di non poter più restare in Corea del Nord. Non avrebbe mai accettato di farsi “rieducare”, né di inchinarsi alla statua del “padre della patria” Kim Il Sung, unica divinità consentita nel regime ateo nordcoreano. La sua fuga in Cina e di lì in Corea del Sud ha, anch’essa, del miracoloso. Perché è sempre una missione quasi del tutto impossibile uscire dai confini fortificati del “regno eremita”. Ma ora è libera, a parlare della sua esperienza e testimoniare la sua fede, perché si preghi per quei milioni di uomini e donne ancora rinchiusi in quell’inferno della Corea del Nord.
Venerdì 1 novembre festa di Tutti i Santi, uomini e donne che dopo aver avuto un profondo incontro con Cristo Risorto hanno dato testimonianza con la propria vita , anche perdendola ,che la vera vita è nella Santa Madre Chiesa. Questa testimonianza mi ha molto colpito perché mi viene ad interrogare su quanto oggi sia urgente riproporsi come Chiesa militante che senza paura annunci la Verità proprio nei nostri piccoli paesi di residenza.
RispondiEliminaLa pace