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domenica 9 febbraio 2014

Il sale della terra

Dopo aver proclamato le beatitudini, quasi a spiegare cosa si diventa se si vive secondo quel programma, Matteo inserisce un brano con tre metafore, applicandole ai discepoli. La prima è quella del sale: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?». Il sale. Fin dalla sua prima apparizione nella storia degli uomini è stato accompagnato da significati simbolici che partono dai suoi molteplici usi nella vita quotidiana. Il sale dà sapore, preserva dalla corruzione, conserva i cibi, dona forza e vigore. La sua importanza era tale che Omero gli conferiva un carattere divino; nell'Antico Testamento rappresenta il patto perenne (Lev 2,13), mentre per san Gerolamo è Cristo "il sale della terra".Matteo non spiega in che senso Gesù applica questa metafora ai discepoli. Doveva essere una cosa ovvia, come in parte è per noi oggi. Essere "sale" vuol dire innanzitutto immergersi nella gente. Il cristiano non è un ectoplasma che abita in mondi paralleli; la sua vita è quella di tutti, ma se vive da discepolo le darà più gusto, agendo dal di dentro, come il lievito che fermenta la pasta. Il sale è inoltre sinonimo di saggezza. Paolo invita i Colossesi a usare un linguaggio "condito di sale", cioè di sapienza, «in modo da saper rispondere a ciascuno come si deve» (Col 4,6). Il sapere e la sapienza non stanno sempre insieme. Si possono "sapere" tante cose, essere delle enciclopedie ambulanti e non avere un grammo di sale in zucca.
La metafora rimanda, infine, al compito di preservarsi e preservare il mondo dalla corruzione. La
natura è buona ma tende a corrompersi, allo stesso modo gli uomini fanno fatica a conservarsi integri. Diventare il sale della terra equivale a rendere la vita più giusta e pura di fronte a Dio. Ciò porta ad assumere posizioni coraggiose contro ogni forma di corruzione, nella politica come nell'economia, nel mondo ecclesiastico come in quello civile e giudiziario. La libertà delle beatitudini rende custodi del bene. Ma qui si affaccia il raggelante punto interrogativo: e se il sale perdesse il suo sapore? Se chi deve salare diventasse egli stesso insipido? Prima di dare lezioni agli altri dobbiamo saperci guardare allo specchio.

La luce del mondo
La seconda immagine è quella della luce. Più del sale qui siamo dinanzi a uno dei simboli più antichi e universali. Applicata all'uomo intende la sua fatica nella ricerca di soluzioni che possono illuminare il suo cammino. Senza sale si può vivere, ma senza luce si è perduti. Nel suo duro romanzo Cecità, José Saramago mette in scena cosa vuol dire perdere il chiarore del giorno e vivere «col mostruoso desiderio di non recuperare più la vista». Gli uomini rivelano il lato peggiore di se stessi e ciò che li accomuna è solo l'insensibilità degli uni verso agli altri. Al termine, la moglie del medico dovrà riconoscere: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono».
Anche la Bibbia conosce il tema della cecità. Indica la superbia dell'uomo, il deserto spirituale, la sua ostinazione a giudicare le cose solo a partire dalle proprie convinzioni. Ci possono così essere ciechi che vedono e vedenti che sono ciechi. Dio è rivestito di luce e la sua luce permette di guardare la realtà in tutte le sue dimensioni: «Alla tua luce vediamo la luce» (Sal 36,10). Nel Vangelo di Giovanni la luce scaturisce dalla vita ed è Gesù a splendere come il Signore di entrambe: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,4). La sua venuta apre uno scontro con le tenebre, che rappresentano l'oscurità del male, ma la vittoria finale è della luce: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta» (1,5).
A questo punto riusciamo a capire meglio perché Gesù attribuisca questa immagine ai suoi discepoli, dichiarandoli «luce del mondo». Essi sono luce da luce, riflesso della luce di Cristo. Le loro opere non possono restare nascoste e devono essere ben visibili, non per ostentazione, ma perché gli uomini rendano gloria a Dio. È ciò che avviene quando incontriamo qualcuno dei santi anonimi che abitano le nostre strade. La loro capacità di consolare trasforma la nostra amarezza in un canto. Realisticamente Gesù collega l'essere all'agire. Come la luce si trasmette attraverso lo splendore, così la luminosità dei figli della luce accende le loro opere. Ed è solo quando c'è quest'armonia che si diventa riflesso dell'unica luce che è Cristo.

La città sul monte
Si sarà notato che nel suo discorso Gesù usa costantemente il "voi". Significa che non sta tanto parlando a me o a te, ma alla Chiesa. Matteo è chiamato l'evangelista della Chiesa, se non altro perché è l'unico dei quattro a riportare per ben due volte il termine "Chiesa". Il "voi" ricorre frequentemente, insieme al "noi", mentre il tu è riservato a Cristo. Egli sa di dover scomparire ma assicura la sua futura presenza alla comunità: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,19-20). La Chiesa non si identifica con l'individuo e questo è consolante: chi di noi, singolarmente, può infatti dire di essere sale della terra o luce del mondo? Chi di noi non sente la difficoltà a lasciare accesa la propria luce?
Da solo non posso, ma nella Chiesa mi è possibile. Da solo non posso amare, credere, pregare, sperare, perdonare, ma insieme agli altri posso. Finché non avremo capito quanto è importante la Chiesa nel cammino cristiano non avremo capito niente. Io sono solo una cellula e se non vivo nel corpo non sarò mai al mio posto. Non parlo tanto della Chiesa delle grandi occasioni, quella della dottrina, della morale o del clero, ma della Chiesa che vive nella comunità dei fratelli, dove ci si può chiamare per nome, radunarsi e aiutarsi reciprocamente. San Giovanni Crisostomo immagina di chiedere a Dio perché mai preferisca la preghiera comune a quella individuale, e gli fa rispondere: «Perché voglio che siate uniti e non separati».
La città che sta sopra il monte è la Chiesa. Nel Nuovo Testamento l'immagine ricorre altre volte, soprattutto per applicare alla Chiesa l'idea della nuova Gerusalemme, la città della pace. L'Apocalisse la descrive nella scena finale della storia, la presenta scintillante e la chiama «città amata» (20,9). Stare sopra un monte non è una posizione comoda. Sei sotto gli occhi tutti e si possono vedere le crepe, pensando a una città fantasma, una città museo, una città deserta. Occorre sobbarcarsi la fatica di salire la china e conoscerla dal di dentro, poi se ne può parlare. È come fare l'esperienza di una visita alla cappella Sistina: da fuori sembra la cucina di un convento, ma se la vedi da dentro resti a occhi aperti.

Don Giovanni Tangorra

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