05-09-2014
L’ultimo appello del patriarca caldeo Raphael Sako riflette la costernazione della comunità cristiana irachena di fronte alla passività del mondo.
Sako parla esplicitamente di genocidio della minoranza cristiana e delle altre minoranze etniche e religiose ad opera dell’Isis. La risposta della comunità internazionale è pressoché nulla. Sono 120mila i cristiani scacciati dalle loro case e costretti a trovare rifugio in Kurdistan, spesso in improvvisate tendopoli. Eppure la macchina umanitaria non si è messa in moto. E anche per i cristiani che sono rimasti sotto il governo riconosciuto iracheno non c’è pace: si moltiplicano violenze e intimidazioni nella stessa capitale Baghdad. L’esecutivo di unità nazionale, formatosi lo scorso 14 agosto, non riesce a far rispettare la legge e l’ordine neppure nella sua capitale. Sako teme un’emigrazione di massa della popolazione cristiana, che la allontani definitivamente da una delle prime terre in cui il cristianesimo si è diffuso duemila anni fa.
Nel vertice della Nato iniziato ieri in Galles, Regno Unito, l’Alleanza Atlantica ha incominciato (a tre mesi dall’inizio dell’espansione dell’Isis) ad affrontare il problema iracheno. Sono numerose le ipotesi sul terreno. Si parla di un intervento aereo congiunto dei membri dell’alleanza e dell’invio di corpi speciali in Iraq, soprattutto per liberare gli ostaggi occidentali nelle mani degli jihadisti che rischiano di essere decapitati, di fare la stessa fine dei giornalisti Foley e Sotloff. L’area dell’intervento Nato comprenderà tutta la zona in cui l’Isis opera, sia in Iraq che in Siria. L’azione scatterà anche senza attendere il consenso di Bashar al Assad. Il quale, comunque, ha tutto l’interesse che si bombardi uno dei suoi nemici più pericolosi.
Quel che manca è un piano internazionale per la liberazione e messa in sicurezza delle aree abitate
dalle minoranze. Ai cristiani iracheni, quasi del tutto dimenticati persino nell’ultimo rapporto di Amnesty International, non ha ancora pensato nessuno. Eppure la grande sfida dell’Iraq è proprio questa: liberare la provincia di Ninive dall’Isis e creare le condizioni per un ritorno dei cristiani, degli yezidi e delle altre minoranze ai loro villaggi e alle loro case. L’esercito irregolare curdo consiste in una milizia di autodifesa, quella dei peshmerga. Difficilmente potrà condurre azioni su larga scala nella piana di Ninive, a meno che non venga appoggiato massicciamente da un’offensiva aerea alleata. Che finora non c’è stata. Reportage condotti sul posto testimoniano la difficoltà a combattere degli irregolari curdi, dotati di armi antiquate (non sono ancora arrivate le forniture europee, evidentemente), soverchiati per potenza di fuoco da un nemico molto meglio equipaggiato. In uno scontro, documentato di recente da un reporter americano, una decina di peshmerga, rimasti privi di ufficiali, dovevano tenere testa a una cinquantina di jihadisti appoggiati da due carri armati. Questi, all’incirca, sono i rapporti di forza sul terreno.
L’alternativa ai curdi sono i militari dell’esercito regolare iracheno. Ma, in questo caso, oltre alla manifesta debolezza dimostrata lo scorso giugno, quando l’esercito si è squagliato di fronte all’offensiva dell’Isis, c’è anche un problema politico. I sunniti che abitano sotto il governo del Califfato hanno mostrato, finora, di preferire gli jihadisti sunniti alle truppe sciite del governo di Baghdad. Difficilmente questa percezione cambierà nel prossimo futuro, dal momento che l’esercito iracheno ottiene rinforzi dall’Iran (sciita). Non a caso, l’unico generale che fu in grado di riportare l’ordine in Iraq, David Petraeus, dovette avvalersi dell’appoggio milizie insurrezionali sunnite per scacciare i sunniti estremisti di Al Qaeda. E lo poté fare solo dopo il 2005, quando, dopo tre anni di soprusi, violenze e imposizione della legge coranica, la popolazione locale non ne poteva più dei seguaci di Bin Laden. Oggi non sembrano esserci le stesse condizioni.
La liberazione della piana di Ninive, essenziale per il ritorno dei cristiani nelle loro case, può dunque avvenire solo per mano di truppe straniere. O di truppe locali fortemente sostenute da uomini, consiglieri e mezzi occidentali. Ammettiamo che la provincia venga liberata. Che fare dopo? Nel paper “Finding Safety”, redatto dalla Christian Political Foundation for Europe (Fondazione politica cristiana per l’Europa) si afferma che la difficoltà principale sia nella ricostruzione del tessuto sociale, ormai distrutto dalla guerra civile. Manca la fiducia necessaria a ricostituire comunità multi-religiose. Nel paper si sottolinea come, all’arrivo delle milizie dell’Isis nelle città a popolazione mista cristiana e musulmana sunnita, i sunniti (salvo eroiche eccezioni di chi ha difeso i concittadini di altre religioni) abbiano partecipato attivamente al saccheggio, alle atrocità contro i cristiani e si siano impossessati dei loro beni. Difficile, dunque, pensare a un ritorno pacifico dei cristiani in mezzo ai loro volenterosi carnefici. Che magari si sono impossessati delle loro case. Il patriarca Sako chiede l’istituzione di una commissione per la restituzione dei beni sequestrati. Anche in questo caso, comunque, è necessaria una massiccia presenza di forze di pace internazionali. Difficile pensare, infatti, che un governo iracheno che non ha neppure saputo difendere un terzo del suo paese da un invasore esterno, ora possa restituire proprietà a chi le ha perdute: ci vorrebbe un capillare controllo del territorio che Baghdad non ha mai avuto.
Allo stesso tempo, accettare che i cristiani non possano tornare nelle loro case e nelle loro città sarebbe un’umiliante ammissione di sconfitta. Il terrorismo e la pulizia etnica l’avrebbero vinta. Difficile anche pensare ad una delle proposte, avanzata tante volte anche dal governo iracheno negli anni pre-crisi: la costituzione di un’enclave cristiana auto-amministrata nella provincia di Ninive, protetta da un contingente internazionale. Sarebbe un’auto-ghettizzazione, inaccettabile per chi, come i cristiani iracheni, ha sempre vissuto pacificamente nel proprio paese. Un’altra proposta, elaborata dalla Christian Political Foundation for Europe, consiste nella frammentazione dell’Iraq. Se il Kurdistan ottiene l’indipendenza, le province a maggioranza cristiana (previo rientro della loro popolazione) potrebbero votare in un referendum per decidere la loro annessione al nuovo Stato. La costituzione provvisoria del Kurdistan è l’unica, infatti, che ammette piena libertà di culto e pari diritti per cristiani, yezidi e musulmani sciiti e sunniti. Anche questa soluzione, tuttavia, contiene numerose trappole. Prima di tutto, né il governo centrale di Baghdad, né la Turchia accetterebbero l’indipendenza del Kurdistan. E con Baghdad, almeno, bisogna trattare finché la crisi non si sarà risolta, essendo l’unico governo riconosciuto internazionalmente in tutto l’Iraq. Il Kurdistan e con esso la provincia di Ninive potrebbero ottenere una indipendenza “de facto”, un’ampia autonomia di diritto.
A meno di non voler prendere in considerazione il ghetto cristiano, qualunque soluzione territoriale e amministrativa, qualunque forza multinazionale eventualmente presente, risolverebbe solo una piccola parte del problema. Rimarrebbe insuperato lo scoglio di una convivenza che non c’è più, di una fiducia reciproca che è venuta a mancare dopo i massacri di questi mesi. Solo un’offensiva culturale, sul terreno, condotta con estrema pazienza, può sanare la ferita. Convincere gli iracheni sunniti a disconoscere gli jihadisti, far capire loro che il totalitarismo islamico è un nemico dell’umanità, è un lavoro lento, che produce effetti solo nel lungo periodo. Ma è possibile.
L'appello di Louis Raphael I Sako
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