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mercoledì 19 dicembre 2018


SAN GIOVANNI DELLA CROCE, LA NOTTE OSCURA DELLA FEDE
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San Giovanni della Croce (1540-1591) fu, insieme a santa Teresa d’Avila, altra grande carmelitana spagnola, uno dei riformatori dell’ordine carmelitano. Per la profondità dei suoi scritti mistici e poetici verrà anche dichiarato Dottore della Chiesa.

Fra i santi ci sono molte differenze. Cioè, ci sono molti modi di essere santi anche se tutti sono accomunati dal desiderio bruciante di seguire Dio con tutte le loro forze. La santità è un fiume che ha tanti affluenti. Alcuni santi sono più popolari di altri per ragioni storiche o devozionali che possono anche sfuggire ad una comprensione immediata, pensiamo a sant’Antonio da Padova, san Pio da Pietrelcina, santa Rita da Cascia e via dicendo. Altri, malgrado la loro evidente grandezza, sono forse meno presenti nella devozione popolare, come quel carmelitano spagnolo che la Chiesa festeggia il 14 dicembre, San Giovanni della Croce (1540-1591). Fu insieme a santa Teresa d’Avila, altra grande carmelitana spagnola, uno dei riformatori dell’ordine carmelitano. Per la profondità dei suoi scritti mistici e poetici verrà anche dichiarato Dottore della Chiesa.

Il salesiano Mario Scudu dice di lui: «Nell’immaginario collettivo la grandezza di un uomo viene misurata e ammirata non solo per come ha saputo vivere la propria avventura umana, ma anche per il modo in cui ha affrontato le ore del supremo transito dagli affanni della vita mortale “all’altra riva” quella di Dio. Il momento della propria morte: quello delle scelte definitive, cioè della “crisi” finale, che fa paura a tutti. Giovanni della Croce sul letto di morte, ai suoi confratelli che gli leggevano le preghiere dei moribondi, chiese qualcosa di più “allegro”: domandò espressamente qualche versetto del Cantico dei Cantici, un bellissimo e travolgente poema d’amore dell’Antico Testamento (che lui ben conosceva). Non andava forse incontro all’Amore? Allora ci voleva qualcosa di più appropriato. Dopo la lettura Giovanni finì il cammino terreno pregando le parole “Nelle tue mani, Signore, affido, il mio spirito”. Cioè nelle mani di Dio Amore, per il quale era vissuto, aveva lavorato e sofferto, per quel Dio che lui aveva amato, predicato e cantato. Alcuni anni prima aveva scritto la poesia “Rompi la tela ormai al dolce incontro”. Ecco che cosa era la morte per lui: un “dolce incontro” con Dio Amore. Aveva 49 anni tutti spesi per Dio».

Ci sembra difficile comprendere come si possa trovare gioia nelle avversità della vita, avversità che Giovanni conobbe, compreso un imprigionamento durato molti mesi. Eppure bisogna comprendere che chi ascende alle vette della mistica come lui, come Teresa d’Avila e come un’altra grande carmelitana più vicina a noi, santa Teresa del Bambin Gesù e del Santo Volto, vive su un piano diverso rispetto al vivere comune, un piano in cui le prospettive sono diverse, a volte opposte, rispetto a quelle del mondo.

Nella sua “Salita al Monte Carmelo” Giovanni della Croce meditava: «L’anima cerchi sempre di inclinarsi: non al più facile, ma al più difficile;  non al più saporoso, ma al più insipido;  non a quello che piace di più, ma a quello che piace di meno;  non al riposo, ma alla fatica;  non al conforto, ma a quello che non è conforto;  non al piú, ma al meno;  non al piú alto e pregiato, ma al piú vile e disprezzato;  non alla ricerca di qualche cosa, ma a non desiderare niente;  non alla ricerca del lato migliore delle cose create, ma del peggiore e a desiderare nudità, privazioni e povertà di quanto v’è al mondo per amore di Gesú Cristo». Non sembra tutto opposto rispetto a quello che il mondo ci suggerisce? Eppure solo attraverso questo tipo di mortificazione, possiamo silenziare i sensi in modo che la voce di Dio possa essere udita cessato il frastuono delle nostre passioni. Altri suoi avvisi nella stessa opera, che certamente possono sorprenderci se visti con gli occhi del mondo: «Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente.  Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente. Per giungere ad essere tutto, non voler essere niente.  Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente. Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi. Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai. Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai. Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei».  Certo, quali altezze vertiginose! Ecco un sano relativismo, quello che mette tra parentesi le cose umane, le cose a cui non possiamo fare a meno di provare attaccamento, la nostra vita, salute, i piaceri. Eppure questa sapienza è comune a tutte le saggezze, come quella cinese incarnata dal maestro Confucio: «Per mettere il mondo in ordine, dobbiamo mettere la nazione in ordine. Per mettere la nazione in ordine, dobbiamo mettere la famiglia in ordine. Per mettere la famiglia in ordine, dobbiamo coltivare la nostra vita personale. Per coltivare la nostra vita personale, dobbiamo prima mettere a posto i nostri cuori». La conversione del mondo a Dio comincia dal nostro cuore, non da grandi idee e piani decennali.

In una omelia per la celebrazione della parola tenuta il 4 novembre 1982 in Segovia, papa Giovanni Paolo II così parlava di san Giovanni della Croce: «Con questa insistenza sulla purezza della fede, Giovanni della Croce non vuol negare che la conoscenza di Dio si possa raggiungere gradualmente partendo dalle creature, come insegna il libro della Sapienza e ripete san Paolo nella Lettera ai Romani (cf. Rm 1, 18-21; cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 4, 1). Il dottore mistico insegna che nella fede è anche necessario privarsi delle creature, sia di quelle che si percepiscono per mezzo dei sensi che di quelle che si raggiungono con l’intelletto, per unirsi in una maniera conoscitiva con lo stesso Dio. Questa via che conduce all’unione, passa attraverso la “notte oscura” della fede». La notte oscura, questo concetto che dopo Giovanni della Croce ha attraversato la vita di tanti altri cristiani. Dall’interpretazione di questa “notte oscura” dipendono i sentieri della nostra santità. Penso ad un bellissimo libro di madre Teresa di Calcutta, Come, be my light. Lo stesso Giovanni Paolo II, nella sua Lettera Apostolica Maestro della fede (1990), così affermava: «Solo Gesù Cristo, Parola definitiva del Padre, può rivelare agli uomini il mistero del dolore e illuminare con i raggi della sua croce gloriosa le più tenebrose notti del cristiano. Giovanni della Croce, conseguente con le sue affermazioni intorno a Cristo, ci dice che Dio, dopo la rivelazione del suo Figlio, “è rimasto quasi come muto non avendo altro da dire”; il silenzio di Dio ha la sua più eloquente parola rivelatrice di amore nel Cristo crocifisso. Il Santo di Fontiveros ci invita a contemplare il mistero della Croce di Cristo, come lui lo faceva abitualmente, nella poesia de “El Pastorcico” o nel suo celebre disegno del Crocifisso, conosciuto come il Cristo di San Giovanni della Croce.

Sul mistero dell’abbandono di Cristo nella croce scrisse certamente una delle pagine più sublimi della letteratura cristiana. Cristo visse la sofferenza in tutto il suo rigore fino alla morte di croce. Su di lui si concentrarono negli ultimi momenti le forme più dure del dolore fisico, psicologico e spirituale: “Dio mio, Dio mio! perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46). Questa sofferenza atroce, causata dall’odio e dalla menzogna, ha un profondo valore redentore. Era ordinata a che “semplicemente pagasse il debito e unisse l’uomo a Dio”. Con la sua consegna amorosa al Padre, nel momento del più grande abbandono e dell’amore più grande, “compì l’opera più meravigliosa di quante ne avesse compiute in cielo e in terra durante la sua esistenza terrena ricca di miracoli e di prodigi, opera che consiste nell’aver riconciliato e unito a Dio, per grazia, il genere umano”. Il mistero della Croce di Cristo svela così la gravità del peccato e la immensità dell’amore del Redentore dell’uomo». Alla luce di queste parole e dell’insegnamento di san Giovanni della Croce si comprendono anche quelle – inaudite – di santa Teresa di Lisieux, che affermava di amare la sofferenza. No, umanamente non possiamo e non dobbiamo amare la sofferenza, questo è possibile solo quando illuminata da una luce più grande.

Nell’opera citata in precedenza, san Giovanni della Croce anche affermava: «Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto. E quando tu giunga ad avere il tutto, devi possederlo senza voler niente, poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio».  Trascorrere più tempo meditando questi grandi santi, piuttosto che le beghe correnti, ci aiuterà nelle vie del bene e della santità.

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