Parla l'ex-direttore dell’Ufficio nazionale Famiglia, relatore al Convegno della Gregoriana
MARIA TERESA PONTARA PEDERIVA TRENTOA una settimana dal Forum sulla Famiglia organizzato dalla Pontificia Università gregoriana sul tema “Ascoltando la famiglia. Incertezze a attese”, presieduto dal segretario generale del Sinodo straordinario, cardinale Baldisseri, abbiamo incontrato monsignor Sergio Nicolli, già direttore dell’ufficio nazionale Famiglia della Cei e ora decano di Rovereto (e parroco di San Marco, la parrocchia che fu di Antonio Rosmini). Nella sua diocesi di Trento era stato fino al 2009 delegato di Pastorale familiare e condirettore dell’ufficio Famiglia insieme a una coppia di sposi.
“Spiritualità familiare” era il tema della sua relazione, ma cosa si intende con questa espressione?
“La ‘memoria del Battesimo’ con cui inizia il nuovo rito del matrimonio chiarisce la chiamata alla santità degli sposi: ‘… concedi a N. e N. un cuore libero e una fede ardente perché accolgano il dono del Matrimonio, nuova via della loro santificazione’. Già dire che il matrimonio è una strada di santità è un fatto nuovo rispetto a un passato non lontano nel quale il matrimonio era visto quasi come una concessione per legittimare l’esercizio della sessualità in vista della procreazione! Tutti sono chiamati dal Padre a essere santi, ma ognuno per vie diverse: il monaco nella vita contemplativa e di comunità, il prete cercando di essere immagine viva di Gesù Buon Pastore, il laico portando la testimonianza cristiana nelle varie realtà della vita e della professione. Gli sposi non si possono considerare semplicemente dei ‘laici’ generici: c’è una condizione di vita particolare, che deriva dal Battesimo ma che trova fondamento in un sacramento specifico che li costituisce nella comunità. Quella coniugale e familiare è quindi una spiritualità che ha caratteristiche e regole sue, profondamente radicate nella realtà umana del matrimonio e insieme nel mistero della Trinità, mistero di relazione”.
Si può dire che si tratti di una spiritualità più “incarnata”?
“Sono le relazioni – con Dio, tra i coniugi, con i figli, con la comunità cristiana e con la società civile – la materia prima di quel cantiere di santità che è la vita quotidiana. Gli sposi cristiani devono guardarsi bene dal rischio di rifugiarsi in uno spiritualismo disincarnato che li porta fuori dalla realtà. Ma la chiamata alla santità degli sposi cristiani non si esaurisce nella vita domestica. Anche qui il nuovo rito contiene delle novità rilevanti: si passa da una visione del matrimonio privatistica e prevalentemente giuridica, a una comprensione comunitaria e più evidentemente sacramentale. In questi anni la Chiesa italiana ha maturato una riflessione teologica e pastorale importante: si è passati da una concezione nella quale ci si sposava in chiesa per coronare un sogno di coppia a una concezione che vede nell’amore vissuto ‘in Cristo e nella Chiesa’ il servizio che la coppia può assumere verso la comunità, tanto che gli sposi sono abilitati con un sacramento e ricevono lo Spirito Santo. Nel rito precedente lo Spirito Santo non era mai esplicitamente invocato mentre nel rito attuale c’è ripetutamente il riferimento al suo dono che trasforma un amore fragile in un segno sacramentale dell’amore di Dio cui è strettamente connesso un ‘ministero coniugale’, una testimonianza e un servizio nei confronti della comunità”.
Nelle nostre comunità quale testimonianza per le coppie?
“Oggi, grazie a Dio, gli sposi nelle nostre comunità sono sempre più presenti in tante forme ministeriali: dall’accompagnamento dei fidanzati al matrimonio o dei genitori al Battesimo dei figli, alla catechesi, al servizio liturgico e caritativo… Ma il primo ‘ministero’ degli sposi riguarda l’“essere” prima del fare: è la qualità della loro relazione sponsale e del loro compito genitoriale che diventa un servizio importante, indispensabile nella comunità; se le altre forme di servizio nella comunità dovessero impoverire la vita di famiglia, gli sposi sarebbero in grado di esportare soltanto frustrazione invece che la gioia di cui tutta la comunità ha bisogno. Ci sono stagioni nelle quali gli sposi cristiani possono ‘fare’ molto per la comunità, altre nelle quali una testimonianza d’amore impone di dare priorità alle relazioni familiari. È importante richiamare l’analogia profonda che nel rito del matrimonio viene stabilita con l’ordinazione presbiterale: le litanie dei Santi, l’invocazione dello Spirito, l’imposizione delle mani… Non a caso il Catechismo della Chiesa cattolica recita: ‘Due Sacramenti l’Ordine e il Matrimonio sono ordinati alla salvezza altrui e all’edificazione del popolo di Dio’. Veniamo da secoli di pregiudizi che hanno creato la convinzione che solo il sacerdozio ministeriale e la vita religiosa fossero un servizio per la comunità, mentre il matrimonio riguarderebbe la sfera privata. Era chiaro che chi si faceva prete (o religioso/a) lo faceva per il servizio agli altri, ma era altrettanto scontato che chi si sposava lo faceva per se stesso, per la propria famiglia, oggi non più”.
Come dire che la Chiesa ha bisogno di entrambi per compiere efficacemente la sua missione?
“Finché la Chiesa si è costruita e appoggiata soltanto sul sacramento dell’Ordine, abbiamo avuto una Chiesa clericale, oggi per la Chiesa si apre una stagione nuova, che domanda una maggiore collaborazione tra sposi e presbiteri (e con coloro che seguono radicalmente i consigli evangelici nella vita religiosa). Vocazione al matrimonio e vocazione al sacerdozio ministeriale (e alla vita consacrata) sono due vocazioni che si illuminano e si sostengono a vicenda: l’una ha bisogno dell’altra”.
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