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domenica 5 maggio 2019

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HAI QUALCOSA DA MANGIARE?


“Hai qualcosa da mangiare?”. Come dire: “Com’è andata la pesca? Hai amato sino a gettarti in mare per pescare dalla morte chi ti è accanto?”. L’ostilità e il giudizio che ancora coviamo risponde per noi, vero? No, non abbiamo nulla da offrire. Abbiamo tentato di amare, ma i pesci sono scappati sentendo odore di egoismo e superbia. Davvero puoi rispondere “no” a Gesù? Davvero accetti il fallimento e dici “no” al tuo uomo vecchio? Sarebbe l’indizio che stai risorgendo con Cristo. Non a caso Gesù chiede ai discepoli se hanno del “Prosphagion” – “companatico”, cioè qualcosa che accompagni il pane, che è il cibo sostanziale. Per compiere la missione occorre accettare di non esserne gli artefici, ma solo dei servi che non sono più grandi di Colui che li ha mandati. Ciò significa consegnare a Lui i fallimenti del nostro io “ferito” nella sua “natura indebolita e incline al male”; per scoprire che proprio la nostra debolezza costituisce “il companatico” di cui ha bisogno il Signore per accompagnare la sua missione di Pane della vita. E come si fa? Ascoltando la predicazione che ci illumina e per obbedire e gettare la nostra vita in Lui, proprio laddove non abbiamo pescato nulla. Che significa, ad esempio, tornare dal fratello che non abbiamo perdonato nell’umiltà di chi conosce la propria debolezza, gettando per questo la rete dalla parte destra della barca, il lato del tribunale dove anticamente sedeva l’avvocato. Occorre cioè lasciarci ispirare e accompagnare dallo Spirito Santo che fa nuove tutte le cose e compie in noi l’amore sino alla fine di Cristo. Come il discepolo amato sperimenteremo allora che “è il Signore” ad agire misteriosamente per mezzo della nostra debolezza nelle persone e negli eventi che incontriamo nella missione. Scopriremo anzi che ha operato ancor prima che uscissimo in mare per pescare; i centocinquantatré grossi pesci presi nel mare della missione, infatti, sono anch’essi il companatico , ovvero il pesce arrostito nell’amore che Gesù ha già preparato per noi sulla riva della Pasqua perché accompagni la sua carne fatta pane che non si corrompe. Non a caso in ebraico “Kaal Aawa”, che significa “la comunità dell’amore”, ha, secondo la Ghematria (tecnica rabbinica che assegnava ad ogni lettera un valore numerico), ha il valore numerico di centocinquantatré (Copyright F. Manns). La comunità cristiana unita a Lui nell’Eucarestia è il companatico che Gesù ha pensato e scelto per accompagnarlo nella sua missione attraverso le generazioni. Siamo cioè come la rete gettata in mare: è Lui che sa dove, come e quando. Ci è chiesto solo di restare sulla barca dove, pescati anche noi nella rete della comunione che non si spezza perché donata dallo Spirito Santo, obbedire alla Parola del Maestro, il luogo dove tutto appare chiaro, e “nessuno dei discepoli osa domandargli: «Chi sei?», poiché”, per esperienza, i cristiani “sanno bene che era il Signore”. Quel cibo donato da Gesù sulla riva del lago dove un giorno li aveva chiamati, era la sua stessa vita tratta dal mare della morte; ma ora gli Apostoli sapevano che non era solo la sua ma anche la loro morte vinta nel perdono. Per questo quel pesce ardeva sul fuoco della misericordia che cancellava i loro tradimenti e i loro peccati. Non a caso Giovanni registra che “questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti”. La “terza volta”, come le “tre volte” che Pietro ha tradito Gesù, come i “tre giorni” passati da Gesù nel sepolcro. Come “tre volte” Gesù chiede a Pietro se lo “ama più” degli altri. Pietro lo aveva riconosciuto come “il Signore” vittorioso sulla morte, il Kyrios della vita. Aveva “mangiato”, cioè sperimentato, l’amore “sino alla fine” del suo Maestro. Ora poteva inoltrarsi con Lui nella verità. E’ sempre così: mentre nel mondo si cercano i traditori per fucilarli, Gesù prende per mano Pietro che lo aveva tradito, per accompagnarlo sino al fondo dei propri peccati per consegnargli, invece della condanna, il perdono. Anche noi in questo Tempo Pasquale abbiamo “mangiato” con Gesù sperimentando la forza della sua risurrezione. Come i “neofiti” (“nuove piante”) della Chiesa primitiva, ci siamo nutriti al “banchetto degli insegnamenti più perfetti” (Cirillo di Gerusalemme), alla “mistagogia”, per cogliere “sempre meglio la profondità del mistero pasquale e traducendolo sempre più nella pratica della vita” (“Rica”, Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti). Per questo Gesù ci chiede: “Mi ami tu? Mi ami più di costoro?”. Dopo che nella Chiesa si è manifestato “tre volte” anche a te per annunciarti che è risuscitato con te dal sepolcro dove è stato “tre giorni” per te, Gesù ti chiede oggi per “tre volte” se lo ami. Che innanzitutto significa: “hai “mangiato” il mio amore fatto pane per te? Hai sperimentato nella tua famiglia, nella tua comunità, nella tua vita “quanto è buono il Signore”? Ricordando i tanti memoriali dell’amore con il quale Gesù ti ha chiamato e plasmato risponderai certamente di “sì”. Scendi con Pietro nella realtà della tua vita, e con lui toccherai la Roccia, quella cosiddetta “del Primato” che ancora possiamo contemplare sulle rive del Lago di Galilea. Toccherai Cristo come lui, che in quel luogo ha potuto rinascere e fondare su quella Roccia la propria vita e il proprio ministero di pastore. Non temere di scoprire chi sei; non restare chiuso nell’orgoglio ferito dai tuoi tradimenti. Rispondi “sì” al Signore. “Sì, tu sai che ti voglio bene, perché tu sai tutto di me” e non ho nulla più da nascondere. Coraggio allora, nonostante i tuoi tanti “no” oggi puoi dire a Gesù che “lo ami più di coloro” che non hanno avuto ancora la tua esperienza. Libero puoi dire un “sì” che desidera e spera di amare totalmente Colui che ha già detto il suo “sì” a te, quando eri un malvagio e un peccatore. Come Pietro ora lo puoi fare, perché il “sì” di Gesù, certificato dalla sua resurrezione che garantisce il tuo perdono, giunge a te come un dono da accogliere umilmente per crescere sino alla fede adulta. Quando “eravamo giovani” nel cammino di fede, senza una forte esperienza dell'amore vittorioso di Gesù, “ci cingevamo la veste sa soli e andavamo dove volevamo”. Ci illudevamo cioè di essere liberi, e seguivamo le nostre concupiscenze, che magari scambiavamo per amore o per ispirazioni divine, come Pietro che non si conosceva. Ma quando “saremo vecchi”, quando cioè risuonerà nel nostro cuore umiliato e contrito il canto del gallo come in lui e le lacrime di pentimento ci apriranno per accogliere il suo perdono; quando avremo radicata in noi l’esperienza dell’amore di Dio e la vita di Cristo, “tenderemo” come agnellini “le nostre mani” a Cristo incarnato nelle persone e nei fatti, anche quelli dolorosi, che ci “cingerà la veste”. Essa è immagine dei pensieri e dei gesti dei quali appunto ci “vestiamo”, per farci discernere in ogni “altro” il “tu” di Cristo al quale donarci. Ogni giorno Lui ci attende per farci “andare dove tu ed io non vogliamo”, sulla Croce dove il Signore ci chiama a “seguirlo” perché, “pascendo i suoi agnellini e le sue pecorelle” sui pascoli del perdono che il mondo non conosce, anche in questa generazione sia “glorificato Dio”.

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