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martedì 30 giugno 2020



αποφθεγμα Apoftegma

E in questa vita, la tempesta è quasi continua, 
e la vostra barca sempre sul punto di affondare. 
Tuttavia, non dimenticatevi, io sono qui; 
con me, questa barca è insommergibile! 
Diffidate di tutto, e soprattutto di voi stessi, 
però abbiate in me una fiducia totale che scacci ogni inquietudine.
Charles de Foucauld


ADDORMENTARSI NELLA TEMPESTA CON GESU' PER PASSARE INDENNI NELLE TEMPESTE DELLA VITA
La vita è una traversata per "passare all'altra riva", immagine del Cielo, solcando il mare che, spesso, nella Scrittura, è immagine della morte. La vita è, dunque, una Pasqua! Solo nella sua luce acquista senso e pienezza. E  proprio le "tempeste" definiscono la vita della Chiesa, della quale la "barca" è immagine. "tempesta" traduce l'originale greco che, letteralmente, significa “grande sisma”, usato anche nei racconti della crocifissione per il "terremoto" scoppiato alla morte di Gesù. Quella "barca" in mezzo ai marosi è dunque profezia della Croce di Cristo piantata sul Golgota e scossa dal terremoto. Sulla "barca" e sulla Croce le onde e le scosse sismiche sono il segno dello sconvolgimento innescato dal "sonno" di Gesù. Il suo "dormire", infatti, "sveglia" colui che, sino ad allora, aveva riposato tranquillo, sazio di anime. Al sopraggiungere del Signore il demonio si sente scoperto e vulnerabile. Per questo, quella "barca" non doveva arrivare in quel porto; Gadara, infatti, era in piena Decapoli, terra pagana, territorio del nemico. Gli abitanti vi si dedicavano al commercio dei maiali e all'usura. Impuri tra i più impuri, schiavi di satana che Gesù andava ad attaccare. Egli sapeva che Gesù "era venuto prima del tempo a tormentarlo", prima cioè che potesse preparare una controffensiva. Doveva difendersi e impedire a Gesù di compiere la sua missione. Quella "tempesta", dunque, non era come le altre; quel "vento" e quelle "onde" erano i rantoli di gelosia e ira del demonio e di chi ne è ingannato, che vorrebbe far annegare Gesù nella morte. Così è di ogni tempesta che infuria sulla "barca" di Gesù e Pietro, repentina come quelle che scoppiano sul mare di Galilea, e tanto "violenta che la barca si ricopre di onde". All'inizio è una brezza soave, ma poi rapidamente si fa vento gagliardo e le onde si alzano come bastioni insormontabili; infine, ecco le secchiate d'acqua, che una mano invisibile sembra rovesciare dentro la "barca". Così si insinua il demonio. E non basta averne l'esperienza; come Pietro, pur esperto del lago di Tiberiade, non poteva nulla contro l'infuriare della tempesta, neanche noi, pur essendo caduti tante volte nelle lusinghe e trappole del demonio da saperle riconoscere, abbiamo la capacità per resistere quando ci attacca con furia improvvisa. D'altronde, nessuna "tempesta" nella vita di un cristiano è davvero improvvisa: quella "barca" le attira, e proprio per questo Gesù continua a "dormire". La tempesta non lo sorprende; non si sveglia neanche quando la "barca" si riempie d'acqua. Lui aspettava quella tempesta, si era imbarcato per entrarci dentro; era un segno della sua incarnazione e una profezia del suo Mistero Pasquale. Soprattutto, sapeva che l'unico modo per passarci indenni era dormire; sapeva che il demonio vi si nascondeva, come in tutti gli avvenimenti della sua vita, e l'unico modo per compiere la sua missione sarebbe stato "reclinare il capo" sulla Croce per addormentarsi nella morte.





Gesù "dormiva" perché sapeva che per raggiungere Gadara - il mondo pagano dove eri, e sei, tu, dove è tua figlia e il tuo collega, tua nipote e il tuo vicino di banco - per raggiungere ogni uomo e liberarlo dal potere del demonio, doveva lasciare che le onde lo ricoprissero sino a togliergli la vita! Solo allora avrebbe potuto scovare il demonio a casa sua, nel suo quartier generale, e farlo saltare una volta per tutte, e così sterminare la "legione" con i suoi ufficiali e generali, rendendo impotente con la sua morte chi della morte aveva il potere, ovvero satana. Le parole che Egli usa per placare il mare sono, infatti, le stesse usate dagli evangelisti nei racconti degli esorcismi. Le stesse che, nella versione greca della Settanta, presentano il gesto di Yahvè che con l’onnipotenza della sua parola prosciuga le acque del Mar Rosso. Questa era la missione di Gesù, la stessa di Pietro e della Chiesa: "sciogliere" sulla terra quello che Lui ha sciolto per sempre. Gesù rivolge agli apostoli una domanda che potrebbe suonare beffarda: "perché avete paura?". Ma come, stiamo per affondare e tu ci chiedi perché abbiamo paura? Essi, come noi, erano "uomini di poca fede", non avevano compreso nulla di quello che stava accadendo. Perché la "fede" è entrare con Cristo nella tempesta e mettersi a dormire! E', concretamente, addormentarsi con Lui nella morte che ci attende ogni giorno, lasciando che le "onde ci ricoprano", perché - ed è il cuore del cristianesimo che batte nel Mistero Pasquale di Gesù - per "passare all'altra riva" occorre entrare nella tempesta. Per avere la vita in abbondanza bisogna perderla; per vivere bisogna morire. Non a caso "passare" in ebraico si dice HBR, da cui deriva “ebreo”; essi sono i fratelli maggiori, sul cui “passare” dall'Egitto alla Terra Promessa siamo stati innestati: “Dietro Gesù … l’evangelista … desidera che risuoni nelle orecchie dei discepoli il nome di “ebreo”. Desidera che i suoi ascoltatori abbiano l’intelligenza dell’indispensabile coesione della loro vita. Essi debbono attraversare fisicamente, concretamente, il mareAllora l’evangelista forma in greco un verbo nuovo, “diegeiro”, per dire svegliare. Impossibile da tradurre letteralmente, questo verbo ha l’accento ebraico di “passare”. Dunque, i discepoli che sono nella barca di Gesù lo svegliano… Lo chiamano…. E quando si sarà “svegliato sarà passato di là”, e tutte le cose si saranno placate, quando ci sarà la calma, l’evento non finirà lì. La “traversata” continuerà con la domanda di Gesù, alla maniera della Torah… ”Dove sei?”. Gesù dirà: “Uomini di poca fede, perché avete paura?”, Come dire: “Ebrei, dove siete? Avete dimenticato di sentire il vostro nome? Avete dimenticato il vostro nome, la vostra vita?” (M. Vidal). La stessa domanda, oggi, prorompe nella nostra vita: “Perché avete paura?”, "non avete ancora fede"? Di fronte alle "tempeste" che si abbattono su di noi siamo terrorizzati perché siamo senza discernimento; abbiamo perduto la memoria del nostro "nome" e della nostra origine. Come gli apostoli, sopraffatti dalle onde che scuotono la carne facendole lambire la morte, abbiamo dimenticato Chi ci ha "ordinato" di "passare all'altra riva". Il primo attacco del demonio, subdolo e astuto, ci ha centrati in pieno: maestro del rimestare nei ricordi per scombinarli al punto di far perdere il filo di Grazia che li lega, ci ha sottratto il ricordo della nostra chiamata. La nostra vita ha origine, senso e compimento nelle parole con le quali Gesù ci ha chiamato a "passare" con Lui "all'altra riva". Non lo abbiamo scelto noi, probabilmente neanche lo desideravamo. Noi siamo "nel mondo" proprio perché non siamo "del" mondo! L'attitudine degli apostoli nostra emersa nella "barca" è ben descritta da Peguy, amaro e crudo come sempre: "Poiché non hanno il coraggio di essere del mondo, credono di essere di Dio. Poiché non sono dell’uomo credono di essere di Dio. Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio". Non amiamo nessuno, per questo abbiamo paura. Come gli apostoli, forse non siamo ancora pronti a morire con Lui. Anche gli apostoli, pur chiamati, avevano bisogno della "fede" per compiere la loro missione! Erano, secondo il greco originale, "oligopistoi": avevano solo un po' di fede, nel senso che era ancora acerba, doveva crescere... Come noi, erano incapaci di riconoscerlo nella tempesta. Senza fede non capiamo che proprio perché "dorme" ci ama come nessuno. "Dorme" e non ferma le guerre. "Dorme" e non guarisce il cancro di mio padre. "Dorme" e non cambia il carattere di mio marito. "Dorme" e non dà un lavoro a mio figlio. "Dorme" perché non mi ama... "Uomo di poca fede", non hai capito nulla! Gesù "amava Lazzaro", eppure si è fermato ancora due giorni dove si trovava senza scendere da lui ammalato, quasi aspettando che l’amico morisse. E quando infatti Lazzaro si “addormenta” Gesù dice ai suoi discepoli di essere felice per loro di non essere stato dall’amico, “affinché possano credere”. E proprio per crescere nella fede e "poter credere" stiamo "nella barca" come nell'utero della Chiesa, e questo è l'importante. Dio è fedele, e ha misericordia di noi, ha pazienza, sa che un giorno, daremo la vita per Cristo e la salvezza degli uomini; come gli apostoli che, rimanendo le stesse identiche persone, una volta pieni di Spirito Santo, invece di impaurirsi, si sono "addormentati" nel martirio! Gesù ci vede nella "barca" con Lui pieni di pura, ma guarda oltre, alle persone alle quali saremo inviati; ci vede tra qualche anno, in quella situazione nella quale daremo testimonianza al vangelo, anche a costo della vita. Per questo oggi Gesù si "desterà" ancora una volta a "sgridare i venti e i mari" perché torni la "bonaccia" nella nostra vita. Alla paura che ci fa sentire "perduti" di fronte alla Croce ascolterà ancora e sempre la nostra preghiera, e calmerà le tempeste: nella Chiesa, durante la gestazione dell'uomo nuovo, ci darà ancora segni della sua risurrezione su cui appoggiare la nostra "fede" che deve crescere, per divenire adulta e farci discernere nella tempesta il risveglio di satana nel campo della missione. 

lunedì 29 giugno 2020



αποφθεγμα Apoftegma

La Chiesa non è santa da se stessa; 
consiste infatti di peccatori, 
lo sappiamo e lo vediamo tutti. 
Piuttosto, essa viene sempre di nuovo santificata 
dall’amore purificatore di Cristo. 
Dio non solo ha parlato: 
ci ha amato molto realisticamente, 
amato fino alla morte del proprio Figlio. 
E’ proprio da qui che ci si mostra tutta 
la grandezza della rivelazione 
che ha come iscritto nel cuore di Dio stesso le ferite. 

Benedetto XVI


PER DIO OGNI VITA E' PREZIOSA E NEL SUO FIGLIO E' TRASFORMATA IN UN PRODIGIO CHE ANNUNCIA IL SUO AMORE 


«Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa; dove c'è la Chiesa, lì non c'è affatto morte ma vita eterna» (S. Ambrogio). Pietro e la Chiesa. E, in essa, la vita, e la fine della morte. E' questo il desiderio d'ogni uomo, il nostro desiderio d'oggi, il più profondo, il più intenso, l'anelito che freme insopprimibile in ogni parola, pensiero, azione. La vita è come il cammino dei due discepoli di Emmaus, che avevano sperato in Gesù di Nazaret, profeta potente in parole ed opere, che li avrebbe liberati e invece.... Anche Lui in una tomba da tre giorni. E le lacrime di Pietro, il tradimento e un amore strozzato nella paura di morire, di fare la stessa fine atroce. Come noi, come tutti. Tutto infranto e i desideri spezzati. Ma quella sera, all'imbrunire d'un giorno di paura, i chiavistelli della vita ben serrati, nella stanza d’una pasqua appena volata via, ecco d’improvviso apparire un volto incandescente di luce, una voce, un saluto di Pace che trapassa i muri e i cuori. La sua voce, il suo volto, le sue piaghe. E' proprio Lui, lo dicono i segni del suo amore inchiodato ad un legno. E la gioia esplode incontenibile: in quel cenacolo, in mezzo a quel manipolo terrorizzato, che è scappato, che ha tradito, l'amore era esploso in una vita più forte del peccato. E Pietro era lì; la roccia, primo tra gli apostoli, il primo ad essere perdonato, il primato del perdono. La beatitudine di Pietro è un perdono che né carne e né sangue possono rivelare perché viene dal sepolcro, ha attraversato l'inferno, e si è fatto dono gratuito e immeritato. Pietro, perdonato e per questo roccia e fondamento della Chiesa, capace di “legare” a Cristo i peccatori e “scioglierli” dal peccato, eternamente. Con Pietro nella Chiesa si apprende l'amore perché il Buon Pastore ne guida il cammino. Un Pastore incarnato nel pastore che ci è donato. Pietro, e ogni papa, schiude le porte del Cielo offrendo gratuitamente a ogni uomo l'amore di Dio. Sulla soglia del mondo Pietro è garante e custode della fede incarnata qui ed ora; dischiude le porte della sua casa, la Chiesa dov'è vivo Cristo, le viscere di misericordia di Dio. Dialogo, tolleranza, rispetto, tutto va bene per le umane, povere forze spese ad arginare il male. La casa di Pietro invece annuncia l'amore eterno, l’ unico scoglio che può infrangere ogni male. Nella Chiesa Pietro  presiede nella carità un pugno di poveri uomini strappati all'inganno segno dell'unica speranza.




Nella storia di San Paolo possiamo leggere la nostra vita. Era deciso, sicuro, religioso, zelante. Era tutto per Dio, per Lui era disposto ad incarcerare, e a uccidere. Come noi, al lavoro, in famiglia, con amici e vicini. Abbiamo la Parola di Dio dalla nostra, ne siamo certi, dobbiamo estirpare l'errore. Discussioni senza fine, polemiche, al bar, nella pausa pranzo, tra una lezione e l'altra, a cena la sera con consorte e figli. Indossata la corazza della nostra giustizia corriamo anche noi ogni giorno verso Damasco, recando lettere che ci autorizzano a gettare in prigione chi pretende di uscire dai nostri schemi. Anche in Chiesa, nelle comunità dove camminiamo per convertirci, nelle riunioni, nelle assemblee. Preti, laici, non v'è differenza, portiamo tutti la stessa armatura di certezze che abbigliava San Paolo. Ma accade l'imprevisto. Qualcosa a cui Saulo non era preparato. Qualcuno appare sul suo cammino e smonta le sue certezze. Un fatto, un avvenimento, un incontro. E inizia la conversione, la Teshuvà, il ritorno al vero, al bello, al buono, al santo. San Paolo incontra Cristo, più forte d'ogni sua ignoranza, d'ogni suo passato. Una scintilla d'amore e nasce una cosa nuova, una creatura nuova e comprende che tutto nella sua vita era orientato a quell'istante. Dio lo aveva preparato, misteriosamente, senza moralismi, salvaguardando ogni millimetro della sua libertà, accompagnando i suoi passi, permettendo che si impantanassero nell'ingiustizia, che combinassero guai e si lasciassero dietro una linea di sangue e di dolore. Dio ha avuto pazienza, e lo ha atteso nel momento più virile della sua esistenza, laddove era lanciato verso il compimento d'una menzogna. E lì, sul selciato del suo cammino lo ha amato e ricreato con un’elezione che era l’opposto di quello che era stato. Nessun rimprovero, solo una luce ad illuminare il proprio nulla e subito un invio, una missione. La vita fantastica dell'apostolo delle genti sorgeva da lì, dal suo nulla. Sulla via di Damasco Paolo ha conosciuto la risurrezione di Cristo, capace di risuscitare anche la sua vita, di fare di un persecutore un perseguitato, di un determinato accusatore uno zelante annunciatore. I segni che accompagnano gli apostoli nella missione universale, per San Paolo hanno cominciato a compiersi in quel mezzogiorno che lo ha lanciato, con lo stesso ardore, con più zelo, sulle strade che aveva detestato, quelle dell'annuncio infaticabile del Vangelo. Oggi appare anche a noi Cristo. Il “perché” che ha fermato Saulo ci viene incontro oggi, nella situazione concreta che stiamo vivendo. Perché perseguitiamo il Signore, incarnato in nostra moglie, nei nostri figli, nei colleghi, nella suocera?. Perché abbiamo dimenticato Lui e il suo amore, abbiamo sepolto la sua chiamata. Ma Lui ci viene incontro, e fa di noi i suoi apostoli, e ci lancia in tutto il mondo, lavoro, scuola, casa, supermercato, parrocchia. Ci manda oggi laddove abbiamo combinato macelli con i nostri peccati, sui sentieri che abbiamo sporcato con le maldicenze, con i giudizi, con i compromessi, con le bugie, con le concupiscenze, con l'arroganza e la superbia. Ci invia come Pietro e Paolo, segni della sua misericordia che trasforma, istante dopo istante, la nostra vita, perchè anche gli altri possano vedere, credere, e conoscere il Signore.

sabato 27 giugno 2020


CRISTO RENDE DEGNA LA SUA SPOSA CON IL SUO SANGUE UNENDOLA A SE' SULLA CROCE


Nelle parole di Gesù di questa Domenica, si legge in filigrana la vocazione dei Leviti, profezia di quella di ogni cristiano: «Il Signore disse a Mosè: Ecco, io ho scelto i leviti tra gli Israeliti al posto di ogni primogenito che nasce per primo dal seno materno tra gli Israeliti; i leviti saranno miei» (Nm 3,11). Come loro, infatti, anche noi siamo chiamati a portare il peso della nostra responsabilità. E non è facile, è un combattimento a volte aspro e cruento. Altro che sentimentalismi e buonismi... 

Se Dio ci ha scelti, e ci ha accolti nella Chiesa dove ha lavato le nostre colpe e ci sta rigenerando in una vita nuova, non è certo per fare di noi un'élite religiosa. Per comprendere per quale servizio il Signore ci sta formando vediamo quale era la missione dei Leviti. Scelti da Dio, lo avevano messo al di sopra dei loro stessi fratelli, della famiglia, di tutto; essi dissero dei propri genitori: "Non li abbiamo mai visti; non portarono riguardo ai fratelli e non conobbero i figli perché osservarono i Tuoi detti e preservarono il Tuo patto, essi insegneranno i Tuoi statuti a Giacobbe e la Tua legge ad Israele; portarono il profumo dinanzi a Te e l'olocausto sul Tuo altare" (Dt 33, 9-10). 

Proprio per compiere la loro missione, i Leviti non avevano parte con il popolo, perché il Signore era loro parte; ma questo non era una sfortuna, come spesso pensiamo noi, destinati ad una vita più grama degli altri per il fatto di essere cristiani... I Leviti sapevano che la loro eredità era magnifica, e la loro sorte era caduta su luoghi deliziosi, quelli dell'intimità con Dio. Erano, infatti, addetti alla Tenda della Riunione, il luogo ove era conservata l'Arca dell'Alleanza, nucleo di quello che nel Tempio diverrà il Santo dei Santi. 

I Leviti custodivano così la Presenza di Dio, scelti come primizie del popolo per assicurare assistenza al Signore. La loro vita era tutta per l'Arca, ovvero per Dio stesso; in essa, nel giorno di Yom Kippur, il Sommo Sacerdote gridando il Nome dell'Altissimo, impetrava e otteneva il perdono per tutto il popolo. Nulla potevano amare più dell'Arca che custodiva la Presenza di Dio, difesa e vittoria del Popolo. Erano per Dio e per questo erano per ogni loro fratello. Proprio la "separazione" da ogni legame di carne li donava a tutti: se cadevano loro cadeva il popolo. 

Così anche noi siamo stati chiamati ad essere per il mondo i custodi della Presenza di Dio. E questo è infinitamente più importante di ogni legame: la nostra primogenitura è l'assicurazione per il Cielo che Dio offre ad ogni uomo. Per salvare chi ci è accanto e ci è stato affidato, è necessario che la Croce che ci fa Leviti della sua presenza e tabernacolo della misericordia ci unisca a Lui in un amore indissolubile. Perché siano salvati e accompagnati, ogni giorno, in Cielo, nella comunione con Dio, è necessario che le persone a cui siamo legate con un affetto più intimo, siano amate nella libertà possibile solo a chi ama dalla Croce portata ogni giorno. Ciò significa che proprio la nostra debolezza affettiva, quella che ci fa dipendere dalla stima, dalla considerazione, dall'attenzione e dall'affetto degli altri, sia consegnata a Cristo perché purifichi il nostro cuore colmandolo del suo amore eterno, incondizionato, illimitato. E ciò avviene solo sulla Croce, dove la debolezza che definisce i nostri limiti e le nostre incapacità non conducono alla frustrazione e alla distruzione violenta e rancorosa delle relazioni, ma alla sua trasfigurazione. 

Sulla Croce infatti, la nostra debolezza è consegnata a Cristo che ha il potere di farne il tabernacolo della sua onnipotenza. Su di essa, infatti, Egli ha rivelato che, unendo alla sua la nostra carne gravida di corruzione e incapace di obbedire alla volontà di Dio e di amare l'altro d'amore incorruttibile, proprio lasciando inchiodare la sua carne all'impotenza e alla morte, ha per così dire trascinato nella morte per annientarlo in essa il peccato che ci tiene schiavi della paura incatenandoci a un'affettività malata e infeconda. Per questo il Signore ci dice di portare con Lui ogni giorno la nostra Croce, offrendoci così la possibilità di sperimentare che i chiodi che ci infilzano nella debolezza sono gli stessi che hanno trafitto la sua carne per rendere proprio quella debolezza lo scrigno capace di accogliere il suo amore incorruttibile e infinito, capace di varcare i limiti della morbosità e dell'affettività malata. 

Caricare la Croce è accogliere la libertà autentica che su di essa il Signore ha fatto risplendere e che ci vuol donare in ogni circostanza della nostra vita. Siccome tutti noi siamo gestati alla vita in una famiglia, Gesù ci chiama oggi a un'autentica rigenerazione interiore che non può non passare per una purificazione delle relazioni più intime che ci hanno segnato e continuano a segnarci, inquinando tutte le altre. Non a caso il Signore evita di citare marito o moglie; prima di essere sposi e spose infatti, siamo figli dei nostri genitori, dai quali ci ricorda la Scrittura, abbiamo " ereditato la nostra vuota condotta", perché per tutti vale quanto recita il salmo 50 che Davide ha composto dopo aver peccato preda di una passione morbosa, immagine di ogni nostra relazione malata e fondata sulla carne: "nel peccato mi ha concepito mia madre". 

Abbiamo per questo bisogno di un'altra Madre che ci rigeneri cancellando il peccato di origine e che ci accompagni e aiuti a consegnare a Cristo sulla Croce la nostra debolezza, ovvero le ferite di quel peccato che ancora portiamo nella nostra carne. A lasciare cioè che il Signore ci unisca a Lui nel suo Corpo che è la Chiesa perché, per mezzo della Parola che illumina e dei sacramenti che realizzano in noi la sua vittoria sul peccato e la morte, proprio quelle ferite diventino le porte attraverso le quali passi a chi ci è accanto il suo amore libero e incorrotto. 

Nella Chiesa sperimentiamo come Cristo che la morte e la corruzione degli affetti e degli idoli mondani non hanno più potere su di noi perché, sepolti con Lui nel battesimo che continua a compiersi nei sacramenti, possiamo risuscitare e camminare in una vita nuova, che è esattamente quella di chi è reso "degno" dello Sposo. La vita della sua Sposa liberata dal peccato che ama nella libertà ogni persona perché Cristo è il "peso", il "valore" della sua vita e della sua persona, secondo un altro significato del termine "degno" nell'originale greco. Lo Sposo, infatti, nulla ha anteposto alla volontà del Padre che era ed è la salvezza di ogni uomo, la tua e la mia, per rendersi "degno" della sua Sposa. Dà le vertigini, ma è proprio così, Lui ci ha amati sino alla fine, non anteponendo neppure suo Padre e sua Madre pur di essere "degno" di te e di me. Sulla Croce, infatti, ha sperimentato nel suo intimo addirittura l'abbandono e l'estrema lontananza del Padre - "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato" - mentre consegnava sua Madre come Madre a Giovanni immagine di ogni suo discepolo, e questi a Maria come figlio. 

E' sulla Croce dunque che possiamo accogliere la vita nuova che ci offre il Signore attraverso Maria Madre nostra e immagine della Chiesa che ci gesta nella fede. "Amare la propria vita", smettere cioè di portare la Croce e difendere i propri spazi, i criteri, le comodità, rifiutando la precarietà di chi ha le radici solo in Cristo, significa vedersela sfilare e perderla inesorabilmente: "trovare" la vita, infatti, per un apostolo significa "trovare" in Cielo tutti coloro che il "Nome" di Gesù ha iscritto nei Cieli. Se ne mancherà qualcuno significa che avremo difeso la vita in tutte quelle circostanze nelle quali Dio aveva messo sul nostro cammino persone segnate dal suo Nome: ad esempio, quando non avremo perdonato quel collega, o non avremo lasciato che quel parente si porti via il nostro denaro, o avremo mentito al figlio sulla fede.

Coraggio fratelli, il Signore è vivo in noi, novelli Leviti del Terzo Millennio. Siamo chiamati a portare l'Arca dell'Alleanza Nuova ed Eterna che Gesù ha stabilito con l'umanità: piccoli, deboli, incompresi, rifiutati, umiliati. Cristiani, testimoni cioè che le Parole che in questa Domenica ci annuncia il Signore sono vere perché si compiono in noi. Annunciatori cioè che Lui è il "valore" della vita di ogni persona a chi è ancora stretto dai lacci dell'affettività perché schiavo del peccato. Offrendo a chiunque ci incontri di amare e servire Cristo in noi, nell'Arca che custodisce Cristo che è la nostra vita; le nostre storie custodiscono la Presenza misteriosa di Dio. 

Solo se saremo assetati, bisognosi di tutto, come Gesù sulla Croce, potremo offrire, dalla nostra Croce, la ricompensa eterna a chi ci è vicino. Guarda che è quando sei "piccolo" che sei "suo discepolo"; quando sei debole che Cristo si fa pienamente presente in te. Quando davanti alla moglie sei indifeso, e ti umili, Lui in te sta allungando la sua mano perché lei, attraverso di te, gli dia "un bicchiere di acqua". Le umiliazioni ci fanno "piccoli" e per questo "discepoli"; e solo nei "piccoli" il mondo può accogliere Dio. E' tutto rovesciato, anche nel ministero presbiterale, la missione comincia quando la storia rimpicciolisce e indebolisce. 

E' questa l'unica vera preoccupazione di un sacerdote: essere piccolo, cioè esattamente quello che è e che gli eventi plasmano giorno dopo giorno. Altro che messe piene di gente, catechesi applaudite, fedeli che si impegnano per fare una parrocchia modello. Allo stesso modo si è padre e madre quando si è "piccoli", indifesi, deboli, e i figli ci possono conoscere per ciò che veramente siamo. Con un carattere terribile, che litighiamo sempre tra noi, fragili: allora i figli avranno compassione di noi e, magari con un gesto solo, accoglieranno Cristo, e il Padre nella propria vita. Molto più che in virtù di sermoni e moralismi. La conversione degli altri parte sempre dalla nostra, che significa accettare si essere quel che siamo, e di scendere i gradini dell'umiltà. Solo così, anche oggi, la nostra vita, libera e unita al Signore, sarà un segno per ogni uomo. Un segno di Cristo crocifisso, amore puro del Padre; e anche un segno del Cielo, che ha i colori e la fragranza della Pace che regna nei nostri cuori. 

Ecco, il segreto della vita è essere così piccoli da contenere l'Infinitamente Grande, come Gesù che si è fatto bambino e poi servo e poi crocifisso, l'ultimo, il più piccolo, per fare spazio nella sua carne all'infinito amore del Padre. Solo assumendo ogni giorno la nostra storia compiremo la missione che ci è stata affidata, quella di portare l'Arca, la nostra carne nella storia che custodisce la Presenza divina. Senza dimenticare mai che "è la Torà che porta noi. È lei che ci mantiene in vita come popolo e che ci garantisce continuità", perché ormai siamo, nel Signore che è la Torà viva e compiuta nella Chiesa e in noi, "morti al peccato, siamo viventi per Dio in Cristo Gesù".