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lunedì 31 agosto 2020

 GESU' E' IL PROFETA CHE FA DI OGNI "OGGI" IL COMPIMENTO DELL'AMORE DI DIO





La fede non è un salto nel buio: «Che cosa è infatti il cristianesimo? È forse una dottrina che si può ripetere in una scuola di religione? È forse un seguito di leggi morali? È forse un certo complesso di riti? Tutto questo è secondario, viene dopo. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento» (Don Luigi Giussani). La fede, nel cristianesimo, è l’esperienza fondante che continua a ripetersi nell'arco di una vita, come quella offerta da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. 

In ebraico la parola fede, emunah, non ha il significato che siamo soliti conferirgli: essa rimanda a un sostegno, a qualcosa di fermo su cui poter appoggiarsi: "in Cristo abbiamo come un'àncora della nostra fede" (Eb. 6,19). In quella sinagoga Gesù inaugura la sua missione, laddove era stato “allevato” nello studio della Torah, e aveva appreso, Lui l'Autore della Legge, la fede del suo Popolo. Gesù torna alle origini, alle fonti della sua storia, che è la storia di Dio con il suo Popolo, perché "il punto di partenza (del cristianesimo) è l'esperienza della fede come realtà” (Card. Ratzinger). 

Gesù inizia dunque dalla sua stessa realtà, dall'avvenimento che lo ha introdotto nel mondo. Gesù incarna Dio nella carne di ogni uomo: e lo fa a partire dai suoi parenti, dai suoi amici; dalle strade, le botteghe, le piazze dove è cresciuto, dai luoghi e dalle persone che gli sono più familiari, come una profezia per tutte le Nazaret della storia, anche le nostre. 

L’annuncio del Vangelo, infatti, svela il mistero dell’appartenenza a Dio di ogni uomo. Ogni realtà nella quale viene proclamata la Buona Notizia diviene come Nazaret, la città del Figlio di Dio, perché essa illumina il passato e il presente con il bagliore della vittoria di Cristo, e cambia il corso della storia dischiudendo un futuro di salvezza. Chiunque ascolti la predicazione si sente familiare e amico di Gesù, protagonista della storia di salvezza con cui Dio ha condotto il suo popolo. 

La storia di un innamoramento fattosi amore travolgente, sigillato in un'alleanza eterna; ma anche storia di tradimenti, cadute, e perdono e misericordia. Una storia di “schiavitù, oppressione, povertà e cecità”, quella di un resto umiliato, con gli "occhi fissi" su una promessa, nell’attesa ardente del suo compimento. Il “Sabato” per Israele è tutto questo, il compimento delle nozze promesse. 

Ma, per guardare alla realtà senza pregiudizi e lasciarsi salvare dalla predicazione, occorrono occhi umili e semplici, “occhi fissi su Gesù”. In ebraico il valore numerico delle lettere che formano la parola emunah (fede), corrisponde al valore numerico della parola bambini. Occhi di bambini dunque, sempre in attesa, che, nella tradizione ebraica, si schiudono solo nello Shabbat.

In ebraico shabbat è femminile, e in tutta la simbologia il sabato è paragonato alla sposa. Il canto per eccellenza con cui si accoglie questa festa è Lehà doddì = Vieni mio caro, dalle prime due parole del ritornello che viene ripetuto dopo ogni strofa. Israele viene presentato come uno sposo invitato ad incontrare la sua sposa: “Vieni mio caro incontro alla sposa, accogliamo shabbat”. Nel sabato risuonano le parole del Cantico dei Cantici, e in quel sabato a Nazaret era finalmente giunto lo Sposo. 

"Secondo il suo solito" Gesù si reca alla sinagoga, ma quel giorno è diverso dal solito. Come da sempre Egli è stato con noi, in ogni istante, "secondo il suo solito"; ma vi è un momento che è diverso, quando tutto acquista il sapore della novità. E' diverso l'istante nel quale risuona l'annuncio del Vangelo, e quel giorno, forse grigio di stanca routine, o zuppo di dolore e lacrime, è trasformato nel Sabato delle nozze, giorno di festa e felicità, per ogni uomo di qualsiasi parte del mondo. Per questo San Paolo dirà "guai a me se non evangelizzassi": sapeva infatti che la stoltezza della predicazione è lo strumento che Dio ha scelto per donare la fede, l'àncora che mette in salvo la vita. 

Ecco dunque lo sposo dietro la grata, eccolo raccogliere il rotolo del Libro, dove è scritta la sua storia e la volontà del Padre. Ecco il corpo preparato per rivelare l'Eterno, l'amore promesso, tante volte donato, e ora vivo davanti ai suoi compatrioti; come oggi è dinanzi a ciascuno di noi Gesù, incarnato nella sua Parola, nei sacramenti, nell’amore e nell’unità, la comunione più forte della morte che fa della Chiesa il suo corpo nella storia. 

Ecco Gesù, oggi, ora: ci ha raggiunti nella nostra storia, che è anche la sua, e lo possiamo fissare per raccogliere anche solo una goccia della rugiada d’amore che sgorga dal suo cuore. Ecco il sabato compiuto, il riposo agognato, quel volto di ebreo che stilla dolcezza e attira irresistibilmente ogni sguardo. 

Eccolo consegnare un oggi eterno di misericordia, in quell'istante di duemila anni fa come in ogni istante di ogni vita, terra dissodata dalle vicende della storia di ciascuno, divenuta oggi fertile perché visitata da Lui, zolle fresche dove deporre la Parola già compiuta. 

Ecco la “libertà, la salvezza, la guarigione”, la gioia che solo la sua presenza nella nostra vita può generare, perché “quando il Signore predica, il cielo si apre, la fame è tolta, le anime dei fedeli si inebriano del nettare celeste” (San Bruno di Segni). Tutta la storia di Israele si fissa in quell'istante, e la nostra in questo giorno, e trova senso e compimento, e benedizione stupita. 

Ecco la sua voce, quelle parole che chi ce le ha mai dette così?, e l'invito ad alzarci e ad andare con Lui, perché l'inverno della morte e del peccato è passato, è già ora incipiente la primavera della Pasqua, della vita rinata per non morire più. E' Lui che aspettavamo, da sempre, il "più bello tra i figli di Adamo". 

E' Lui il Profeta che oggi spalanca le sue braccia e dilata il suo cuore per sposarci, per attirarci nel suo amore infinito, per dare luce e splendore, sapore e allegria alle nostre esistenze, crocifisse e dolenti che siano. Gesù è il Profeta che illumina "il solito" della nostra vita, la Nazaret dove abitiamo, con la luce del Vangelo, che è la sua stessa presenza nella nostra quotidianità: "L’elemento essenziale del profeta non è quello di predire i futuri avvenimenti; il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro" (Joseph Ratzinger). 

Ma in quel sabato nella sinagoga di Nazaret, era esplosa una bomba: Gesù, il figlio di Giuseppe il carpentiere, l'aveva lanciata nel mezzo dell'assemblea di cui aveva fatto parte tante volte; quel ragazzo che tutti conoscevano aveva appena annunciato che la profezia ascoltata si era compiuta proprio in Lui, proprio in quell'oggi. E che reazione all'ascolto di una cosa simile! E che mistero l'operare di Dio, lasciare trent'anni il suo Figlio inviato per salvare l'umanità nel semplice e umile nascondimento di Nazaret, a vivere una vita normalissima, mescolata a quella dei suoi compatrioti. 

I Vangeli registrano un solo segno all'alba della dell'incarnazione, anch'esso segreto e serbato nel cuore della Vergine Maria. E sospetti, giudizi e dolore per quella giovane Madre. Poi più nulla, giorni uguali a quelli di ogni altro abitante di Nazaret, sino a quel sabato quando dalla bocca di Gesù è esplosa la bomba di una notizia sconvolgente. Dio, infatti, ha voluto avvolgere di mistero l'identità del Figlio per svelare il mistero del cuore dell'uomo. La carne ed il sangue, da soli, non possono vedere Dio e non morire: "Troppo grande è la forza di verità e di luce! Se l'uomo tocca questa corrente assoluta, non sopravvive" (Benedetto XVI). 

Per vedere Dio e sopravvivere occorre un cuore puro. Da esso, come da una fonte intima, deve scaturire un'acqua pura capace di irrigare i sensi, la ragione e gli affetti per riconoscere le sembianze di Dio nelle persone e negli eventi. Per i concittadini di Gesù si trattava dunque di una questione di cuore, qualcosa che muove la ragione e la sospinge verso un abbraccio che accolga, riconosca, ami davvero. Avevano vissuto con Gesù, ma in fondo per loro era rimasto indifferente; anni passati a contatto con Lui ma non lo avevano amato, e per questo non avevano potuto cogliere il suo mistero, che anzi li aveva scandalizzati generando in loro ira e violenza. 

Gesù, nel suo mistero, si rivela profeta e profezia, ed è rifiutato. I "figli dello stesso padre" - la parola patria, in greco come in latino e in italiano deriva da padre - non lo possono afferrare e possedere attraverso la carne e il pensiero, perché Egli passa e sfugge ad ogni dominio; l'occhio del loro cuore è impuro, paralizzato sulla soglia del mistero. Accoglierlo significherebbe riconoscere la propria debolezza, il bisogno di purificazione e perdono, umiliarsi e inchinarsi di fronte a qualcosa di più grande, sconosciuto, che nel rivelarsi illumina e sazia. Riconoscerlo nel suo mistero significherebbe riconoscersi peccatori.

Non è dunque la familiarità sociale o di sangue che determina la conoscenza. La vedova di Zarepta e Naaman il Siro erano pagani, eppure hanno visto Dio, perché l'indigenza e il bisogno ne avevano purificato il cuore. Può vedere Dio solo l'occhio purificato dal crogiuolo della sofferenza. La vera Patria di Gesù non è la Nazaret geografica e i "suoi" non sono quelli che vi sono nati: la Patria di Gesù è la Croce e i suoi compatrioti sono i peccatori. Per loro si è fatto peccato, con loro ha condiviso il destino di morte per trasformarlo in destino di perdono e di vita. 

E' questo il mistero celato in Gesù di Nazaret, il Messia sofferente, il Servo di Yahwè umiliato, disprezzato, rifiuto degli uomini, l'agnello che si è caricato di ogni iniquità. Anche noi all'apparire del mistero che avvolge chi ci è vicino, temiamo e ci difendiamo chiudendoci a riccio, rifiutando ciò che sfugge ai nostri criteri collaudati. 

Amare il mistero celato nell'altro infatti è la condizione perché egli entri a far parte di noi stessi, ci stupisca e coinvolga nel prodigio di cui è profezia. L'amore per il mistero è la condizione per la castità, dei sentimenti come della carne, porta dischiusa alla purezza del cuore capace di vedere trasfigurata la realtà. Si può vivere anni accanto ad una persona, alla moglie, al marito, ai figli, e non aver amato neanche per un giorno il mistero che li avvolge. 

Siamo indisponibili ad accogliere quanto potrebbe sconvolgere le nostre esistenze, preferiamo presidiare il poco che abbiamo tra le mani, esaltandolo a criterio e verità assoluti. Ci illudiamo di conoscere, mentre ci sforziamo di possedere nella speranza di non perdere quanto vorremmo che ci saziasse


E così ci ritroviamo a spingere l'altro sul "ciglio del monte per buttarlo nel precipizio", nell'estremo tentativo di far tacere quel mistero che bussa, tenace, alla porta del nostro cuore. L'esito di ogni possesso infatti, è l'omicidio dell'altro: moglie, marito, chiunque interpelli il nostro cuore, ci svela indigenti e inadeguati, peccatori. Il mistero racchiuso nel prossimo è una chiamata all'amore, e ne siamo sprovvisti. Abbiamo bisogno di un cuore contrito e umiliato, un cuore puro capace di vedere Dio nell'amore incarnato in suo Figlio.

Paradossalmente, un cuore puro è un cuore che riconosce d'essere malato, sentina di vizi e fonte di peccatoE lì, nella realtà, riconoscere in Gesù il fratello, il compatriota che ha condiviso la nostra patria di morte. Per il nostro cuore "vedovo e lebbroso" è preparato quest'oggi nel quale Gesù ci annuncia di nuovo la Buona Notizia, la profezia che viene a compiere il Profeta nella sua Patria.


E' uno scandalo che si rinnova ogni giorno, quello del Cielo chiuso sui religiosi, sui bravi e a posto, forse sui preti e le suore, ma aperto sui pagani, sui lontani, sui peccatori. Abbiamo occhi per vedere che la fede sta muovendo nostro figlio, nostra moglie, quella persona che abbiamo da sempre disprezzato? Abbiamo lo sguardo limpido per riconoscere l'opera di Dio che risuscita e perdona chi abbiamo giudicato e considerato ormai irrecuperabile? Gesù "passa" tra le nostre invidie e le nostre gelosie, sul ciglio del monte dove lo abbiamo spinto per ucciderlo.

Gesù "fa Pasqua" e inaugura un cammino in mezzo ai pregiudizi della carne, quelli che infestano le nostre famiglie, i nostri luoghi di lavoro, studio e svago. E ci indica un "più in là" dove seguirlo, oltre Nazaret, al di là di quello che la carne non può accettare perché malata e terrorizzata dalla morte. Gesù "passa" e ci indica il Cielo.



In ogni persona che si affaccia all'uscio del nostro cuore e bussa alla nostra carne dolente, è nascosto il mistero di Cristo mendicante i nostri peccati; Egli desidera l'unico linguaggio d'amore di cui siamo capaci, quello di chi, vedovo e impuro, può solo inginocchiarsi e consegnargli la propria infermità, per ricevere la sua misericordia rigenerante. Gesù mendica e dona nello stesso momento.

Vedere il Messia, il Salvatore, l'amore di Dio nell'altro significa dunque incamminarsi con Lui sul sentiero della Croce, sulla quale consegnargli i nostri peccati, scoprendo in essa la Patria d'amore dove, amati, impariamo ad amare: ah, mio marito è la Patria, l'anticipo di Cielo, il Regno dove "passare" con Cristo al di là della carne, della concupiscenza e dell'egoismo? Sì, il marito, la moglie, il figlio e il collega, Nazaret e molto più di Nazaret: in loro si inaugura l'anno eterno di misericordia, il "condono tombale" di ogni debito, la creazione nuova dove vivere in libertà e amore.

"Il vedere si realizza nella sequela, che significa vivere nel luogo dove Gesù dimora. Questo luogo è la sua passione, qui soltanto è presente la sua gloria. Che cos’è accaduto? L’idea del “vedere” ha assunto una dinamica insospettata. Si vede prendendo parte alla passione di Gesù. Acquista così tutto il suo alto significato la profezia: "Guarderanno a colui che hanno trafitto". Vedere Gesù, vedendo in lui allo stesso tempo il Padre, è un atto dell’intera esistenza" (Joseph Ratzinger).

Lo abbiamo trafitto, anche oggi; ma ci è data la possibilità di vedere nelle sue ferite la Vita che Egli ci ha offerto ancor prima che gliela strappassimo; oggi possiamo guardare lo Sposo che viene nella sua Patria e accoglierlo perché la trasformi in un giardino di delizie, colmo di frutti maturi, l'amore che vince morte e peccato.

venerdì 28 agosto 2020

 

APPROFITTANDO DI OGNI OCCASIONE PER ACCOGLIERE L'AMORE DELLO SPOSO E IN ESSO AMARE
Il cristianesimo è una cosa seria, non è sentimentalismo e amore sdolcinato. E' una missione, e chi è chiamato ad essere cristiano, deve sapere che diventarlo significa essere trasformati in sale, luce e lievito del mondo, offrendo se stesso per salvezza di ogni uomo. Le "dieci vergini" erano delle damigelle di onore allo sposo che, secondo la tradizione ebraica, dovevano accompagnare alla casa della sposa e da qui alla sala del banchetto. Loro compito era tenere accese le lampade nel momento in cui lo Sposo tornava dalle spesso lunghe trattative pre-matrimoniali, e per questo avevano anche un "piccolo vaso" che conteneva l'olio di riserva. Esse rappresentano i chiamati ad essere cristiani ai quali è stata donata la primogenitura: i cristiani sono chiamati a fare da corona allo Sposo quando tornerà, a sedere sui troni accanto a Lui e a giudicare le Nazioni. Essi sono promessi a un unico sposo, per essere presentati quali vergini caste a Cristo (cfr. 2 Cor. 11,2). E San Paolo sta parlando del battesimo. Durante la "Veglia" Pasquale, dopo essere scesi nel fonte battesimale e aver ricevuto l'unzione con l'olio crismale (la cresima), colmi dello Spirito Santo i neofiti attendevano lo Sposo per entrare con Lui al banchetto. Erano "vergini", cioè rinnovati e senza peccato originale, e "nei piccoli vasi" avevano l'olio dello Spirito Santo che aveva compiuto in loro segni e prodigi durante l'iniziazione cristiana conducendoli alla statura adulta della fede. Avevano "vigilato" e ora, con i loro piccoli vasi colmi del crisma, erano pronti ad accendere le "fiaccole" con la luce delle opere sante e soprannaturali che rivelavano in essi la nuova natura ricevuta. E proprio nel cuore della notte di Pasqua, un grido li destava: "ecco lo sposo!", è risorto, "andategli incontro". Allora essi si alzavano dal sonno, andavano ad accogliere il Signore che li conduceva con Lui al banchetto dell'Eucarestia, culmine e fonte della liturgia. Anche per noi, la chiamata che abbiamo accolto nelle diverse circostanze, ha inaugurato un cammino attraverso la storia reale e concreta di ciascuno per giungere alla maturità della fede. Creati a sua immagine dobbiamo crescere in esso perché, al giungere dello Sposo, al termine del nostro catecumenato come poi alla fine del mondo, Egli possa "riconoscerci" quali suoi fratelli, chiamarci, destarci e farci nascere alla vita che non muore. Per questo, le nozze eterne si preparano durante tutta la vita. Un fidanzamento, un matrimonio, il ministero presbiterale, la consacrazione religiosa, la maternità e la paternità, anche un'amicizia, non sono cose di un momento, non sono avventure e passioni, roba da grandi quanto effimeri entusiasmi. Tutto si costruisce passo dopo passo, attraverso la fedeltà nelle piccole cose: "afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in modo straordinario" (Card. Van Thuan). La saggezza è questa fedeltà paziente e semplice; la stoltezza è la superficialità che disprezza il sacrificio quotidiano aspettando il grande slancio, le emozioni forti. La "sapienza" è l'umiltà fondata nella verità. La "stoltezza" è la superbia radicata nella menzogna. La vita è molto seria, e quella eterna ce la giochiamo qui, come ogni uomo; per questo il cristianesimo è quanto di più serio vi sia. Solo percorrendo un serio cammino di conversione potremo ascoltare il grido che annuncerà l'arrivo dello Sposo e trovarci pronti per entrare con Lui nelle nozze. I "piccoli vasi" indicano le orme che precedono i nostri passi: essi sono immagine delle piccole occasioni che Dio ci offre nella nostra storia; è in esse che occorre essere fedeli, pronti, colmi di olio. Per questo la vera saggezza è procurarsi l'olio dello Spirito Santo, rinnovare ad ogni evento della vita l'Alleanza che ci fa primogeniti. Ci si può addormentare, siamo deboli, ma è proprio nella debolezza che si manifesta la potenza di Dio. Anche Adamo si è addormentato, e fu vita tratta dalla sua stessa carne. Anche Abramo fu preso da un torpore, e fu l'Alleanza incorruttibile. Anche i discepoli cedettero agli occhi appesantiti, e fu il compimento definitivo della Volontà di Dio. In comune tutti hanno la propria debolezza e il potere di Dio: è Lui che fa tutto, perché Dio dona il pane ai suoi amici nel sonno: mentre dormiamo pulsa la vita autentica, ed è il mistero a cui siamo chiamati, la vita nella morte. La primogenitura è, essenzialmente, vivere senza timore nel sonno della morte che ogni giorno prende le nostre vite, tenendo desto il cuore colmo di Spirito Santo. E ciò accade se camminiamo nella Chiesa, se alimentiamo i piccoli vasi con l'ascolto della Parola di Dio, con i sacramenti, con la frequenza alle liturgie; nel seno della Chiesa, infatti, impariamo a nutrire l'uomo nuovo che vi è gestato: e ogni gravidanza inizia con un "ritardo"... Per questo il ritardo del Signore è fecondo, perché in esso si cela il suo mistero di Pasqua, di vita che distrugge la morte. Gli stessi verbi utilizzati da Matteo rimandano a questo significato: le vergini si "destano" come il Signore si "desta" dalla morte! Il ritardo è l'occasione per crescere nell'amore, per prepararsi all'incontro con lo Sposo, per assomigliare a Lui in tutto. Così ogni ritardo nella nostra vita, quello della moglie nello stirare la camicia e del marito nel comprendere le esigenze della sposa, quello dei figli nell'obbedire e dei genitori nell'ascoltare i figli, quello del corpo che non ce la fa a guarire, quello del datore di lavoro nel promuoverci o nel darci le ferie o lo stipendio; tutto ciò che ritarda il compimento dei nostri desideri e delle nostre speranze costituisce l'occasione per vivere come primogeniti che hanno i nomi iscritti nei cieli, pronti al sacrificio, a crocifiggere la propria carne con le sue passioni, e a vivere la vita nuova secondo lo Spirito. Essere "vigilanti" è, secondo il grande esegeta H. Schlier, essere sobrii, che "significa vedere e prendere le cose così come esse sono». Prenderle anche quando richiedono un sacrificio, che è l'unico polo capace di attrarre l'attesa e tenerla desta orientandola verso la bellezza.
San Paolo, dopo aver ricordato ai Galati che “il tempo è breve”, conclude dicendo: “Dunque, fino a quando abbiamo tempo, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede!”. Operare il bene che lo Spirito Santo ispira e compie attraverso di noi, nei fatti e con le persone di ogni giorno: il lavoro con le sue difficoltà, le occasioni per prendere su di sé le pratiche dei colleghi e, per amore, rinunciare al proprio prestigio; il fidanzamento ancorato alla speranza di veder compiuto il desiderio di amare, attraverso il combattimento per la castità, per il rispetto, per la libertà dell'altro, imparando nei piccoli frammenti di vita a rinunciare a se stessi; il matrimonio aperto alla vita, alla volontà di Dio, nelle occasioni di fedeltà che si presentano ogni giorno, nella pazienza e nel dono del proprio tempo, dei propri gusti, accompagnando il coniuge, in tutto, verso l'obbedienza a Cristo; i genitori a cui obbedire anche nelle cose più banali, come lavare i piatti, rifare il letto e lavarsi i denti; la scuola nella quale approfittare per imparare a fare anche ciò che non piace, rinunciando alle più allettanti e gratificanti per compiere la volontà di Dio; la vita religiosa nella quale cogliere l'occasione per obbedire ai superiori, che ci appaiono così spesso meno perspicaci e illuminati di noi, per imparare ad ancorare la vita in Cristo e non negli uomini attraverso i quali Egli ci parla. Tutto quello che ci è dato di vivere è un'occasione per crescere e prepararsi all'ultima opportunità, quella che ci attende sulla soglia del banchetto escatologico. Solo gli stolti si lasciano scappare i kairos pieni di amore, i fatti e le persone che Dio ci invia ogni giorno perché siano vissuti cristianamente, intrisi cioè nell'unzione del Crisma profetico, sacerdotale e regale. In tutto come profeti del Cielo, re della carne e dei suoi desideri, sacerdoti che intercedono per ogni uomo. Le vergini stolte sono, infatti, immagine di chi non persevera nelle opere di Cristo, preferendo, per sciatteria e superficialità, le proprie. Dormono ma il loro cuore non veglia. Ogni relazione, ogni esperienza è per loro come quella di un corpo addormentato dopo un'ubriacatura, preda di sogni e passioni, ma incapace di cogliere la realtà nella sua essenza. Vivono tutto addormentate nel sonno drogato della carne, con il cuore assente e vuoto, come i loro piccoli vasi. Non possono colmare d'amore le occasioni che Dio dona loro. Fanno, disfano e non resta nulla: opere morte, opere addormentate. Così è di tanti matrimoni, di tanti fidanzamenti, di tante amicizie: "Invece che spalancare le braccia ad abbracciare il mondo, si vuole ridurre l'abbraccio all'oggetto che piace, che ci è davanti, e così uno lancia le braccia - secondo il paragone dell'Eneide - e stringe il nulla, abbraccia e stringe il niente" (Mons. Luigi Giussani). Sono stolte perché nemmeno si rendono conto di essere state chiamate ad accompagnare lo Sposo, ad esserne le damigelle d'onore; hanno dimenticato l'abito nuziale, l'olio per le lampade, la primogenitura: sono stolte perché senza memoria. Hanno, come tanti di noi, partecipato al memoriale della Pasqua del Signore, sorgente e compimento della vocazione, ma non hanno mai rinnovato nulla, non hanno mai accolto davvero la Grazia offerta dalla Chiesa: sacramenti, preghiere, riunioni, forse anche buone opere, ma tutto come vasi forati, incapaci di trattenere lo Spirito Santo. Stolte come chi pensa di poterla comunque sfangare alla fine, anche se nella vita ha sempre schivato il sacrificio, le piccole occasioni, dissipando l'olio ricevuto senza provvederne dell'altro. La stoltezza è negare la Croce, ed è sempre opera dell'anticristo che nega l'incarnazione, le piccole occasioni dove incontrare il Signore. Ma, alla resa dei conti, la stoltezza si rivela per quello che è: zizzania cresciuta accanto al grano, buona solo per essere gettata fuori. Si muore come si è vissuti: benedicendo per chi ha benedetto; amando per chi ha amato. Per questo, come alla fine della vita, anche ogni giorno occorre pensare seriamente e saggiamente a se stessi. Vi sono cose che nessuno potrà mai fare per noi. Non è possibile distribuire l'olio destinato a ciascuno, perché non ne venga a mancare a tutti. Si può amare, pregare, offrire la propria vita, ma l'olio dello Spirito Santo capace di far compiere le opere per le quali siamo predestinati, quello è dono esclusivo di Dio. A Lui bisogna chiederlo al tempo opportuno. Non c'è sentimentalismo o pietismo che tenga: nulla possiamo anteporre a Cristo. Nulla all'obbedienza e all'intimità con Lui. Vi è sempre un ordine fondamentale, perduto il quale si inciampa e ci si perde: una madre non può trascurare il proprio rapporto con il Signore per tentare di aiutare suo figlio. Sarebbe assorbita dalle stesse sabbie mobili. Così per ogni relazione: quanti ragazzi distruggono la propria vita per tentare di salvare l'amico o la fidanzata drogata, perdendo il proprio olio e non offrendo nulla se non la propria indifesa debolezza. E' Cristo e solo Lui che scende nella morte, che perdona e risuscita: noi possiamo e siamo chiamati ad annunciarLo, a condurre al suo trono di misericordia chi amiamo, non a sostituirci a Lui. Per questo l'amore autentico agli altri sorge da un'intimità profonda con il Signore: spesso è meglio parlare a Dio delle persone che alle persone di Dio. La libertà è la firma di Dio nella vita di ciascuno e spesso ci procura dolore; la stoltezza di un figlio, di un amico, di una persona cara ci spezza il cuore, ma non possiamo sostituirci a lui. L'unico che è morto al posto di ciascuno di noi è Cristo! Amare autenticamente, saggiamente, è dunque curare il nostro cuore, tenerlo desto, ricevere e custodire lo Spirito Santo perché in noi ogni stolto possa incontrare Lui, e, se ancora in tempo, accogliere il suo amore.

 


Le "dieci vergini" erano delle damigelle di onore allo sposo che, secondo la tradizione ebraica, dovevano accompagnare alla casa della sposa e da qui alla sala del banchetto. Loro compito era tenere accese le lampade nel momento in cui lo Sposo tornava dalle spesso lunghe trattative pre-matrimoniali, e per questo avevano anche un "piccolo vaso" che conteneva l'olio di riserva. Esse rappresentano i chiamati ad essere cristiani ai quali è stata donata la primogenitura: i cristiani sono chiamati a fare da corona allo Sposo quando tornerà, a sedere sui troni accanto a Lui e a giudicare le Nazioni. Essi sono promessi a un unico sposo, per essere presentati quali vergini caste a Cristo (cfr. 2 Cor. 11,2). E San Paolo sta parlando del battesimo. La chiamata che abbiamo accolto nelle diverse circostanze, ha inaugurato un cammino attraverso la storia reale e concreta di ciascuno per giungere alla maturità della fede. Creati a sua immagine dobbiamo crescere in esso perché, al giungere dello Sposo, al termine del nostro cammino di fede come poi alla fine del mondo, Egli possa "riconoscerci" quali suoi fratelli, chiamarci, destarci e farci nascere alla vita che non muore. Per questo, le nozze eterne si preparano durante tutta la vita. Un fidanzamento, un matrimonio, il ministero presbiterale, la consacrazione religiosa, la maternità e la paternità, anche un'amicizia, non sono cose di un momento, non sono avventure e passioni, roba da grandi quanto effimeri entusiasmi. Tutto si costruisce passo dopo passo, attraverso la fedeltà nelle piccole cose: "afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in modo straordinario" (Card. Van Thuan). La saggezza è questa fedeltà paziente e semplice; la stoltezza è la superficialità che disprezza il sacrificio quotidiano aspettando il grande slancio, le emozioni forti. La "sapienza" è l'umiltà fondata nella verità. La "stoltezza" è la superbia radicata nella menzogna. La vita è molto seria, e quella eterna ce la giochiamo qui, come ogni uomo; per questo il cristianesimo è quanto di più serio vi sia. I "piccoli vasi" indicano le orme che precedono i nostri passi: essi sono immagine delle piccole occasioni che Dio ci offre nella nostra storia; è in esse che occorre essere fedeli, pronti, colmi di olio. Per questo la vera saggezza è procurarsi l'olio dello Spirito Santo nella Chiesa, rinnovare ad ogni evento della vita l'Alleanza che ci fa primogeniti. Ci si può addormentare, siamo deboli, ma è proprio nella debolezza che si manifesta la potenza di Dio. Anche Adamo si è addormentato, e fu vita tratta dalla sua stessa carne. Anche Abramo fu preso da un torpore, e fu l'Alleanza incorruttibile. Anche i discepoli cedettero agli occhi appesantiti, e fu il compimento definitivo della Volontà di Dio. In comune tutti hanno la propria debolezza e il potere di Dio: è Lui che fa tutto, perché Dio dona il pane ai suoi amici nel sonno: mentre dormiamo pulsa la vita autentica, ed è il mistero a cui siamo chiamati, la vita nella morte. La primogenitura è, essenzialmente, vivere senza timore nel sonno della morte che ogni giorno prende le nostre vite, tenendo desto il cuore colmo di Spirito Santo. E ciò accade se camminiamo nella Chiesa, se alimentiamo i piccoli vasi con l'ascolto della Parola di Dio, con i sacramenti, con la frequenza alle liturgie; nel seno della Chiesa, infatti, impariamo a nutrire l'uomo nuovo che vi è gestato: e ogni gravidanza inizia con un "ritardo"... Per questo il ritardo del Signore è fecondo, perché in esso si cela il suo mistero di Pasqua, di vita che distrugge la morte. Gli stessi verbi utilizzati da Matteo rimandano a questo significato: le vergini si "destano" come il Signore si "desta" dalla morte! Il ritardo è l'occasione per crescere nell'amore, per prepararsi all'incontro con lo Sposo, per assomigliare a Lui in tutto. Così ogni ritardo nella nostra vita, quello della moglie nello stirare la camicia e del marito nel comprendere le esigenze della sposa, quello dei figli nell'obbedire e dei genitori nell'ascoltare i figli, quello del corpo che non ce la fa a guarire, quello del datore di lavoro nel promuoverci o nel darci le ferie o lo stipendio; tutto ciò che ritarda il compimento dei nostri desideri e delle nostre speranze costituisce l'occasione per vivere come primogeniti che hanno i nomi iscritti nei cieli, pronti al sacrificio, a crocifiggere la propria carne con le sue passioni, e a vivere la vita nuova secondo lo Spirito. Essere "vigilanti" è, secondo il grande esegeta H. Schlier, essere sobrii, che "significa vedere e prendere le cose così come esse sono». Prenderle anche quando richiedono un sacrificio, che è l'unico polo capace di attrarre l'attesa e tenerla desta orientandola verso la bellezza.

giovedì 27 agosto 2020

 

DESTATI DALL'AMORE PER NASCERE OGNI GIORNO NELLA VITA NUOVA CHE CI CONSEGNA AL FRATELLO
"Vegliare, stare pronti": con la parabola di oggi il Signore ci svela quale sia l"agire" dei cristiani, il loro atteggiamento fondamentale nella vita. Che significa? Non dormire? Non proprio, visto che nella parabola delle dieci vergini si addormentano tutte. E' qualcosa di più profondo, e dobbiamo andare al Cantico dei Cantici: "Quando dormivo ma il mio cuore vegliava". Ecco, la Chiesa è l'amata che attende l'Amato. "Vegliare" è attendere il Signore, istante dopo istante. Il "cuore" che "veglia", infatti, è un cuore innamorato. E' l'intimo di chi ha conosciuto l'amore di Cristo che guarda sempre la sua amata come "la sua perfetta", anche se è un cumulo di difetti e peccati. E lì, nel cuore, decide il bene, desidera compiere la volontà di Dio, per questo "veglia" in attesa dell'occasione per unirsi a Lui; è sempre "pronto" a salire sulla Croce che la storia gli presenta, perché vi riconosce il letto d'amore dove consumare le nozze con lo Sposo. Chi "agisce così" nel cuore è un "servo prudente e fidato" perché non ha altro pensiero che Cristo, il "suo Signore". Ma Gesù è davvero il mio Signore? E' il Signore "nostro", della nostra comunità, della nostra parrocchia? Oppure è un "ladro" che viene a prendere ciò che è mio? "Cerchiamo di capire questo": se qualcuno ti chiede un briciolo del tuo tempo così prezioso? Non diciamo se ti chiede un prestito di denaro, o la macchina... E se ti trovi investito da un'ingiustizia, se scopri di essere malato, se tuo figlio è aggredito dalla leucemia? Non è proprio questo che attendi oggi, vero? Non per questo "vegli" e ti "tieni pronto"... Chiedi a tua figlia che cosa o chi stia aspettando. Ammesso che riesca ad alzare lo sguardo dal cellulare, ti guarderà stralunata, come uscendo da un sogno, e i suoi occhi ti pianteranno in faccia un bel: "ma che stai a dì"? Non ci ha mai pensato, non è un problema suo. Lei vive questo attimo totalizzante, fatto di presenze, parole, immagini virtuali, fuori dal tempo e dallo spazio. Per questo non può soffrire, non può sacrificarsi; per questo non studia, non aiuta in casa, non si accorge e non si preoccupa di ciò che le accade a cinque centimetri. E' un'egoista totale, strangolata dall'io e dai suoi capricci, perché il demonio, attraverso il mondo che frequenta, le ha stretto le mani al collo, senza che se ne accorgesse, facendola precipitare in una "notte" senza luce. E' diventata una "figlia delle tenebre", cioè come un "padrone di casa" che "non sa a quale ora della notte viene il ladro" e per questo scivola superficialmente sui giorni. Il demonio, infatti, l'ha convinta che non c'è nessun "ladro" di cui aver paura, perché, essendo dio, ha la sua vita nelle mani e nessuno potrà strappargliela. Proprio come il Libro della Sapienza (cap. 17; leggilo qui) descrive gli egiziani nella notte della Pasqua. Tua figlia, come te e me, come questa generazione, siamo tutti idolatri e adulteri, "tutti legati dalla stessa catena di tenebre", e per questo "intorpiditi da un medesimo sonno"; "credendo di restar nascosti con i nostri peccati segreti, sotto il velo opaco dell'oblio, siamo stati "colpiti da spavento terribile e agitati da fantasmi mostruosi, paralizzati per l'abbattimento dell'anima". Così, "sorpresi" dagli eventi della storia, "cadiamo sotto la necessità ineluttabile". Sì, quando arriva il "ladro" non possiamo far nulla, solo imprecare e maledire, deprimerci e cercare di sfuggire spaventati, oppressi dall'ineluttabilità che ci perseguita ovunque. Per questo arriviamo anche a "percuotere i nostri compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi". La paura genera sempre l'impazienza. Attento con tuo figlio, attento; senza accorgertene stai covando un mostro di egoismo: non lasciarlo in preda della "notte" con la sola luce del display del suo smartphone. Infilato nella rete virtuale alla fine crederà che tutto nella vita è a portata di touch... E quando scoprirà che non è così non farà altro che bastonare gli amici, esigere da loro che nutrano il suo orgoglio, e di drogherà, berrà, passerà da un letto all'altro, senza saziarsi mai. Come anche noi, che, frustrate le nostre concupiscenze mascherate da belle speranze, "pensiamo nel cuore che Egli stia ritardando", che non gli importa di noi, e per questo abbiamo smesso di "vegliare".
Ma fratelli, quella stessa "notte" che ha atterrito gli egiziani, è la "notte in cui Dio ha liberato i figli di Israele nostri padri, dalla schiavitù dell’Egitto e li ha fatti passare illesi attraverso il Mar Rosso. E' la notte che salva su tutta la terra i credenti in Cristo dall’oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo, li consacra nell’amore del Padre e li unisce nella comunione dei santi. Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte risorge vincitore dal sepolcro" (Exultet di Pasqua). La "notte" nella quale ci siamo infilati sedotti dal principe delle tenebre è quella nella quale il nostro uomo vecchio schiavo in Egitto precipita nel mare del battesimo insieme ai cavalli e ai cavalieri del faraone. Questa "notte" è quella in cui Dio lo "punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti": coraggio, perché se davvero lo desideriamo, quel peccato che ci ha incatenato all'infedeltà e alla stoltezza sarò gettato dove "sarà pianto e stridore di denti", e, come gli egiziani affogati nel mare, "non lo rivedremo mai più". Questa "notte" che ci ha risucchiato nella paura della morte che abbiamo cercato di far tacere addormentandoci nei peccati è la "notte beata" che ha "meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi". Oggi possiamo sperimentare "il santo mistero di questa notte" che "sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti". Tutto questo significa lasciare che il Mistero Pasquale del Signore giunga di nuovo a noi attraverso la Chiesa; ascoltare questa Parola come una Buona Notizia che mi riguarda, accogliendola nel cuore perché abbia il potere di compiere ciò che annuncia; accostarci ai sacramenti che realizzano in noi il Mistero che trasforma la "notte" di morte in un'alba di luce che non muore, che fa di un "figlio delle tenebre" oppresso dal sonno del cuore, un "figlio della luce" innamorato dello Sposo che attende con perseveranza. Fratelli, la "notte" nella quale stiamo vivendo è la "notte veramente gloriosa, che ricongiunge la terra al cielo e l’uomo al suo creatore" sulla Croce gloriosa del suo Figlio diletto. E' la "notte" che ci desta dal sonno della morte e ci fa "beati", perché il Vangelo oggi ci dice che la "beatitudine" consiste nel "vegliare", "agendo" con "prudenza e fedeltà", cioè con sapienza e amore, adempiendo l'"incarico" che è stato affidato. Allora, accogliamo oggi Cristo, lo Sposo che per noi si è fatto "servo fedele e prudente" "spogliando se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome... e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Kyrios, il Signore, a gloria di Dio Padre". "Servo" e "Signore" sono proprio i due termini che appaiono nel Vangelo di oggi: chi ha sperimentato l'amore sino alla fine del "Servo" che, chinandosi sin dentro la propria "notte" lo ha innalzato con Lui nella sua Signoria, seguirà nella sua vita le sue orme. Sarà cioè un "servo" che "obbedirà" ed entrerà "umilmente" nella "morte di croce" che la storia gli presenterà. Così, e solo così, anche noi parteciperemo della Signoria di Cristo, saremo cioè "kyrios", "signori" che hanno in sè il potere di consegnare la propria vita come "cibo". Fratelli, la vita ci è data come un "incarico" d'amore con il quale dare pienezza e compimento al tempo. Ci hai mai pensato? L'amore è un incarico che si realizza distendendo le braccia sulla Croce; solo così potremo unirci al "Servo", accogliere in noi la sua vita, e così, risorti, siamo "messi a capo dei domestici del Signore per dare loro il cibo a suo tempo", esattamente come è accaduto, guarda caso sul far della notte, quando Gesù ha moltiplicato i pani e i pesci. L'amore ci trasforma in "servi" che "moltiplicano" l'amore riversato in loro perché divenga "cibo" da dare ai "domestici", cioè alle persone affidate a ciascuno di noi. C'è un "tempo" favorevole per donare se stessi, un "kairos" che solo un cuore innamorato sa discernere, perché l'amore è riversato in esso per mezzo dello Spirito Santo che fiuta nelle persone e negli eventi il profumo di Cristo. Per questo Gesù dice che tornerà "quando meno ce lo aspettiamo": è tipico dello Sposo che vuole accendere, far crescere e tenere vivo in noi l'amore. Il "cuore" della sposa, infatti, "veglia" anche "mentre dorme". Per divenire "servi prudenti e fedeli" dobbiamo camminare dietro a Cristo come la Sposa del Cantico dei Cantici: imparare a udire il "Diletto che bussa", che "mette la mano nel chiavistello della porta" del nostro cuore; sentire "palpitare le viscere", la sede dell'angoscia e della compassione, e "alzarsi per aprire all'Amato" e sentire le "mani impregnarsi di mirra", quella di prima qualità con la quale fu unto il corpo di Gesù; sì, dobbiamo sperimentare il suo amore crocifisso per noi sino a che esso fluisca sulle nostre mani schiudendole ai chiodi che la storia ci prepara. Dobbiamo crescere nella fede fratelli, e si cresce solo camminando sulle orme dell'Amato, sino ad "incontrarlo e a non lasciarlo mai" più nelle nozze eterne con Lui. E' il destino che ci attende in Cielo e che cominciamo a pregustare sulla terra, ovvero la "beatitudine" celeste dell'"amministratore di tutti i suoi beni", partecipando cioè della sua vita immortale.

martedì 25 agosto 2020

 Il "guai" che ci salva




“Guai” a noi! L’espressione greca “ouai” deriva dal termine ebraico “hôi” con cui si esprime il lamento funebre. Gesù dunque, con amore e compassione, ci guarda nella nostra realtà. Non ci minaccia per intimorirci, ma ci parla per destarci dalla morte causata dall’aver dimenticato il suo amore nella nostra vita. “Guai a voi” perché avete dimenticato che “il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto" (Dt 7,7ss). Infatti, proprio per vivere nella Grazia della libertà, il Signore ci ha comandato di fare dei segni concreti con cui destare la memoria dell’elezione e dell’amore di Dio in ogni circostanza della nostra vita. Allo stesso modo, gli ebrei erano tenuti a pagare la “decima” dei principali frutti della terra. Quella terra concreta nella quel vivevano e che li produceva era il segno della loro appartenenza a Dio. Era il la prova della gratuità del suo amore: bastava guardarla e sfiorarla per ricordare quella d’Egitto, impregnata di sangue e sudore, amara di schiavitù e infelicità. Viverci senza memoria significava violentarla e profanarla, come degli usurpatori. Perché questo non accadesse e far ritornare i figli di Israele alla gratuità si pagava la decima, che era come un sigillo d’amore posto su ogni frutto, impedendo così che esso diventasse il segno della propria forza. "Pagare la decima" era dunque un memoriale che annunciava la liturgia cristiana, soprattutto l’eucarestia: il corpo e sangue di Cristo sono la vera “decima”, il “rendimento di grazie” che offre la comunità dei riscattati dal peccato e dalla morte. Per liberarli, infatti, Gesù Cristo ha “pagato” sino all’ultimo spicciolo. Un cristiano sa che non avrebbe potuto “pagare” il prezzo del suo riscatto; vive nella terra promessa della vita nuova ricevuta gratuitamente come una veste immacolata. L'eucarestia a cui partecipa esprime il memoriale del Mistero Pasquale che lo ha salvato, lo rende attuale e per questo fa scaturire in ogni parola e gesto il rendimento di grazie. L’amore abbraccia ogni aspetto della sua vita, anche i dettagli più insignificanti, non "omettendo" nessuna occasione per lodare e amare. “Guai a te” che non vivi oggi nella gratitudine e nella benedizione. Ripensa ai sepolcri nei quali eri precipitato, e rispondi: saresti potuto uscire dal carcere "pagando la decima della menta, dell'anèto e del cumìno"? Impossibile vero? Eri rinchiuso lì proprio per scontare la giusta condanna per aver "trasgredito le prescrizioni più gravi della legge"... Eppure oggi, stoltamente, pensi che puoi rimettere ordine nella tua vita, in famiglia, al lavoro “pulendo l’esterno” con i tuoi sforzi e i tuoi criteri. Il demonio ci inganna erodendo la memoria dell’amore di Dio, che è il fondamento del cristianesimo, perché, abbassando la guardia smettiamo di combattere per difenderlo in noi. Per questo siamo “intemperanti”, incapaci cioè di entrare nell’umiliazione e nella sofferenza che suppone l’amore autentico. Continuiamo ad “ingoiare cammelli” mentre “filtriamo i moscerini”. Per gli ebrei il “cammello” era un animale immondo vietato da mangiare; per questo Gesù dice, metaforicamente, che quegli “scribi e i farisei ipocriti” si fissano sulle prescrizioni minori lasciando che il cuore si nutra di pensieri immondi e carnali, cioè provenienti dal demonio. Come accade a noi, che ci fissiamo nevroticamente e fobicamente sui difetti degli altri senza curarci del nostro cuore malato e perverso che sporca il nostro sguardo. I nostri, infatti, sono gli occhi di chi si crede un dio e, come quel fariseo salito al tempio a pregare, idolatra le proprie presunte opere buone frutto di sforzi e sacrifici, e per questo giudica, disprezza e si separa dal fratello, “trascurando” così “la giustizia, la misericordia e la fedeltà”. E questa è l'ipocrisia. Fratelli, se non vediamo più l’amore di Dio nella nostra vita, sbaglieremo le nostre scelte, dando importanza assoluta a ciò che, slegato dall'insieme, non ne ha. Faremo delle relazioni una coltivazione di nevrosi, e soffocheremo gli altri nella gelosia. Per questo esigiamo e non siamo mai soddisfatto. Decime da riscuotere ovunque e con chiunque, tasse a cui chiedere vita, prestigio, senso e identità. Ma coraggio, accetta di essere un “fariseo cieco”, e lascia che Dio, attraverso la cura materna della Chiesa, “pulisca l’interno del bicchiere”. Non temere, il Signore non ti giudica, ti corregge perché ti ama! Con il suo “guai” pieno di compassione Gesù vuol scendere nelle profondità del tuo cuore malato di amnesia, per perdonare ogni peccato estirpandolo insieme alla malizia velenosa deposta dal demonio, e seminarvi la sua vita. Coraggio, ci è data una comunità dove gustare di nuovo, ogni giorno, le primizie della Terra Promessa, il latte e il miele dell’amore e della comunione. E imparare a non dimenticare i “portenti” dell’amore di Dio, camminando alla luce della parola di Dio che ci dona la fede che cresce all'interno di noi perché all'esterno risplendano le opere della Grazia in favore di chi ci è accanto. 

lunedì 17 agosto 2020

 


TORNARE CON CRISTO AL "PRINCIPIO" PER VIVERE OGNI RELAZIONE COME UN NUOVO INIZIO
Vi sono domande che non cercano risposte, ma che sembrano piuttosto pistole puntate alla tempia. Come quella, subdola e perversa, di "alcuni farisei": "E' lecito.... ?". Di fronte al "mistero grande" del matrimonio, l'unico che sembra loro interessare è se sia "lecito ripudiare" la moglie. In essi affiora sempre l'approccio legalistico alle persone, che rinvia, scioglie (significato originale di ripudiare) l'amore nei confini del proprio tornaconto. In questo episodio è profetizzata l'ondata dei "è lecito?" che, dall'Illuminismo ai nostri giorni, ha stravolto l'umanità. Sempre in cerca di un "è lecito" per sfuggire il dolore e il sacrificio che, a causa del peccato, l'amore suppone. La domanda, retorica come lo fu sulla bocca di quei farisei, è la stessa che risuona nelle piazze, nei cinema e nelle televisioni, sui giornali e nelle aule parlamentari. E' lecito tutto ciò che dissolve l'amore, che, paradossalmente, diviene l'unico illecito. La questione posta da alcuni tra i farisei, infatti, non sarebbe mai posta da un cuore che ha conosciuto l'amore di Dio: un fariseo, conoscitore della Scrittura e della storia del suo Popolo, avrebbe dovuto ricordare quante volte Dio ha stornato la propria ira, rinunciando a ripudiare la sua sposa infedele: superando con il suo agire la sua stessa Legge, Dio ha rivelato mille volte che l'infedeltà del Popolo può essere sanata solo con un amore infinitamente più grande, che assuma la debolezza e la durezza senza condannare la persona, per trasformarne il cuore attraverso la gratuità della misericordia. Quei farisei, che portavano dentro questa esperienza dell'amore di Dio per il suo Popolo, non potevano aver dimenticato le parole e la vita dei profeti. Per questo, la loro domanda è maliziosa: avevano capito che era giunto Colui che sapeva e poteva smascherarne l'ipocrisia, dovevano quindi mettere alla prova Gesù per avere di che accusarlo, e così proteggere se stessi. Come facciamo noi, molte volte, e proprio quando si tratta del matrimonio, della famiglia, dei rapporti tra fratelli. Ma Gesù, conoscendo il loro cuore, risponde inaspettatamente con un'altra domanda, questa volta piena d'amore e ci ci annuncia di nuovo il Vangelo attraverso la Chiesa, la liturgia e la predicazione. Il matrimonio, infatti, tale come traspare dalle parole di Gesù, è la Buona Notizia dell'amore di Dio con il quale e per il quale ha creato l'uomo, maschio e femmina. Per parlare del rapporto tra Dio e l'uomo, la Scrittura usa immagini nuziali di rara bellezza e di sconosciuta misericordia. Dio ha sempre avuto misericordia del suo Popolo, anche nei momenti in cui ne è stato tradito più vergognosamente. Quando Gesù dice "Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi", sta chiedendo a quei farisei se avessero mai letto queste parole alla luce della storia che Dio ha fatto con il loro Popolo. "Da principio" Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, "maschio e femmina" perché in essi, nella loro irriducibile diversità e complementarietà che "Dio ha congiunto in una carne sola", rifulgesse il mistero dell'amore e della comunione della Trinità: "la missione della famiglia è iscritta nel solco della Santissima Trinità. Non c’è, in questo mondo, un’altra immagine più perfetta, più completa di quello che è Dio: unità, comunione. Non c’è un’altra realtà umana più corrispondente, più umanamente corrispondente a quel mistero divino" (Giovanni Paolo II). "Da principio" Dio ha pensato la comunione e l'amore. Al "principio" di tutto, come una vocazione dell'universo e degli uomini, come una profezia dell'eternità. "Da principio", infatti, ap'archès, traduce la prima parola ebraica della Torah; come anche l'inizio del Vangelo di Marco e Giovanni. La prima parola della Bibbia è l'amore che crea e unisce un uomo e una donna. Sulla soglia della vita vi è la famiglia, così come Dio l'ha pensata, voluta e creata; il Vangelo parte da qui, e nessun annuncio può non partire dall'amore dal quale ogni uomo è stato generato, come lo stesso Figlio di Dio, la Parola del Padre che era al Principio e si è fatta carne nello Spirito Santo per riunire in sé stessa ogni carne dispersa e separata. Creando l'uomo libero, Dio sapeva, infatti, che questi avrebbe potuto "indurire il cuore" nella menzogna del demonio e separarsi da Lui e separare quello che Egli aveva unito; Adamo ed Eva, ingannati, caddero preda della "Sklerokardia", la durezza del cuore; si tratta di un termine rarissimo nel Nuovo Testamento, è usato solo qui (e nel parallelo di Mc) e nel finale di Marco, quando Gesù risorto, apparendo ai discepoli, li rimprovera per la loro incredulità e durezza di cuore:  "dal principio" dunque, sino al mattino della resurrezione, e ancora più in là sino all'alba dell'Ascensione, da Adamo ed Eva sino ai discepoli di Gesù, la stessa malattia del cuore, la stessa incredulitàQuei farisei increduli vogliono ingannare Gesù per indurlo a dar loro ragione; per questo obiettano che "Mosè ha "ordinato" di dare l'atto di ripudio". Qualcosa che è "permesso" non è un obbligo o un comando da eseguire. Per riguardo alla "debolezza" si "permette" qualcosa di speciale. Ma Gesù li riporta alla verità; in effetti, Mosè non ha dato alcun ordine riguardo al ripudio: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli". Sino a quel giorno, quasi obbligato dalla durezza del cuore, era stato permesso qualcosa che non lo era "da principio". 




Ma ora, di fronte ai farisei, come di fronte a ciascuno di noi, vi è Colui che era "da principio"; vi era Cristo, il principio di ogni cosa, l'autore stesso del matrimonio. Per questo, con autorità, dichiara che, in Lui, quello che era stato permesso per la debolezza, non è più necessario e perde quindi validità: le cose vecchie sono passate, chi è in Cristo è una creazione nuova. Chi non lo accoglie e permane nella durezza del proprio cuore, "ripudiando la propria moglie e sposandosi con un'altra donna commette adulterio". Un peccato tra i più gravi, che rompe la comunione della Chiesa sin nelle sue radici. Al cuore indurito dei progenitori non era bastato l'Eden, e l'amore infinito di Dio. Loro volevano di più, bramavano il potere assoluto, la libertà senza condizioni, una carne sola certo, ma per stabilire insieme che cosa fosse bene e male. E si sono scoperti condannati alla ricerca di un piacere e una gioia introvabili, irrimediabilmente separati in una solitudine che sa di morte.  Come non basta a noi nulla di quello che abbiamo ascoltato e visto. Era ed è necessario qualcosa di più, che l'amore sino alla fine di Gesù giunga alla pietra in cui è ridotto il nostro cuore e abbia ragione della sua durezza. Era ed è necessario che la croce divenga  il letto d'amore dove Gesù ci unisca a Lui in una sola carne. La Croce, infatti, è l'unica garanzia di indissolubilità del matrimonio, l'argine invalicabile alla durezza delle onde dell'egoismo e della concupiscenza. Sulla Croce Gesù ha compiuto quello che oggi ci annuncia: in essa, il "principio" si compie in un presente che si dilata nell'eternità; il "non fu così" del "principio" diviene l' "essere così" del presente. Il "principio" del disegno di Dio ci è consegnato oggi nella Croce del Signore, sulla quale siamo attirati attraverso i sacramenti e l'ascolto della Parola di Dio, guidati dalla cura amorevole della Chiesa. Perché la Croce è la porta al Cielo, e nella Chiesa possiamo entrare ogni giorno nel Mistero Pasquale che ci fa passare dal peccato e dalla morte che ci fa incapaci di amare alle primizie del Regno dei Cieli, nelle quali sperimentare la libertà e la gioia di donarsi delle creature create "al principio". La sua croce nella nostra, il luogo dove ci dà ogni giorno appuntamento per essere "congiunti" con Lui e tra noi in una sola carne. Il verbo greco synezeuxen che indica "congiunto" infatti, è formato dalla preposizione-prefisso syn ("con") e dalla radice zeug-, che descrive anche due animali uniti dal "giogo" (zeugos). Il giogo che unisce gli sposi è dunque il giogo di Cristo, mite e umile di cuore. Esso è leggero e dolce perché è l'unico adeguato a ciascuno dei due. Non può esservi giogo diseguale, pena inciampare, cadere, rompere l'unità. Senza il giogo di Cristo, lontano dalle sue braccia distese ad unire gli sposi, la "condizione dell'uomo rispetto alla donna" è così difficile e dura che "non conviene sposarsi". Senza l'amore infinito di Cristo che ogni giorno perdona, e fa perdonare, ama e dona di amare, si resta nella condizione di morte frutto del peccato, dove dolore e concupiscenza regnano e dominano le relazioni. Non è facile "capire" il mistero immenso del matrimonio. Gesù non risponde ai discepoli quasi per dar loro ragione e dire che è meglio farsi eunuchi per il Regno dei Cieli, e così scampare le difficoltà del matrimonio. Preti e suore che la pensino così sarebbero le zitelle acide e al peperoncino di cui parla Papa Francesco. E' vero il contrario. Proprio grazie a quanti rispondono alla chiamata di Dio e rinunciano al matrimonio per essere più liberi e donarsi a tutti come pastori della Chiesa, si può "capire" quanto sia importante il dono che è "dal principio" nella volontà di Dio. Alcuni non possono sposarsi (alcuni, non le cifre sbandierate dal pensiero unico di questa società) perché "eunuchi" dal seno materno: è una condizione di sofferenza, lontana  dal progetto che Dio aveva "da principio", come tutto ciò che è sorto dopo il peccato originale. La morte, e ogni sua ferita. è entrata nel mondo per invidia del demonio, e a causa del peccato. Per occultare ciò, è tipico del demonio far credere che, dando sfogo alle inclinazioni della natura, si aprirebbero per gli omosessuali le porte della libertà e della felicità; come del resto per ogni stura che si sta dando agli istinti più perversi che chiamano diritti. Al contrario, si lascerebbero nell'inganno simile a quello di chi, diabetico, si gonfiasse di dolci... Il demonio ha nascosto a questa società la realtà del peccato, per questo è impensabile e inaccettabile una natura ferita da esso: o la si cancella dichiarando che la ferita non esiste (è il caso dell'omosessualità); o si cancella direttamente colui che è ferito (è il caso dell'aborto e dell'eutanasia, ma anche del divorzio). Diversa è la sapienza della Chiesa, illuminata dalle parole di Gesù: esiste un "principio" anche per gli eunuchi, lo siano essi dal seno della propria madre, o, come oggi è perversamente diffuso, legittimato e promosso fin dalle scuole, lo siano perché così "resi dagli uomini". Come esiste per gli sposi un "principio" antecedente al peccato nel quale Cristo li riconduce perché siano una cosa sola, così esiste lo stesso "principio" per gli eunuchi. In esso possono scoprire la propria dignità di figli di Dio, che è precedente e non dipende dall'essere eunuco o dal non esserlo; in un cammino serio di conversione che li riconduca al "principio" attraverso la Parola, i sacramenti e la comunione con i fratelli, essi possono essere sananti alla radice se resi "eunuchi" dagli uomini e dalla società, o portare la propria debolezza con Cristo se così dal seno materno. Per tutti è preparata l'intimità con Cristo, dove saziare il proprio bisogno d'essere amati e imparare a donarsi, nel matrimonio o nella vita celibe, entrambi offerti per il Regno dei Cieli.
   

mercoledì 5 agosto 2020

6 agosto. Trasfigurazione del Signore. 

 
TRASFIGURATI NELLA LUCE DI PASQUA CHE RISPLENDE PER NOI NEL CORPO DI CRISTO CHE E' LA CHIESA, POSSIAMO CAMMINARE SULLA TERRA FONDATI NELLA CERTEZZA DEL CIELO 


Immaginiamo, come scrisse Chesterton, di vedere il mondo capovolto: "Se uno ha visto il mondo capovolto, con tutti gli alberi e le torri appesi all’in giù come quando si specchiano in uno stagno, un possibile risultato sarebbe di mettere l’accento sul concetto di dipendenza. La correlazione è latina e letteraria; infatti il termine dipendente propriamente significa appeso"Ecco, contemplando "Gesù trasfigurato davanti a loro", Pietro, Giacomo e Giovanni devono aver fatto un'esperienza simile. Essa è ben rappresentata in moltissima iconografia della "trasfigurazione": Gesù appare "appeso", mentre i tre apostoli lo guardano proprio dal basso, con la testa sul suolo: "avvolti dalla nube luminosa", infatti, all'udire "la voce" del Padre essi "caddero con la faccia a terra". In quei momenti, non stavano guardando il "mondo capovolto"? Sul Tabor quell'uomo, quell'amico e maestro, stava infatti capovolgendo ogni loro idea sull'uomo, sull'amicizia, sulla vita. I loro occhi si erano aperti su un di più che può esplodere nella carne; stavano contemplando una possibilità che appariva loro "appesa" a un biancore e un'intensità che esistono solo in Cielo. Nella sua "trasfigurazione", Gesù stava svelando loro che, nascosta nella carne, esiste una vita che "dipende", nasce dal Cielo e ad esso è legata, "appesa" appunto. Mai visto niente di simile: nella debolezza che, come una "veste", ricopre le ore dell'esistenza, può dunque risplendere una luce mai vista; da ogni colore, anche dal grigio della routine, anche dal rosso della passione e del dolore, anche dal nero della morte e del dolore, può scaturire il "candore" della libertà, della gioia, della pace. Quel "volto" che avevano fissato tante volte, rigato di sudore, corrugato per la fatica, disteso nella gioia, ora "brillava come il sole", ed era un annuncio sconvolgente: la realtà, anche quella più familiare, la realtà delle persone con cui si parla, si cammina, si soffre e si gioisce, si mangia e si beve, non è solo quello che si vede, si ascolta e si tocca. Anzi, essa cela un segreto, pronto a rivelarsi in una "metamorfosi", un "cambio di forma", che è l'originale greco tradotto con "trasfigurazione". L'evento prodigioso al quale i tre apostoli più intimi di Gesù stavano assistendo affermava che soggiace in ciascuno un'identità nascosta, una "forma" diversa da quella che appare ogni giorno. Ma non basta! La trasfigurazione di Gesù desta la storia, risveglia le profezie che sembravano assopite nel ricordo: infatti, "ecco, apparvero Mosè ed Elia che conversavano con Lui". Il destino di tutta la storia della salvezza, il compimento di tutte le Scritture era quel volto radiante e quelle vesti candide. Ciò significa che il destino di ogni evento della vita e il compimento dell'annuncio della Chiesa è la nostra "trasfigurazione". Il "cambio di forma" è la chiamata che ci ha raggiunto, e la nuova forma di essere, ovvero di pensare, di vedere le cose, di parlare, di agire, è l'opera che Dio vuol fare con ciascuno di noi. La "trasfigurazione" è il passaggio dalle nostre opere alle opere di Dio. Un mondo rovesciato, dunque, proprio come scriveva Chesterton a proposito di San Francesco, il santo nel quale si è compiuta al meglio la "trasfigurazione": "Se in uno dei suoi strani sogni san Francesco avesse visto la città di Assisi capovolta, sarebbe stata perfettamente uguale a se stessa, tranne che per il fatto di essere capovolta... San Francesco avrebbe potuto amare la sua cittadina quanto l’amava prima, o forse anche di più; ma pur amandola di più, l’essenza del suo amore sarebbe stata diversa. Avrebbe potuto vedere e amare ogni tegola dei tetti spioventi e ogni uccello posato sui bastionima li avrebbe visti in una prospettiva nuova e soprannaturale di costante pericolo e dipendenzaInvece di essere semplicemente fiero della sua città perché forte e salda, avrebbe ringraziato Dio onnipotente perché non l’aveva lasciata cadere, avrebbe ringraziato Dio perché non lasciava cadere l’intero cosmo come un vaso di cristallo che si infrangesse in una miriade di stelle cadenti". Così anche i tre apostoli avevano visto la realtà da una "nuova prospettiva soprannaturale e di grande pericolo": erano ebrei, e per questo portavano dentro l'esperienza della precarietà vissuta nel deserto, dove "Dio onnipotente non aveva lasciato cadere" il Popolo. Per questo, di fronte a quel rovesciamento di prospettiva, è risuonata in loro la Pasqua, e il "cambiamento di forma" di cui Israele aveva esperienza: dalla schiavitù alla libertà, dalla sottomissione al giogo del faraone al cammino nel deserto sino alla libertà della Terra promessa. E, al centro di quell'esperienza, il Sinai e il dono della Legge, perché fosse osservata da un popolo diverso da tutti gli altri. 

Per un ebreo, quel cammino di libertà abbracciato alla Torah era la "bellezza". Per questo Pietro dice a Gesù: "Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia". Non era semplicemente un voler catturare quel momento estatico. Pietro intuiva che ciò che stava accadendo aveva relazione con l'esperienza del suo popolo, per questo vorrebbe costruire tre "capanne", come ogni ebreo fa durante la festa di Succot, Le tende, o capanne, infatti sono il segno della permanenza del popolo nel deserto. E proprio in quel momento, quando cioè Pietro ha intuito cosa stava accadendo, mentre "stava ancora parlando, una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo»". Dalla stessa "nube" che aveva guidato gli israeliti durante i quarant'anni dell'Esodo, la voce del Padre ripete agli Apostoli quello che aveva annunciato nel deserto: "Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!". Tra una mormorazione e l'altra, tra le maglie di una debolezza infinita, ogni ebreo aveva fatto l'incomparabile esperienza di poter (e dover) vivere del solo cibo della Parola di Dio, capace di trasformare la roccia in acqua. Pietro, attento ai segni come ogni buon ebreo, aveva saputo riconoscere in quell'evento il compimento dell'Esodo del suo Popolo; su quel Monte Dio aveva di nuovo parlato, ed era di una "bellezza" mai contemplata. Era "bello" quel momento, era "bello" starci dentro, ma che schianto... L'urto di quell'epifania non poteva non stordire le povere carni degli apostoli. In un momento era apparsa dinanzi a loro la visione della Verità, di ciò che di autentico, glorioso, ovvero di peso, consistente, si cela nella realtà. Ma ciò significava anche "precarietà", la stessa vissuta dal popolo nel deserto, identica a quella di Assisi rovesciata, "in costante pericolo e dipendenza". Vivere una vita trasfigurata contempla anche accettare la propria debolezza, e la "dipendenza" da Dio. Essere cristiani significa essere istante dopo istante "appesi" al Cielo, perché i "pericoli" sono "costanti". E il filo che ci lega al Padre, quello al quale siamo "appesi" per vivere in pienezza ogni frammento della nostra vita, è l"ascolto" del Figlio amato di Dio. Non c'è altro cammino sul quale trasfigurare la nostra realtà in un0identità celeste, in un amore oltre la morte, che "ascoltare" Cristo. Sul Tabor iniziava per gli apostoli, come per ciascuno di noi, un cammino nuovo, che li avrebbe condotti con Gesù al Calvario. Un altro Monte, dove si sarebbe compiuto il rovesciamento di ogni realtà, la trasfigurazione della morte in un'esplosione di luce. E' il cammino che Dio ha preparato anche per noi nella Chiesa. Essa è la Madre di ogni trasfigurazione, perché nel suo seno si compie il mistero accaduto sul Tabor. In essa possiamo "ascoltare" le Parole del Figlio che "cambiano forma" al nostro essere, sino a farci "brillare come il sole", rivestiti delle vesti battesimali "candide" di misericordia. Coraggio, il Signore si "avvicina" a noi anche oggi, e ci "tocca", attraverso i sacramenti. E ci dice di "alzarci, di risuscitare e di non temere". E' questa la "trasfigurazione" che ci attende: risorgere dalla morte dei nostri peccati, dalla schiavitù alla menzogna, alla concupiscenza, all'egoismo, per essere trasformati in puro amore. Siamo chiamati a vivere come uomini trasformati dalla Grazia, che camminano nel mondo a testa in giù, indicando a tutti dove guardare: al Cielo, dove ogni uomo è appeso pur non sapendolo. Basta mostrarglielo, come ha fatto Gesù ai suoi apostoli.