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sabato 31 ottobre 2020

 SANTI PERCHÈ AMATI, PERDONATI E LIBERATI COME UNA PRIMIZIA DEL CIELO OFFERTA AD OGNI UOMO



Una speranza invincibile e la forza infinita d'una chiamata: la santità è un'elezione, un esser messi a parte per qualcosa di speciale, per abitare la Terra. I santi sono gli eredi della Terra dove scorre latte e miele. Il Cielo. Tra le pieghe della festa di oggi, dietro la santità si scorge la storia di un Popolo. Ad ogni beatitudine si odono le eco dei passi degli umili, dei piccoli, di un resto. I riscattati che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti e le hanno rese candide nel sangue dell'Agnello.

E' Lui che, vittorioso sul peccato e sulla morte, precede i suoi nella Galilea che è il mondo in attesa del Regno. E' Lui il Santo che ci fa santi. Oggi siamo tutti dinanzi alla Terra, come Giosuè. Le parole del Signore ci invitano a non aver paura, ad essere coraggiosi e forti, a non scoraggiarci dinanzi alle difficoltà, ai popoli che abitano la nostra eredità.

A non aver paura di noi stessi, dei nostri peccati, dei nostri limiti, delle nostre debolezze, dei nostri difetti. Sono tanti e numerosi come i Popoli che abitavano la Terra che si dischiudeva dinanzi agli occhi di Giosuè. "Forza e coraggio" gli ripeteva il Signore sull'erta di quel monte, "perché il Signore è con te ovunque tu vada". Forza e coraggio sono l'altra metà della povertà. 

Come Giacobbe dinanzi al guado dello Jabbok, solo e in trappola, e quel fiume oscuro che lo aspettava, come un presagio di morte. Giacobbe era un peccatore, ha mormorato e giudicato, ha ingannato e rubato, ma portava sigillata nel fuoco la sua primogenitura; ha lottato con Dio, non ci stava a «perdere la vita». Poi un colpo secco all’anca e non era più quello di prima. Umiliandolo a zoppicare Dio ne aveva fatto un santo. Ora Giacobbe conosceva la propria debolezza benedetta con un nome nuovo, «Israele», che significa «Forte con Dio». Ecco dunque un santo, il più debole con il Più forte

Tu ed io che trasciniamo i piedi, incapaci di tutto ma aggrappati alla sua misericordia. Lo abbiamo visto anche un istante fa, quando per nulla abbiamo sbranato il fratello, per poi chiedergli balbettanti perdono. Ma solo chi ha conosciuto davvero, come Giacobbe, la propria debolezza, può abbandonarsi con una sconfinata fiducia in Colui che lo chiama.

E' la fede che coniuga nei santi la forza e il coraggio. Essi vivono aggrappati a Colui che ha legato il demonio, ha sconfitto uno ad uno i Popoli che usurpavano l'eredità, e con Lui entrano a prenderne possesso. Un Popolo santo, separato, consacrato in Colui che lo ha amato di un amore unico, gratuito, infinito. 

Il Signore ci annuncia oggi la beatitudine di chi abita, felice, nella sua Terra. Che ci è data, come primizia, nella Chiesa, il mistero d'amore e comunione che supera ogni nostro limite carnale. Anche oggi, come ad ogni mattino che si apre dinanzi a noi, ci troviamo sul monte con il Signore. E su quel monte ammantato dalla rugiada d'ogni alba della nostra vita, Lui ci chiama ad entrare nella Sua eredità. Ogni aurora che ci accoglie ci dona il Suo Spirito Santo che ci fa figli, coeredi di un Destino meraviglioso.

Lo Spirito di fortezza perché non cediamo al timore dinanzi alla Croce che ci attende. Ecco la nostra vita santa che ci fa santi. Ogni evento in cui ci imbattiamo, ogni persona che incontriamo è la Terra preparata per noi, la nostra eredità. Nostra moglie oggi, così come si sveglierà; nostro marito è la terra che ci farà sante quando tornerà nervoso e intrattabile dal lavoro; nostro figlio che si è appena messo un orecchino; nostra figlia che ha sbattuto la porta e se ne è andata in discoteca; nostra suocera che non ce ne fa passare una, con quel sorrisetto ironico che dice tutto; il collega che ci ha infilzato calunniandoci con il capo reparto. E il cancro che ci ha visitato, la cassa integrazione, lo sfratto.

Ogni fatto della nostra vita ci fa santi, perché in ciascuna ora che segna le nostre esistenze Lui ci precede, combatte per noi come già ha fatto innumerevoli volte nel passato; anche quando eravamo schiavi del peccato in Egitto dove ci ha salvati, redenti, amati d'un amore eterno. Lui ci precede nella camera operatoria e nel dialogo serrato con i figli; allora, perché temiamo di vivere e chiamare gli altri a vivere una vita santa, piena, compiuta nell’amore? Perché ci accontentiamo di galleggiare mentre possiamo essere santi?

La sola possibilità per essere felici, noi e la nostra famiglia, i fratelli, gli amici è lasciare che Dio ci faccia santi, conducendoci nella Terra dove consegnarci per amore, nel compimento della promessa che ci ha chiamati alla vita. Desideri la santità per tuo figlio? O piuttosto un lavoro, la salute e altre cosette così? Non desideri che conosca l’amore che lo perdona e lo trasforma in figlio di Dio, in un santo offerto al mondo?

Chi di noi, oggi, non sta vivendo almeno una delle situazioni descritte dalle “beatitudini”? Ma forse non pensiamo d’essere “beati”. Sfortunati, vittime di un’ingiustizia, ma “beati” perché “piangiamo, abbiamo fame, siamo perseguitati, ci insultano e calunniano”? Per favore, chi pensa che tutto questo sia la felicità è da rinchiudere in un manicomio criminale.

Ma Gesù ci annuncia proprio questo. Non solo, ma ci svela che siamo “noi” questi “beati”. Sei beato e non te ne stai rendendo conto. Guarda bene tuo marito, tua moglie; fissa tuo figlio. Guarda te stesso, ma guardati bene.  E lascia che le parole di Gesù illuminino i volti, e raggiungano le storie di ciascuno, scovando anche nella tua i momenti in cui hai visto Lui operare in te. L’hai sperimentata la beatitudine, ma forse non ci hai fatto caso o il demonio te l’ha cancellata dalla memoria. La stai sperimentando, ma forse ti sembra la cosa più naturale del mondo.

Quando? Ora, che sei ancora sposato, ed è in virtù della sola Grazia di Dio che ha reso “vita” possibile, e anche felice, quello che il mondo, la carne e il demonio dicono essere un assurdo. Hai gustato la beatitudine quando hai perdonato chi ti aveva tolto l’onore. Di certo la tua beatitudine si specchia nel sorriso di tuo figlio, che è la vittoria di Cristo sui tuoi peccati, sull’egoismo, l’avarizia e la concupiscenza.

Ciò significa che la “beatitudine” per la quale siamo nati sgorga dalla gratitudine. Chi oggi non è grato a Dio, sta perdendo la propria felicità, quella che gli spetta. E’ frustrato, vive contro se stesso. Ma la gratitudine non si compra al mercato. E’ il frutto di un lungo cammino di “purificazione” dello sguardo “del cuore”; è la meta di un serio percorso di conversione alla verità per diventare “poveri in spirito”.

E’ il figlio di Dio gestato nel seno della Madre Chiesa, che, illuminato dalla Parola spalmata sui fatti della propria storia, ha sperimentato l’amore di Dio e per questo lo vede in tutto. E per tutto è grato, rende grazie, vive in pienezza l’eucarestia, che non a caso era l’ultimo evento vissuto da un catecumeno la notte di Pasqua, dopo aver ricevuto il battesimo e la cresima.

Era entrato nella terra della gratitudine, immagine del Paradiso. Gustava le delizie dello Shabbat, del riposo che è la contemplazione dell’opera di Dio nella propria vita. Poteva cantare e far festa, “rallegrarsi ed esultare” perché sapeva che proprio la persecuzione certificava la sua appartenenza a Cristo, che stava vivendo la sua morte e la sua resurrezione.

Come non essere grati, ed esplodere in una liturgia di ringraziamento per essere stati “separati” dal mondo per vivere la vita di Cristo! Come non essere felici per essere stati strappati dal peccato e dall’infelicità per gustare il perdono che ricrea! Come non desiderare questa “beatitudine” per chi ci è accanto, per il mondo intero? Come non perdere la vita per annunciarla sino agli estremi confini della terra perché nessun uomo ne resti escluso?

Il Signore ha pensato a te e a me, ai nostri figli per condurci per mano al possesso della nostra eredità, la sua stessa santità. Lui, il Santo, ci ha scelti. Lui nella Chiesa illumina gli occhi della nostra mente per comprendere a quale speranza siamo chiamati, "quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi" . La speranza di esserne partecipi purifica i nostri cuori e le nostre menti e ci fa ogni giorno santi come Lui: poveri con Lui, afflitti con Lui, miti con Lui, affamati e assetati con Lui, puri, operatori di pace, perseguitati con Lui. Piccoli, deboli, pieni di difetti e di contraddizioni. Eppure santi.

Sino al giorno in cui saremo “eletti” a far parte del “Paradiso”. Nel tempo e nello spazio, sulla terra, ci prepariamo a vedere trasformata la chiamata in elezione attraverso il cammino che ci offre la Chiesa. Perché è pur vero che molti sono i chiamati e pochi gli eletti. La santità è una cosa seria, è soprattutto una missione per salvare i peccatori.

Per passare all’altra riva, alla “terra celeste”, abbiamo bisogno di fratelli maggiori che ci confortino, ci mostrino le tracce disseminate sulla strada della santità. Di testimoni della fedeltà di Dio, come lo fu Elisabetta per la Vergine Maria. Per questo celebriamo oggi la santità di tutti coloro che ci hanno preceduto in questo cammino, che hanno gustato le primizie della Terra promessa nelle pieghe dell'esistenza quotidiana. Celebriamo la comunione con i santi, nella quale possiamo, in un certo senso, “approfittare” della loro santità per imparare a viverla nella nostra storia. 

Come accade in una famiglia dove i genitori e i fratelli maggiori mettono a disposizione i loro beni per i fratelli più piccoli, che non possono sostenersi da soli. Così “funziona” anche la comunione nella Chiesa terrestre, nelle nostre comunità concrete: nessuno dice “sua” la Grazia che riceve, ma la mette a disposizione per il bene di tutti. Così siamo uniti ai santi che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato la veste con il sangue dell’Agnello, e vivono nel Cielo. Ci donano le primizie, per darci forza e coraggio nel viaggio e nella battaglia per raggiungerli.

Affrettiamoci dunque ad entrare oggi nella Terra santa che ha allargato i confini sino ad includere anche la città della nostra vita. L’ha conquistata Cristo con la sua Croce e la sua risurrezione! La nostra vita, il nostro corpo, tutto di noi è preparato per divenire il tempio santo per la sua santità. Consegniamoci oggi e ogni giorno a Cristo, così come siamo, perché faccia di noi un’immagine fedele del Santo che ci ha chiamato.

venerdì 30 ottobre 2020

 


IN CRISTO E' LECITO IL COMPIMENTO DELLA LEGGE NELL'AMORE
La misericordia, unica risposta ai mali dell'uomo, squarcia ogni velo d'ipocrisia e lascia senza parole. Quante volte ci ritroviamo così, come i farisei dinanzi al Signore e al suo amore, ammutoliti, schiacciati dai nostri ipocriti moralismi che ci tagliano la lingua.
Gesù ci fissa oggi diritto negli occhi, e punta al nostro cuore con una domanda che è un dardo infuocato: "è lecito amare?". Quale trappola abbiamo escogitato per non amare, per non fare del bene? In quale casella delle nostre alchimie legalistiche abbiamo relegato la suocera, il marito, il collega, con l'unico scopo di silenziare la coscienza e auto-giustificarci, per non umiliarci, chiedere perdono e avere misericordia?
La radice del problema è sempre nel cuore, per questo il pubblicano salito al Tempio a pregare si percuote il petto, riconoscendo che è lì l'origine dei suoi peccati e delle sue sofferenze. Nel parallelo di Matteo la domanda di Gesù è più articolata: "E' lecito di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?". E' evidente il paradosso: fare il male e togliere una vita non è mai lecito.
Ma Gesù, indignato e rattristato per la durezza del cuore dei farisei, vuole togliere il velo di menzogna che ha chiuso i loro occhi. E la stessa domanda giunge oggi al nostro cuore: perché è lì dove si decide di fare il bene o il male, se dare la vita oppure toglierla. E' nel cuore, nel segreto del nostro intimo che amiamo o disprezziamo, ci doniamo o ci chiudiamo; è nel cuore che violiamo il sabato, senza che nessuno possa vederci.
E' sempre lecito e doveroso amare, è sempre illecito fare il male e uccidere. Eppure compiamo l'illecito senza curaci della Legge e del Sabato, anzi; ingannati dal demonio ci convinciamo che il male sia bene, e non amare sia "lecito". Il cuore è lontano da Dio, il sabato è solo un pretesto per vivere nell'ipocrisia di una vita falsa e doppia, purtroppo accecata dall'illusione della pretesa giustizia esteriore derivante dal rispetto di codici e leggi, nel cui nome dimentichiamo la misericordia. L'ipocrisia dei farisei li condurrà a volere la morte di Gesù, a deciderla nel loro cuore, e proprio in giorno di sabato!
Gesù parla oggi al nostro cuore, laddove il suo amore vuol scendere per sanarci. Se nel nostro cuore - e in giorno di sabato - siamo capaci e riteniamo lecito decidere di peccare, di uccidere con i giudizi, con le concupiscenze, con le passioni, come non potrebbe essere lecito amare, perdonare, sanare, salvare? Il paradosso con il quale oggi il Signore viene a visitarci per trarci fuori dalla trappola della menzogna e dell'ipocrisia che stringe il nostro cuore, ci indica dove dobbiamo guardare, dove inizia la vera conversione.
L'autentico compimento della Legge si realizza attraverso la circoncisione del cuore: i segni visibili nella carne, come le opere esibite per essere ammirati, possono costituire, sovente, l'alimento che rinforza e fa crescere l'uomo vecchio, incapace di ereditare la Vita Eterna e, peggio, di sbarrarne l'accesso ai più piccoli e ai più deboli.
La libertà è un dono inestimabile, che scaturisce da un cuore "graziato". Chi non ha conosciuto la folle misericordia di Dio, la sua testarda tenerezza, è ancora schiavo della propria pretesa giustizia, altrimenti chiamata orgoglio; il suo cuore è indurito e si illude di compiere la volontà di Dio mettendo insieme un povero puzzle di regolette appena rispettate.
Gesù ci parla per farci finalmente tacere, perché è il silenzio che apre le porte alla libertà. Solo quando ci renderemo conto di "non avere risposta" perché presi in flagrante, Gesù potrà prenderci per mano, guarirci e inviarci in missione nella vita. Proprio la domanda: "E' lecito?" ci smaschera. Vediamo che cosa significhi per noi, seguendo il parallelo di Matteo che vi aggiunge l'esempio di Davide che si cibò dei pani dell'offerta riservati ai sacerdoti. "Era lecito?". Secondo la Legge no, erano riservati al culto e a loro, che di essi vivevano. Come, ad esempio, non era lecito perdonare un'adultera, bisognava lapidarla e così "estirpare il male dal Popolo".
La domanda quindi è sottile e rivela se nel cuore alberga l'ipocrisia. Quel "è lecito" di Gesù è stato immerso nella sua misericordia, la madre della libertà. Per questo oggi per noi suona così: "è lecito" prendere su di sé il peccato di una moglie adultera? Magari non ci ha tradito con un amante, anche se la domanda varrebbe lo stesso, ma non ha avuto le attenzioni che ci aspettavamo, le camice sono tutte da stirare, non ha pagato le bollette e ora siamo andati in mora, mentre ha fatto l'ennesima spesa pazza, il sesto paio di scarpe: "é lecito" perdonarla, avere pazienza e accoglierla così com'è, con le sue ansie e nevrosi? "E' lecito" comprenderla e giustificarla, pensando bene di lei, che è in un momento difficile, la malattia della madre, i bambini che non le danno tregua, e una stanchezza che sfiancherebbe un toro...
"E' lecito" essere liberi al punto di non difendersi e offrirsi completamente al prossimo? "E' lecito" amare il peccatore, e dargli da mangiare ciò che non gli spetterebbe, il "pane" riservato al culto, ovvero il corpo di Cristo fatto carne in noi? Eh sì, perché ben prima della comunione sacramentale ai divorziati risposati il Signore ci chiama a "dare noi stessi da mangiare"... Stai offrendoti a chi non avrebbe diritto a nulla di te? I pastori, i catechisti, stanno annunciando che solo l'amore al nemico - che per la Legge era un assurdo - salva davvero i peccatori? E' questo il cammino che stiamo presentando a chi ha divorziato e vorrebbe accostarsi ai sacramenti? Forse no, perché pensiamo che è impossibile perdonare un marito violento, che ha tradito andandosene con una ventenne e lasciando soli moglie e tre bambini. Impossibile all'uomo vecchio, ai "farisei" di ogni generazione. Ma proprio l'annuncio sorprendente di Gesù mette a "tacere" il moralismo arido e senza amore di chi si difende con la Legge.
Al centro della questione non è la comunione sacramentale; è piuttosto la fede, che sa rispondere alla domanda se "sia lecito" perdonare settanta volte sette e morire per amore di un nemico. Perché è questo il vero compimento della Legge! Ma perché si dia nei cristiani è necessario che siano iniziati alla fede: se non sono "presi per mano" dal Signore e accompagnati in un cammino dove possano sperimentare la "guarigione", non saranno mai "congedati" per vivere da cristiani. Solo nell'iniziazione cristiana si diventa figli di Dio liberi dall'acqua stagnante che appesantisce il cuore di un "idropico spirituale" come tutti siamo, e che per questo è incapace di amare. E' questo l'autentico percorso di penitenza auspicato da molti padri sinodali per i divorziati risposati.
Ben prima della comunione sacramentale i peccatori hanno bisogno urgente dell'amore fatto carne nei cristiani. Esso è molto più che "lecito", è un diritto! Solo così incontreranno Cristo vivo nella propria vita, e potranno aprirsi alla penitenza e alla conversione, e perdonare come si è stati perdonati. Perché il problema è nel cuore, dei farisei come dell'idropico. E' lì che tutti abbiamo bisogno di essere "guariti". Poi il Signore ispirerà soluzioni che non siano toppe su un vestito grezzo, ma vino nuovo in otri nuovi, perché Dio, nella sua Chiesa, fa nuove tutte le cose, e non esiste caso disperato che in Cristo non trovi "guarigione" e vita nuova. Si può cercare un coniuge che ci ha lasciati vent'anni prima e riconciliarcisi, eccome, perché Cristo è risuscitato, e nessun peccato ha più potere su di Lui!
Ci si può umiliare per amore nell'amore di Cristo, chiedere perdono a chi ci ha fatto del male, facendo così "lecito" quello che la "durezza dei cuori" ha reso illecito perché divenuto ormai impossibile. Ma se Cristo la rende possibile, allora ogni follia è "lecita", anche vivere come fratello e sorella nonostante anni di rapporti sessuali, se si tratta di "tirare fuori", ovvero risuscitare, "un asino o un bue caduti nel pozzo" della morte. Nel Signore crocifisso è stato "lecita" la più grande ingiustizia, perché potessimo essere liberati, sciolti dalle catene dell'orgoglio per amare oltre la morte. Amando così, infatti, Gesù si è giocato la vita, perché ciascuno di noi, e ogni nostro matrimonio, fuori legge a causa dei peccati, fosse riaccolto dall'Autore della Legge che la fa possibile e la compie nel più debole degli uomini: "Quando Gesù nelle sue parabole parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, queste non sono soltanto parole, ma costituiscono la spiegazione del suo stesso essere ed operare. Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo — amore, questo, nella sua forma più radicale" (Benedetto XVI, Deus Charitas Est, 12)

giovedì 29 ottobre 2020

 


L'AMORE DI DIO E' RADICALITA' DELLA VERITA' E LIBERTA' NELLA MISERICORDIA
Gesù deve andare per la sua strada. Nulla e nessuno potrà fermarlo. La sua missione esige radicalità. La consapevolezza dell'opera da compiere lo rende forte e audace. Non saranno le minacce di morte che lo distoglieranno dal compiere il mandato ricevuto dal Padre. L'autenticità della profezia si rivela nella fermezza e nella parresia del profeta. La missione di Gesù è il compimento di quella affidata a Giosuè; in ebraico il nome “Giosuè” (yehosu‘a), infatti, è una forma antica del nome “Gesù” (yesu‘a). Giosuè doveva guidare il popolo alla conquista della terra promessa, combattendo gli abitanti di Canaan; Gesù dovrà scacciare i demoni per introdurre gli uomini nel Regno di Dio: "E' lui infatti che dopo la morte di Mosè ha assunto il comando, è lui che ha condotto l’esercito e ha combattuto contro Amalec; e ciò che era adombrato dalle braccia distese sul monte egli lo ha realizzato inchiodando alla croce i principi e le potenze sulle quali egli, in se stesso, trionfa" (Origene, Omelie su Giosuè, I, 3).
Il Signore invia Giosuè infondendogli coraggio: "Sii coraggioso e forte, poiché tu dovrai mettere questo popolo in possesso della terra che ho giurato ai loro padri di dare loro. Solo sii forte e molto coraggioso, cercando di agire secondo tutta la legge che ti ha prescritta Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, perché tu abbia successo in qualunque tua impresa. Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma mèditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; poiché allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo. Non ti ho io comandato: Sii forte e coraggioso? Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada... Allora Giosuè comandò agli scribi del popolo: «Passate in mezzo all'accampamento e comandate al popolo: Fatevi provviste di viveri, poiché fra tre giorni voi passerete questo Giordano, per andare ad occupare il paese che il Signore vostro Dio vi dà in possesso»" (Gs. 1,3 ss.).
Gesù fa sue le parole rivolte a Giosuè, e con coraggio si dirige a Gerusalemme: sa di non essere solo, il Padre è sempre con Lui perché Egli compie sempre la sua volontà, non devia da essa né a destra né a sinistra; Gesù medita giorno e notte la Scrittura, dirige su di essa i suoi passi, la incarna e la compie in ogni istante, è sempre presente sulle sue labbra. Per questo non teme e non si spaventa: raccoglie i suoi discepoli, consegna se stesso come provvista, annunciandogli il mistero che lo attende, la morte e la risurrezione che avverrà dopo tre giorni; allora passeranno finalmente il Giordano della paura, per andare ad annunciare il Vangelo e occupare il paese soggiogato da satana che il Signore dà loro in possesso sino ai confini della terra.
Gesù va per la sua strada: è la profezia che stana e scaccia i demoni. E' la verità che fa liberi. Il programma di Gesù è semplice: ha davanti a sé un tempo limitato, due giorni, che lo prepara al compimento dell'opera nel terzo giorno. La missione di Gesù è riassunta nei tre giorni del suo mistero pasquale: è questo il tempo di Dio. Ogni missione profetica segue lo stesso schema: annuncio, processo, rifiuto, passione, croce, sepolcro e risurrezione. Questo significa che ogni profezia deve passare per il crogiuolo, per il sacrificio dell'agnello. Solo così essa potrà mostrare la sua autenticità, la verità capace di liberare davvero. Gesù lo sapeva e per questo non temeva di dirigersi a Gerusalemme, il luogo dove la Pasqua doveva essere celebrata, come non era possibile che un profeta morisse fuori da Gerusalemme.
Ogni profezia annuncia la Pasqua, rivelando, negli eventi della storia, la sapienza della Croce: essa distrugge ogni falsa sapienza, l'astuzia di Erode la volpe, l'ipocrisia dei farisei. Per questo, ogni criterio che induce a fuggire dalla croce è figlio di satana. Occorre coraggio per vivere ogni giorno il ministero profetico che ci è assegnato, senza scappare. Il coraggio che scaturisce dalla fede; dubitare è spegnere la profezia e sbiadire la vita. Dio ci ha chiamato per compiere la stessa opera di Giosuè e di Gesù: tre giorni per condurre questa generazione al di là del Giordano. Non siamo soli, Lui è con noi; unica condizione è meditare giorno e notte la Scrittura, essere uniti a Cristo, lasciare che sia Lui ad operare in noi.
Ci attende Gerusalemme, il rifiuto e la morte: non è possibile che la storia di ogni giorno non ci conduca alla moglie, al marito, ai colleghi, come ad un sepolcro. E' la verità, perché esiste il peccato che insidia la Grazia. Per questo l'amore autentico appare quando si ergono i nemici contro di noi. Quando si è in una pace frutto del compromesso l'amore è ancora molto sentimento. E i sentimentali non sopportano l'idea che di lì a un minuto il coniuge possa convertirsi in un nemico. Ma proprio nei momenti in cui siamo rifiutati, attraverso di noi, il Signore può raggiungere e salvare chi ci è accanto. Non è possibile morire fuori dalla storia, perché l'autenticità della nostra vita sia provata, e divenga profezia di salvezza per coloro ai quali siamo inviati.
Il rifiuto della profezia genera solitudine e morte, il destino della casa di Gerusalemme. Ma, misteriosamente, anche questo è necessario: per essere scacciato, satana deve venire alla luce. In Gerusalemme sono coagulati il disprezzo, il rifiuto, i peccati di ogni generazione. "La tradizione ebraica associava alla città santa la creazione di Adamo e al monte Moria il sacrificio di Isacco. Lì, il nuovo Adamo sarebbe stato anch'egli tentato, e, come Isacco, sarebbe stato legato. L'intera storia biblica doveva essere ricapitolata e ricuperata alla radice" (F. Manns, Ecce Homo). Gesù deve affrontare il rifiuto della "Gerusalemme di quaggiù, schiava insieme con i suoi figli", per dischiudere le porte della "Gerusalemme di lassù, libera che è la nostra madre" (Gal. 4,25-26). Scriveva S. Ireneo che le cose "non sono create per se stesse, ma per il frutto che cresce in esse. E come per il frutto l’acino e il grano persistono mentre spariscono la resta e il graspo, così Gerusalemme, che in sé portava il giogo della schiavitù, viene soggiogata per lasciare posto alla Gerusalemme libera. Ad essa vengono condotti tutti quelli che, disseminati nel mondo intero, possono portare frutti" (S. Ireneo, Adv. Haer.).
Il rifiuto del Messia inaugurerà l'era della nuova Gerusalemme, nella quale ogni profezia su di essa troverà compimento. Il rifiuto e la condanna trascineranno la carne del Signore nella tomba, e la stessa casa di Gerusalemme diverrà un sepolcro deserto. Ma proprio questo passaggio segnerà l'aurora gloriosa del Benedetto che viene nel nome del Signore; la sua vittoria sarà la pace. Secondo un’etimologia popolare Gerusalemme era interpretata come "visione della pace". Questa visione sarà compiuta quando i discepoli rivedranno il Maestro risorto al terzo giorno: "Pace a voi!". E' Gesù stesso, il Tempio ricostruito in tre giorni, la visione della pace, la nuova Gerusalemme i cui figli sono raccolti come una covata sotto le ali della chioccia.
Per questo è necessario che Gesù si diriga oggi alla nostra vita, per far luce e smascherare i nostri peccati. La sua strada siamo noi che, come Gerusalemme, rifiutiamo la profezia e il Profeta. I passi di Gesù ci cercano anche oggi in un desiderio ardente di far pasqua con noi, di amarci, di perdonarci. I suoi passi cercano i nostri peccati. S. Girolamo si converte e per far penitenza dei suoi peccati rimane a Betlemme per ben 35 anni, in una spelonca accanto alla grotta della Natività, pregando, studiando e traducendo in latino la Bibbia. In una notte di Natale gli appare Gesù Bambino che gli chiede: "Non hai niente da darmi nel giorno della mia Nascita? Il Santo gli risponde: Ti do il mio cuore! – Va bene, ma desidero ancora qualche altra cosa. – Ti do le mie preghiere! Va bene; ma voglio qualche cosa di più, insisteva Gesù. – Non ho più niente, che vuoi che ti dia? – Dammi i tuoi peccati, o Girolamo, rispose Gesù Bambino, perché io possa avere la gioia di perdonarli ancora". Troppe volte abbiamo visto la nostra casa deserta, la famiglia dispersa e incapace di perdonarsi. Troppe volte abbiamo rifiutato la profezia che ci avrebbe resi liberi, trattenendo e difendendo i nostri peccati. Oggi il Signore ci viene a prendere sotto le sue ali, per farci sperimentare il potere del suo amore. Oggi possiamo incontrarlo di nuovo, vittorioso su ogni nostro peccato, e accoglierlo abbandonandoci nell'umile fede di chi, dal fondo del suo deserto, riconosce in Gesù la benedizione inviata dal Padre.

mercoledì 28 ottobre 2020

 


Sua Eccellenza, l'Arcivescovo Mons. Georg Ganswein, Prefetto della casa papale e segretario personale di Benedetto XVI, chiede al mondo di pregare per Benedetto XVI.
Sua Eccellenza dichiara che Benedetto XVI è come una candela che svanisce lentamente e serenamente. Lui è in pace con Dio, con se stesso e con il mondo, non è in grado di camminare senza aiuto e non può più celebrare la Messa.
Offriamo preghiere per il Santo Padre mentre continua nel cammino della vita con Cristo, che ama e ha servito con tanto amore e consegna, e con chi desidera incontrarsi faccia a faccia per continuare a servire.
Preghiamo per Benedetto XVI

 


UN'ANALISI LUCIDISSIMA E ATTUALISSIMA DI BENEDETTO XVI SULLE VICENDE CONTEMPORANEE E LA MISSIONE DELLA CHIESA
Se una tipologia fondamentale di violenza viene oggi motivata religiosamente, ponendo con ciò le religioni di fronte alla questione circa la loro natura e costringendo tutti noi ad una purificazione, una seconda tipologia di violenza dall’aspetto multiforme ha una motivazione esattamente opposta: è la conseguenza dell’assenza di Dio, della sua negazione e della perdita di umanità che va di pari passo con ciò. I nemici della religione – come abbiamo detto – vedono in questa una fonte primaria di violenza nella storia dell’umanità e pretendono quindi la scomparsa della religione. Ma il “no” a Dio ha prodotto crudeltà e una violenza senza misura, che è stata possibile solo perché l’uomo non riconosceva più alcuna norma e alcun giudice al di sopra di sé, ma prendeva come norma soltanto se stesso. Gli orrori dei campi di concentramento mostrano in tutta chiarezza le conseguenze dell’assenza di Dio.
Qui non vorrei però soffermarmi sull’ateismo prescritto dallo Stato; vorrei piuttosto parlare della “decadenza” dell’uomo, in conseguenza della quale si realizza in modo silenzioso, e quindi più pericoloso, un cambiamento del clima spirituale. L’adorazione di mammona, dell’avere e del potere, si rivela una contro-religione, in cui non conta più l’uomo, ma solo il vantaggio personale. Il desiderio di felicità degenera, ad esempio, in una brama sfrenata e disumana quale si manifesta nel dominio della droga con le sue diverse forme. Vi sono i grandi, che con essa fanno i loro affari, e poi i tanti che da essa vengono sedotti e rovinati sia nel corpo che nell’animo. La violenza diventa una cosa normale e minaccia di distruggere in alcune parti del mondo la nostra gioventù. Poiché la violenza diventa cosa normale, la pace è distrutta e in questa mancanza di pace l’uomo distrugge se stesso.
L’assenza di Dio porta al decadimento dell’uomo e dell’umanesimo. Ma dov’è Dio? Lo conosciamo e possiamo mostrarLo nuovamente all’umanità per fondare una vera pace? Riassumiamo anzitutto brevemente le nostre riflessioni fatte finora. Ho detto che esiste una concezione e un uso della religione attraverso il quale essa diventa fonte di violenza, mentre l’orientamento dell’uomo verso Dio, vissuto rettamente, è una forza di pace. In tale contesto ho rimandato alla necessità del dialogo, e parlato della purificazione, sempre necessaria, della religione vissuta. Dall’altra parte, ho affermato che la negazione di Dio corrompe l’uomo, lo priva di misure e lo conduce alla violenza.
Accanto alle due realtà di religione e anti-religione esiste, nel mondo in espansione dell’agnosticismo, anche un altro orientamento di fondo: persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio. Persone del genere non affermano semplicemente: "Non esiste alcun Dio". Esse soffrono a motivo della sua assenza e, cercando il vero e il buono, sono interiormente in cammino verso di Lui. Sono "pellegrini della verità, pellegrini della pace". Pongono domande sia all’una che all’altra parte. Tolgono agli atei combattivi la loro falsa certezza, con la quale pretendono di sapere che non c’è un Dio, e li invitano a diventare, invece che polemici, persone in ricerca, che non perdono la speranza che la verità esista e che noi possiamo e dobbiamo vivere in funzione di essa. Ma chiamano in causa anche gli aderenti alle religioni, perché non considerino Dio come una proprietà che appartiene a loro così da sentirsi autorizzati alla violenza nei confronti degli altri. Queste persone cercano la verità, cercano il vero Dio, la cui immagine nelle religioni, a causa del modo nel quale non di rado sono praticate, è non raramente nascosta. Che essi non riescano a trovare Dio dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo a noi credenti, a tutti i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio – il vero Dio – diventi accessibile.
Benedetto XVI. Discorso ad Assisi, 27 ottobre 2011

 


CHIAMATI NELLA NOTTE IN CUI CRISTO HA VINTO LA MORTE PER ANNUNCIARE CON LA SUA FORZA IL PERDONO DEI PECCATI
La nostra chiamata sorge dall'aurora di Pasqua. Gesù infatti chiama i Dodici al termine di una lunga notte di preghiera, e li costituisce "apostoli". Apostoli deriva dal greco "apostello", che significa "persone inviate appositamente da un Altro". In ambiente ebraico vi era lo "schaliah", l'inviato, il procuratore nel quale era considerato presente colui che lo inviava; tutto quello che l'inviato faceva era considerato come fatto da colui che lo aveva inviato. Nel Talmud si legge: " Lo schaliah di una persona è un altro se stesso".
Gesù è l'Apostolo del Padre, l'incarnazione viva e reale, qui ed oggi, dell'amore infinito di Dio. Gesù è uscito dal segreto del Padre per entrare nella notte dei nostri peccati e della nostra morte. Nell'agone definitivo ha vinto il nostro egoismo. Il monte dove Gesù è salito a pregare è "il luogo della sua solitudine, in cui si rivolge al Padre. E' l'espressione dell'interiore ascesa al di sopra degli invischiamenti nelle cose di tutti i giorni. La vocazione dei discepoli nasce nel colloquio di Gesù con il Padre. Se vogliamo scoprire la nostra vocazione, accoglierla e portarla a maturazione, dobbiamo scoprire il monte di Gesù: la liberazione dalle cose di tutti i giorni, il contatto con il Dio vivente, dove si ascolta la voce di Gesù" (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, p. 89).
Gesù nella preghiera ha ascoltato il grido sofferente dell'umanità. La notte sul monte è stato l'immergersi nella notte che ha inghiottito l'uomo di ogni generazione sopraffatto dall'inganno del demonio. Gesù, come Mosè "dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori [della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti" (Gregorio Magno, Regola pastorale, SCh 381, 198) sul monte che già prefigurava la Croce, si è lasciato incalzare dal dolore di ogni uomo; il peccato lo ha crocifisso e spinto nella notte della morte dalla quale è però uscito vittorioso nell'alba della risurrezione. La nostra chiamata nasce da questo mistero d'amore. I nostri nomi sono risuonati nel cuore di Cristo accanto al grido di dolore dell'umanità. Per questo il Signore ci ha raggiunti e amati così, schiavi di essere sempre e solo apostoli di noi stessi. Nella nostra notte, quella che forse stiamo vivendo ora, la Sua preghiera ci ha liberati e all'alba della risurrezione ci ha chiamati ad essere Lui per questa generazione. Famiglia, lavoro, studio, gioie e dolori, ogni momento è uno sguardo d'amore di Cristo impresso nel nostro stesso sguardo, la Sua vittoria che scaturisce dalla nostra vita per la salvezza del mondo. Il nostro nome nel Suo Nome. Noi in Lui. Apostoli di Cristo, figli del suo amore. Il nostro nome chiamato è segno di una vita consegnata al dolore dell'umanità. Tutto di noi è a servizio di questa generazione; nulla della nostra esistenza è estraneo al dolore e ai bisogni di chi ci è posto accanto, di coloro ai quali siamo inviati. Nel nostro nome risuona la voce di Gesù, e con essa ci incalza il peso dei sofferenti. Dietro ogni evento della nostra vita si nascondono i volti dei poveri, dei peccatori, degli schiavi. A loro siamo inviati, ogni istante, in ogni luogo.
"Ma dov’è Dio? Lo conosciamo e possiamo mostrarLo nuovamente all’umanità per fondare una vera pace?" (Benedetto XVI, Discorso ad Assisi, 27 ottobre 2011). Ciascuno di noi, misteriosamente, annuncia la risposta di Dio al grido di dolore del mondo, perchè la risposta è stata, è e sarà Cristo morto e risorto. In Lui non solo annunciamo, ma siamo noi stessi la risposta. Dirà Gesù di fronte alla fame delle folle: "Dategli voi stessi da mangiare". La risposta alla fame è tutta in quel "voi stessi". La sua Parola chiama all'esistenza, moltiplica e distribuisce; la sua chiamata ci ha tratti dalla morte alla vita, ha dato senso e pienezza alla nostra esistenza, e così ne ha fatto un dono per l'umanità. Possiamo dare noi stessi da mangiare perché Lui è in noi e noi ormai siamo Lui. Per questo è necessario che Dio parli lo stesso linguaggio dell'uomo, di quello concreto a cui siamo inviati. Ciò significa che, per essere una risposta autentica, credibile e comprensibile Dio ci conduce nella medesima vita, nelle medesime sofferenze dell'umanità. L'apostolo è la voce stessa di Dio, ed è sintonizzata sul dolore; ciò significa che lo condivide, che lo sperimenta in tutto, come ogni altro uomo. Per essere la risposta di Dio occorre dunque parlare la stessa lingua di chi soffre: ammalarsi, essere traditi, abbandonati, sperimentare la solitudine e l'ingiustizia, perché in tutto brilli la speranza dell'amore che ha vinto il peccato e la morte. Se moltissimi nel mondo non riescono a trovare Dio "dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo a noi credenti, a tutti i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio – il vero Dio – diventi accessibile" (Benedetto XVI, Discorso ad Assisi, 27 ottobre 2011). E' questo il cammino dell'incarnazione, che depone un seme di vita eterna nella carne soggetta alla corruzione.
Non siamo apostoli per la nostra volontà, per un desiderio, per quanto nobile sia. E' Gesù che costituì, che fece i Dodici. E' opera sua, come la nostra stessa vita è una sua opera che scaturisce dalla sua intimità con il Padre. Mette i brividi pensare al grande mistero della profonda intimità con Gesù alla quale e per la quale siamo stati chiamati. Essa giunge al punto di far di noi degli alter Christus, degli altri Cristo, condividendo con Lui vita e missione. Gesù è sceso in missione sulla terra uscendo dall'intimità con il Padre per cercare e salvare la pecora perduta. Si è consumato nell'amore che lo ha gettato all'ultimo posto, il posto più lontano dal Padre, scavalcando in una corsa a ritroso, il peccatore più grande della storia. L'ultimo posto di Gesù perché nessuno resti escluso dalla salvezza. Nell'ultimo posto di Gesù vi è il nostro ultimo posto, quello dell'apostolo, quello che ci è riservato ogni giorno. E' esattamente dove i fatti della nostra vita ci conducono che siamo inviati in missione. E' nella difficoltà sul lavoro, in famiglia, dove e con chi sia, che siamo mandati ad essere Cristo stesso, a portare la salvezza, a caricarsi dei peccati del mondo, o meglio a lasciare che Cristo li carichi sulle sue spalle che ha preso in prestito da noi. E' questa la missione, la chiamata che ci ha raggiunti, l'amore che consuma il male consumando la nostra vita, perché il mondo riceva la vita, quella vera che ci è data e che sovrabbonda in noi.
"Dodici è il numero delle tribù di Israele, ma è anche il numero delle costellazioni che scandiscono il ritmo dell'anno. Questo nuovo popolo è così votato alla conformità tra cielo e terra: sia fatta la tua volontà come in Cielo così in terra. Il cammino che qui si intraprende, decide per il cielo e per la terra e li rende conformi. I dodici, che qui sono stati chiamati, diventano per così dire le nuove costellazioni della storia, che ci indicano il cammino attraverso i secoli" (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, p. 91) . Così, se la Chiesa, la comunità della quale siamo parte è la costellazione della storia che indica la salvezza e la via a Dio, la nostra esistenza è una stella, che si consuma brillando, luce purissima che brucia peccati e debolezze, il fuoco dell'amore infinito di Dio riversato in noi perchè tutto di noi sia un segno sicuro e autentico del Cielo.

martedì 27 ottobre 2020

 


IL REGNO DI DIO SI PUO' PARAGONARE A TE PERCHE' GESU' SI E' FATTO SIMILE A TE
E' l'insignificanza che redime la vita, il paradosso di quel sepolcro che ha aperto le fauci e ha inghiottito il Signore. Egli ha deposto il Regno di Dio - il destino eterno per il quale siamo stati creati - al di là dell'ultimo gradino che l'uomo possa discendere. Dal momento in cui Cristo è stato adagiato nella tomba, ogni tomba è divenuta Regno di Dio. La domanda che si pone Gesù stesso, rivela l'assoluta novità annunciata dal Vangelo: "A che cosa paragonerò il Regno di Dio? A cosa lo rassomiglierò?" Non dice a che cosa paragonerò il principio del Regno, la sua crescita, il suo compimento. Dice: il Regno di Dio è simile a un granello di senapa, è simile a un po' di lievito. Il Regno di Dio è già compiuto nel suo inizio, e in tutta la sua storia. Il Regno di Dio è qui ed ora. In altre parabole il Signore descrive il suo diffondersi, ma con le parole di oggi ci svela una notizia capace di cambiare radicalmente la nostra vita. Il granello di senapa, il più piccolo tra i semi, è immagine dell'estrema piccolezza cui si avvia la nostra vita, la situazione nella quale viviamo oggi, esito dell'umiliazione cocente subita. Il lievito, farina vecchia e putrida, è immagine di quanto, nella nostra vita, si sta oggi corrompendo. Il Regno di Dio è l'esatto contrario di ciò che immaginiamo, e si nasconde dove meno ce lo aspettiamo: "Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri" (Isaia 56,8-9).
"Regno di Dio vuol dire: Dio c'è. Dio vive. Dio è presente e agisce nel mondo, nella nostra - nella mia vita. Dio è la realtà più presente e decisiva in ogni atto della mia vita, in ogni momento della storia" (J. Ratzinger, Discorso al Convegno dei catechisti, 10 dicembre 2000). Questa realtà si rivela presente e decisiva nella morte. Come per il seme, come per il lievito. Come per Gesù. Il Regno è laddove tutto scappa dalle mani e non si può più controllare; laddove non si comprende nulla di quanto sta accadendo, al limite esatto oltre il quale ci attendono la disperazione, l'esaurimento, la resa. Il Regno di Dio è Cristo stesso adagiato su quel limite, il suo sepolcro che si fa terra e farina, ciò che sono, oggi, le nostre esistenze.
Il chicco caduto in terra infatti, se non muore resta solo. Il Signore gettato in questo mondo come un banalissimo chicco di Vita, abbandonato in un giardino, giustiziato su una croce, sepolto in una grotta, ha salvato una moltitudine immensa, e tra questa anche noi. E' Lui che fa della nostra vita il suo Regno, proprio laddove essa ci viene strappata. Gesù ci attende oggi al capolinea dei sogni e dei progetti, dell'amore e degli affetti, degli ideali e delle filosofie, della politica e della finanza; Egli ci attende per riscattarci, per colmarci di Lui, della Sua vita piena ed eterna. Non è morte, è vita! Non è sepolcro, è Regno di Dio! "La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e gli è permesso di amare" (J. Ratzinger, Omelia per il Sabato Santo).
Il granello di senapa, il lievito, l'umana e carnale insignificanza, costituiscono l'autenticità del nostro essere; spogliati di ogni orpello sperimentiamo che non viviamo di pane e che siamo nati per divenire pane; laddove tutto ci è tolto si erge, vittorioso, l'amore di Cristo, quale unica fonte e ragione di vita. Gettati nella storia come un granello di senapa, impastati nei giorni come lievito, siamo chiamati ad essere, in Cristo, cittadini del Regno di Dio: esso è in noi e con noi visita la storia, i luoghi della nostra vicenda umana, per divenire un albero capace di accogliere - tra le nostre braccia crocifisse - gli uccelli del cielo, immagine biblica dei popoli pagani. La nostra insignificanza redenta fermenta i mille non senso che atterriscono gli uomini, schiudendo loro le porte del Regno. Così, il martirio silenzioso di ogni giorno che ci attende, incruento e quindi neppure eroico, rivela l'autenticità e il valore della nostra vita.
In Giappone la Chiesa vanta decine di migliaia di martiri. Essa ha conosciuto quasi trecento anni di solitudine, stretta da una persecuzione feroce. Nulla che lasciasse presagire un cambiamento. Non fu una settimana, un mese, un anno. Furono migliaia di giorni, e generazioni che sorgevano e tramontavano nella cappa asfissiante di una vita nascosta, nel timore delle delazioni, ogni preghiera sussurrata, le feste celebrate con gli abiti di ogni giorno: niente sacerdoti, niente sacramenti dopo il battesimo, niente chiese. Solo la propria vita dentro un'interminabile e buia catacomba. Ma il Regno di Dio era lì, nascosto, invisibile, disciolto come lievito nella storia comune di ogni giorno. Insignificanti, i kakure kiristan (cristiani nascosti) hanno vissuto aggrappati alla promessa dei missionari: “torneremo un giorno...”. La fede è stata l'unica roccia cui aggrappare la loro vita. Moltissimi di loro, i più, non hanno visto quel giorno con gli occhi della carne. Ma il regno di Dio non si è mai allontanato dal Giappone: in mezzo alle persecuzioni, nell'insignificanza e nel disprezzo, nel dissolversi quotidiano di ogni speranza umana, esso ha fecondato quella terra, ha fermentato quel popolo. In quei giorni intrisi di fede Dio era presente in loro, nascosto con loro. Nessuno poteva sapere o immaginare. Anche a Roma erano convinti che non vi fossero più cristiani in Giappone. Invece, un giorno di marzo del 1865, a Nagasaki dove aveva costruito una cappella per i commercianti stranieri, ancora vigente l'editto di persecuzione, un missionario francese è raggiunto da una notizia sconvolgente: "abbiamo lo stesso cuore!". Erano un pugno di uomini e donne, un granello di senapa, un po' di lievito. Erano i discendenti dei martiri, nascosti nella terra, nella farina, nella solitudine di ogni giorno. Ed ora erano lì, pronti a stendere ancora le braccia, ad offrire la propria vita, con lo stesso cuore di Cristo. L'insignificanza aveva partorito il senso autentico e profondo celato in essa. Molti di essi morirono martiri poco tempo dopo, testimoniando l'amore di Dio sino alla fine. E' questa è la comunità cristiana, la Chiesa di Cristo: braccia distese sulla Croce della misericordia, distese verso ogni uomo, il peggiore, il più peccatore, il più perduto.

lunedì 26 ottobre 2020

 


L'AMORE DI DIO SVELA L'IPOCRISIA SATANICA E SLEGA LE CATENE CON CUI CI TIENE SCHIAVI ALL'EGOISMO
La Parola guarda, chiama a sé e libera. La Parola si fa mani che toccano le infermità, e raddrizzano. La Parola schiude alla lode chi è curvo, incapace di raddrizzarsi in alcun modo. La Parola compie il sabato del riposo, il destino cercato, sperato e mai raggiunto.
E finalmente sei arrivato Signore, mi hai guardato, mi hai chiamato. Mi hai guarito. Curvo sui miei pensieri, sulle mie ansie, sulle mie nevrosi. Le paure per un passato non risolto, pesante come un macigno sul mio presente. Una offesa, chissà. Un'ingiustizia non digerita, ed eccomi da anni accasciato e incapace di sollevare lo sguardo. Si, questa è la mia vita. I peccati, gli inganni del demonio come una mano sulla nuca a obbligarmi con gli occhi abbassati. Non un pezzo di cielo, lo sguardo sempre sul selciato, senza sapere da dove vengo e dove vado. Ma sei arrivato, oggi, con il tuo amore. Hai vinto l'ipocrisia moralista delle regole di facciata, buone solo a far schiava la gente. Il cuore hai cercato. Eccolo allora il mio cuore. E' pronto per te, guariscilo Signore. E' giunto finalmente il sabato eterno delle tue nozze con la mia povertà.
Per questo Gesù insegna di sabato proprio per rivelare cosa sia il sabato. Esso vede, chiama a sé e guarisce: shabbat è la porzione di Cielo dischiusa nel tempo, il kairos che, come una ferita, spezza la trama grigia dei giorni; shabbat impedisce al tempo di chiudersi su se stesso, e spegnere così la speranza. La donna inferma, curva e incapace di drizzarsi è immagine del nostro tempo senza shabbat. La nostra storia che ha smarrito il sigillo dell'Alleanza, la caparra della vita eterna, la breccia che circoncide la carne aprendola ad un destino più grande. Questa donna è immagine di ciascuno di noi curvo sui suoi pensieri, sulle ansie, sulle nevrosi. Incapaci di rizzarci dalle paure per un passato non risolto, pesante come un macigno sul presente. Una offesa, chissà. Un'ingiustizia non digerita. I peccati, gli inganni del demonio come una mano sulla nuca a obbligarci con gli occhi abbassati. Non un pezzo di cielo, lo sguardo sempre sul selciato, senza sapere da dove veniamo e dove andiamo.
Ma Gesù colma shabbat; Egli denuncia l'ipocrisia che si indigna della libertà facendo di shabbat un idolo muto. Di chi rende le nostre chiese, la Parola, il Signore stesso come lo shabbat pervertito dal capo della sinagoga: un peso in più, un moralismo, una garanzia sulla vita che uccide la vita. Gesù guarda oggi la nostra vita, non se ne scandalizza, e dischiude le porte di shabbat perchè esso accolga il nostro tempo curvo sul non senso. Gesù ci dona oggi shabbat in tutto il suo splendore, nel suo sapore unico di festa e libertà. Oggi ci scioglie dalle catene delle menzogne e ci conduce a mangiare e a bere i frutti della terra, la vita autentica per la quale siamo nati.

domenica 25 ottobre 2020

 


LA SALVEZZA DI OGNI UOMO PENDE DAL LEGNO DELLA CROCE DOVE GESU' HA COMPIUTO IL COMANDAMENTO CHE CI FA FIGLI SOMIGLIANTI AL PADRE
"Quale è per te il più grande comandamento?": questa domanda è rivolta anche a noi oggi. I farisei chiedevano a Gesù un'opinione, secondo la tecnica del demonio, per "tentarlo" e farlo cadere. Vediamo come interpreti la Scrittura... Già visto: con Adamo ed Eva e con Saul per esempio, caduti proprio perché irretiti nei sofismi del demonio che li ha indotti a interpretare da sé le Parole di Dio. Ma Gesù no, Lui, come nel deserto prima di iniziare la missione pubblica, e poi sempre di fronte alle domande dei farisei, ha risposto con la Verità fatta carne. Con i fatti, non con un'opinione. E il fatto era Lui stesso, lo Shemà compiuto nei segni che stava facendo. Tutti i miracoli, infatti, erano la testimonianza del suo amore a Dio e al prossimo con tutto se stesso. Gesù era l’amore di Dio sceso sulla terra; era “il comandamento” offerto gratuitamente a ogni uomo. Lui era tutto quello che avrebbero voluto compiere i farisei con i loro sforzi. Potevano “ascoltarlo” ed entrare nella vita vera. O rifiutarlo, e morire nei loro peccati. Come ciascuno di noi, ogni giorno. Nella Chiesa ci viene annunciata la Parola, che illumina le nostre vicende e i nostri cuori. Spesso ci smaschera intrappolati in Egitto, schiavi del disordine, che in ebraico significa anche faraone: rancori e litigi, giudizi e gelosie. Significa che il demonio ci ha sedotto, strappandoci a Dio. Significa che abbiamo dialogato con lui, che non abbiamo saputo rispondere con i fatti che testimoniano l'amore di Dio nella nostra vita. Certo, perdonare chi non riconosce l'errore non è giusto; aprirsi alla vita, senza un lavoro fisso, è assurdo. E così la Parola di Dio diviene la nostra condanna: accettando l'interpretazione del demonio usciamo dalla volontà di Dio, e restiamo imprigionati nella corruzione del nostro ego. Ma anche oggi possiamo essere “restituiti” a Lui. Basta “ascoltare” senza indurire il cuore, in un cammino di conversione che cominci dall'accettare di essere “piccoli”, peccatori, senza difendersi. Ed è il primo frutto della Parola, che illumina la verità. Padre F. Manns mette in evidenza come, nel vangelo di Giovanni, Nicodemo sia iniziato alla fede proprio attraverso il compimento dello Shemà. Egli è "il tipo del catecumeno che si apre alla fede; e l'itinerario che gli viene proposto da Gesù è proprio quello dello Shemà. Bisogna aprirsi progressivamente. Prima il tuo "cuore", poi la tua "anima" e alla fine le tue "forze", che sono il denaro". Il catecumeno non capisce tutto subito... Prima deve accogliere Cristo nel cuore". Nel cristianesimo non si inventa nulla. E' Dio che, attraverso la Chiesa, ci inizia all'ascolto e all'obbedienza, sino al compimento dell'amore sino al dono totale di sé. L'amore, infatti, dice Benedetto XVI, non si può comandare. Apriamo allora anche solo una fessura del nostro intimo per accogliere la Parola che libera dal peccato, e semina in noi l'amore che, a poco a poco, prende possesso del "cuore", il centro dell'uomo, la sua torre di controllo; poi dell'"anima", ovvero la vita, perché secondo il Levitico essa si trova nel sangue; e infine delle "forze": "Con tutto il cuore: con le tue due tendenze, quella buona e quella cattiva. Con tutta l'anima: dovesse anche costarti la vita. Con tutte le forze: con tutti i tuoi averi" (Mishnà). Così ci trasforma in "cristiani", uomini nuovi crocifissi con Cristo; uomini liberi in cui è vivo Lui e non più l'uomo vecchio della carne. Sulla Croce, infatti, Gesù ha compiuto lo Shemà per noi: la “mente” cinta dalla corona di spine, le “forze” inchiodate al legno, il “cuore” trapassato dalla lancia. Tutto questo è un regalo pronto per noi, affidato alla Chiesa. Attraverso i sacramenti, l’ascolto della Parola di Dio e la comunione con i fratelli, lo Shemà si fa carne in noi per seguire la volontà di Dio, offrire la nostra vita, restituendo tutto a Dio, compreso il denaro, il lavoro, il tempo, i criteri. E' nella comunità cristiana che si compie lo Shemà", il “comandamento” che dà compimento alla nostra vita. In ebraico, infatti, il termine indica anche “una parola che affida un incarico”, o “la legge "incisa" che orienta e dirige il compimento di una missione”. La comunità che “ascolta” senza dividersi sull’interpretazione della Scrittura, ma impara a viverla crescendo nell'amore, compie la missione che il Signore le ha affidato. La comunità e i fratelli, ciascuno nella propria storia. Negli Atti degli Apostoli possiamo scoprire le tracce che ci illuminano come, sin dalle origini, la Chiesa aveva ben chiaro che essa viveva, in continuità con Israele, sul fondamento dello Shemà: "Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere... La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune". "Ascolto" e "unione", "un cuore solo e un'anima sola", "ogni cosa era in comune": ecco disegnato lo Shemà che si compiva nella comunione dei fratelli in Cristo; l'amore a Dio e al prossimo si traduce dunque con la comunione, l'essere Uno come Dio è Uno, un solo corpo in Cristo che ci ha amati con tutto se stesso, per annunciare e testimoniare al mondo che Dio esiste, e ama davvero gli uomini: "da questo", dice il Signore, "riconosceranno che siete miei discepoli" e potranno credere ed essere salvati.

sabato 24 ottobre 2020

 


LA CONVERSIONE E' IL CAMMINO DELLA VITA SUL QUALE DISCERNERE IN OGNI ISTANTE L'AVVENTO DELLO SPOSO
La sapienza consiste nel saper contare i propri giorni, ciascuno come un «kairos», un momento favorevole per «convertirsi». Come «questo preciso momento» in cui le notizie dal fronte della storia ci annunciano terremoti e crisi finanziarie nel mondo, gelosie, invidie e divisioni nei cuori. È vero, la «creazione geme e soffre» a causa del peccato, ma non è impazzita. La cronaca registra il dolore, ma è quello delle «doglie» che annunciano la vita per la quale Dio ha plasmato ogni cosa. Essa risplende come una primizia nei Figli di Dio «piantati» nella vigna del Signore. Nel seno della Chiesa, come pazienti «vignaioli», pastori e catechisti li hanno curati con «zappa» e «concime», la Parola che dissoda con la Verità, e i sacramenti che nutrono del Mistero Pasquale di Gesù. Una storia d’amore che ha accolto anche noi nel seno di una terra di misericordia e tenerezza, grazie e segni, correzioni e consolazioni. Il «terreno» fecondato dal seme benedetto del corpo del Signore, nel quale siamo stati chiamati a crescere e risuscitare con Lui, per presentare al mondo i «frutti» maturi della fede adulta, le opere che annunciano in noi la sua vittoria sulla morte. Il mondo ha bisogno dei nostri «frutti», é questione di vita o di morte.
Accanto a noi qualcuno sta per abortire, divorziare, gettare al vento la propria dignità. Forse si tratta della persona più vicina, e non ce ne stiamo accorgendo. Forse è tua moglie, che la tua indifferenza e il tuo egoismo sta uccidendo, come in una lenta eutanasia: goccia a goccia, il disinteresse, la noia, il calo del desiderio asfissiano la relazione. Ti unisci a lei solo quando la carne lo reclama - e chissà perché lo reclama sempre meno, forse la pornografia sta prosciugando la tua anima? o l'attaccamento al denaro ha rapito il tuo cuore? - come quando hai fame e ti mangi un pezzo di pizza; ma per il resto neanche uno sguardo, di quelli speciali, che giungono al cuore per deporvi tenerezza e misericordia... E capita che ormai sono anni che non fate più l'amore, e le parole scivolano sul cuore come gocce di pioggia su un tessuto idrorepellente, e le attenzioni sono riversate su figli, lavoro, cose e denaro; e le ore insieme diventano noiose, con un bisogno d'evasione incipiente che si trasforma in quell'insoddisfazione perenne che ti allontana da tutto e da tutti... Il matrimonio è ferito e non te ne rendi conto; per questo non ricorri alla sua fonte; hai dimenticato che è un sacramento e che non è opera tua; non ti viene in mente che c'è un modo per salvarlo, anzi di risuscitarlo, perché Cristo ha il potere su ogni morte, anche su quelle che porti dentro e non vuoi vedere! Non ti importa perché forse l'hai chiuso in una tomba sulla quale non versi più neanche una lacrima.
Ma le persone che ti stanno accanto, moglie e marito, figli e amici, parenti e fidanzati, «soffrono e gemono» a causa dei tuoi peccati, dei miei ... brancolano nel buio, ce ne siamo accorti? Come il mondo, che non capisce, non sa, la morte e il dolore spaventa e si finisce con il fuggirlo. Tuo figlio scappa, l'hai capito? Gli spinelli, i piercing, sono messaggi che ti lancia. Il primo denuncia i suoi peccati e il suo orgoglio. Ma il secondo denuncia te... Il demonio lo sta ingannando e lo tiene per il collo mostrandogli la tua incoerenza, il tuo attaccamento al denaro e alla carriera... Non si tratta di diventare perfetti, di essere impeccabili, no. Si tratta solo di riconoscere la propria debolezza, i propri peccati, e chiedere aiuto a Dio, implorare il suo perdono, e annunciare così a tutti, anche a tuo figlio, la stessa misericordia.
Per questo dovremmo chiederci se le persone che ci sono accanto troveranno oggi in noi il discernimento, la Parola di Verità, l’amore di cui hanno diritto? Forse no. Forse, come quei giudei, «abbiamo mangiato e ci siamo saziati» dei segni con i quali il Signore ha «moltiplicato» la nostra povera vita e abbiamo cominciato a «sfruttare» per noi stessi «il terreno» del Padrone. "Sono tre anni", è tanto che stiamo nella Chiesa, e forse ci stiamo approfittando del matrimonio, del ministero sacerdotale, della vita religiosa, dell’amicizia, di Dio stesso. La parabola descrive il tempo di catecumenato della Chiesa primitiva, che non durava però all'infinito. Non si può essere catecumeni a vita... Non si può essere sempre cristiani in prova: la Grazia non ci è data per essere dissipata. Per questo, nella Chiesa primitiva, il Vescovo si informava attraverso degli scrutini pre-battesimali per sapere come procedeva la preparazione del catecumeno. Purtroppo oggi questo non accade quasi mai, anzi, "informarsi, chiedere, correggere" sembrerebbe un giudizio verso i parrocchiani... Il "taglialo" poi, figuriamoci, in tempi di legge sull'omofobia sarebbe un attentato alla libertà di scelta.
Tutto questo accade perché abbiamo messo da parte l'amore e la gratuità di Dio; non li conosciamo più, e la confusione regna sovrana. La fede poi, normalmente, è data per scontata. E così i pastori, solo perché la gente ancora frequenta la Chiesa, passano all'incasso chiedendo, a volte esigendo, i "frutti": cercano i catechisti, i lettori, il coro, i volontari per la festa patronale, per l'animazione dell'oratorio, e si buttano i parrocchiani nella girandola del fare, senza pensare che prima viene un essere. Ed è raro chi si chiede se i parrocchiani siano stati formati o no: l'albero non cresce e non fruttifica senza terra, acqua, sole, concime. Per questo è necessaria una pedagogia permanente, una iniziazione cristiana seria, che non dia per scontata la fede, ma che ne accompagni e curi la maturazione. E' fondamentale privilegiare l'incontro personale con Cristo che viene, con amore e per amore, a chiedere i "frutti" dello Spirito Santo in ciascuno di noi. Per aiutarci a vedere con chiarezza in noi, affinché possiamo riconoscerci peccatori e accogliere la "conversione" come una buona notizia. Comunque, anche se non esiste quasi più il catecumenato e una seria iniziazione cristiana degli adulti, Dio continua ad aiutarci: con le liturgie e l'aiuto di pastori e catechisti; o attraverso gli eventi e le persone che, senza aspettarcelo, Dio invia alla nostra vita nei "kairos" favorevoli. E ci chiede conto, per amore, dei "tre anni", del nostro tempo vissuto nella Chiesa.
In tutti i modi la domanda è la stessa: che ne abbiamo fatto di tutto l'amore seminato nella nostra vita? Forse lo abbiamo pervertito, ed è divenuto questa poltiglia affettiva che abbiamo tra le mani: sempre impauriti, nevrotici, gelosi. Che nessuno ci porti via l'attenzione e la stima degli altri; che nessuno osi essere diverso da quello che abbiamo stabilito; che nessuno ci privi, oggi, della dose di affetto di cui abbiamo bisogno, sempre più massiccia, al limite dell'overdose. Che mio marito non creda di farla franca se non mi accompagna a comprare le scarpe; che la figlia non creda di passarla liscia con quell'atteggiamento supponente; che i miei figli non si illudano, non è possibile che sono già tre settimane che non mi vengono a trovare, che non si preoccupano della mia artrosi, dopo quello che ho fatto per loro. E' vero, stiamo per impazzire, imprigionati nell'impossibilità di ottenere l'affetto del quale ci sentiamo in diritto. Abbiamo tristemente scambiato i "frutti" che siamo chiamati a dare con quelli che esigiamo dagli altri.
Per questo il Signore dice perentoriamente:«Taglialo»... E’ una scure questa parola, ed è rivolta a noi. Come mai ancora non è giunta sulla nostra vita per portarsela via? Forse siamo migliori del collega morto all’improvviso o della ragazza rapita, violentata e uccisa? Forse siamo migliori del cugino che ha lasciato moglie e quattro figli e si è messo con una ventenne, sventagliando una raffica di mitra sul cuore dei suoi familiari? Forse sei meglio di quella mamma che ha accoltellato suo figlio di un anno? O forse Dio è un mostro e fa preferenze e vibra la scure scegliendo chi colpire come in una lotteria? «No, vi dico, ma se non vi convertite», la morte sarà per voi un’ingiustizia senza senso come lo è per il mondo. Ecco, il punto fondamentale è, oggi, come ogni giorno, la conversione. Che significa ascoltare la predicazione e la Parola di Dio, accoglierla e lasciare che polverizzi i criteri mondani con i quali guardiamo e interpretiamo i fatti, quelli di cronaca come quelli della nostra storia. Convertirsi significa, soprattutto, permettere a Dio di "tagliare" oggi la mano, il piede e l'occhio che ci scandalizzano, che ci fanno inciampare e ci impediscono la libertà per discernere la volontà di Dio negli eventi.
Anche oggi viene il Signore a "tagliare" la parte mondana e corrotta di noi. Gli apriamo? Ci mettiamo in ginocchio chiedendogli aiuto e pietà? O ci chiudiamo nell'orgoglio, difendendoci a spada tratta? Gesù non minaccia un castigo ma profetizza la triste conseguenza riservata a un cuore indurito. Si "perisce" tutti, ma il modo può essere diverso. Si può morire come chi non ha speranza ed è colto impreparato, o con il cuore di una sposa che attende il ritorno dello Sposo. Si può morire con e per amore, o chiusi nell'orgoglio e nell'egoismo che acceca e non ci fa capre nulla di quello che ci accade. Anche oggi può caderci addosso la torre di Siloe, basta una parola del marito... Ma non è detto che ci uccida come uccide chi non se l'aspetta: possiamo "convertirci", lasciare di guardare noi stessi e contemplare l'altro, nel quale è vivo Cristo; e accogliere la stessa parola cattiva con amore, morendoci dentro probabilmente, tanto è dura e ironica. Ma per amore, offrendosi all'altro come Cristo si è consegnato a noi, senza riserve. Allora la torre non ci schiaccerà nella disperazione, ma sarà un'occasione per donarsi e amare. Una bella differenza no? Non siamo migliori di nessuno, non abbiamo alcun diritto per morire santamente, nella storia di ogni giorno come quando esaleremo l'ultimo respiro: «No, vi dico, ma se non vi convertite», il mondo resterà senza speranza e ne chiederò conto a voi.
«Convertirci» allora è ricordare che c’è un «taglialo» definitivo che ci aspetta e meritiamo, per i peccati commessi. Dovremmo essere tagliati in questo stesso istante, solo per la mancanza di carità di questa settimana... Ma il "taglialo" è fermo a mezz’aria per la pazienza magnanime di Dio che desidera che tutti si salvino. Lui ci ama follemente, sa tutto di noi, del nostro matrimonio, della nostra incoerenza, della corruzione del nostro cuore ipocrita e ingannato. Sa e non ci giudica; sa e proprio per questo ci ama incondizionatamente. Per questo ci concede ancora quest’«anno» di misericordia, la vita che abbiamo davanti come un giubileo, un tempo favorevole nel quale convertirci: i fratelli che ci amano, i presbiteri che ci accompagnano, la Chiesa intercede per noi, come San Francesco che ottenne dal Papa il primo anno santo per offrire a tutti l'opportunità di salvarsi; o come Mosè che ha interceduto per il Popolo ottenendo pazienza e misericordia. Il "vignaiolo" è pronto ancora "un anno" a "zappare attorno" alla nostra vita e "metterci il concime" per "vedere se porteremo frutto per l'avvenire". C'è ancora una Parola annunciata che illumina gli eventi rivelandoceli come colpi santi di zappa che stravolge le situazioni malate; c'è una Chiesa che ci accoglie e "concima" ogni ambito della vita con la correzione. C'è ancora un "oggi" dove non indurire il cuore, lasciare l'orgoglio e il peccato suo figlio, e abbandonarci all’opera del «vignaiolo»