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venerdì 29 gennaio 2021

 


GETTATI NELLA STORIA COME SEMI NELLA TERRA PERCHE' CRISTO DIA IN NOI IL FRUTTO DELL'AMORE
Tutto il Vangelo è percorso da una linea rossa di follia, la stoltezza della Croce. La Scrittura ci trascina in un violento testacoda, e ci ritroviamo spaesati, stranieri in un mondo che non ci appartiene. E' il Regno di Dio descritto nelle parabole del Vangelo di oggi, che non sono zuccherini per consolare e invitare alla pazienza. Non sono solo questo. Occorre innanzi tutto orecchi e cuore aperti per lasciarsi trascinare fuori dalle proprie sicurezze e, attraverso fallimenti ed angosce, giungere ad assaporare qualcosa di completamente diverso, il vino nuovo del Regno. Occorre essere in cammino, in conversione. Chi è installato, seppur veda sbriciolarsi la vita tra le mani, non comprenderà nulla di queste parabole. Le prenderà come utopia o con sentimentalismo e moralismo, ma non sposteranno di un centimetro il suo sentire profondo. Si tratta delle confidenze di Gesù ai suoi amici, dei misteri del Regno riservate ai suoi eletti. Nel Vangelo, infatti, a proposito della mietitura, laddove leggiamo "porre mano alla falce", l'originale greco ha "apostellei" che significa inviare, da cui deriva la parola apostolo. Per comprendere il significato di questo termine occorre rifarsi all'ambiente ebraico nel quale è nato il Nuovo Testamento. Lo "schaliah", tradotto con "apostello", in ebraico rappresenta un procuratore nel quale è considerato presente colui che lo ha inviato. Il Talmud ripete più di venti volte che "lo schaliah di una persona è un altro se stesso". Così è, ad esempio, per Eleazaro, il servo-schaliah di Abramo, in occasione del matrimonio di Isacco, al punto che esso fu considerato definitivo allorchè Eleazaro scelse Rebecca ed ella acconsentì. Nel Nuovo Testamento la consapevolezza di uno schaliah di essere un altro se stesso di colui che lo inviava, dal piano della finzione giuridica passa a quello di una realtà mistica ed esistenziale. Per lo Spirito Santo, Cristo dimora negli Apostoli: essi non solo lo rappresentano giuridicamente, ma divengono essi stessi la sua presenza. L'Apostolo di Cristo è Cristo stesso, il suo potere si esprime attraverso di lui, quello che legherà in terra sarà legato in Cielo. Questa profonda intimità è la chiave delle Parabole del Vangelo di oggi. L'apostolo ha lo stesso sentire di Colui che lo ha inviato, ha il suo pensiero dirà San Paolo. Ma se c'è una perfetta identità tra l'apostolo e Gesù, vi è anche tra il Signore ed il Regno dei Cieli. E' Lui stesso il Regno della parabola, "l'uomo" che getta il seme che cade in terra, muore e risorge. Attraverso il Mistero Pasquale, il Regno di Dio è seminato irrevocabilmente nella storia, in ogni generazione. Esso segue il percorso di sviluppo proprio di un seme. E' la Grazia che lo feconda, che ne protegge gli inizi, che lo porta a maturazione. Per questo Gesù dice che la terra produce "spontaneamente", letteralmente "senza una causa spiegabile" - come è stato per Lui stesso nel grembo di Maria prima e nel sepolcro poi - "stelo, spiga e chicco pieno". Gli apostoli, gli altri se stessi del seminatore, che sono inviati a raccogliere, attraverso la predicazione, il grano ormai pronto. Nel Vangelo di Giovanni Gesù invita i discepoli a "guardare i campi che già biondeggiano per la mietitura", proprio nel momento in cui annuncia che "deve mangiare un pane" diverso, sconosciuto sino ad allora, l'opera di Colui che lo ha inviato, la volontà del Padre che si definisce nella Croce che lo consegna in riscatto per ogni uomo. Gesù vede profeticamente il suo mistero di Pasqua come un frutto maturo, ed invita i suoi discepoli ad alzare lo sguardo e ad avere il suo stesso pensiero, gli stessi occhi profetici sul mondo e sugli uomini; su chi ci è accanto oggi, ora, e magari ci sta facendo del male. Quando in una persona è stato seminato il Vangelo, stiamone certi, darà frutto. Forse tra vent'anni, e il seme dovrà disfacersi nella terra, e lo stelo dovrà farsi strada in una terra arida e indurita; forse tra peccati e sofferenze inenarrabili. Eppure, senza che noi possiamo comprenderne lo sviluppo, il Vangelo darà frutto in nostro figlio... E' strano che Gesù dica che il seminatore non sappia come il seme dia frutto. Certo a quel tempo non vi erano le conoscenze di oggi, ma il punto non è questo. Significa che c'è un mistero che supera le conoscenze umane, le previsioni di tempi e dimensioni; nel Regno di Dio vige una legge che ci sfugge; si compie "sia che dormiamo sia che vegliamo", trascende i nostri sforzi, le nostre precauzioni, qualunque criterio. Guardiamo a certi fiori cresciuti su rocce impervie, al buio, misteri insondabili di una natura che oggi dovremmo conoscere perfettamente. Così è di chi ci è accanto, di ciascuno di noi... C'è tanto che non conosciamo e non comprendiamo, e, soprattutto, non possiamo prevedere modi e tempi dell'opera di Dio. Ma possiamo sperarne con infinita confidenza il compimento, e così potremo "dormire e vegliare" con libertà e senza pretendere nulla, rispettando l'opera di DIo in ciascuno. Tutto "perchè si rallegri insieme chi semina e chi miete" (cfr. Gv. 4,14ss), nella completa identità tra Gesù e i suoi "inviati". Per questo Gesù nella sua predicazione dice che il Regno è vicino, mentre agli apostoli inviati in missione raccomanda di annunciare che il Regno di Dio viene con loro. Si tratta di Lui che è vicino, e di loro, che portano dentro il Signore, nella consapevolezza che ovunque vi sono chicchi pieni da mietere.
"Il Regno è come un uomo che getta il seme...", e quell'uomo è Cristo. Il Regno di Dio è tutta la parabola, non soltanto l'albero cresciuto a raccogliere tra le sue fronde "gli uccelli del cielo", immagine biblica che descrive i popoli pagani. Il Regno è l'uomo, è il seme, è la terra, è il processo di crescita, e, finalmente, l'albero compiuto. Gli apostoli sono inviati a raccogliere, per Lui ed in Lui, la sua vittoria. L'annuncio del Vangelo è già la mietitura! E' questo il testacoda delle parabole odierne. E' un cambio radicale di prospettiva. Non vi sono misure e parametri umani per il successo dell'evangelizzazione, come per qualunque aspetto, opera o parola della nostra vita. Per questo il Signore utilizza la metafora del "granello di senapa", il più piccolo tra i semi della terra. Ma come, per l'opera più importante, per la salvezza di ogni uomo, si parla di senapa? Certo, e non può essere diversamente! Il pensiero di Dio non è il pensiero dell'uomo, perché per Lui il successo è già, anche se non ancora. E' già perchè Cristo ha vinto la morte, ed il seme invincibile della sua vittoria è già all'opera, misteriosamente, nel mondo. Non ancora perchè la carne impedisce la pienezza, riservata al Cielo. Su questa certezza la Chiesa ha lasciato il Monte delle Beatitudini e si è lanciata sui sentieri del mondo, sino agli estremi confini della terra. Alla Chiesa, come a ciascuno di noi, è necessario un solo atteggiamento interiore: accettare di non sapere "come" Dio opera nella storia. Il demonio, invece, ci inganna spesso con un cortocircuito velenoso: quello che non si sa, non si comprende e non si vede non esiste. Se non capisco come Dio sta operando in mio figlio, non significa che Egli non lo stia conducendo alla salvezza. La via di Dio, infatti, passa sul mare della morte e le sue orme restano invisibili. Accettare di non capire e non sapere è la più grande professione di fede, l'unica che ci apra le porte dell'autentico riposo: "dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa". Ma per chi ha la certezza del compimento della salvezza, per chi vive in Cristo, per i suoi apostoli, il non sapere non costituisce problema. Certo le tentazioni di sconforto sono quotidiane. L'evangelizzazione non è una passeggiatina: perchè l'annuncio risuoni e faccia apparire il chicco maturo occorre che riproduca lo stesso suono, la nota capace di liberare nei cuori la musica nascosta: la Passione del Signore. Per questo la storia dell'evangelizzazione è stata e sarà sempre storia di martirio, di solitudine, di umano fallimento. La pazienza nelle sofferenze e la perseveranza nelle tentazioni , provano l'elezione dell'apostolo. Ma la fede è un cammino, la certezza non è frutto di alchimie. Occorre sperimentare, a poco a poco, nella propria vita, la presenza di Cristo, e così lasciare il mondo e i suoi criteri per approdare al pensiero, al sentire di Cristo. E vivere come dentro una profezia compiuta ma non ancora visibile: imparare a vedere, nel deserto, i fiumi di acqua viva promessi. E' come un rivolo d'acqua sotto le rocce, invisibile a chi pretende di vedere, ancor prima della fonte, un fiume nel suo fluire maestoso. Ma il rivolo c'è, e si fa fonte, e poi ruscello e poi fiume, e poi mare. Così per un apostolo è ragionevole quanto per il mondo è irragionevole, anche la sua stessa vita, gettata come un seme su terra arida, la follia più sapiente. La vita nascosta con Cristo in Dio, il pensiero fisso nel Cielo, per ricondurvi ogni figlio disperso nel buio della solitudine. Così vive ogni istante la Chiesa, seme invisibile, calpestato, ma con dentro la forza e l'onnipotenza di Dio. La Chiesa che mostra al mondo il riposo e la Vita proprio nei rami distesi della Croce, i suoi figli perseguitati nel martirio della storia. La Chiesa è già un rifugio per le Nazioni, i pagani avvolti dalle tenebre della menzogna; ma non ancora, perchè il Vangelo deve essere annunciato ad ogni creatura. Solo allora sarà la fine, quando le braccia crocifisse di Cristo potranno, attirare tutti a sé per l'eternità.

giovedì 28 gennaio 2021

 


ILLUMINATI PER PORTARE OVUNQUE LA LUCE DELLA PAROLA E DELLA VITTORIA DI CRISTO SULLE TENEBRE DEL PECCATO
Per amore Dio si è fatto carne, ha vinto la morte e il peccato, e ha scelto un manipolo di uomini per inviarli ad annunciare il Kerygma, la Notizia della loro liberazione. Ha chiamato gli Apostoli innanzi tutto perché "stessero con Lui", gli amici intimi ai quali ha “confidato i misteri del regno di Dio”. Con la luce della sua Parola che si andava compiendo nella sua carne ha illuminato la storia giungendo a svelare le ragioni profonde della sofferenza di ogni uomo. Accanto a Lui, in una comunità dove l'amore li univa al di là di ogni barriera, essi hanno visto diffondersi nella propria vita la luce della Pasqua, la risposta definitiva di Dio al male, al peccato e alla morte. Plasmati nell'incontro esistenziale con Lui, hanno conosciuto il “tutto ciò” di cui sarebbero stati "testimoni" (cfr Lc 24,48). Quell'esperienza costituiva la fiamma che arde nella “lampada” di cui ci parla oggi Gesù: "tutto ciò vuole dire innanzitutto la Croce e la Risurrezione; i discepoli hanno visto la crocifissione del Signore, vedono il Risorto e così cominciano a capire tutte le Scritture che parlano del mistero della Passione e del dono della Risurrezione. Tutto ciò è il mistero di Cristo, attraverso il quale – questo è il punto essenziale - conosciamo il volto di Dio". Ma "come possiamo noi essere testimoni di tutto ciò? Possiamo essere testimoni solo conoscendo Cristo, solo se lo conosciamo di prima mano e non solo da altri, dalla nostra propria vita, dal nostro incontro personale con Cristo. Incontrandolo realmente nella nostra vita di fede diventiamo testimoni e possiamo così contribuire alla novità del mondo, alla vita eterna" (Benedetto XVI). E’ Cristo dunque la lucerna "portata", "che viene sul lucerniere”, secondo l'originale greco. E' Lui "che viene" attraverso i suoi Apostoli, ovvero risorto e vivo nella sua Chiesa. Intendiamoci, se non lo conosciamo di prima mano, sarà normale "mettere sotto il moggio o sotto il letto" la sua luce. Come? Fuggendo nei compromessi e nell'ipocrisia, perché il dubbio prevarrà sempre sullo zelo; la diffidenza, pur mascherata, impedirà l'ardore apostolico. La tiepidezza nasce sempre dall'aridità del cuore. Non si può amare Dio e gli uomini se non si ha l'esperienza del suo amore. Per questo “nessun segreto sarà tenuto nascosto”: non possiamo avere una doppia vita, un cristiano che va a messa ma vive le relazioni, il lavoro e il rapporto con il denaro come un pagano è la caricatura più ridicola che il mondo abbia visto. E con la storia Dio gli strapperà le maschere dietro le quali tenta di nascondersi. Perché chi è stato scelto e non ha Cristo, non ha nulla, e vedrà evaporare nel nulla anche ciò che crede di possedere. Non si gioca, Dio non può permettere che inganniamo il mondo. Esso giace avvolto nel buio, e ha bisogno della “lampada” che solo la Chiesa può mettere sul "lucerniere"; non può "metterla sotto il moggio o sotto il letto", annacquando il Vangelo nel pensiero mondano e screditarlo scappando dalla Croce! Può succedere anche a noi, se non custodiamo gelosamente la memoria di Cristo e cominciamo a “misurare” con avarizia il suo amore. Attenzione, perché il demonio è sempre in agguato per spingerci di nuovo a dubitare mostrandoci la bilancia truccata con cui pesa le attenzioni, la pazienza, la misericordia e la provvidenza di Dio nei nostri confronti. E ciò accade soprattutto quando appare la Croce nella nostra vita. Se lo ascoltiamo finiremo col cadere ancora nella gelosia e nell'invidia, sino a spegnerci nell'accidia e nel cinismo che ci farà evitare di entrare nella storia che Dio ha preparato per noi. Nasconderemo la luce che ci ha salvato per nascondere noi stessi, ormai incapaci di amare e di uscire allo scoperto per offrirci agli altri.
E in quell'angolo d'egoismo superbo lontano dal Golgota, “fuori” cioè dal raggio della Grazia, ci vedremo “tolto” quello che "abbiamo" già ricevuto, la pienezza della vita divina e la gioia che ne scaturisce. "Tolto" perché lo abbiamo disprezzato; "tolto" perché lo abbiamo già rifiutato e gettato via. "Quello che abbiamo" ricevuto gratuitamente, infatti, lo "abbiamo" perché sia donato altrettanto gratuitamente. La "lampada" che Cristo ha acceso in noi può brillare solo sulla Croce, il luogo dove si ama sino alla fine, dove la vita è consegnata appunto "senza misura". Lontano da essa saremo ovviamente “misurati con la stessa misura con la quale abbiamo misurato”: e risulteremo vuoti, senza nulla. Non si tratta perciò di durezza e severità, Dio non si vendica; ma dell’estremo atto d’amore con il quale Egli cerca di scuotere chi si è allontanato da Lui, perché dalle conseguenze dolorose di tale scelta riconosca i propri peccati e si apra alla sua misericordia. Ma coraggio, perché il Signore è buono, e con amore ci ammonisce oggi a ben “guardare” la Parola che ascoltiamo, secondo l'originale greco tradotto con "fate bene attenzione". Ci chiama ancora a fermarci e a guardare bene alla nostra vita nella quale la Parola si è incarnata e freme per continuare ad operare. Quante grazie abbiamo ricevuto! Quanti "segreti" ci sono stati svelati nella Chiesa! Quante volte abbiamo pensato che quell'evento doloroso avrebbe segnato la fine di progetti e speranze, e invece abbiamo visto che proprio attraverso di esso Dio ha moltiplicato la gioia nella nostra vita. Guardati attorno oggi, tua moglie, tuo marito, i tuoi figli, le persone che hai accanto; guarda te stesso, anche la tua debolezza, la fragilità, le contraddizioni, e ascolta la Parola del Signore. Essa "viene" a te per rinnovare i prodigi della Pasqua che hai già sperimentato, quelli di cui la Chiesa è testimone da duemila anni. "Guardare", infatti, è un verbo legato alla risurrezione, usato nel Vangelo per definire l'esperienza visiva dei discepoli dinanzi a Cristo risorto. Siamo dunque chiamati a guardare Cristo, a fissarlo e contemplarlo mentre ci dona “senza misura” la sua vita, perché attraverso di noi la vuol donare a ogni uomo. Anche oggi, e ogni giorno la Chiesa ci "dà" Cristo, nella Parola e nei sacramenti. Con Lui potremo restare crocifissi sul “candelabro” della storia che ci attende, sapendo che, come il roveto ardente di Mosè, la Croce ci brucia senza consumarci.

mercoledì 27 gennaio 2021

 


NELLA CHIESA SIAMO TERRA BUONA DOVE LA PAROLA PREDICATA E FATTA CARNE IN NOI CONSEGNA AL MONDO IL FRUTTO DELLA PASQUA DI CRISTO
Una barca sul mare, e sulla terra “una folla enorme” di volti e cuori in attesa. Di che cosa hanno bisogno? Di una parabola, che li strappi uno ad uno dall’anonimato che stinge l’unicità di ciascuno impedendo un rapporto vivo con Cristo. Tra le “molte cose” che Egli insegnava, il Vangelo ne registra una, trasmessa attraverso una parabola che racconta di un Seminatore che è “uscito a seminare” il seme della Parola. Immaginiamo che si riferisse alla terra che aveva davanti, la Galilea, fatta di pescatori e peccatori, uomini capaci di gesti generosi e coraggiosi come quando ci si infila nel mare per strappargli il cibo per vivere; ma anche testardi e duri di cuore, incapaci di comprendere la Parola. La Galilea, così simile alla terra della nostra vita, attraversata dalle "strade" del pensiero mondano dove corrono veloci le menzogne del demonio per scipparci la Parola ascoltata. Piena di "pietre", dure come i nostri cuori gonfiati dall'ego, che si infiammano al sole dei facili entusiasmi, mentre però occupano con la superbia spazi preziosi di terra sottraendoli alle radici del seme. Aggredita dalle "spine" acuminate come i pensieri che il demonio ci insinua di fronte alla precarietà per farci dubitare di Dio; si conficcano nell'intimo condannandoci all'avarizia e all'avidità con cui ci illudiamo di possedere cose e persone, mentre invece "soffochiamo" il seme che, fruttificando, ci darebbe libertà e pace. Ma proprio nella descrizione che Gesù fa della "terra" su cui è seminata la Parola è celata la chiave che ci apre all'intelligenza di tutte le parabole: a noi, infatti, è "confidato il mistero del regno di Dio", ovvero l'esistenza di un lembo di "terra buona" in mezzo alla "terra infruttuosa". Tutte le parabole ne parlano, descrivendolo piccolo come un "seme" appunto, perseguitato, nascosto, accerchiato dalla zizzania, mentre la sua crescita sarà proprio come avviene quando "un uomo getta un seme nella terra". La Parola che il seminatore è uscito a seminare è dunque il seme del Regno di Dio! Esso è rifiutato dalla maggioranza degli uomini, ma accolto da un resto, chiamato ed eletto perché il seme possa crescere e divenire un sacramento di salvezza per il mondo. Gesù sta parlando della Chiesa, del suo stare nel mondo come “terra bella” e feconda di "frutti" che hanno il sapore della vita eterna, il destino per il quale ogni uomo è venuto al mondo. Ma quello che Gesù dice della Chiesa vale anche per ciascuno di noi, che siamo chiamati nella Chiesa a "dare frutto" per la salvezza del mondo. Come ogni uomo anche noi, a causa del peccato, viviamo su una "terra" che non è quella "buona e bella" del Paradiso, proprio come annunciato da Dio ad Adamo: "poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato: «Non devi mangiarne», maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba dei campi" (Gen 3,17-18). In queste parole sono profetizzati i tipi di terra nei quali il seme della Parola non attecchisce, cioè la situazione concreta del mondo e di chi ne è parte. Eppure, come è accaduto agli apostoli, anche in noi il Signore ha visto un pezzo di "terra buona", così piccolo e nascosto che probabilmente nessuno ci ha mai fatto caso; neanche noi, che forse ci sentiamo "abbattuti" perché "incostanti" e fragili dinanzi ai problemi e alle sofferenze, induriti nell'orgoglio e schiavi delle concupiscenze.
Ma il Vangelo di oggi ci annuncia che in noi c'è un frammento di Paradiso, e lì Gesù vuol seminare la sua Parola! La natura umana, infatti "non è interamente corrotta: è ferita nelle sue proprie forze naturali, sottoposta all’ignoranza, alla sofferenza e al potere della morte, e inclinata al peccato (questa inclinazione al male è chiamata « concupiscenza »)". Ma "il Battesimo, donando la vita della grazia di Cristo, cancella il peccato originale e volge di nuovo l’uomo verso Dio; le conseguenze di tale peccato sulla natura indebolita e incline al male rimangono nell’uomo e lo provocano al combattimento spirituale" (Catechismo della Chiesa Cattolica 405). Il battesimo, ecco il “mistero del Regno di Dio” che Gesù “ci confida” oggi! Come descritto nella parabola, nella Chiesa primitiva si giungeva al battesimo dopo una lunga preparazione che iniziava con la “semina”, ovvero con l’ascolto del kerygma, della Buona Notizia. I pagani raggiunti dallo zelo degli apostoli erano peccatori, schiavi delle concupiscenze, concubini e adulteri, non importava quanto fosse infeconda la loro terra. Importava che la Chiesa li avesse raggiunti, che i cristiani avessero offerto la testimonianza dei propri frutti chiamandoli alla fede, e che ascoltassero la predicazione che seminava in loro la Parola. E che iniziassero un serio cammino di conversione guidati dalla Chiesa, proprio perché il seme caduto nella “terra buona” dei catecumeni giungesse a maturazione. Un cammino di iniziazione cristiana nel quale essa potesse mettere radici e crescere sino a dare i frutti di una vita nuova nella "Grazia di Cristo", in virtù della quale “il sasso può diventare una terra fertile, la strada non essere più calpestata dai passanti e diventare un campo fecondo, le spine essere sradicate e permettere al seme di dare frutto liberamente” (San Giovanni Crisostomo). Si trattava di un lungo cammino di conversione perché doveva essere cacciato “satana” sempre pronto a “portare via la parola seminata in loro”. Occorreva vincere l’“incostanza” togliendo una ad una le “pietre” dal loro cuore perché in esso la Parola potesse mettere “radici” e resistere senza “abbattersi” “al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della parola”. Era necessario cambiare mentalità togliendo le “spine” del pensiero mondano, perché la Parola non restasse “soffocata” dalle “preoccupazioni del mondo, dall'inganno della ricchezza e da tutte le altre bramosie”. Il battesimo giungeva solo dopo questo cammino, che alcuni abbandonavano come afferma chiaramente il Signore nella parabola. Esso sigillava l'opera di Dio nel neofita, che, annegando nell’acqua l’uomo vecchio schiavo del peccato e per questo infecondo, risorgeva con Cristo come un figlio del Regno, pronto a offrire al mondo i suoi frutti, “dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento”. Non tutti, infatti, sono chiamati con la stessa vocazione, ma in ciascuno la Parola produce il frutto necessario in quel momento, per quella persona che si trova in quella situazione. Per questo con la parabola di oggi Gesù ci ridesta perché torniamo al cuore e al fondamento della nostra chiamata; altrimenti, come accade per le parabole, non capiremo nulla della nostra vita. Perché essa sia compiuta e dia i “frutti” che Dio ha pensato per noi dobbiamo tornare al battesimo attraverso i cammini che la Chiesa ci offre. Solo così saremo le primizie del Regno che solca il mare della morte. Per questo “la barca” di Gesù che, “seduto”, annuncia il Vangelo e insegna la Verità come l'unico Maestro, è separata dalla terraferma: è il segno sua risurrezione!. Così è la Chiesa, la “terra buona” che risplende feconda; così le nostre comunità sparse nel mondo senza appartenergli; così ciascuno di noi, issati su quella barca per assumere il combattimento spirituale di ogni giorno per difendere la bellezza della vita celeste in noi, il frutto squisito dell'amore da offrire a chi ci è accanto.

martedì 26 gennaio 2021



Racconti di un pellegrino russo

Settimo racconto

Finalmente giunsi a Irkutsk. Dopo aver venerato le sacre reliquie di sant'Innocenzo, decisi di recarmi in pellegrinaggio a Gerusalemme. Prima di partire tornai dal padre spirituale, con cui avevo avuto vari colloqui, per ricevere la sua benedizione. Egli mi disse: «Dio benedica il tuo cammino. Ma tu non mi hai detto niente di te: chi sei, da dove vieni? Sarei curioso di conoscere la tua origine e la vita che hai condotto prima di farti pellegrino». «Bene, ve ne parlerò con gioia. Sono nato in un villaggio della provincia di Orel. Dopo la morte di mio padre e di mia madre restammo io e mio fratello che aveva dieci anni, io tre. Ci prese con sé il nonno: era un vecchio stimato e benestante. Aveva una locanda sulla strada maestra e poiché era buono e ospitale, molti viaggiatori si fermavano da lui. Mio fratello, che era uno scavezzacollo, scorrazzava tutto il giorno per il villaggio; io invece preferivo rimanere vicino al nonno. La domenica e le feste andavo in chiesa con lui, e a casa egli leggeva spesso la Bibbia; ecco, questa stessa che ora è mia. «Mio fratello, crescendo, si rovinò: cominciò a bere. Una volta - io avevo già sette anni - mentre eravamo coricati entrambi sopra la stufa, mi fece cadere con una spinta e io ci rimisi il braccio sinistro. Da allora non lo posso più muovere, si è anchilosato. Il nonno, visto che non avrei potuto lavorare in campagna, cominciò a insegnarmi l'alfabeto, e poiché non avevamo un sillabario, mi insegnò a leggere sulla Bibbia. Mi indicava le lettere, mi faceva compitare le parole e mi insegnava a distinguere una lettera dall'altra. Così imparai a leggere. Spesso veniva da noi lo scrivano del villaggio: aveva una così bella scrittura e mi piaceva vederlo scrivere. Allora, imitando il suo esempio, cominciai anch'io a tracciare parole: egli mi insegnava come fare, mi dava carta e inchiostro, mi affilava e intingeva la penna. Cosi imparai anche a scrivere. Il nonno ne era molto contento e mi diceva: "Ecco, il Signore ti ha concesso l'istruzione; ringrazia dunque Dio e prega sovente". «Avevo diciassette anni quando la nonna morì. Il nonno mi disse: "Ecco, la nostra casa non ha più chi la diriga; come si fa senza una donna? Tuo fratello è un fannullone; io ti cercherò una moglie". Rifiutai con il pretesto della mia infermità ma il nonno insistette e mi fece sposare una brava e buona ragazza di vent'anni. Un anno dopo anche il nonno si ammalò gravemente. Sentendo la morte vicina, mi chiamò e mi disse: "Ecco, ti lascio la casa e tutto quel che possiedo. Vivi secondo coscienza, non ingannare nessuno e soprattutto prega Dio: da lui viene ogni cosa. Non riporre la tua speranza se non in Dio. Va' in chiesa, leggi la Bibbia e ricordati di me e di tua nonna nelle tue preghiere. Eccoti anche mille rubli; è tutto il mio denaro: abbine cura, non dissiparlo, ma non essere avaro, danne ai poveri e alle chiese di Dio". «Morì e fu seppellito. Mio fratello, invidioso dei beni che possedevo, cominciò a molestarmi fino al punto di volermi uccidere. Una notte mentre noi dormivamo e in casa non avevamo ospiti: sfondò il ripostiglio dove erano nascosti i soldi, li prese e appiccò il fuoco al locale. Noi ce ne accorgemmo soltanto quando tutta la locanda era già in fiamme e facemmo appena in tempo, in camicia da notte, a saltare dalla finestra. Così tutta la nostra proprietà bruciò e mio fratello fuggì dal paese. Più tardi venimmo a sapere che quando si ubriacava era solito vantarsi di aver rubato il denaro e incendiato la casa. «Rimanemmo nudi e privi di tutto, in completa miseria, tuttavia, grazie a qualche prestito, ci costruimmo una piccola capanna e cominciammo a vivere da povera gente. Mia moglie era bravissima a tessere, filare e cucire; le davano lavoro, si affaccendava giorno e notte e mi manteneva. Lei filava o tesseva e io le stavo accanto e leggevo la Bibbia. Ascoltandomi, qualche volta piangeva. Quando le domandavo: «Perché piangi? Dopo tutto, siamo vivi, per grazia di Dio", mi rispondeva: "Piango di commozione perché le cose che leggi mi toccano il cuore". «Ricordando le raccomandazioni del nonno, digiunavamo spesso e ogni mattina cantavamo l'Acatisto in onore della Madre di Dio. Anche se non conoscevamo ancora la preghiera del cuore il desiderio di pregare era sempre vivo in noi. E' proprio vero che nel cuore dell'uomo è nascosta una misteriosa preghiera della quale egli stesso non si rende conto, ma che operando segretamente nello spirito, spinge ciascuno a pregare come sa e può. Così vivemmo sereni un paio di anni. Poi mia moglie fu presa da una febbre violenta e il nono giorno, dopo aver ricevuto la Comunione, morì. Rimasi solo e non ero in grado di far nulla. Inoltre ero a tal punto oppresso per la perdita di mia moglie che non sapevo più dove rifugiarmi. Quando vedevo un suo vestito o un fazzoletto da testa, scoppiavo in singhiozzi. Non ce la feci a rimanere in casa; vendetti la capanna per venti rubli e diedi ai poveri gli abiti di mia moglie e i miei. Grazie alla mia infermità mi fu concesso un documento che mi esonerava dai doveri civili, così presi la mia amata Bibbia e cominciai a camminare dritto dinanzi a me. «Uscito dal villaggio, mi diressi verso Kiev per pregare in quei santi santuari. Sono tredici anni da allora che io mi sposto continuamente da un luogo all'altro; ho fatto il giro di molte chiese e monasteri, ma ora vado sempre più per steppe e campi. Non so se il Signore mi concederà di arrivare alla santa città di Gerusalemme, ma mi metto fiducioso in cammino». «E ora, quanti anni hai?». «Trentatre». «L'età di Cristo nostro Signore!», concluse il mio padre spirituale. 

 


NVIATI DALL'AGNELLO PER ANNUNCIARE AI LUPI LA PACE DEL PERDONO
Gesù guarda ogni uomo dal "posto" che ha preparato per lui in Cielo. C’è un destino che spetta a tutti, per questo "la messe è abbondante", comprende tutti gli uomini di ogni generazione. C’è anche il tuo posto, lo sai? Oggi tu vivi qui sulla terra, andrai a lavorare, accompagnerai i bimbi a scuola, starai in fila per le analisi, magari tamponerai la macchina davanti, e perderai la giornata tra vigili urbani, denunce all’assicurazione, carro attrezzi e officine. E sarai nervoso e nessuno potrà rivolgerti la parola, e forse lo sconteranno moglie e figli stasera. Ma contemporaneamente tu hai un destino eterno, così come sei. La tua vita non inizia e non finisce qui, la “pace” vera non si perde per un tamponamento. Neanche per un licenziamento, neppure se scopri di avere un cancro. Perché la “pace” che i “settantadue” discepoli sono inviati ad annunciare è il pegno qui sulla terra della vita celeste. E’ il frammento di Paradiso che Cristo risorto ha consegnato alla sua Chiesa. E’ la sua firma vergata con il sangue sul contratto che ti costituisce erede di un “posto” nella casa del Padre. Il tuo che nessuno potrà occupare e dal quale mai nessuno ti sfratterà. Un Agnello, infatti, offrendosi muto in sacrificio lo ha conquistato per te. Non ha vinto il male, non l'ingiustizia, non la menzogna del demonio. Ha vinto Gesù, per sempre, “il leone che si è fatto agnello per soffrire” (S. Vittorino di Pettau), perché la sofferenza non ci allontani più da Lui. Sarebbe stato più facile restare leone tra i leoni e distruggere con la sua forza infinitamente più grande l’orgoglio del demonio. Ma Dio ci ama, non aveva bisogno di dimostrare la sua onnipotenza, ma il potere della sua misericordia. Per questo ha inviato il Figlio “come un agnello in mezzo ai lupi”, una follia che l’avrebbe consegnato alla loro furia, ad essere sbranato senza combattere. Solo un Leone che si fa agnello poteva annunciare e testimoniare a me e a te che Dio ci ama sino alla fine, dove nessuno potrebbe amarci. Sino a morire sotto i denti affilati dei nostri peccati, senza resistere, per unirci a Lui, così come siamo. Non lo sai? Non lo hai ancora sperimentato? E’ così che ci ha sposato, strappandoci all’abbraccio mortale del demonio, prendendo su di sé i nostri peccati, attirando sulla sua carne la nostra infettata dal male. Così ci ha guarito, assorbendo l'infezione per iniettarci il vaccino del suo amore. Peccavamo? E lui ci stringeva a sé. Lo rifiutavamo? E Lui accoglieva il rifiuto per trasformarlo in amore. Giorno dopo giorno, peccato dopo peccato, Lui era lì, “sul legno per essere nostro sposo”. Anche oggi quando ti adirerai, e tradirai chi ti è accanto vendendo ad altro e ad altri il tempo, le cure e le attenzioni che gli spettano, Gesù come un agnello condotto al sacrificio offrirà se stesso e “discenderà negli inferi in cerca di te, pecora perduta. E con te salirà di nuovo al Cielo, per farti entrare nella casa del Padre” (cfr. S. Vittorino di Pettau). Allo stesso modo siamo inviati anche noi "avanti" a Cristo, agnelli nell'Agnello perché in noi Egli possa prendere i peccati di tutti e perdonarli, consegnando con le nostre vite le chiavi del posto di ciascuno in Cielo, la Pace che scaturisce dalla sua vittoria sulla morte

lunedì 25 gennaio 2021

 


BENEDETTO XVI. LA CONVERSIONE DI SAN PAOLO

la catechesi di oggi sarà dedicata all’esperienza che san Paolo ebbe sulla via di Damasco e quindi a quella che comunemente si chiama la sua conversione. Proprio sulla strada di Damasco, nei primi anni 30 del secolo I, e dopo un periodo in cui aveva perseguitato la Chiesa, si verificò il momento decisivo della vita di Paolo. Su di esso molto è stato scritto e naturalmente da diversi punti di vista. Certo è che là avvenne una svolta, anzi un capovolgimento di prospettiva. Allora egli, inaspettatamente, cominciò a considerare "perdita" e "spazzatura" tutto ciò che prima costituiva per lui il massimo ideale, quasi la ragion d'essere della sua esistenza (cfr Fil 3,7-8). Che cos’era successo?
Abbiamo a questo proposito due tipi di fonti. Il primo tipo, il più conosciuto, sono i racconti dovuti alla penna di Luca, che per ben tre volte narra l’evento negli Atti degli Apostoli (cfr 9,1-19; 22,3-21; 26,4-23). Il lettore medio è forse tentato di fermarsi troppo su alcuni dettagli, come la luce dal cielo, la caduta a terra, la voce che chiama, la nuova condizione di cecità, la guarigione come per la caduta di squame dagli occhi e il digiuno. Ma tutti questi dettagli si riferiscono al centro dell’avvenimento: il Cristo risorto appare come una luce splendida e parla a Saulo, trasforma il suo pensiero e la sua stessa vita. Lo splendore del Risorto lo rende cieco: appare così anche esteriormente ciò che era la sua realtà interiore, la sua cecità nei confronti della verità, della luce che è Cristo. E poi il suo definitivo "sì" a Cristo nel battesimo riapre di nuovo i suoi occhi, lo fa realmente vedere.
Nella Chiesa antica il battesimo era chiamato anche "illuminazione", perché tale sacramento dà la luce, fa vedere realmente. Quanto così si indica teologicamente, in Paolo si realizza anche fisicamente: guarito dalla sua cecità interiore, vede bene. San Paolo, quindi, è stato trasformato non da un pensiero ma da un evento, dalla presenza irresistibile del Risorto, della quale mai potrà in seguito dubitare tanto era stata forte l’evidenza dell’evento, di questo incontro. Esso cambiò fondamentalmente la vita di Paolo; in questo senso si può e si deve parlare di una conversione. Questo incontro è il centro del racconto di san Luca, il quale è ben possibile che abbia utilizzato un racconto nato probabilmente nella comunità di Damasco. Lo fa pensare il colorito locale dato dalla presenza di Ananìa e dai nomi sia della via che del proprietario della casa in cui Paolo soggiornò (cfr At 9,11).
Il secondo tipo di fonti sulla conversione è costituito dalle stesse Lettere di san Paolo. Egli non ha mai parlato in dettaglio di questo avvenimento, penso perché poteva supporre che tutti conoscessero l’essenziale di questa sua storia, tutti sapevano che da persecutore era stato trasformato in apostolo fervente di Cristo. E ciò era avvenuto non in seguito ad una propria riflessione, ma ad un evento forte, ad un incontro con il Risorto. Pur non parlando dei dettagli, egli accenna diverse volte a questo fatto importantissimo, che cioè anche lui è testimone della risurrezione di Gesù, della quale ha ricevuto immediatamente da Gesù stesso la rivelazione, insieme con la missione di apostolo. Il testo più chiaro su questo punto si trova nel suo racconto su ciò che costituisce il centro della storia della salvezza: la morte e la risurrezione di Gesù e le apparizioni ai testimoni (cfr. 1 Cor 15). Con parole della tradizione antichissima, che anch’egli ha ricevuto dalla Chiesa di Gerusalemme, dice che Gesù morto crocifisso, sepolto, risorto apparve, dopo la risurrezione, prima a Cefa, cioè a Pietro, poi ai Dodici, poi a cinquecento fratelli che in gran parte in quel tempo vivevano ancora, poi a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli. E a questo racconto ricevuto dalla tradizione aggiunge: "Ultimo fra tutti apparve anche a me" (1 Cor 15,8). Così fa capire che questo è il fondamento del suo apostolato e della sua nuova vita. Vi sono pure altri testi nei quali appare la stessa cosa: "Per mezzo di Gesù Cristo abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato" (cfr Rm 1,5); e ancora: "Non ho forse veduto Gesù, Signore nostro?" (1 Cor 9,1), parole con le quali egli allude ad una cosa che tutti sanno. E finalmente il testo più diffuso si legge in Gal 1,15-17: "Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco". In questa "autoapologia" sottolinea decisamente che anche lui è vero testimone del Risorto, ha una propria missione ricevuta immediatamente dal Risorto.
Possiamo così vedere che le due fonti, gli Atti degli Apostoli e le Lettere di san Paolo, convergono e convengono sul punto fondamentale: il Risorto ha parlato a Paolo, lo ha chiamato all’apostolato, ha fatto di lui un vero apostolo, testimone della risurrezione, con l’incarico specifico di annunciare il Vangelo ai pagani, al mondo greco-romano. E nello stesso tempo Paolo ha imparato che, nonostante l’immediatezza del suo rapporto con il Risorto, egli deve entrare nella comunione della Chiesa, deve farsi battezzare, deve vivere in sintonia con gli altri apostoli. Solo in questa comunione con tutti egli potrà essere un vero apostolo, come scrive esplicitamente nella prima Lettera ai Corinti: "Sia io che loro così predichiamo e così avete creduto" (15, 11). C’è solo un annuncio del Risorto, perché Cristo è uno solo.
Come si vede, in tutti questi passi Paolo non interpreta mai questo momento come un fatto di conversione. Perché? Ci sono tante ipotesi, ma per me il motivo è molto evidente. Questa svolta della sua vita, questa trasformazione di tutto il suo essere non fu frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale e morale, ma venne dall’esterno: non fu il frutto del suo pensiero, ma dell’incontro con Cristo Gesù. In questo senso non fu semplicemente una conversione, una maturazione del suo "io", ma fu morte e risurrezione per lui stesso: morì una sua esistenza e un’altra nuova ne nacque con il Cristo Risorto. In nessun altro modo si può spiegare questo rinnovamento di Paolo. Tutte le analisi psicologiche non possono chiarire e risolvere il problema. Solo l'avvenimento, l'incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era successo: morte e risurrezione, rinnovamento da parte di Colui che si era mostrato e aveva parlato con lui. In questo senso più profondo possiamo e dobbiamo parlare di conversione. Questo incontro è un reale rinnovamento che ha cambiato tutti i suoi parametri. Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, è diventato per lui "spazzatura"; non è più "guadagno", ma perdita, perché ormai conta solo la vita in Cristo.
Non dobbiamo tuttavia pensare che Paolo sia stato così chiuso in un avvenimento cieco. È vero il contrario, perché il Cristo Risorto è la luce della verità, la luce di Dio stesso. Questo ha allargato il suo cuore, lo ha reso aperto a tutti. In questo momento non ha perso quanto c'era di bene e di vero nella sua vita, nella sua eredità, ma ha capito in modo nuovo la saggezza, la verità, la profondità della legge e dei profeti, se n'è riappropriato in modo nuovo. Nello stesso tempo, la sua ragione si è aperta alla saggezza dei pagani; essendosi aperto a Cristo con tutto il cuore, è divenuto capace di un dialogo ampio con tutti, è divenuto capace di farsi tutto a tutti. Così realmente poteva essere l'apostolo dei pagani.
Venendo ora a noi stessi, ci chiediamo che cosa vuol dire questo per noi? Vuol dire che anche per noi il cristianesimo non è una nuova filosofia o una nuova morale. Cristiani siamo soltanto se incontriamo Cristo. Certamente Egli non si mostra a noi in questo modo irresistibile, luminoso, come ha fatto con Paolo per farne l'apostolo di tutte le genti. Ma anche noi possiamo incontrare Cristo, nella lettura della Sacra Scrittura, nella preghiera, nella vita liturgica della Chiesa. Possiamo toccare il cuore di Cristo e sentire che Egli tocca il nostro. Solo in questa relazione personale con Cristo, solo in questo incontro con il Risorto diventiamo realmente cristiani. E così si apre la nostra ragione, si apre tutta la saggezza di Cristo e tutta la ricchezza della verità. Quindi preghiamo il Signore perché ci illumini, perché ci doni nel nostro mondo l'incontro con la sua presenza: e così ci dia una fede vivace, un cuore aperto, una grande carità per tutti, capace di rinnovare il mondo.

domenica 24 gennaio 2021

 



"FUORI DI SE'" PER ESSERE AMORE "DENTRO" LA CARNE E LA VITA DI TUTTI NOI
Gesù era "fuori di sé". Si, non viveva in se stesso, per se stesso, la sua era una vita totalmente consegnata. L'amore che lo rendeva pane gli impediva di prender pane. Gesù si nutriva di un cibo che né i suoi parenti più stretti, né ciascuno di noi conosce: il cibo della volontà di Dio che consiste, secondo le stesse parole di Gesù, nel suo desiderio che nessun uomo vada perduto, che tutti possano essere salvati. La carne è incapace di comprendere le ragioni del cuore e dello Spirito, anzi, vi muove guerra. Per questo "i suoi" secondo la carne, quelli che avevano visto Gesù bambino, e poi adolescente, e poi giovane nella bottega del padre, non potevano accettare la follia di un amore che lo sospingeva ben oltre i limiti della carne, al punto da dare la sua da mangiare nei luoghi che tutti evitavano, per le persone che tutti ritenevano ormai spacciate. Gesù era la gratuità totale, qualcosa di sconosciuto, mai visto prima in un uomo. Al punto che penseranno di Gesù cose malvagie, addirittura che fosse il principe stesso dei demoni. L'amore, quell'amore smisurato, abbaglia, ubriaca, scandalizza. I cuori induriti e con le soluzioni e le interpretazioni preconfezionate ne restano tramortiti. L'amore di Dio, non essendo di questo mondo, è un segno di contraddizione per svelare i pensieri del cuore; per questo così spesso viene preso per il suo esatto contrario. Non è possibile che sia reale un amore così, il nostro cuore non lo ha conosciuto. Ci deve essere qualcosa sotto, non si può vivere e amare così. Ma è normale, come potrebbe essere diversamente? Per amare occorre uscire "fuori" da se stessi, essere passati oltre il mare che ci inchioda in Egitto schiavi del faraone. Ama solo chi vive ogni evento nella Pasqua di Cristo! Come ci si può aprire alla vita che Dio ha pensato di trascrivere eternamente nel Cielo attraverso la nostra carne se questa è rinchiusa nella paura perché l'unica esperienza che ha è la morte? Sì la morte che si nasconde quando uno prova ad uscire da se stesso: l'altro ti sbrana, la società non ti aiuta anzi. Come fai a perdere la tua vita se essa è solo un pugno di giorni amari da difendere con i denti? Cercherai di renderla meno dolorosa, è normale, finendo con il prostrarti al lavoro, al denaro, alle vacanze, alla macchina e alla casa, all'ultimo smartphone e alla messimpiega. Per questo quando appare l'amore di Cristo fatto carne in persone identiche a noi pensiamo che sia follia, esaltazione o fondamentalismo.
Non siamo preparati, la carne da sola non sa dilatarsi e accogliere la gratuità. E' ferita e avvelenata dal peccato e dall'inganno del demonio, vede il male ovunque, pensa sempre male, non è semplice e limpida. Il demonio che la soggioga distorce tutto e scambia il bene in male, la libertà per schiavitù, l'amore per follia. Ma il Vangelo di oggi è una luce per tutti quelli che, come i parenti di Gesù, non sanno cosa fare dinanzi all'amore infinito di Cristo e decidono di "prenderlo", rinchiuderlo in un ghetto come accade da sempre alla Chiesa, per renderlo innocuo e non contraddica le coscienze. E spesso accade che i nemici dei cristiani siano proprio quelli della propria casa, i familiari più stretti. Quante madri si adirano con le figlie incinta del quinto o del sesto figlio! Quanti preti si scandalizzano dell'amore alla Parola di alcuni fedeli a loro affidati, ritenendo che sia un'esagerazione, un alimento troppo forte e non adatto a tutti, finendo con il "prenderli" perché rinuncino alla sovrabbondanza della vita di Cristo. Ma nel breve brano di oggi appare evidente che chi è davvero fuori e lontano dalla verità sono "i suoi" secondo la carne. Mentre Gesù è ben dentro la volontà del Padre, il Cielo che plana sulla terra, l'amore che sazia il vuoto e la solitudine. E' questa la vita vera, alla quale siamo tutti chiamati. Coraggio allora, non importa se sino ad oggi siamo stati anche noi tra i parenti di Gesù, se nelle nostre parrocchie e comunità, nei nostri gruppi, nel volontariato e nella Caritas, tra le mamme catechiste e al coro abbiamo conosciuto il Signore superficialmente, impermeabili alla chiamata a conversione del suo amore. Non importa neanche se in Chiesa è un secolo che non mettiamo piede, se anzi l'abbiamo contestata e combattuta come San Paolo. Non importa se oggi siamo ancora schiavi del peccato. Oggi possiamo accogliere semplicemente e umilmente il folle amore di Dio per uscire dalla morte e dall'egoismo con Cristo per dilatare il cuore, e le ore, e ogni passo e imparare a perdere la vita. Uscire da se stessi per offrirla in dono è l'unica via per ritrovarla vera ed eterna. Farsi cibo per saziarci, il paradosso divino, il segreto dell'amore di Dio, incarnato in Gesù e nei suoi santi. Come San Francesco Saverio ad esempio, che in una lettera scritta a Sant'Ignazio di Loyola dalla terra di missione scriveva la sua esperienza, identica a quella di Gesù: "Quando sbarcai in questi luoghi, battezzai tutti i fanciulli che ancora non erano stati battezzati, e quindi un gran numero di ragazzi, che non sapevano neppure distinguere la destra dalla sinistra… Mi assediava una folla di giovani, tanto che non riuscivo più a trovare il tempo per dire l’Ufficio, né per mangiare, né per dormire; chiedevano insistentemente che insegnassi loro nuove preghiere. Cominciai a capire che a loro appartiene il regno dei cieli". Che Dio ci conceda l'umiltà per accogliere l'amore, e che esso trasformi la nostra vita in un'unica, gioiosa, oblazione.

venerdì 22 gennaio 2021

 


CHIAMATI A STARE CON GESU' NELL'INTIMITA' FECONDA DELLA CROCE DALLA QUALE PREDICARE IL VANGELO E SCACCIARE I DEMONI DI QUESTA GENERAZIONE
Gesù ha chiamato a sé "quelli che Egli volle", perché ogni vocazione scaturisce esclusivamente dal suo volere. Il Signore vuole proprio noi, con i nostri nomi, con le nostre storie, così come siamo. Ci conosce e per questo ci chiama. Il Signore non è il responsabile umano dell'ufficio risorse umane della Chiesa, non assume in base al curriculum. Gesù chiama "quelli che vuole" perché i suoi occhi vedono quello che nessun occhio umano è capace di captare; Lui sceglie in base al requisito che chiunque rifiuterebbe, si innamora di quello che nessun ragazzo o ragazza vorrebbe mostrare di sé alla persona di cui sono innamorati: Gesù cerca la debolezza, la stoltezza secondo il mondo, ciò che è nulla agli occhi "intelligenti" della carne. Non ci ha scelto per le nostre capacità, per la pazienza, l'arguzia, la forza, per presunte disposizioni umane alla santità... Come fu per Davide, come per tutti i profeti, Dio non guarda all'apparenza, ma al cuore. Se ha guardato quei dodici uomini è perché conosceva profondamente il loro cuore, anche quello di chi lo avrebbe tradito. E se Lui non ha problemi con noi, anzi, perché averne noi? Guardare alle nostre capacità, all'adeguatezza delle nostre risorse umane e spirituali è come tradire il Signore. Quando entriamo in crisi dinanzi alla nostra debolezza è per orgoglio. Il demonio, infatti, attacca quelli che Dio chiama sempre allo stesso modo: li afferra per il bavero delle proprie debolezze per spingerli prima verso la sfiducia, e poi nella disperazione. Al contrario la Parola di oggi è una buona notizia che ci invita ad aver pazienza con noi stessi, a non voler farci santi e adeguati stringendo i pugni, ad accettare le imperfezioni, i difetti, e a scacciar via come subdola tentazione ogni immagine illusoria di quello che vorremmo essere. E' il Signore che porterà fedelmente a compimento la sua volontà in noi. Perché tutto è racchiuso dentro la sua chiamata gratuita. Possiamo riposare in essa perché è l'unica garanzia che ci difende dalle tentazioni. Per questo, quando ci assalgono, occorre tornare sempre alle radici della chiamata. Nel matrimonio, nel presbiterato, nella vita religiosa, e poi nel lavoro, nello studio, in tutto vi è una chiamata che ci precede e su cui Dio ha fondato la nostra vita. Non siamo noi il fondamento, è Lui! In questa gratuità che disarma il nostro orgoglio possiamo ricominciare ogni giorno, anche se siamo passati attraverso una tempesta di peccati che sembra aver distrutto tutto.
L'abbandono del ministero, il divorzio, le fughe di ogni giorno dal sacrificio e dalla sofferenza nascono sempre da un errore di prospettiva che ci fa scambiare la sabbia con la roccia, il figlio con il Padre, colui che chiama con colui che risponde. Il compimento di ogni missione, invece, si fonda sull'amore gratuito che ci raggiunge, seduce e accoglie nella sua intimità. Non sarà mai un apostolo chi non ha conosciuto e non rimane nell'amore di Cristo. E' interessante notare come nella lingua spagnola amare e volere si dicano con la stessa parola: querer. Gesù "vuole" noi perché ci "ama", e nell'amore ci "fa" apostoli, come recita l'originale greco. "Costituire" gli apostoli significa farli, crearli, plasmarli, sino ad essere immagine di Lui. "Apostolo", infatti, significa "inviato" e, secondo l'etimologia ebraica, esso costituiva un altro se stesso di colui che lo inviava. Per questo la chiamata di Gesù è sempre il primo passo dell'"andare a Lui" in un cammino di conversione nel quale "lo stare con Lui" ci fa assomigliare ogni giorno di più a Lui, ad avere il suo stesso pensiero di Cristo, il suo cuore, il suo sguardo, sino a diventare un "Alter Christus", come San Francesco. Non si tratta di fare molte cose, ma di camminare dietro a Lui in una compagnia, come fecero gli apostoli. E ciò si realizza essenzialmente nella comunità cristiana che è il suo Corpo vivo nella storia. Accanto ai momenti di preghiera personale siamo chiamati a "stare con Lui" nella Chiesa, dove possiamo ascoltarLo e parlarGli nelle liturgie, accogliere e sperimentare il suo amore anche attraverso la comunione con le sue membra che sono i fratelli. In essa siamo al riparo dalle fughe pseudo mistiche destinate ad evaporare al sorgere delle difficoltà e delle persecuzioni: "Il cristiano non è una monade, ma appartiene a un popolo. Un cristiano senza Chiesa è una cosa puramente ideale, non è reale. E’ una cosa di laboratorio, una cosa artificiale, una cosa che non può dar vita" (Papa Francesco). La missione, infatti, si fa feconda quando lo "stare con Lui" si fa più intenso e autentico: sulla Croce, ovvero nei momenti di più grande debolezza. Come ha sperimentato il Signore stesso, che ha salvato ogni uomo quando non ha potuto far altro che gettarsi, nella morte, tra le braccia del Padre. Stare con Gesù è dunque essere crocifisso con Lui. Allora comprendiamo perché ci ha scelti così deboli e fragili, incoerenti e nevrotici: per insegnarci ad abbandonarci a Lui e così poter operare in noi con illimitata libertà, facendo di noi un vessillo di speranza innalzato per tutti i peccatori. In quanto crocifissi, poveri, deboli, ultimi nel mondo, siamo inviati a portare ad ogni uomo i segni dell'amore del Padre, le piaghe benedette del Figlio impresse nelle nostre vite. Non a caso gli esorcismi si compiono mostrando ai demoni la Croce. Ecco, siamo un esorcismo sbattuto in faccia al demonio di questa generazione: con le sofferenze, i fallimenti, le frustrazioni lo "scacciamo". Sì, proprio quando agli occhi del mondo sembriamo soccombere al figlio, al collega, al coniuge, è il momento in cui, crocifissi con Cristo, esercitiamo con amore il "potere di scacciare i demoni" per dischiudere loro il "Regno" che "predichiamo" con zelo inesausto.

giovedì 21 gennaio 2021

  Racconti di un pellegrino russo



Sesto racconto 

Una volta - era il 24 marzo - sentii il desiderio di ricevere la Comunione per il giorno dopo, festa dell'Annunciazione. Domandai se la chiesa fosse lontana; mi risposero: trenta verste. Così camminai tutto il giorno e tutta la notte per arrivare puntuale al Mattutino. Il tempo era orrendo, un po' nevicava, un po' pioveva, il vento soffiava forte e faceva molto freddo. A un certo punto bisognava attraversare un torrente: nel bel mezzo il ghiaccio si ruppe sotto i miei piedi e io piombai in acqua fino alla cintola. Tutto inzuppato, arrivai in tempo per il Mattutino. Poi assistetti alla Messa durante la quale ricevetti la comunione. Al termine chiesi al guardiano di lasciarmi trascorrere la giornata nella guardiola della chiesa. Passai tutto quel giorno in una gioia indicibile, con il cuore inondato di dolcezza. Verso sera ero coricato su una panca di legno in quella stanzetta non riscaldata, quando sentii improvvisamente un dolore molto acuto alle gambe e allora mi ricordai che le avevo bagnate. Non ci pensai più, ma al mattino, quando feci per alzarmi, mi accorsi che non le potevo più muovere. Erano gonfie e inerti, come morte. Il guardiano mi tirò a forza giù dalla panca, e io rimasi due giorni seduto immobile per terra. Il terzo giorno il guardiano cominciò a spingermi fuori della guardiola: «Se muori qui - diceva,- avrò un bel daffare per causa tua». A gran fatica strisciai sulle mani e giacqui sui gradini della chiesa. Rimasi così per altri due giorni. La gente mi passava accanto senza prestare la minima attenzione né a me né alle mie suppliche. Finalmente un contadino mi si avvicinò, sedette accanto a me e cominciò a chiacchierare. Fra le altre cose mi domandò: «Che cosa mi dai se ti guarisco? Anche a me è accaduta la stessa cosa e conosco il rimedio». «Non ho nulla da darti», risposi. «E nella bisaccia, che hai?». «Un po' di pane secco e dei libri». «Se riuscissi a guarirti, lavoreresti per me almeno per un'estate?». «Non posso lavorare: come vedi, ho un solo braccio sano; l'altro è quasi del tutto paralizzato». «Allora, che cosa sai fare?». «Niente, salvo leggere e scrivere». «Ah, sai scrivere! Allora potrai insegnare a scrivere a mio figlio. Sa leggere un po', ma voglio che impari anche a scrivere. I maestri però chiedono troppo: venti rubli per insegnargli a leggere e scrivere». Accettai, e il contadino, aiutato dal guardiano, mi trasportò nel suo podere e mi sistemò in una vecchia capanna adibita ai bagni a vapore, dietro la casa. Poi cominciò a curarmi. Fece così: raccolse nei campi, nei cortili e fra i rifiuti un carico di ossa in disfacimento di bestiame, di uccelli e di altro genere: le lavò, le frantumò con un sasso riducendole quasi in polvere e le mise in una gran pentola di coccio; coprì la pentola con un coperchio forato, la capovolse e la infilò in un vaso vuoto che aveva interrato nel suolo; poi spalmò sulla pentola superiore uno spesso strato di creta, vi radunò intorno un gran mucchio di legna, vi diede fuoco e lo lasciò ardere per un giorno intero. Attizzando il fuoco diceva: «Ne verrà fuori un bel pastone». Il giorno dopo dissotterrò il grosso vaso nel quale era colato, attraverso il foro del coperchio della pentola, un liquido denso, rossastro, oleoso e dall'acre odore di carne cruda. Le ossa rimaste nella pentola, da nere e putride erano diventate bianche, pulite e trasparenti come la madreperla. Con quel liquido io dovevo frizionarmi le gambe cinque volte al giorno. Ebbene, già al secondo giorno sentivo di poter muovere le dita dei piedi, il terzo giorno potevo piegare e stendere le gambe, il quinto mi reggevo in piedi e camminavo per il cortile con il bastone. In breve, nel giro di una settimana le mie gambe avevano ripreso il vigore di prima. Così, una volta guarito, cominciai a dare lezioni al ragazzo. Scrissi la Preghiera di Gesù perché si esercitasse a trascriverla, mostrandogli come tracciare graziosamente le parole. Il ragazzo era intelligente e cominciò presto a scrivere abbastanza bene. Quando il fattore se ne accorse, gli domandò: «Chi ti insegna?». Il ragazzo rispose: «Un pellegrino con un braccio secco che vive da noi nel vecchio bagno». Incuriosito, il fattore - un polacco - venne a vedermi e mi trovò immerso nella lettura della Filocalia. Mi domandò: «Che cosa leggi?». Gli mostrai il libro. «Ah! la Filocalia », disse. «Ho visto questo libro dal nostro parroco, quando abitavo a Vilna. E' un gran libro, ma non è per noi, poveri profani». «Bene, vi leggerò qualcosa di più semplice, e cioè come molte persone di buona volontà hanno imparato l'orazione ininterrotta». Gli piacque tanto quella lettura che mi disse: «Dammi codesto libro, lo leggerò a mia moglie e a quelli di casa mia». Glielo imprestai e piacque molto a coloro che ne ascoltarono la lettura. Da quel giorno ogni tanto mi mandavano a chiamare. Mi recavo da loro con la Filocalia: leggevo ed essi ascoltavano bevendo il tè. Una volta mi trattennero a pranzo. La moglie del fattore, una dolce vecchietta, sedeva a tavola con noi e mangiava pesce fritto. Per disgrazia, inghiottì una lisca. Non riuscimmo in alcun modo a estrargliela, ed ella sentiva un tal dolore in gola che dopo due ore dovette coricarsi. Mandarono a chiamare il medico a circa trenta verste di là e, poiché era già sera, me ne andai molto rattristato. Durante la notte, nel mio sonno leggero, udii la voce del mio starets. Non Io vedevo ma la sua voce mi diceva: «Il tuo padrone ti ha guarito e tu non fai niente per la moglie del fattore? Dio ci ha ordinato di soccorrere il nostro prossimo». «L'aiuterei con gioia, ma in che modo? Non conosco alcun rimedio». « Fa' ciò che ti dico: fin da bambina quella donna ha sempre provato disgusto per l'olio; basta l'odore a provocarle la nausea. Perciò dalle un cucchiaio d'olio: vomiterà e si libererà della spina; inoltre l'olio lenirà il dolore alla gola e la farà guarire». «E come potrò farglielo bere, se le ripugna tanto? Si rifiuterà di prenderlo». «Prega il fattore di tenerle la testa e versaglielo in bocca di forza». Mi svegliai, andai dal fattore e gli narrai ogni cosa nei minimi particolari. Mi disse: «Che può farle ormai il tuo olio? Mia moglie arde di febbre e delira, e il suo collo è già tutto gonfio». «Ti prego, proviamo ugualmente; se l'olio non servirà a niente, non potrà neppure farle male». Egli versò l'olio in un bicchierino e glielo facemmo inghiottire. La donna ebbe subito violenti conati di vomito e la lisca uscì con un po' di sangue. Cominciò a star meglio e si addormentò profondamente. Il mattino dopo tornai a visitarla e la trovai tranquillamente seduta a bere il tè. Lei e suo marito erano stupefatti di questa guarigione improvvisa e soprattutto di ciò che avevo sognato su quella ripugnanza invincibile per l'olio: era un particolare che salvo loro, nessuno conosceva. Per tutto il circondario si diffuse rapidamente la voce che ero un veggente, un taumaturgo e un mago, così una notte me ne andai di nascosto. Ripresi il mio solitario cammino con le forze rinnovate, mentre la Preghiera mi confortava sempre più. Capitava a volte che per tre giorni non incontrassi un solo luogo abitato e avevo la sensazione di essere l'unico uomo sulla terra. Questo senso di solitudine era per me un conforto e la delizia del pregare era molto più intensa di quando mi trovavo fra gli uomini.

 


GETTIAMOCI SU CRISTO CHE CI GUARISCE NELLA BARCA DELLA COMUNITA' PER DIVENIRE ANACORETI OFFERTI PER IL MONDO
Sospinto dalle trame ordite contro di lui, Gesù “si ritira presso il mare”, e in quel fazzoletto di terra nascosto, è seguito da una moltitudine. Il mare rappresenta sempre il pericolo, il mistero e la morte. E Gesù elegge a suo ritiro proprio la sua prossimità: sul fronte del pericolo e del dolore Egli sta come una sentinella a proteggere dai flutti di morte chiunque lo segua. Con lui porta i suoi intimi, e insieme salgono su una “barchetta” (così l'originale greco), immagine del legno della Croce, segno dell'umiltà e della debolezza che costituisce la "carena" della Chiesa: un “nulla” stolto e scandaloso nel mondo, capace però di difendere il rapporto vitale dei discepoli con il Signore dai pericoli della massa, dal successo, dalla carne che idolatra e seduce. Per questo hanno una missione specifica: curare la barca, custodirla e assicurarsi che sia sempre vicina al Signore e "a sua disposizione"; ciò significa amore alla Parola di Dio e alle cose sante, approfondire e custodire il Magistero e il deposito della fede, curare la liturgia in ogni dettaglio, sapendo che essa parla all'uomo attraverso ogni suo segno; essere attenti alla dignità e alla pulizia delle chiese, alla sobrietà e la bellezza degli ambienti; ma significa anche la cura di ogni fratello, del più debole, dei poveri, di chi soffre ed è angosciato, degli anziani perché non restino mai soli, delle coppie che dubitano tra crisi economiche e tentazioni mondane e hanno paura di aprirsi alla vita, dei giovani disorientati; significa, innanzitutto, custodire la primogenitura e lo zelo per la missione, annunciare il Vangelo in modo opportuno e inopportuno, anche ai cristiani; e preparare per loro una seria iniziazione cristiana che guidi il Popolo della barca sul cammino verso la fede adulta che dia i segni dell'amore e dell'unità perché il mondo creda. E' la fedeltà di cui Gesù parlerà alla fine della sua vita, nulla di moralistico o di volontaristico, solo puro amore. E come possiamo essere fedeli? Attraverso la preghiera che si fa lotta nella fuga dal mondo per intercedere in suo favore; proprio l'anacoresi, secondo l'originale greco ‘anachórein’ tradotto con “ritirarsi”, che significa anche allontanarsi. Fuggire la carne che trama alle nostre spalle, per porsi seriamente di fronte alla vita e alla morte, nel combattimento decisivo. Come fecero i monaci del deserto, gli anacoreti che sfuggivano il mondo per gettarsi nella lotta con il demonio; e poi i certosini, i benedettini, le suore di clausura, Padre Pio, il Curato d'Ars, Giovanni Paolo II e molti altri. E tutti, nel profondo di quella solitudine anacoretica, divenivano segni di salvezza, e moltitudini li cercavano per essere sanati, nel corpo e nello spirito. Esattamente come Gesù: nella sua preghiera erano attirati i pagani delle regioni vicine, coloro che, avendo udito qualcosa di Lui, lo cercavano per trovare Grazia e salvezza.
Con la preghiera Gesù entrava in intimità con il Padre, facendo in qualche modo scendere il Cielo sulla terra: così, solo dopo un cammino di conversione che li faceva uscire dal pensare mondano abbandonando criteri e rimedi carnali, le persone lo raggiungevano e lo potevano "toccare" come l'emoroissa, in un rapporto esclusivo e personale; non era, come può sembrare, un evento improvviso, ma era la fede cresciuta nel cammino che li "salvava", proprio come Gesù stesso affermava: la tua fede ti ha salvato. Gesù, infatti, "guarisce" attraverso la fede delle persone: non a caso "guarire", “terapeo” secondo il greco originale, significa letteralmente "rispettare", "venerare": Gesù ha inaugurato la "terapia" autentica contro qualsiasi male affligga l'uomo, perché Egli rispetta tutti con i propri difetti, i tempi e la libertà del cammino di ciascuno, "venerando" sempre e comunque l'immagine divina scolpita in noi, per farne il destino singolare e speciale della sua stima e della sua misericordia. Il rispetto di Gesù stana il demonio e smaschera la menzogna con cui ci inganna sbattendoci in faccia i peccati e le debolezze, perché ci disprezziamo e disperiamo della salvezza. Non è la sapienza carnale della folla, che strattona, spinge, afferra, sfrutta e getta via: il mondo mira allo stordimento, agli entusiasmi, all'anonimato delle masse da gestire e condurre senza problemi. Ideologie, musica, sport, social networks e media sguazzano nella massificazione, patria di ogni dittatura, non ultima quella del relativismo. Si tratta invece della sapienza della barca, gestata e generata dal legno della Croce, nella quale Gesù accoglie ciascuno come fosse l'unica persona al mondo, perché ancor prima d'essere toccato, pregando, lo ha visto nei suoi bisogni più intimi e amato in mezzo ai suoi peccati. Solo così si può guarire, resuscitare a una vita santa e degna, liberi dai complessi e dai rimpianti. Anche noi siamo chiamati ad essere anacoreti, sempre in fuga dal mondo, pur vivendoci sino in fondo; ovunque come nella cella di un monastero, il Cielo planato nelle ore che si spalmano nella storia, l'intimità con Cristo nell'abisso del cuore. Al lavoro, a scuola, in famiglia e con gli amici, nei momenti difficili e in quelli di gioia, vivere tutto come dentro la nostalgia di Dio che si fa preghiera incessante, un atteggiamento interiore distaccato dalle cose del mondo. Nessuna persona, nessuna attività, nulla più come un assoluto, ma tutti guardati e amati nella preghiera ancor prima che aprano bocca e mani per chiederci aiuto. E accettare le persecuzioni di chi ci sta intorno, e fuggire con ali di colomba nel deserto dove il Signore ci attende per parlare al nostro cuore. Più saremo soli con Dio, più verranno a noi le persone; il coniuge, i figli, i parenti, gli amici, i colleghi, i nemici, saranno attirati come le api dal miele, perché intuiranno in noi l'amore divino e gratuito, radicato nella Verità. E' il cuore di ciascuna missione, dell'evangelizzazione come dell'educazione, per scacciare i demoni nel Nome di Gesù "senza lasciarli parlare", perché finiscano di ingannare lasciando posto al potere crocifisso di Cristo in ogni persona.

mercoledì 20 gennaio 2021

 


LE NOSTRE FERITE SONO LA PORTA DISCHIUSA SULLA SALVEZZA, STIGMATE LUMINOSE TESTIMONI DELLA VITTORIA DI CRISTO
"E' lecito in giorno di sabato salvare una vita o toglierla, fare il bene o il male?": la domanda di Gesù, ormai sotto processo per aver attentato alle prescrizioni sul Sabato, colloca il bene per la vita al centro della questione. Di più, mettendo "in mezzo" l'uomo con la mano inaridita, rovescia il processo e, da imputato si fa giudice. "In mezzo", come imputato, è ora il "cuore indurito" dei farisei e degli erodiani, inaridito come la mano di quell'uomo. In giorno di sabato, pur rispettando ogni prescrizione, si può fare il bene come il male: loro, con la malizia con cui "osservavano" Gesù per vedere se amava anche in quel giorno santo e "per accusarlo e farlo morire", avevano fatto il male. Dunque, se per loro, in giorno di sabato, era lecito "tenere consiglio" per "togliere una vita", come poteva non essere lecito guarire e salvare una vita? Con questo paradosso Gesù svela l'ipocrisia malvagia di chi, nel nome di una Legge spogliata dello Spirito, stava decidendo nel cuore di uccidere chi stava facendo del bene. In quella sinagoga si trattava di salvare o togliere la vita ad “un uomo”, anthrōpos, immagine di ogni uomo. Per lui, infatti, Dio ha “fatto il sabato”, il riposo preparato per chi ha sperimentato, durante la settimana, la durezza della vita, la conseguenza del peccato di Adamo. Ma esso può essere sporcato dall'ipocrisia, e trasformarsi in luogo di male e di morte. Scoccando la domanda, Gesù penetra sino al fondo del cuore, e non ci si può più nascondere, si può solo “tacere”. Ai suoi occhi che, come un periscopio, secondo l’originale greco “periblepsamenos”, scrutano e abbracciano ogni pensiero a 360 gradi, non sfugge il cuore indurito di chi gli era accanto. E non può trattenere l”ira” divina con la quale il Padre aveva corretto “gelosamente” il suo Popolo; esplode in Lui lo “zelo” mosso dalla “tristezza” per ogni anima arida ed arsa, senz'acqua e fecondità, dei farisei e degli erodiani come dell'infermo. Per questo, Gesù colma il silenzio calato nella sinagoga con la parola creatrice, offrendo a tutti la possibilità di salvarsi. Attraverso quella mano incapace di stendersi per accogliere e donare, mostra cosa significhi dare al sabato pieno compimento. Anche un cuore indurito può alzarsi e risuscitare, ed è il giudizio di misericordia di Gesù, offerto a tutti in quell'oggi nel quale stava compiendo la Parole profetiche sul Messia.
Proprio la debolezza che ci costituisce è la prova che "scagiona" Gesù, giustificando con la necessità e l'urgenza dell'amore, la liceità di fare il bene e salvare una vita, non solo anche di sabato, ma proprio e in maniera definitiva di sabato: il cuore e la mano, infatti, sono induriti anche di sabato, come ogni altro giorno. E proprio nel sabato della tomba, nella sepoltura e nella discesa agli inferi, Gesù avrebbe mostrato la liceità di amare perché, compiendo in esso il precetto di non fare niente - non vi è nulla di più inattivo di un morto - ha sanato e salvato la vita dal peccato e dalla morte; per questo dice “Alzati e mettiti in mezzo!”, “destati” dall'aridità, come recita, non a caso, il termine originale greco usato anche per la "risurrezione" di Gesù. Questo pover'uomo è incapace di tutto, come quando si dice "sono senza una mano": prendere, scrivere, guidare, mangiare, qualunque relazione è compromessa. Per lui ogni giorno è sabato, ma, invece d’essere di festa e riposo, è un sabato di condanna e di morte che si spalma su tutta l’esistenza. In quest’uomo si scorge l’esito di una religione vestita d’ipocrisia: in quel sabato, infatti, si trova nella sinagoga e non fa nulla, compiendo così la Legge. Ma vi è costretto dall’infermità, immagine dei legalismi che obbligano a compiere i precetti dall'esterno, lasciando sudicio l’interno. C’è una bella differenza tra il non poter e il non voler fare nulla, come quella che passa tra l’amore e il timore. Ma a quell’uomo una cosa non è impedita, l'obbedienza, l'unica che apre il cammino alla risurrezione. Anche a noi non è preclusa, per quanto deboli, aridi, insensibili e incapaci siamo, e i peccati, le sofferenze, le difficoltà, ci ostacolino e ci blocchino. Gesù ha obbedito, ha "steso" le sue mani sulla Croce e "disteso" il corpo nel sepolcro, è entrato nella morte, l'ha vinta e ci consegna gratuitamente l'obbedienza per risorgere. "Alzati e mettiti nel mezzo!", "stendi la mano": anche noi siamo chiamati dal Signore ad alzarci dall'egoismo e a metterci in mezzo, affinché si veda bene la mano sterile che guarisce per opera di Dio, la ferita sanata dalla misericordia. Come Gesù, che tutti hanno potuto vedere crocifisso, perché doveva essere evidente la risurrezione proprio attraverso la certezza della crocifissione. Lo stesso Uomo crocifisso era l'Uomo resuscitato. Così Dio sceglie la sterilità, la piccolezza, la debolezza, i peccatori, come Giacobbe, Davide, Sansone, e Pietro, il traditore. Dio sceglie “il nulla” per mostrare che cosa significhi il sabato, il giorno in cui “nulla” si fa perché è Dio che fa "tutto". Le nostre ferite “stese” davanti al mondo, infatti, sono il luogo della misericordia di Dio che “ristabilisce” la vita laddove era la morte; il suo amore la fa ritornare ad essere, secondo il significato del termine greco tradotto con "risanata", com'era al principio, nel progetto del Padre: “aperta” per donare, come la mano guarita, come il cuore inondato d’amore. La nostra debolezza, che il mondo, "tenendo consiglio" nelle aule parlamentari o nei circoli culturali, come nelle nostre riunioni familiari o anche parrocchiali, vorrebbe "togliere di mezzo", è la porta spalancata sul Signore, il preludio alla sua opera. Come fu per Gesù dopo la risurrezione, quando, proprio attraverso le sue ferite, provava agli apostoli la risurrezione della sua carne: quelle ferite erano la memoria della sua carne crocifissa per amore, e la prova che proprio con quella carne lì aveva vinto il peccato. Come le nostre ferite poste in mezzo facendoci arrossire, perché chi ci è accanto possa vedervi l’opera soprannaturale che le guarisce e trasfigura, l’amore infinito di Dio che vi ha preso dimora.

martedì 19 gennaio 2021

 


SPIGHE MATURE PER IL MONDO
La Scrittura disegna il rapporto tra Dio e l'uomo con i tratti gioiosi di un banchetto di nozze, del quale il sabato è un segno tra i più importanti. Nulla di più lontano da una religione fatta di precetti e divieti, di regole da applicare, di un tedioso dare ed avere tra la divinità e l'uomo. L’halakà (insegnamento dei rabbini: halakà deriva dal verbo halak, “camminare”) concedeva di entrare nel campo a raccolto ultimato, dopo che i poveri avevano spigolato la loro parte secondo i dettami della Torah: «Quando è permesso a chiunque di spigolare? Quando l’ultimo povero se n’è andato» (Mishnah, Peah 8:1). I discepoli di Gesù non avevano infranto la Legge, al contrario: seguendo le orme del loro Maestro avevano raggiunto l'ultimo posto, i più poveri tra i più poveri, e per questo liberi davvero. Nulla da difendere, tutto da ricevere. Il discepolo è piccolo, indifeso, bisognoso di tutto, un segno di contraddizione, un interrogativo posto dinanzi al cuore di ogni uomo perché sia svelato il cuore della Legge, e quello di Dio, che ne è l’autore. Una parte dei farisei considerava anche lo spigolare dei poveri illecito nel giorno di sabato, anteponendo la lettera della Legge al suo spirito. Ma Gesù e la sua comunità - la Chiesa - svelano il contenuto autentico della Legge, il sì di Dio all'uomo, il Sabato della vita più forte della quotidianità di morte che affama e getta nel bisogno le esistenze. La Legge, comprendendo ogni aspetto della vita dell'uomo per rivestirlo della santità di Dio, fa presente il Paradiso perduto. Donata per proteggere e guidare nel cammino verso l'intimità con Dio, la Legge era divenuta un impedimento e un inciampo. Come capita a noi quando recintiamo le nostre vite e quelle altrui di leggi figlie dei nostri criteri, che si tramutano ben presto in aguzzine violentatrici della libertà e dell'amore. Ma il Signore oggi ci mostra la libertà e la gioia d'essere figli di Dio. Era quello che mancava alla fredda ragione dei farisei, come ad ogni etica senza Spirito Santo. Occorreva una carne capace di compiere quello che la Legge disegnava e stabiliva, l'uomo nuovo libero dalla schiavitù del peccato. Il suo amore “ci strappa” alla maledizione che pesa su chi, aspettando dalla Legge la salvezza, non la compie, divenendone trasgressore colpevole. La sua misericordia ci introduce nel suo Regno, dove con Lui siamo sacerdoti, re, profeti, liberi di mangiare i pani di vita preparati per l'offerta rituale.
In Cristo siamo condotti al cuore della Legge, per poterla vivere nella sua autenticità, come se ne fossimo anche noi gli autori, giorno per giorno, situazione per situazione, relazione per relazione: il compimento della Legge, infatti, è l’amore, l’unico che sa coniugarla concretamente incarnandola nell’offerta gratuita di se stessi, come spighe mature. Così, quanto fatto dai discepoli, assume un carattere profetico, annuncia la buona notizia che Gesù è venuto a proclamare: è giunto il Messia - nel Talmud (Tamid 7,4) l'Era Messianica è chiamata Yom shekullò Shabbat, il giorno che sarà tutto Shabbat. – Gesù di Nazaret, il chicco di grano caduto in terra per produrre il molto frutto dell’amore e della libertà. Il campo nel quale sono entrati i discepoli è immagine del sepolcro che ha accolto il Signore; le spighe sono il frutto della risurrezione, germogliato proprio per distruggere le barriere della schiavitù del peccato; i discepoli, affamati di perdono, vita e libertà, entrano in quel sabato per partecipare al compimento definitivo di ogni sabato, e non per trasgredirne i precetti: in quel campo è apparso il “Signore del sabato” che ha vinto il signore del sepolcro e della morte, il frutto atteso, la gratuità del perdono e dell’amore che ogni sabato insegna e celebra. “Strappare le spighe e mangiarne” allora, significa vivere in pienezza il sabato, “fatto da Dio per l’uomo” al termine della creazione, il sigillo dell’Alleanza che accoglie e sposa l’umanità nel suo riposo. Ma per entrare nel sabato dobbiamo passare con Cristo attraverso la Croce, dove ci accoglie ogni giorno attraverso i fatti e le persone che incontriamo, per donarci la spiga matura che non siamo stati capaci di far germogliare nella nostra vita. Lo scandalo dei farisei è lo stesso che sperimentiamo quando rifiutiamo la storia e la misericordia che vi è deposta, convinti che “non sia lecito” quell’amore così assurdo! Dai, non può essere lecito perdonare settanta volte sette la moglie, il marito, il collega. Non è lecito lasciarsi “strappare” l’onore, la dignità, il tempo e le idee. La “fame e il bisogno” di Davide in fuga da Saul erano la fame e il bisogno di ciascuno di noi perseguitati dalla gelosia e dalla schiavitù di rapporti malsani, carnali, appiattiti sui criteri mondani, in cerca di un sabato che sia per noi rifugio, libertà, pace, riposo, pienezza e amore. Oggi possiamo scoprire che questo amore è a un passo da noi, ci cammina accanto, è Cristo che attende di essere “strappato” come una spiga: basta entrare nel campo della storia e accogliere i frutti di una vita rinnovata. In essa, ogni giorno diviene un sabato dove chi ci è accanto possa accogliere l’amore di cui è affamato, cogliendo in noi discepoli del Signore, le sue spighe mature.

lunedì 18 gennaio 2021

 


SAZIATI DAL PANE DI VITA NELLA CHIESA, SIAMO INVIATI NEL MONDO A COGLIERE LIBERAMENTE I FRUTTI DELLA PASQUA
E' inutile illuderci che sulla terra si possa conquistare quello che è riservato al Cielo. Se pensiamo così, e così affrontiamo le giornate, il fidanzamento e il matrimonio, lo studio e il lavoro, le vacanze e le difficoltà, significa che il demonio ci sta ancora ingannando. Come hanno fatto le ideologie, inghiottendo intere generazioni nell'abbaglio che sia possibile fare della terra un paradiso. E oggi, dopo essersi sbriciolate nell'urto con la realtà, molti tentano di riciclarle facendo indossare loro i panni della salute e della qualità della vita, dei diritti, dell’emancipazione e dell'autodeterminazione, per attirarci nel miraggio di un mondo senza dolore, fatica e sudore. E senza la morte, che, in un paradosso tipico del demonio, si pensa di cancellare dando la morte alle persone e alle situazioni che la ricordano con più evidenza. Divorzio, aborto ed eutanasia sono l'inganno legalizzato che seduce la nostra incapacità di entrare nella sofferenza che la vicenda terrena suppone, trascinandoci però in sofferenze sempre più grandi. Fateci caso, è come una droga: più cerchi di scappare dal dolore combattendolo, più cresce; più cerchi di esorcizzarlo con evoluzioni culturali e conquiste civili, più allarga il suo cratere. Perché la terra non è non sarà mai il Paradiso. E' contaminata dal peccato e le sue conseguenze amare sono proprio il dolore, la fatica e il sudore che vorremmo cancellare o perlomeno evitare. Impossibile, e non perché Dio non esiste e se esiste è un mostro che castiga. E' l'esperienza personale che ce lo dice: se un bambino si avvicina al fuoco e disobbedisce allungandovi la mano, si scotta. E' un castigo? No, è una conseguenza. Ma proprio attraverso il dolore della scottatura il bambino capisce di essere diverso dall’adulto, di avere dei limiti e molto di imparare da sua madre. Così il dolore, il sudore e la fatica sono le conseguenze del peccato di Adamo ed Eva e di ciascuno di noi, non i castighi che Dio ha inflitto all'uomo. Ma sono anche la prova che Egli esiste e non ha smesso di amarci, perché ci lascia liberi sino in fondo, e non a corrente alternata come accade tra di noi. Mentre proprio il dolore ci rivela che non siamo Dio e non possiamo eludere o piegare la realtà a nostro piacimento. Ma ciò significa soprattutto che la nostra salvezza passa di lì, dal dolore, dal sudore e dalla fatica. Dalla nostra storia di oggi, così com'è, precaria, ferita, incompiuta perché lontana dal Paradiso. La nostra vita è un lungo “digiuno” in attesa di consumare le nozze per le quali siamo stati creati. Stiamo, infatti, vivendo i “giorni nei quali lo sposo ci è tolto”: non sperimentiamo quasi quotidianamente la delusione per le speranze che sembrano andare in fumo? La precarietà economica, fisica e spirituale ghermisce l'esistenza non lasciandole nulla a cui appoggiarsi. Ecco, proprio quando la Croce ci accoglie, nudi e indifesi come Adamo ed Eva lontani dal Paradiso il “digiuno” si rivela come la condizione essenziale per vivere autenticamente nell'attesa del compimento. Non mangiare, non fumare, non guardare la televisione, spegnere internet e social networks, insomma digiunare da qualcosa, non è solo una pratica pseudo-ascetica che, spesso, fa della religione un'idolatria dell’ego; quanti di noi preti saziamo la nostra libido con i selfie spirituali che ci scattiamo dopo una celebrazione, un incontro, un’omelia, un buon consiglio offerto...
Digiunare, invece, è un'esigenza, una questione di vita o di morte; è come il grido del popolo di Israele schiavo in Egitto. E' l'ascesi autentica che ci fa scendere nella verità per essere attirati nel suo compimento. Perché dopo il peccato originale Dio ha profetizzato che la salvezza sarebbe giunta proprio nelle sue amare conseguenze. Il dolore della donna nel partorire e la frustrazione nei rapporti con l’uomo verso il quale la muove l’istinto d’amore, insieme con la fatica e il sudore dell’uomo per lavorare e mangiare, sono la realtà da cui ripartire e convertirsi: sono, infatti, le attività che uniscono misteriosamente la creatura al suo Creatore. Ma, attraversate da dolore e fatica sono anche le ferite che le ricordano la propria origine generando in essa, come nel figlio prodigo, la nostalgia della casa paterna. Destata ancor più violentemente dalla morte, la conseguenza più grave del peccato. Tutti di fronte ad essa ci troviamo atterriti pensando che non sia possibile che finisca tutto così. Certo che no! Ma Dio non ha voluto cancellare i nostri passi erranti nella libertà; i peccati commessi sono un fatto, non c’è possibilità di reset. Non sarebbe giusto e farebbe di noi dei burattini senza testa e cuore. Ma Dio ha fatto di più: è entrato Lui stesso nelle conseguenze dei nostri peccati per trasformarle in possibilità di bene. E’ ciò che ha compiuto Gesù nel suo Mistero Pasquale: per amore di ogni peccatore è entrato nel dolore, nella fatica, nel sudore e nella morte per farne un cammino alla risurrezione e alla vita eterna. E ce lo offre oggi e ogni giorno come la possibilità di una vita nuova, come “vino nuovo in otri nuovi!”. Altro che “toppe di panno grezzo su vestiti vecchi”, come sono tanti nostri tentativi moralistici, superficiali e ipocriti di conversione, entusiasmi emotivi che evaporano alla prima difficoltà. Gesù è infinitamente più realista dei “discepoli di Giovanni e dei farisei” e di tutti noi. La sua Parola ci tira giù dai sogni improbabili di redenzione e riscatto dal grigiore e dai fallimenti, impedendoci di scappare nell’alienazione che ci propone il demonio. Per “tornare” alla Patria perduta occorre invece “convertirci”, cambiare cioè radicalmente il modo di pensare e di essere e imparare a “digiunare”, che, per Gesù e i suoi discepoli, significa amare. Per un cristiano il digiuno è "naturale" perché è il segno con il quale afferma di accettare di essere peccatore e di aver bisogno della storia così com’è, perché sa che è l’unico cammino alla salvezza e alla gioia. Solo entrando nel dolore che suppone ogni relazione autenticamente umana, e accettando la fatica di ogni giorno possiamo partecipare con Cristo al suo Mistero Pasquale. Per questo il digiunare autentico, al quale ci si allena con il digiuno esteriore che sottomette la carne, è quello che si compie nel cuore. E’ fare silenzio di fronte alle ingiustizie, non resistere al male che gli altri ci procurano, non intraprendere la via del divorzio, non reclamare quello che ci è stato tolto. Solo così anche il peccato e le sue conseguenze sono trasformate in "porte di speranza", vie alla salvezza. Ma per vivere così occorre partecipare al digiunare della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo: essa, infatti, esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma contemporaneamente digiuna nell'attesa della parusia. Vive del Memoriale del suo Signore, l'eucarestia, presenza viva del suo Sposo amatissimo. Nel mezzo del banchetto pasquale rinnovato ogni settimana erompe in un grido di nostalgia e speranza: Maràn athà, con il quale afferma la certezza che il Signore nostro viene, ma che si può leggere anche marana tha, Signore nostro, vieni! Con la comunità cristiana, il digiuno realizzato nella storia sarà il nostro Maràn athà, il grido che implora il ritorno dello Sposo per saziare la fame d’amore che nulla e nessuno è capace di saziare. E spera in ogni circostanza che ci porti con Lui, nel posto che ha preparato per noi nel Paradiso.