San TOMMASO D'AQUINO
Roccasecca, Frosinone, 1225 circa – Fossanova, Latina, 7 marzo 1274
Martirologio Romano: Memoria di san Tommaso d’Aquino, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori e dottore della Chiesa, che, dotato di grandissimi doni d’intelletto, trasmise agli altri con discorsi e scritti la sua straordinaria sapienza. Invitato dal beato papa Gregorio X a partecipare al secondo Concilio Ecumenico di Lione, morì il 7 marzo lungo il viaggio nel monastero di Fossanova nel Lazio e dopo molti anni il suo corpo fu in questo giorno traslato a Tolosa.
(7 marzo: Nel monastero cistercense di Fossanova nel Lazio, transito di san Tommaso d’Aquino, la cui memoria si celebra il 28 gennaio).
San Tommaso d'Aquino rappresenta una delle colonne del pensiero filosofico occidentale e offre l'esempio di un ricercatore che ha saputo vivere intensamente ciò che stava al centro dei suoi studi: il messaggio di Cristo. Per questo egli è ancora oggi un testimone profetico, che ci ricorda come parola e azioni debbano sempre corrispondere. Tommaso è noto per la sua monumentale opera teologica e filosofica, in particolare per quel prezioso lavoro di intessitura tra i classici del pensiero e la tradizione cristiana. La sua eredità di fatto è diventata parte integrante del patrimonio di fede e ha contribuito a modellare il volto della Chiesa. Nato nel 1224 a Roccasecca (Frosinone) e divenuto domenicano a Montecassino, studiò a Napoli, Colonia, Parigi dove cominciò anche l'impegno dell'insegnamento. Morì a Fossanova nel 1274.
Era un giovane piuttosto robusto, proveniente dal centro Italia: si chiamava Tommaso, nato nel 1225, dai Conti d’Aquino nel castello di Roccasecca, non lontano da Montecassino. Proprio tra i “pueri oblati” era stato portato Tommaso, di 5 anni, perché studiasse e diventasse, crescendo, non solo monaco di san Benedetto, ma abate, onorando la sua famiglia nobile e ricca.
Ma il ragazzo, quando poté disporre di sé, uscì dal monastero, diciottenne, e tornò in famiglia, per iscriversi all’università di Napoli, a studiare Filosofia. Era già un innamorato di Gesù, così che presto, attraverso lo studio condotto con serietà nell’illibatezza della sua vita verginale, gli nacque la vocazione domenicana. Lui era nobile, mentre l’Ordine di san Domenico, come quello di san Francesco, era un Ordine “mendicante”, senza alcuna nobiltà.
Così i parenti pensarono di impedirgli di seguire la sua strada. A Montefiascone c’è una cappella dove Tommaso sfuggì dalle mani dei fratelli che volevano acciuffarlo nella sua fuga verso lo Studio di Parigi, dove lo attendevano Maestri e confratelli domenicani. Pensando a questo “scontro”, Tommaso scriverà una pagina sulla nobiltà di tutti gli uomini, perché creati da Dio e redenti da Gesù suo Figlio fatto uomo, senza attendere la dichiarazione dei diritti dell’uomo, fatta dai superficiali e spesso violenti “enciclopedisti” del Settecento.
Sfuggendo ai suoi inseguitori, Tommaso valicò le Alpi e giunse a Parigi. Trent’anni dopo i Maestri delle Arti di quella città potranno vantare che «omnium studiorum nobilissima parisiensis civitas» (Parigi, nobilissima città di tutti gli studi) era stata la maestra del Dottore Angelico, la quale «prius ipsum educavit, nutrivit et fovit» (per prima lo educò, lo nutrì e lo promosse).
Ormai i Domenicani avevano espugnato lo “Studium” parigino: sulla cattedra di Teologia sedeva come maestro il domenicano Alberto Magno, che intuì subito la capacità intellettuale, anzi il genio, di Tommaso d’Aquino ancora studente. Fu proprio Alberto, che sentendolo chiamare dai compagni “il bue muto” per la taciturnità – colma di Dio, e di pensiero terso come il cielo azzurro – disse, presago: «Un giorno i muggiti della sua dottrina saranno uditi in tutto il mondo».
Poco più che ventenne, Tommaso fu ordinato sacerdote e sperimentò il Paradiso, quando ebbe Gesù-Ostia tra le mani, lui che era e sarà sempre più un’anima grandissima proprio perché eucaristica. Sarà lui a scrivere la Messa e l’Ufficio divino del Corpus Domini, quando papa Urbano IV, nel 1264, con la bolla Transiturus estese la festa a tutta la Chiesa.
“La Sapienza più preziosa”
La sua fu vita di preghiera, di meditazione e di studio tutta incentrata in Gesù, come l’Unico della sua giornata terrena. Vita di insegnamento, secondo l’essenza dello spirito dell’Ordine: “Contemplari, contemplata aliis tradere” (contemplare Dio, trasmettere, comunicare agli altri Dio e le realtà di Dio contemplate). Questo però non vuol dire vita tranquilla.
La sua battaglia contro gli errori insidiosi, le tendenze pericolose, contro le dottrine accondiscendenti all’eresia – l’eresia è sempre la gnosi, antica o moderna che sia – sempre latente quando non è aperta, comunque sempre minacciosa, non ebbe mai tregua.
Quando saliva in cattedra, portava con sé una mela, la mostrava agli studenti e chiedeva: «Che cos’è questa?». Qualcuno sorrideva, ma si rispondeva: «Una mela!». «Va bene – ribatteva Maestro Tommaso –, ma chi non fosse d’accordo, esca dall’aula». Non era una battuta per ridere, ma l’affermazione che la sua filosofia parte da ciò che è, dall’ente che, prima di tutto, esiste e che può essere conosciuto dalla mente umana.
Così Tommaso definisce la Verità: «Adaequatio intellectus et rei», «corrispondenza dell’intelletto alla realtà». Insomma, una filosofia dell’essere, la filosofia pertanto perenne, la filosofia del buon senso.
Tutto qui? Ma è cosa grandissima: i sofisti prima di Tommaso e dopo Tommaso negano che si possa conoscere la realtà nella sua essenza, ma si conoscerebbe solo “il pensiero”, “il pensabile”, quindi ognuno ha “la sua” verità, pensa ciò che gli pare e gli piace. È una conoscenza umana separata dall’essere, che si allontana dal reale e pertanto da Dio: sofisma e gnosi.
Così attorno alla sua cattedra, come contro uno scoglio, si abbatterono non le ondate della persecuzione o della ribellione, ma gli errori, le eresie che sono le cose più ostinate, più insistenti e più logoranti, che in breve tempo o alla lunga rendono ciechi. Serio, sereno, silenzioso, sempre più lucido di mente, di analisi e di sintesi. Maestro Tommaso li confutava alla luce della ragione, illuminata dalla fede. Così molto presto, Alberto Magno, già suo maestro, lo chiamò «splendore e fiore del mondo».
Intelligentissimo, intuitivo come mosso da una luce superiore, il suo pensiero non era fatto di lampeggiamenti fuggevoli, e di geniali impennamenti, ma come uno specchio limpidissimo, ravvolgeva la luce della Verità (studiava e contemplava) e la trasmetteva agli altri (insegnava, predicava) in una sintesi perfetta di contemplazione e predicazione. Tutto con tranquillo fulgore. Tramite lui, la Verità si presentava con evidenza, che è appunto «fulgor veritatis consensum mentis rapiens» lo splendore, la chiarezza della verità che conquista, rapisce il consenso della mente).
Immerso nella riflessione, nello studio della Verità, mentre stava su una nave, non avvertì la burrasca, mentre una notte con la candela in mano, non sentì il bruciore della fiamma, sulla mano. Un vero puro di cuore, Dio lo aveva liberato dall’amor proprio e dall’impurità, consentendogli di vedere Dio, secondo l’evangelica beatitudine.
In fondo il suo studio, il suo magistero, nelle università di Parigi e d’Europa, era rivolto a Gesù Cristo: tutto doveva servire a conoscerlo di più, a fondare la sua conoscenza, a stabilire i preambula fidei (i preliminari della Fede), per amarlo di più, per farlo amare dai semplici e dai dotti, dalla gioventù studiosa d’Europa, dai candidati al titolo accademico, dagli apostoli del suo Ordine e degli altri Ordini religiosi.
Mai sazio di sapere, insaziabile di amare Dio e il Figlio suo Gesù Cristo e di farlo amare, dilatava fino all’ultima falda, fino all’incredibile, la sua indagine. “Ruminava” fino a ridurre tutto al “cibo essenziale della Verità”, che in fondo è Gesù solo.
«Maestro – gli domandarono un giorno i suoi allievi, tornando da una passeggiata –, guardate quanto è bella Parigi. Vi piacerebbe essere il suo signore?». Rispose Maestro Tommaso: «Preferisco le Omelie di san Giovanni Crisostomo sul Vangelo di Matteo. Non basta tutta Parigi a pagarle».
Alla destra della sala capitolare di Santa Maria Novella a Firenze, una celebre pittura rappresenta il trionfo della Sapienza. Nel mezzo dell’affresco, san Tommaso è seduto in trono con un gran libro aperto sul petto. La Sapienza di cui l’affresco celebra il trionfo, si è raccolta in maggior abbondanza in lui, il “Dottore Angelico”, che mostra non un suo libro ma quello della Sapienza stessa alle pagine dove si legge: «Ho desiderato l’intelligenza e mi è stata data; ho invocato e lo spirito della Sapienza è venuto in me. L’ho preferita ai regni e ai troni e ho stimato la ricchezza un nulla a confronto della Sapienza».
La “Summa” come poema
Tommaso è il santo di questa intelligenza: la sua dottrina si regge sul primato dell’intelletto, che è la condizione stessa dell’amore. Solo un essere intelligente è capace di amore. «Quello che vi è di più perfetto nell’uomo è l’operazione dell’intelligenza – dice Tommaso nel primo trattato della sua Summa Theologiae (il suo capolavoro, ma tutto è capolavoro in Tommaso) – per cui la beatitudine di un essere dotato di intelligenza consiste nell’intelligenza stessa, nel conoscere».
Dante ha espresso questa affermazione di Tommaso nei suoi mirabili versi «Luce intellettual piena d’amore; / amore di vero ben pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolore». La chiave di tutta la Summa – ossia la costruzione più mirabilmente pensata e connessa –, è proprio in questa intelligenza che è letizia, perché è la gioia di ogni essere dotato di intelligenza.
Così le controversie, le discussioni, le insidie quasi non hanno lasciato traccia nella Summa. Anzi, ogni controversia, ogni discussione, ogni insidia è diventata come il materiale da costruzione, nel sillogismo tomistico. Ne risulta che la Summa è come un poema, con un ritmo costante e tranquillo. Ogni verità è discussa, messa in dubbio, provata e infine definita attraverso quelle luminose strofe dei “videtur” (sembra), dei “sed contra” (in contrario), infine dei “respondeo” (rispondo) e delle “soluzioni”.
Proprio questo “poema”, dove l’intelligenza è illuminata dalla fede e dalla grazia, depose in favore della sua santità. Giunto alla morte non ancora cinquantenne, il 7 marzo 1274, egli aveva dichiarato che “a confronto di quanto aveva visto [= il mondo di Dio], le sue opere gli sembravano solo vile paglia”. Ma quali non potevano essere le sue virtù eroiche? Il Crocifisso stesso aveva elogiato la sua opera dicendogli: «Hai scritto bene di me». Nessuno negava la sua umiltà, la sua angelica purezza, la sua obbedienza, la sua povertà, il suo spirito di semplicità, di infanzia nello spirito. Era stato un eccellente cattolico, un ottimo religioso, ma questo non appariva sufficiente a decretargli gli onori degli altari. Si diceva che “il bue muto” era rimasto muto anche dopo la sua morte, astenendosi dal fare strepitosi miracoli.
Ma il papa Giovanni XXII, volendolo canonizzare, alle obiezioni canoniche rispose: «Tommaso ha illuminato la Chiesa più di tutti gli altri Dottori e un uomo fa più profitto sui suoi libri in un solo anno, che non sulle dottrine degli altri per tutto il tempo della sua vita».
Anche oggi la luce da cui può partire una nuova primavera della Chiesa, non viene dalla cosiddetta “aria fresca” del pensiero moderno, che subito si rivela gelida e distruttiva di ogni verità e di ogni frutto, ma solo dal Cristo accolto dalla filosofia e dalla teologia perenne di Maestro Tommaso. Così insegna il Magistero della Chiesa: citiamo tra tutti quelli che gli hanno reso omaggio, i Pontefici Leone XIII, san Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, che lo hanno definito “garante della Fede cattolica”.
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