Dunque i cristiani nella provincia di Raqqa adesso devono anche pagare la jizya, la tassa islamica per ottenere «protezione». A metterlo nero su bianco - come riferito l'altro giorno da AsiaNews - è stato Abu Bakr al-Baghdadi, il leader dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis), la formazione jihadista che ha la sua roccaforte in questa città di 200 mila abitanti dell'est della Siria. Al Baghdadi ha emesso un vero e proprio editto in cui elenca in dodici punti molto precisi lo «status» dei cristiani nel suo territorio.
Basta leggere i primi tre per coglierne appieno il tono: «I cristiani - enuncia - nelle loro città e in periferia non devono costruire un monastero, una chiesa o un eremo e non devono ricostruire quelli che sono caduti in rovina. Non devono mostrare la croce o alcuna delle loro scritture in qualsiasi strada o mercato dei musulmani e non devono utilizzare alcun mezzo per amplificare le loro voci quando chiamano alla preghiera o durante gli altri loro atti di culto. Non devono far sentire ai musulmani la lettura dello loro scritture o il suono delle loro campane, anche se le suonano dentro le chiese». Quanto poi alla jizya se ne decreta il pagamento due volte all'anno e viene «modulata» in base alla ricchezza: quattro dinar d'oro per i cristiani ricchi, la metà per la classe media e un quarto per i poveri. Con una postilla se possibile ancora più inquietante: «a condizione che non nascondano nulla sullo stato dei loro affari». Non ci vuole molto a immaginare - in un posto in cui l'indice Isee lo stabilisce la forza delle milizie - il tipo di arbitri a cui una formulazione del genere può aprire la strada.
L'aspetto più beffardo di tutto questo è la presenza nella premessa dell'editto del riferimento alla protezione dei luoghi santi dei
cristiani. Vale la pena di ricordare, infatti, che Raqqa è proprio la città da cui - appena qualche mese fa - sono arrivate le immagini della chiesa di Nostra Signora dell'Annunciazione con la croce abbattuta e sostituita dalla bandiera nera di al Qaeda (prima che l'Isis entrasse in collisione perfino con Ayman al Zawahiri). La stessa chiesa che alcune testimonianze da Raqqa raccontano essere stata trasformata in prigione e luogo di tortura.
È poi molto significativo il modo in cui al Baghdadi si firma nell'editto: si presenta come l'amir al-mu’mineen, cioè il «comandante dei fedeli» che è uno dei titoli tradizionali del califfo. Perché il suo sguardo va ben oltre Raqqa: l'obiettivo è appunto l'istituzione di un califfato nella zona da lui controllata. Anche perché la provincia siriana in questione non è il primo posto dove impone la jizya: lo ha già fatto nel quartiere di al Dura a Baghdad o nelle aree del nord-ovest dell'Iraq controllate dalle sue milizie; in Siria lo aveva già fatto al Tel Abyad. E ieri nel suo blog Joshua Landis segnalava un tweet di un account legato all'Isis in cui si esprime l'intenzione di estendere presto le stesse regole anche alla provincia di Hassakeh.
A dire il vero di tweet ce ne sarebbe anche un altro che dice «Oggi a Raqqa domani a Roma»; ma questo forse è più corretto catalogarlo alla voce deliri di onnipotenza. Anche perché proprio mentre faceva la voce grossa con i cristiani di Raqqa, sul terreno in Siria ieri l'Isis batteva in ritirata. Perché - come accennavamo sopra - da settimane ormai è in aperta battaglia non solo con l'Esercito siriano libero (la formazione semi ufficiale dei ribelli, riconosciuta come un interlocutore dall'Occidente) ma anche con le altre milizie islamiste. E Jabat al Nusra - il gruppo che oggi gode della «benedizione» di al Zawahiri, il leader di al Qaeda - gli ha dato cinque giorni di tempo per ritirarsi dalla zona strategica tra Aleppo e il confine con la Turchia. Ordine al quale il potenziale califfo ha subito ubbidito, anche perché a lui continua a interessare soprattutto l'Iraq.
Quindi oggi gli altri islamisti potranno dire di avere vinto la guerra interna con i «traditori» dell'Isis, che sono presentati sempre più spesso come gli alleati di Assad. Ma l'altra faccia della medaglia è che al Baghdadi potrà rimanere indisturbato a Raqqa, che è poi insieme ad Hassakeh la provincia siriana più vicina all'Iraq. Il che non è esattamente una buona notizia per i cristiani locali che - indipendentemente dal fatto che il personaggio in questione sia un qaedista, un aspirante califfo o la longa manus di Assad - la jizya a lui si troveranno comunque a doverla pagare.
Basta leggere i primi tre per coglierne appieno il tono: «I cristiani - enuncia - nelle loro città e in periferia non devono costruire un monastero, una chiesa o un eremo e non devono ricostruire quelli che sono caduti in rovina. Non devono mostrare la croce o alcuna delle loro scritture in qualsiasi strada o mercato dei musulmani e non devono utilizzare alcun mezzo per amplificare le loro voci quando chiamano alla preghiera o durante gli altri loro atti di culto. Non devono far sentire ai musulmani la lettura dello loro scritture o il suono delle loro campane, anche se le suonano dentro le chiese». Quanto poi alla jizya se ne decreta il pagamento due volte all'anno e viene «modulata» in base alla ricchezza: quattro dinar d'oro per i cristiani ricchi, la metà per la classe media e un quarto per i poveri. Con una postilla se possibile ancora più inquietante: «a condizione che non nascondano nulla sullo stato dei loro affari». Non ci vuole molto a immaginare - in un posto in cui l'indice Isee lo stabilisce la forza delle milizie - il tipo di arbitri a cui una formulazione del genere può aprire la strada.
L'aspetto più beffardo di tutto questo è la presenza nella premessa dell'editto del riferimento alla protezione dei luoghi santi dei
cristiani. Vale la pena di ricordare, infatti, che Raqqa è proprio la città da cui - appena qualche mese fa - sono arrivate le immagini della chiesa di Nostra Signora dell'Annunciazione con la croce abbattuta e sostituita dalla bandiera nera di al Qaeda (prima che l'Isis entrasse in collisione perfino con Ayman al Zawahiri). La stessa chiesa che alcune testimonianze da Raqqa raccontano essere stata trasformata in prigione e luogo di tortura.
È poi molto significativo il modo in cui al Baghdadi si firma nell'editto: si presenta come l'amir al-mu’mineen, cioè il «comandante dei fedeli» che è uno dei titoli tradizionali del califfo. Perché il suo sguardo va ben oltre Raqqa: l'obiettivo è appunto l'istituzione di un califfato nella zona da lui controllata. Anche perché la provincia siriana in questione non è il primo posto dove impone la jizya: lo ha già fatto nel quartiere di al Dura a Baghdad o nelle aree del nord-ovest dell'Iraq controllate dalle sue milizie; in Siria lo aveva già fatto al Tel Abyad. E ieri nel suo blog Joshua Landis segnalava un tweet di un account legato all'Isis in cui si esprime l'intenzione di estendere presto le stesse regole anche alla provincia di Hassakeh.
A dire il vero di tweet ce ne sarebbe anche un altro che dice «Oggi a Raqqa domani a Roma»; ma questo forse è più corretto catalogarlo alla voce deliri di onnipotenza. Anche perché proprio mentre faceva la voce grossa con i cristiani di Raqqa, sul terreno in Siria ieri l'Isis batteva in ritirata. Perché - come accennavamo sopra - da settimane ormai è in aperta battaglia non solo con l'Esercito siriano libero (la formazione semi ufficiale dei ribelli, riconosciuta come un interlocutore dall'Occidente) ma anche con le altre milizie islamiste. E Jabat al Nusra - il gruppo che oggi gode della «benedizione» di al Zawahiri, il leader di al Qaeda - gli ha dato cinque giorni di tempo per ritirarsi dalla zona strategica tra Aleppo e il confine con la Turchia. Ordine al quale il potenziale califfo ha subito ubbidito, anche perché a lui continua a interessare soprattutto l'Iraq.
Quindi oggi gli altri islamisti potranno dire di avere vinto la guerra interna con i «traditori» dell'Isis, che sono presentati sempre più spesso come gli alleati di Assad. Ma l'altra faccia della medaglia è che al Baghdadi potrà rimanere indisturbato a Raqqa, che è poi insieme ad Hassakeh la provincia siriana più vicina all'Iraq. Il che non è esattamente una buona notizia per i cristiani locali che - indipendentemente dal fatto che il personaggio in questione sia un qaedista, un aspirante califfo o la longa manus di Assad - la jizya a lui si troveranno comunque a doverla pagare.
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