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domenica 13 luglio 2014

Unità dei cristiani antidoto al relativismo

di Romano Scalfi  13-07-2014 

Fra le cose che il Signore ci domanda c’è certamente l’unità dei cristiani nel suo nome: «Che siano una sola cosa perché il mondo creda». È un richiamo che vale per tutti i tempi e tutte le situazioni, ma urge particolarmente oggi nel clima di una cultura dove domina un relativismo disgregante che tende a rendere disumana la società.

Particolarmente oggi ci rendiamo conto dell’insufficienza di ogni ragionamento; le prediche, come l’educazione familiare, sono sempre meno incidenti. Sono particolarmente attuali le parole che ci provengono dalla tradizione orientale: «La verità non si dimostra, ma si mostra». I cristiani, pochi o tanti che siano, sono soprattutto oggi chiamati a dar «spettacolo» di unità, anche per salvare il mondo dallo scetticismo, dal caos e dalla disperazione.
L’unità, come ogni cosa buona e sana, parte sempre dal basso, o meglio dal profondo, dal cuore dell’uomo, dalla mia responsabilità. Non crediamo in tecniche inventate con disinvoltura dall’alto che sostituiscono all’esperienza di unità discorsi semplicemente razionali. La tecnica moderna ha certamente avvicinato gli uomini e creato possibilità di contatti che un secolo fa sembravano impossibili, ma le persone oggi più che mai vivono il travaglio della solitudine e della separazione, quando non si arriva alla disperazione
L’esperienza del samizdat (letteralmente “editoria clandestina”, un movimento di solidarietà per la dignità, la libertà e la responsabilità di ogni persona in alternativa  al sistema sovietico) ha dimostrato che una società si può cambiare in meglio senza ottenere il permesso dagli uomini che detengono il potere, senza usare violenza, senza illudersi, ma semplicemente vivendo la verità della persona umana che nasconde un potenziale immenso. «Vivere nella verità», aveva detto Havel, è il fondamento per cambiare il mondo.
Il fondamento dell’ecumenismo, la sua prima verità consiste nel riconoscere con semplicità e ardore quell’unità che ha instaurato Cristo venendo a vivere su questa terra. Io, in prima persona sono chiamato a
credere e vivere quell’unità che Cristo mi ha regalato e costituisce la mia identità. «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me». Questa unità divinizzante non si capisce con la ragione, ma si alimenta con l’amore. È dettata da un cuore che si spalanca a Colui che ci ha amati, e ci ama, per primo; così da  intravvedere il Suo volto in ogni aspetto della realtà che Lui ha trasfigurato con la sua Nascita, Morte e Resurrezione.
Uniti a Cristo siamo trasferiti nella sua Vita trinitaria dove troviamo, uniti dall’amore divino, tutti i fratelli cristiani. Creati ad “immagine e somiglianza” di Dio, che è relazione d’amore di Tre Persone, portiamo nel profondo di noi l’esigenza  a creare con altre persone un rapporto d’amore. Con  Cristo questa esigenza di rapporto affettuoso si trasforma in “divinizzazione” (Theosis, come la chiamano i Padri della Chiesa). Questa si compie misticamente nel cuore del cristiano che si apre alla fede e si esprime visibilmente nella Chiesa, che ha nell’Eucarestia l’espressione più alta dell’Unità divino-umana.
Sia nella Chiesa ortodossa russa, come nella Chiesa ortodossa greca si sta rilanciando  un ecumenismo eucaristico dal quale fioriscono comunità che fanno esperienza della “bellezza” di vivere insieme con Cristo. Comunità belle, come dice la tradizione bizantina: il santo più che buono è bello, perché solo nella bellezza di vivere in comunione con Cristo e con i fratelli rinasce il gusto affascinante della vita.
Solov’ev, Florenskij e Bibikin (tre grandissimi teologi e filosofi russi del XIX-XX secolo) sono concordi nel dire che non c’è bisogno di inventare l’unità fra cattolici e ortodossi, è sufficiente riconoscerla: la stessa Eucaristia è il vincolo divino che ci unisce.

Una certa tendenza che proviene da alcuni protestanti non crede realizzabile l‘unione dei cristiani su questa terra e preferisce trasferirla nell’aldilà. Dobbiamo - dicono - accontentarci realisticamente di “alleanze strategiche” che dimentichino le differenze teologiche fondamentali e puntino su tecniche suggerite da impegni sociali: questa riduzione avrebbe anche il merito di superare i limiti dell’unità fra i cristiani e spalancarsi alla fratellanza universale, come richiederebbe tra l’altro anche la situazione sociale moderna. Certamente le “alleanze strategiche” sono possibili e possono essere positive, e per queste non occorre disturbare l’Eucarestia. Ma sostituire “l’invenzione” di Cristo con tecniche semplicemente umane ci spalanca tranquillamente alla torre di Babele.

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