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lunedì 18 agosto 2014

"Una Chiesa senza identità non può dialogare con gli altri"

Ai vescovi asiatici riuniti nel Santuario di Haemi, Papa Francesco rivolge l'invito a "riappropriarci della nostra identità di cristiani". E mette in guardia da relativismo, cultura dell'effimero e arroccamento   

Citta' del Vaticano,      Federico Cenci |

Un luogo piccolo ma dal grande significato. È quello in cui oggi, nel suo quarto giorno di visita in Corea, si è riunito papa Francesco con 68 vescovi provenienti da 35 Paesi dell’Asia. Si tratta del Santuario di Haemi, immerso nel verde e in una silenziosa pace, ma che ha conosciuto, nel 1868, il martirio di 132 cattolici, molti sepolti vivi e la maggior parte dei quali rimasti senza nome.
“La loro testimonianza di carità - ha esordito nel suo discorso ai vescovi papa Francesco - ha portato grazie e benedizioni alla Chiesa di Corea ed anche al di là dei suoi confini: le loro preghiere ci aiutino ad essere pastori fedeli delle anime affidate alla nostra cura”. E fuori dai confini della Corea c’è un Continente sterminato, “nel quale - ha ricordato il Papa - abita una grande varietà di culture”. In un simile contesto, “la Chiesa è chiamata ad essere versatile e creativa nella sua testimonianza al Vangelo, mediante il dialogo e l’apertura verso tutti”.
Apertura che deve coinvolgere “la mente e il cuore” per instaurare una “sincera accoglienza verso coloro ai quali parliamo”, ma che non può prescindere dal mantenere salda la propria identità come Chiesa. “Se vogliamo comunicare in maniera libera, aperta e fruttuosa con gli altri, dobbiamo avere ben chiaro ciò che siamo - il monito del Papa -, ciò che Dio ha fatto per noi e ciò che Egli richiede da noi”.
È tuttavia un esercizio impervio, quello di “appropriarci della nostra identità e di esprimerla”. Il Vescovo di Roma segnala tre tentazioni dello “spirito del mondo” che ostacolano i nostri tentativi. Anzitutto, richiamandosi a un tema chiaro al suo predecessore Benedetto XVI, fa riferimento al relativismo, “abbaglio ingannevole”, che “oscura lo splendore della verità e, scuotendo la terra sotto i nostri piedi, ci spinge verso sabbie mobili, le sabbie mobili della confusione e della disperazione”.
Il Papa si sofferma su questa tentazione che “nel mondo di oggi colpisce anche le comunità cristiane, portando la gente a dimenticare che ‘al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli’ (Gaudium et spes, 10; cfr Eb 13,8)”. Un relativismo inteso non solo come “sistema di pensiero”, ma anche come realtà quotidiana che, “in maniera quasi impercettibile, indebolisce qualsiasi identità”.
Strettamente legata al relativismo è la superficialità. Che il Papa indica in quella “tendenza a giocherellare con le cose di moda, gli aggeggi e le
distrazioni piuttosto che dedicarsi alle cose che realmente contano”. La cultura che “esalta l’effimero e offre numerosi luoghi di evasione e di fuga” costituisce “un problema pastorale”. Superficialità che, nei ministri della Chiesa, può manifestarsi anche “nell’essere affascinati dai programmi pastorali e dalle teorie”, tralasciando però l’incontro diretto, specialmente con i giovani, “che hanno invece bisogno di una catechesi e di una sicura guida spirituale”.
Sicurezza che può garantire solo il “radicamento in Cristo”, senza il quale “la pratica delle virtù diventa formalistica e il dialogo viene ridotto ad una forma di negoziato, o all’accordo sul disaccordo”.
Al “negoziato” si contrappone l’irrigidimento, che il Papa indica nella terza tentazione, definita appunto “l’apparente sicurezza di nascondersi dietro risposte facili, frasi fatte, leggi e regolamenti”. Il Santo Padre ricorda che “la fede per sua natura non è centrata su se stessa, la fede tende ad ‘andare fuori’”. Essa “fa nascere la testimonianza” e “genera la missione”. In questo senso - ha spiegato il Papa - “la fede ci rende capaci di essere al tempo stesso coraggiosi e umili nella nostra testimonianza di speranza e di amore”.
Una testimonianza di “speranza e di amore” che deve riflettersi nell’invito di San Pietro, il quale “ci dice che dobbiamo essere sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi” (cfr. 1 Pt 3,15).
Per riassumere, il Papa ha dunque affermato che “la fede viva in Cristo” costituisce “la nostra identità più profonda”. È da questa che “prende avvio il nostro dialogo” il quale deve avvenire “senza esitazione o paura” poiché “Cristo è la nostra vita”. E, ha aggiunto il Pontefice,  “la semplicità della sua parola diventa evidente nella semplicità della nostra vita, nella semplicità del nostro modo di comunicare, nella semplicità delle nostre opere di servizio e carità verso i nostri fratelli e sorelle”.
Ma l’identità dei cristiani - ha tenuto a precisare ancora il Papa - si contraddistingue perché “è feconda”. Il Vescovo di Roma, per incalzare le loro coscienze, ha dunque posto una domanda ai presuli asiatici: “L’identità cristiana delle vostre Chiese particolari appare chiaramente nei vostri programmi di catechesi e di pastorale giovanile, nel vostro servizio ai poveri e a coloro che languiscono ai margini delle nostre ricche società e nei vostri sforzi di alimentare le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa?”.
Infine, il Pontefice ha ricordato che elemento preminente del dialogo è l’empatia. “La sfida che ci si pone - ha detto - è quella di non limitarci ad ascoltare le parole che gli altri pronunciano, ma di cogliere la comunicazione non detta delle loro esperienze, speranze e aspirazioni, delle loro difficoltà e di ciò che sta loro più a cuore”. Una empatia che va al di là dall’ascolto delle parole, “dev’essere frutto del nostro sguardo spirituale e dell’esperienza personale, che ci porta a vedere gli altri come fratelli e sorelle”. In questo senso - ha aggiunto - “il dialogo richiede da noi un autentico spirito ‘contemplativo’ di apertura e di accoglienza dell’altro”.
Di qui scaturisce un’esperienza “di fraternità e di umanità condivisa”, un “genuino incontro” in cui “il cuore parla al cuore”. Il papa cita Giovanni Paolo II, per sottolineare che “il nostro impegno per il dialogo si fonda sulla logica stessa dell’incarnazione: in Gesù, Dio stesso è diventato uno di noi, ha condiviso la nostra esistenza e ci ha parlato con la nostra lingua” (cfr. Ecclesia in Asia, 29). Papa Francesco si augura dunque che questo spirito possa animare presto il rapporto tra la Santa Sede e i Paesi dell’Asia che ancora non hanno “una relazione piena” con il Vaticano.
“Quando guardiamo al grande Continente asiatico - ha infine detto il Pontefice ai vescovi -, con la sua vasta estensione di terre, le sue antiche culture e tradizioni, siamo consapevoli che, nel piano di Dio, le vostre comunità cristiane sono davvero un pusillus grex, un piccolo gregge, al quale tuttavia è stata affidata la missione di portare la luce del Vangelo fino ai confini della terra”.

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