di mons. Luigi Negri
arcivescovo di Ferrara
arcivescovo di Ferrara
È un fatto enorme questo gigantesco esodo in massa di cristiani espulsi dai luoghi dove da millenni era radicata la presenza cristiana, esclusivamente perché cristiani.
Quindi per quello che la tradizione cattolica chiama l'odio della fede. E questo deve essere detto esplicitamente: non sono soltanto buttati fuori dalle loro case, privati di tutti i loro beni, privati di tutti i loro diritti e quindi della possibilità di sussistenza; ma la ragione di tutto questo è la fede.
E questo i cristiani, la Chiesa, non possono non sentirlo come un evento terribile e insieme grandioso, perché è l'evento del martirio.
Ho ascoltato con molta gratitudine gli interventi di papa Francesco, così forte, così appassionato e insieme così profondamente compreso di dolore, di compassione. Con non meno gratitudine ho letto la lunga intervista del cardinale Kurt Koch all'Osservatore Romano, che ha offerto un momento di dolorosa riflessione su questo evento. Non si capisce perché alcune cose vengano chiamate Shoah e per queste non venga usato lo stesso termine, che dice di una spaventosa e dissennata ideologica violenza contro l'altro semplicemente perché ha una posizione religiosa diversa dalla propria.
Ma il cardinale Koch ha insistito su un aspetto che non è sempre in primo piano negli interventi del mondo cattolico. Il problema è che c'è una grande difficoltà a una denuncia esplicita. I responsabili di questi spaventosi avvenimenti hanno nomi e cognomi espliciti, e non soltanto quelli degli ultimi, degli epigoni di questa vicenda di criminalità ideologica. Ma c'è una tradizione che risale lungo i secoli della presenza islamica nel Medio Oriente e in Europa.
Ora, il cardinale Koch dice che dovremmo essere più coraggiosi nella denuncia. Ecco, il coraggio è sempre un elemento fondamentale per una presenza cristiana, ma più che mai in un momento come questo. Il
coraggio è un aspetto della testimonianza cristiana, è un aspetto fondamentale dell'impatto con la realtà del mondo e degli uomini che ci vivono. Queste responsabilità dunque devono essere dette e proclamate, altrimenti anche le denunce e la volontà di condividere la situazione tremenda di tanti nostri fratelli rischiano di essere parziali.
Certamente noi occidentali, in particolare noi cristiani di questo Occidente che giustamente negli ultimi tempi è stato indicato come caratterizzato da una profonda stanchezza, rischiamo di non affrontare la realtà secondo tutti i suoi fattori. Soprattutto cerchiamo di nascondere o quantomeno di ridurre l'impatto con questo mondo islamico che, ci piaccia o no, ha la responsabilità storica di questi eventi oggi come lungo i secoli che hanno preceduto questo ultimo.
Forse c'è una prevalenza della volontà di dialogo a ogni costo che deprime la verità. E un dialogo senza la verità o che non parta dalla verità non è un dialogo: è un compromesso, è una connivenza, è un'ignavia.
Ricordo ancora gli interventi di papa Benedetto XVI nel corso dell'indimenticabile Sinodo sulla nuova evangelizzazione quando intervenne dicendo che «il dialogo è in misura della forza della propria identità»; e la forza della propria identità è la pienezza della coscienza critica della propria identità. Il dialogo è espressione di una cultura: il dialogo non produce cultura, la esprime.
Ci nascondiamo o rischiamo di nasconderci di fronte a questa terribile minaccia che incombe sull'Occidente, e non solo sull'Occidente, facendo un po' quello che hanno fatto le cosiddette democrazie liberali borghesi nei confronti della terribile vicenda hitleriana, nei tempi immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale. Non avere il coraggio di questa denuncia è esattamente nella misura della debolezza della fede. Il resto finisce per essere solo un vaniloquio. La Chiesa non ha bisogno di vaniloqui e, per quanto mi risulta, neanche Dio.
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