di Padre Luca (Cambogia) 
Dopo alcuni mesi, dovendo passare dal Centro dei gesuiti, ne approfitto per chiedere di Vuon.  Lo chiamano e quando mi vede è tutta una festa, mi presenta  i suoi  amici, mi fa vedere la casetta dove vive e mi spiega che nel frattempo  ha iniziato il corso di agricoltura e allevamento. La stessa scena si  ripete quando ritorno dopo un paio di mesi, stavolta però mi fa  conoscere anche i suoi insegnanti e mi porta a visitare i porcili e i  pollai. Mi viene allora un’idea: proprio in quelle settimane, con il Consiglio Pastorale stiamo valutando la possibilità di iniziare un piccolo progetto di allevamento di polli e maiali;  ne parlo con padre Indoon, giovane gesuita coreano responsabile del  Centro. All’occasione successiva faccio la proposta a Vuon. È  felicissimo. Fra poco concluderà il corso e non gli sembra vero di avere  già un lavoro.
Il giorno che andiamo insieme a Kdol Leu, Vuon è tutto emozionato, durante il viaggio in macchina mi 
sommerge di idee per il nostro progetto. Si mette subito al lavoro: porcile, pollaio, casetta per anatre e tacchini... Non perde tempo. Ogni mattina, prima di iniziare le attività, partecipa anche alla Messa. Non è cristiano ma gli piace (...all’inizio aveva scambiato la chiesa per un ospedale, e non è l’unico!). Ascolta attentissimo le letture, e anche la mia omelia (e qui forse è proprio l’unico!). Una mattina durante la colazione mi dice: «Stamattina finalmente ho capito: Dio Padre ha mandato Gesù suo Figlio per salvarci!». Rimango sbalordito. Quella mattina a Messa erano venuti in due, lui e l’immancabile Jei Niang. All’omelia mi ero imposto di dire comunque un pensiero e, mezzo tramortito dal sonno, avevo sbiascicato appunto quel concetto, vergognandomi un po’ perché mi sembrava il più banale del mondo. E guarda invece che effetto aveva avuto su Vuon.
sommerge di idee per il nostro progetto. Si mette subito al lavoro: porcile, pollaio, casetta per anatre e tacchini... Non perde tempo. Ogni mattina, prima di iniziare le attività, partecipa anche alla Messa. Non è cristiano ma gli piace (...all’inizio aveva scambiato la chiesa per un ospedale, e non è l’unico!). Ascolta attentissimo le letture, e anche la mia omelia (e qui forse è proprio l’unico!). Una mattina durante la colazione mi dice: «Stamattina finalmente ho capito: Dio Padre ha mandato Gesù suo Figlio per salvarci!». Rimango sbalordito. Quella mattina a Messa erano venuti in due, lui e l’immancabile Jei Niang. All’omelia mi ero imposto di dire comunque un pensiero e, mezzo tramortito dal sonno, avevo sbiascicato appunto quel concetto, vergognandomi un po’ perché mi sembrava il più banale del mondo. E guarda invece che effetto aveva avuto su Vuon.
Un venerdì di Quaresima, durante la Via Crucis, vedo Vuon stare dietro a tutti. Forse non capisce cosa stiamo facendo, penso. Arrivati  a metà, mi accorgo che Vuon è sempre indietro di una stazione, e si  ferma a guardare fisso con gli occhi spalancati i quadretti con le  immagini di Gesù che porta la croce. Rimango molto colpito e il  giorno dopo gli chiedo come sia andata. Mi dice: «Padre, Gesù ha  sofferto proprio tanto. Lui sì che può capire le mie sofferenze...». Inizia a raccontarmi dei suoi genitori, morti insieme su una mina anti-uomo  mentre andavano a fare legna nella foresta, quando lui aveva appena tre  anni. Mi racconta di come, essendo figlio unico, sia stato affidato al  capo tribù del suo gruppo etnico, una specie di stregone, e di come un  giorno si sia infilato in una camionetta di militari per andare a Phnom  Penh a cercare fortuna. Arrivato nella capitale, viene preso sotto la  protezione di un uomo senza scrupoli che lo manda in giro a chiedere  l’elemosina e poi, alla sera, gli porta via tutto il ricavato. Vuon riesce a muoversi solo a gattoni, a causa di una poliomielite avuta qualche anno prima, è indifeso e in balìa degli altri.  Spesso per la fame è costretto a mangiare quello che trova per terra,  come ad esempio i resti dei panini lasciati dai turisti. Molti suoi  compagni di strada fanno uso di droghe, sniffano la colla da scarpe, ma  lui si oppone, e per questo viene picchiato e isolato. Alcuni di loro  moriranno in quegli anni. Vuon resiste, finché un giorno una signora lo  vede per strada e prova compassione. Si tratta di una donna  svizzera che lavora in Cambogia per progetti sociali, conosce alcuni  chirurghi e propone a Vuon di tentare un’operazione per farlo camminare.  L’operazione riesce. Finalmente riprende a camminare sulle sue gambe  seppure con una certa fatica. Dopo alcuni mesi, dopo aver trovato lavoro  in una piantagione di verdure, incontra per caso padre Gerald,  missionario francese, che gli propone di studiare al Centro per disabili  dei Gesuiti. Vuon accetta e si sposta là. 
Io ascolto Vuon commosso, altroché se ha capito il senso della Via Crucis! Durante i suoi primi cinque-sei mesi con noi, è sempre raggiante, contento e orgoglioso del suo lavoro. Ma un giorno, accade l’imprevisto: muore una delle due scrofe. Vuon mi telefona piangendo a dirotto per darmi la notizia.  Cerco di consolarlo, ma da quel momento qualcosa in lui cambia, non è  più gioioso come prima. Nei mesi successivi iniziano ad arrivarmi voci  che, quando io non sono al villaggio, è spesso ubriaco e ne dice contro tutto e tutti.  Resto sorpreso e stento a crederci perché quando gliene parlo sembra  invece tutto a posto. Finchè un giorno le prove sono lampanti, ed è  addirittura il nostro Vescovo ad esserne testimone. Si decide che Vuon  non possa più rimanere con noi, la situazione è troppo compromessa.  Viene allora accolto da una coppia del nostro villaggio che ha un  progetto sociale in città. Ma anche lì, la stessa storia. Vuon è il  primo ad esserne afflitto, si rende conto del problema e si dispera. C’è però una piccola luce ora a sostenerlo: ha con sé un’immaginetta di Gesù, in quei momenti la guarda e si sente consolato.  Purtroppo però deve andarsene anche da là, decide allora di tornare a  Phnom Penh per cercare un nuovo lavoro. Continuiamo a sentirci per  telefono, ma dopo alcune settimane ne perdo le tracce. Finché un giorno  mi chiama: «Padre, sono a Siam Reap, sto lavorando in un progetto  agricolo dei gesuiti!». Sono contento per lui, e spero che stavolta vada  tutto bene. Ma dopo un paio di mesi, mi richiama per dirmi che è  passato ad un altro progetto agricolo gestito da un giovane cattolico  filippino. Penso: «Ecco, ci risiamo...». Rimango allora in attesa di una  terza telefonata per sentirmi dire che ha cambiato ancora una volta  lavoro. E invece non arriva. Mi chiama sì, ma per dirmi che sta bene, che lavora ed è contento. E poi, un bel giorno, per dirmi che... ha trovato moglie! 
Vuon e Mom si sposano secondo il rito semplice dei poveri, e presto arriva anche una bella bimba. Vivono in una capanna ma iniziano subito a mettere da parte i soldi per farsi una casetta.  Il suo datore di lavoro mi conferma che Vuon si sta veramente dando  molto da fare, ha anche iniziato un cammino di catechesi con sua moglie,  e non beve più da parecchio tempo. In quel periodo, mi telefona spesso, sento in sottofondo i vagiti della piccola, la voce della mamma. Vorrebbe venire a salutarci a Kdol Leu, perché sono più di due anni che non ci vediamo, ma è troppo lontano.
Poi,  due settimane fa, ecco l’occasione: nei documenti ha ancora la  residenza qui con noi e deve cambiarla. Ne approfitta per venire con  tutta la famiglia. Arrivano e... sorpresa: non sono in tre ma in quattro! Perché c’è anche un altro bimbo,  il figlio avuto da Mom con un uomo che poi l’ha abbandonata al terzo  mese di gravidanza. Parliamo a lungo, mi raccontano tante cose. Vuon mi  dice che ora, quando si trova qualche soldo in tasca, non riesce più a spenderlo per sé,  perchè gli viene subito in mente la sua piccolina e quello di cui  potrebbe avere bisogno. Mentre li ascolto, ripenso dove era Vuon solo  qualche anno fa e provo tanta ammirazione per lui. Quando ci lasciamo,  consegno loro un aiuto per completare la loro nuova casetta, gli spiego  che non sono soldi miei ma dei tanti amici che ci aiutano dall’Italia. Vuon con le lacrime agli occhi ringrazia Dio e promette di pregare ogni giorno per questi amici. 
Quando penso a Vuon, penso ad una persona in cammino: avrebbe  mille ragioni per fermarsi, prendersela con la vita, rivendicare tutto  quello che non ha avuto, e invece va avanti, con il suo passo  strascinato a causa della poliomelite e di altre ferite ben più profonde che solo Dio conosce, va avanti. Penso a sua moglie Mom e a Somnang (in khmer  significa “Fortunato”) suo primo figlio. E penso alla loro bimba,  Maria. Hanno infatti voluta chiamarla così in onore della mamma di Gesù.  
Ripenso allora anche alla Vergine Maria e al suo sposo  Giuseppe, che di sandali ne devono avere consumati tanti per le strade  di Israele, in un cammino interiore ben più lungo e faticoso:  quello della speranza e della fiducia, perché la vita è in mani ben più  grandi delle nostre e io sono immerso in un progetto buono, in un  infinito desiderio di bene che riesce a ricucire strappi troppo grandi e  sanare ferite troppo profonde. C’è quindi da avere, come Maria e  Giuseppe, e come Vuon, sempre tanta speranza. È quello che vi auguro di  cuore per questo Natale.
 
 
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