Pagine

venerdì 26 febbraio 2021

 


NEMICI ACCOLTI NELLA GIUSTIZIA DELLA CROCE CHE CI FA AMICI PER GIUSTIFICARE CHI CI E' ACCANTO
La giustizia. Cercare, farsi, volere giustizia. Rivoluzioni, sistemi, ideologie, tutte in nome della giustizia. E le nostre riunioni di condominio, e i turni in ufficio, la scelta dei periodi di ferie, e i furieri in caserma, i professori, gli studenti, primo-secondo-terzo figlio, tribunali e mani pulite, di tutto e di più in nome della giustizia. Tutti a cercare giustizia, mentre tutti, inconsapevolmente, siamo già giustificati gratuitamente per mezzo di Gesù, la Giustizia di Dio. L'ingiustizia più grande a far giusti gli ingiusti. La Croce, la Roccia sulla quale si infrange ogni tsunami malvagio di morte. L'amore che fa giustizia d'ogni sofferenza, dolore, peccato.
Sì, perché qualcuno ce l'aveva con Lui. Il mondo intero aveva "qualcosa contro di Lui". Ogni uomo, avvelenato dagli inganni del demonio, ce l'aveva con Dio. Chi per il dolore, la malattia, il mobbing, il razzismo, i campi di concentramento, le torture, la guerra, la droga, le violenze, i disastri naturali, le incomprensioni, gli affetti che tradiscono, le pugnalate alle spalle da parte di chi credevamo un amico, un fratello, la solitudine aspra: il male spazza via dal cuore e dalla mente dell'uomo il volto di Dio e tutto precipita in un abisso senza senso. E la vita si trasforma in un'enorme ingiustizia: vivere per morire, vivere per soffrire. No. Non è possibile. Dio, se c'è, è un mostro, il peggiore. Viva Barabba allora, viva chi si fa avanti con slogan e sofismi promettendoci di strapparci all'ineludibile sorte del topo. A morte l'ingiusto che ha generato l'ingiustizia.
E morte è stata, per il Giusto. La Giustizia denudata, fustigata, annichilita, crocifissa. La Giustizia giustiziata su di un patibolo. La Giustizia assassinata e sepolta. La Giustizia discesa agli inferi. L'ingiustizia più grande. Ma proprio in essa Dio ha compiuto il miracolo più grande e sorprendente, distruggendo l'ingiustizia con la giustificazione che salva. Ad ogni uomo preda dell'ingiusto serpente, schiavo del peccato e della morte, è stato svelato l'inganno: il male non è l'ultima parola. Gesù è risuscitato! L'ingiustizia non è il nostro destino autentico, anche se, per i nostri peccati, l'ingiustizia ha preso possesso del mondo.
Le parole di Gesù non sono esagerate, illuminano il disordine che il demonio ha portato nel mondo. Per antitesi Egli mette a fuoco gli angoli più recessi del cuore dell'uomo, laddove si è annidata la vera ingiustizia. La Legge consegnata a Mosè poneva un argine al male dirompente, era come un pedagogo che doveva condurre alla verità. Aver fatto della Legge, come gli scribi e i farisei, il criterio assoluto della giustizia, della pietà, della relazione con Dio, è come aver scambiato un segnale stradale per il conduttore di una macchina. Non si guida limitandosi a seguire la segnaletica. Occorre destrezza, attenzione, allenamento; occorre una capacità che superi ciò che dicono i cartelli, un'intuizione e una genialità che facciano vedere oltre, prevedere i pericoli, gli imprevisti, le difficoltà non registrate. Così la vera Giustizia non è una semplice teoria di precetti compiuti. La Giustizia a cui ci chiama oggi il Signore è quella che valica la prospettiva legalistica e lascia libero lo sguardo del cuore e della mente di spaziare oltre, inerpicandosi per sentieri sconosciuti, angusti, pericolosi. La vera Giustizia inizia laddove termina la segnaletica, come accade in montagna quando le strade divengono sterrate, tutte fossi e radici. La Legge segnala l'omicidio, il pericolo possibile prima di un incrocio, o di una curva pericolosa. La Legge ci impone di non uccidere, e su questo siamo tutti d'accordo; nessun fariseo ha mai ucciso, come nessuno di noi. Ma quando ci inoltriamo sui sentieri dove non batte il sole, quelli sdrucciolevoli e subdoli del nostro cuore, laddove nessun segnale indica il pericolo di una parola detta con superficialità, di una battuta che cela una calunnia, di un insulto che sembra fotografare la realtà, la giustizia degli scribi e dei farisei mostra i propri limiti. E' a questo segreto velenoso custodito nel cuore che puntano le parole di Gesù. E' qui che sono concepiti i pensieri malvagi che divengono parole come proiettili prima, e azioni ingiuste poi. E' nel cuore che alberga l'ingiustizia, cova il risentimento, è gestata l'incredulità. Chi si adira con il fratello lo ha già ucciso nel proprio cuore; chi lo considera stupido o pazzo ha già assassinato in lui l'immagine di Dio. Nel cuore dell'empio parla il peccato che lo trasforma in avversario di Dio. Un cuore schiavo della menzogna di satana partorirà sempre azioni malvage, senza giustizia perchè fondamentalmente dettate dall'egoismo e dall'orgoglio autosufficiente.
Per questo Gesù non fa distinzione tra omicidio e ira e insulto, perchè tutto proviene dalla stessa radice. E Lui non è venuto a sostenere l'argine malfermo della Legge eretto a difesa contro il male, lasciando una serie di precetti ancor più gravosi. Non è venuto a mettere una pezza sulle crepe di un muro. Lui è venuto a instaurare il Regno di Dio, la sua Giustizia che giunge al fondo del cuore, che non si ferma alla segnaletica delle grandi vie di comunicazione, quell'etica della quale tanti oggi si riempiono la bocca manipolandola a proprio uso e consumo. Gesù ha giustificato con il suo sangue il cuore corrotto dell'uomo, ha sanato la ferita che grondava pus velenoso. Ha reso giusto il cuore ingiusto, rendendolo capace di amare, di lanciarsi sui sentieri impervi e pericolosi che conducono al fratello più lontano, al peccatore, al nemico. Le parole del Vangelo di oggi non sono che una coniugazione della grande e decisiva profezia sull'amore al nemico. E' questa, e solo questa, la Giustizia che supera quella degli scribi e dei farisei, che compie, colma la Legge perchè la dilata laddove i criteri umani e mondani non possono arrivare, a dare la vita per chi ci odia, ci insulta, ci è avversario davvero. La Giustizia che supera il perimetro legale nel rapporto con la moglie, con i figli, con chiunque; la Giustizia che accetta addirittura che si rompa ogni argine al male, che giunga a sé il veleno dell'ingiustizia, per caricarlo, per prendere su di sé peccati degli altri, in un amore e una misericordia che abbraccia e spegne, nel perdono, ogni fiamma d'ira, ogni menzogna, ogni malvagità.
Risorto dalla morte, il Signore ci ha cercato, ha fatto di tutto per "mettersi d'accordo con noi", poveri e sperduti come i discepoli di Emmaus, suoi avversari a causa delle nostre umane speranze infrante, dei nostri desideri carnali inesauditi, della stessa Legge che limita la libertà, brandite dal demonio per sedurci e metterci contro Dio; Lui si è fatto accanto, il suo cammino sul nostro cammino per mettersi d'accordo con noi e rifondere il "denaro" che non avevamo, quella vita che doveva "pagare sino all'ultimo spicciolo" per tutto il male e tutta l'ingiustizia; Lui ha consegnato se stesso sino alla fine, all'ultimo respiro per comprare la morte e renderla innocua, e poi distruggerla per sempre. In questa esperienza il cuore arde nel petto di gioia indicibile, come i discepoli a mensa con Gesù, quando riconoscono la sua Giustizia piena di misericordia mentre spezza il suo corpo per amore. Il cuore arde perchè raggiunto dalla Giustizia che salva, libera e per questo sana ogni ferita inferta dall'avversario di Dio e dell'uomo. Il cuore trasformato nella gioia di sentirsi amati, perdonati, giustificati, perchè Lui è risorto. I nostri peccati sono stati distrutti, sepolti nella sua tomba dalla quale è risorto trionfante. Ha chiesto perdono per noi che non sapevamo quello che facevamo. Proprio lì, "prima di offrire il suo sacrificio" sull'altare della croce.
La Giustizia del Padre è stata, è e sarà sempre la misericordia. Senza di essa niente Cielo. Il suo troppo amore, la sua Giustizia si incarna anche oggi nei giustificati, in tutti noi che, passati attraverso la grande tribolazione, abbiamo lavato le vesti nel sangue dell'Agnello; è la Giustizia superiore a quella degli scribi e farisei, l'amore che fa amico il nemico. L'amore che perdona e giustifica la moglie prima di offrirsi a lei sull'altare che la storia prepara, il suo risentimento, la sua nevrosi, la sua paura; l'amore che giustifica il marito nella sua violenza, che non pretende di cambiarlo, che non esige più attenzioni, ma che si offre in olocausto per lui; l'amore che fa giusto un figlio ingiusto, guadagnandolo con la misericordia, che spesso passa per la verità e la severità non confondiamo... La Giustizia creativa, che, in Dio, supera la Legge come Egli ha fatto consegnado il suo Figlio: eravamo tutti meritevoli di ira, dovevamo essere oggi all'inferno e invece siamo nella Chiesa, salvati, giustificati, colmi di doni che non meritiamo. La Croce di Cristo ha trascinato la Giustizia di Dio al di là del suo stesso limite, sino a giustificare l'ingiustificabile. Il Vangelo di oggi ci rivela la nostra vocazione, ci attrae nella "dinamica creativa" di questa Giustizia nuova, celeste, che inventa forme nuove d'amore, tante quante sono le persone che Dio ha legato alla nostra vita. La Giustizia di Dio che, come disse il Papa in una catechesi, appare nell'episodio dell'intercessione di Abramo per gli abitanti di Sodoma e Gomorra, che egli sente legati a sé, nonostante i loro peccati: "Abramo chiede il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio... Così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva. Con la sua preghiera, dunque, Abramo non invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che, tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa anche gli empi, perdonandoli. Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia “superiore”, offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti" (Benedetto XVI, Catechesi del 18 maggio 2011).
Ecco allora un'aria nuova al condominio, al lavoro, in famiglia e dovunque, l'aria di misericordia che traspare dai figli di Abramo tratti dalla sua stessa fede, i figli della Pasqua di Cristo che li ha introdotti nella libertà di donarsi arditamente senza misura. "Per entrare nella giustizia è necessario uscire da quell'illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è l'origine stessa dell'ingiustizia. Occorre, in altre parole, un ‘esodo' più profondo di quello che Dio ha operato con Mosè, una liberazione del cuore, che la sola parola della Legge è impotente a realizzare" (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2010). Chi ama in questa Giustizia è già nel Regno dei Cieli, vive secondo lo Spirito che lo governa, dove ci si mette d'accordo offrendosi per i peccati dell'altro, perdonando senza condizioni, e non secondo le sentenze dei tribunali, i tavoli sindacali, i "dialoghi costruttivi". Il Regno dei Cieli che fa giustizia di ogni ingiustizia, innanzi tutto quella che ha dipinto Dio come un mostro ingiusto. Il Regno di Dio dove la misericordia che si fa carne e vita nei suoi figli rivela il Cielo, un amore che supera ogni male, che ribatte colpo su colpo ai fendenti del demonio, alla morte frutto del peccato: il Regno dei Cieli che trasfigura anche il cancro di un bambino, uno stupro, un terremoto, un incidente stradale. Il Regno di Dio che apre una finestra sul destino preparato per ogni uomo, più forte di ogni ingiustizia, il Cielo dell'amore eterno e infinito che ha avuto ragione del male e della morte. Il Regno dei Cieli che giustifica Dio agli occhi degli uomini, che accende la fede in mezzo all'assurdo delle tragedie, che induce a sperare contro ogni speranza, che distrugge nella serietà dell'amore la banalità di tanto male. Il Regno dei Cieli qui sulla terra, vivo nei suoi figli che rivelano il Padre mostrandosi a Lui somiglianti nella Giustizia misericordiosa che rende strumento di salvezza il dolore più grande. Che sia per tutti noi una quaresima di misericordia, per ogni nostro prossimo. Il Cielo sulla terra, verità e giustizia abbracciate e donate ad ogni nostro respiro, come "un'appiglio di bene" (Benedetto XVI) da offrire al Signore per salvare questa generazione: per questo, "i giusti devono essere dentro la città, e Abramo continuamente ripete: «forse là se ne troveranno …». «Là»: è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene che può risanare e ridare la vita. E’ una parola rivolta anche a noi: che nelle nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l’assenza di Dio" (Benedetto XVI). Il mondo attende con impazienza la Giustizia dei giustificati, l'annuncio che solo la Chiesa può offrire, scrollandosi di dosso compromessi e legalismi mondani. Questa, e solo questa Giustizia salverà l'umanità, eternamente.

mercoledì 24 febbraio 2021

 


IL SEGNO DI GIONA ILLUMINA LA MISSIONE DEI CRISTIANI IN QUESTO TEMPO DOMINATO DAL COVID. RIFLESSIONI DEL CARD. RATZINGER
Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria è la più decisa negazione del relativismo e dell’indifferenza che si possa immaginare. Anche per i cristiani di oggi vale "Alzati... e annunzia quanto ti dirò". Anche oggi deve essere annunciato l’unico Dio. Anche oggi è necessario agli uomini Cristo, il vero Giona. Anche oggi deve esserci pentimento perché ci sia salvezza. E come la strada di Giona fu per lui stesso una strada di penitenza, e la sua credibilità veniva dal fatto che egli era segnato dalla notte delle sofferenze, così anche oggi noi cristiani dobbiamo innanzitutto essere per primi sulla strada della penitenza per essere credibili. (Joseph Ratzinger 24 gennaio 2003)
“Questa generazione cerca un segno”. Anche noi aspettiamo la dimostrazione, il segno del successo, tanto nella storia universale quanto nella nostra vita personale. Pertanto ci chiediamo se il cristianesimo abbia trasformato il mondo, se abbia dato quel segno del pane e della sicurezza di cui parlava il diavolo nel deserto (Mt 4,3s). Secondo l’argomentazione di Karl Marx, il cristianesimo ha disposto di un tempo sufficiente per dimostrare i suoi principi, per provare il suo successo, per dimostrare che ha creato il paradiso terrestre; secondo Marx, dopo tanto tempo, sarebbe ormai necessario appoggiarsi su altri principi. Questa argomentazione non manca di impressionare numerosi cristiani, e molti ritengono che sia per lo meno necessario inventare un cristianesimo molto differente, un cristianesimo che rinunci al lusso dell’interiorità, della vita spirituale. Ma proprio in questo modo, impediscono la vera trasformazione del mondo, che si origina in un cuore nuovo, un cuore vigilante, un cuore aperto alla verità e all’amore, un cuore liberato e libero. Alla radice di tale richiesta sviata di un segno, c’è l’egoismo, la mancanza di purezza di un cuore che non aspetta nulla di Dio se non il successo personale e un aiuto per affermare l’assoluto dell’io. Tale forma di religiosità è rifiuto fondamentale di conversione. Eppure, quante volte anche noi dipendiamo dal segno del successo! Quante volte chiediamo il segno e rifiutiamo la conversione! (Joseph Ratzinger, Ritiro predicato al Vaticano 1983)

martedì 23 febbraio 2021

 


ABBA' - PADRE, E' QUESTIONE DI VITA O DI MORTE
Chiacchieriamo e ci piace intrattenerci con le parole. Talk-show e salotti, il piacere della parola. Soprattutto gridata, brandita come un'arma, la regina di questa società travestita come uno show, apparenza pura spacciata per "reality". Mentre la Scrittura ci rivela che il reale nasce sì da una Parola, ma dall'unica autentica, la Parola di Dio. "Sia la luce". E la luce fu. Una Parola che si compie, fatta carne nella pienezza dei tempi. Una Parola, l'unica, che salva smascherando le vuote parole di tutti noi, quelle mai pensate, sempre buttate.
Purtroppo le infiliamo spesso alla rinfusa anche nelle preghiere che sembrano sgorgare da cuori impazziti di orfani senza certezze. Per pregare davvero occorre una certezza. Una sola. Che siamo figli. «Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia» (Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in I Misteri). Per sperare e pregare senza dubitare è necessaria l'esperienza di avere un Padre nel Cielo che ci ama infinitamente, e sa tutto di noi. “Niente è più decisivo in una vita delle proprie origini. Per questo il padre rappresenta molto di più di un uomo in carne e ossa che ci ha generati. Ci dà un nome.[...] La nostra individualità, così concreta, è legata al nome che riceviamo da nostro padre, per noi sigillo, segno distintivo. Prima che esseri di ragione o di coscienza, d’istinto o di passione, siamo infatti figli" (Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima).
Alla nostra origine vi è il perdono che ha cancellato il peccato d'origine. Siamo figli della misericordia, e questo è il nome che ci distingue, il nome stesso di Dio sigillato in noi, sorgente inesauribile della nostalgia di Lui. Perchè Dio è Padre soprattutto perdonando. Basta alzare gli occhi del cuore e sussurrare "Papà", il perdono è lì. Come ha sperimentato il figliol prodigo che s'era preparato un bel discorso, parole da dire, parole per spiegare, parole per implorare. E il Padre, già da tempo alla finestra, aspetta suo figlio con il cuore traboccante di compassione, sapendo già ciò di cui il figlio aveva bisogno, il suo perdono gratuito e rigenerante. Il Padre che gli corre incontro, lo accoglie in un abbraccio e gli permette una sola parola: "Padre". L'abbraccio spegne ogni altra parola. Padre, che declina perdono, per ciascun figlio.
"Amare un essere è sperare da esso qualcosa di indefinibile, di imprecisabile, e, nello stesso tempo, è dargli, in certo modo, il modo di rispondere a tale aspettativa" (Gabriel Marcel). Attraverso la preghiera del Padre nostro Gesù ci insegna ad offrire a Dio il modo di rispondere alle nostre aspettative più profonde. Più dell'aria che respiriamo abbiamo bisogno d'amore, di misericordia e di perdono. Nostro Padre attende uno sguardo per donarci quanto ci appartiene per natura, quella nuova conquistataci dal Figlio, l'eredità che spetta ai figli. Sì, la preghiera del Padre Nostro ci svela quale sia l'immensità della nostra elezione, i tesori di Grazia preparati per i figli di Dio. E' per noi la santità del nome di Dio, la vita celeste, divina che si incarna nella nostra vita terrena, povera, fragile: ogni istante ci è dato perchè in esso sia santificato il nome di Dio, perchè ogni aspetto della nostra vita sia strappato alla corruzione e rivestito di incorruttibilità, separato dal mondo pur essendo nel mondo. E' per noi il pane quotidiano imprescindibile per vivere, la croce ricolma dell'amore di Dio, il cibo della fede adulta, la storia trasformata in un altare dove donarsi per la salvezza del mondo; il cibo sconosciuto di cui si è nutrito il Signore, compiere l'opera del Padre suo, consegnarsi per amore senza difendere nulla, nella certezza che al di là della croce vi è il cuore di Dio, l'intimità eterna con Lui. E' nostra eredità il suo Regno che giunge tra noi, il suo potere su ogni demonio, sul peccato, sul regno del male; è per noi la dignità regale, una nuova forma di pensare, di guardare, di studiare, di fidanzarsi, di sposarsi, di vivere la sessualità, il rapporto con il denaro e i beni di questo mondo, con la salute e la malattia: il Regno di DIo viene ad estendere il suo dominio sul giorno che ci attende oggi, perchè la nostra vita sia un frammento di Cielo, perchè passa la scena di questo mondo. Così è nostra eredità di figli il compiersi della volontà di Dio in noi, che fa della terra il Cielo: la casa, la famiglia, la scuola, il lavoro, l'ospedale, ogni angolo di questo mondo nel quale siamo chiamati a vivere trasfigurato nel compimento dell'originaria volontà del Padre, note di amore che compongono la sinfonia celeste anticipo della contemplazione eterna; è nostra parte di eredità la liberazione dalla tirannia del maligno; è nostra sorte deliziosa il perdono; è nostra proprietà la forza capace di abbattere la tentazione.
Come i leviti siamo nati per non possedere nulla in questo mondo, per vivere nella precarietà totale che spinge ad alzare lo sguardo e chiedere a nostro Padre la nostra eredità, la vita celeste, l'intimità con Lui, il suo Figlio: è Lui la nostra eredità, la parte che ci è riservata; è Cristo nascosto in ciascuna domanda del Padre Nostro, il Figlio nel quale si compie ogni pensiero del Padre. Quando preghiamo non sprechiamo parole solo quando imploriamo di vivere con Gesù, di essere in Lui, per Lui, con Lui.
E' vera e autentica solo la preghiera che bussa al cuore di Dio, di un Padre con le viscere di madre. Abbà, papà era l’invocazione con la quale i piccoli bambini ebrei si rivolgevano al loro padre, come ricorda il Talmud: "quando un bambino gusta il sapore del grano (cioè, quando comincia a farfugliare le prime parole), impara a dire Abbà e imma, (mamma)". Papà, si compia in me il tuo volere, è la preghiera del Figlio nel Giardino dell'angoscia, l'obbedienza fatta amore confidente. Il Padre nostro ci conduce nella stessa obbedienza del Figlio, la consegna di tutto noi stessi alla Verità che ci fa liberi. "Castificantes animas nostras in oboedentia veritatis (1 Pt. 1,22). L'obbedienza alla verità dovrebbe "castificare" la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione" (Benedetto XVI, omelia nella messa con i membri della Commissione Teologica Internazionale, 6 aprile 2006). Il Padre Nostro è la preghiera che ci fa casti nel cuore, nella mente e nella carne, per vivere rettamente, quali figli di Dio che rimangono sempre nella casa di loro Padre, liberi nel suo amore.

lunedì 22 febbraio 2021

 


SULLA CATTEDRA DELLA CROCE
«Ipse est Petrus cui dixit: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam”. Ubi ergo Petrus, ibi Ecclesia; ubi Ecclesia, ibi nulla mors, sed vita aeterna» (S. Ambrogio, Enarrationes in XII Psalmos davidicos). «Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa; dove c'è la Chiesa, lì non c'è affatto morte ma vita eterna». Pietro e la Chiesa, la vita e la fine della morte. Pietro sulla soglia del desiderio di ogni uomo, il nostro d'oggi, il più profondo, il più intenso, l'anelito che freme insopprimibile in ogni parola, pensiero, o gesto: La vita e mai più nessuna morte. I peccati stessi gridano il nostro desiderio di felicità eterna, che si tramuta purtroppo in fuga da ogni sofferenza confondendo il piacere con l'eterno esistere a cui aspiriamo. Le guerre, i divorzi, gli aborti, gli abomini genetici, e le nostre ore intrise di rabbia, malinconia, ribellioni e mormorazioni, in fondo tutto esprime la volontà di non arrendersi all'ineluttabile scorrere, spesso purtroppo in forma paradossale che sa invece proprio di morte. Ma anche quando si uccide in nome della vita, dietro l'egoismo, la paura e l'inganno, si nasconde la nostalgia di pienezza che non accetta la corruzione, e vorrebbe cancellarla, goffamente e perversamente chissà, ma è comunque un grido che getta un accorato appello alla vita che sfugge ad ogni presa. Tutti drogati di qualcosa o di qualcuno, sperando il cristallizzarsi, seppur effimero, d'un secondo almeno, un istante di tregua e di pace dove cullare le deluse speranze vissute solo in un sogno. Leopardi descriveva magistralmente i sentimenti che s’affastellano in noi: "Questo è quel mondo? questi i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano" (G. Leopardi, A Silvia). Il "vero" della storia di ogni giorno ci travolge, e ci spalanca "ignude tombe", e dolori, e lacrime, e delusioni. La vita come il cammino dei due discepoli di Emmaus, che avevano sperato in Gesù di Nazaret, profeta potente in parole ed opere, dal quale si attendevano la liberazione e che invece.... Anche Lui era chiuso in una "tomba ignuda", anche Lui "all'apparir del vero" era caduto "misero" e solo. Ed erano passati tre giorni ormai. E quelle lacrime aspre di Pietro, sgorgate dal tradimento di un amore strozzato nella paura di morire, di fare la stessa fine atroce del suo amico. Come noi, come tutti. Lacrime e delusioni, sconfitte e "ignude tombe". E nudo il Signore è sceso nella tomba, un sudario a venerarne le piaghe, e una pietra a sigillare le speranze. Tre giorni là dentro, un'eternità di silenzio. E fuori le lacrime della Maddalena, scorrevano sulla pietra che aveva recluso ogni speranza e desiderio.
E poi ecco la sera del primo giorno dopo il sabato: i chiavistelli della vita ben serrati, la stanza d’una pasqua appena volata via, all'imbrunire d'un giorno di paura, d’improvviso un volto incandescente di luce, e una voce, un saluto di Pace che trapassa i muri e i cuori. La sua voce, il suo volto, le sue piaghe: è Lui, è proprio il Signore, la prova inconfutabile risplende nei segni del suo amore inchiodato ad un legno, in quella luce unica che sembra accarezzare le sue ferite. E la gioia incontenibile, indescrivibile, per un desiderio neanche osato che si era compiuto gratuitamente: Gesù era morto, lo avevano visto, e ora era lì vivo, tornato dall'ignuda tomba, e lo stavano vedendo, mentre mangiavano con Lui. In quel cenacolo era esplosa la vita sperata da ogni uomo, di ogni tempo. e luogo, e cultura. La morte non faceva più paura, il suo pungiglione, il peccato non c'era più, era rimasto inchiodato sul Legno piantato sul Golgota. In mezzo a quel manipolo terrorizzato, che era scappato, che aveva tradito, era planato l'amore, disceso come rugiada il perdono. E tra tutti Pietro, la pietra che s'era sfaldata, il primo ad essere perdonato. Il primato del perdono lo rendeva finalmente la roccia su cui il Signore aveva fondato la sua Chiesa. La beatitudine di Pietro e di tutti noi, è tutta in questa esperienza: per confermare nella fede la Chiesa attraverso i secoli, Pietro, il primo Papa, ha conosciuto un perdono che né carne e né sangue possono rivelare, quello che viene dal sepolcro, che ha attraversato l'inferno, e per questo gratuito e immeritato. Perdonato, sanato e salvato, da quella sera Pietro ha gli occhi purificati, aperti con fede in quelli di ogni Papa della storia. Solo uno sguardo purificato nel vedere e sperimentare il perdono, può riconoscere Dio onnipotente in un povero rabbì di Nazaret, innocente in un condannato a morte, vivo in un relitto d'uomo appeso esanime a una croce. Nella precarietà, nelle contraddizioni della carne, in un corpo corruttibile, abita Dio, la Vita nella morte. Questa è la fede della Chiesa, la risposta ad ogni desiderio e speranza, sulla strada di Emmaus e su quelle d'ogni uomo, all'apparir d'ogni vero e in tutte le ignude tombe. Pietro è chiamato a confermare questa fede, perché essa offra al mondo attraverso la Chiesa i segni autentici e credibili della vita che risplende nel perdono più forte della morte. Per questo la Cattedra di Pietro è la cattedra della misericordia; nella Chiesa, infatti, si apprende l'amore. Pietro, ed ogni Papa, schiude le porte del Cielo offrendo gratuitamente ad ogni uomo l'amore di Dio, gettando le reti del perdono sui mari di morte che avvolgono il mondo. Sulla porta del mondo, Pietro dischiude le porte della sua casa, la Chiesa dov'è vivo Cristo, le viscere di misericordia di Dio. Dialogo, tolleranza, rispetto, tutto va bene per le umane, povere forze spese ad arginare il male. La casa di Pietro invece spalanca il Cielo, l'amore eterno, che il mondo non conosce, unico scoglio ad infrangere ogni male.

venerdì 19 febbraio 2021

 


LA SPOSA, COLMA DELLA CERTEZZA DELL'AMORE DELLO SPOSO, DIGIUNA PER SAZIARSI DELLA VOLONTA' DEL PADRE
I discepoli di Gesù digiunano per amore, nella libertà che chi non ha conosciuto il perdono non può avere. Il digiuno cristiano non è solo una pratica pia, è memoria. Passati "all’altra riva del lago, nella regione dei Gadareni", in terra pagana gli apostoli digiunano evangelizzando, e lo può comprendere solo chi è intimamente unito a Cristo, condividendo sino in fondo il suo zelo per la salvezza delle anime di ogni uomo. Il digiuno dei discepoli di Gesù segna in qualche modo la fatica e i travagli dell'evangelizzazione, che, ricordiamolo, è sempre il frutto della sovrabbondanza dell'amore che inonda il cuore degli "invitati alle nozze", come mostrano profeticamente le sette ceste avanzate dalla moltiplicazione dei pani di Gesù. Il digiuno indica il cammino della Chiesa che ridiscende dal monte Tabor dove ha contemplato il Signore trasfigurato prima, e dal monte delle beatitudini poi, dove il Signore risorto li ha inviati in missione: "L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l'amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio" (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima del 2013). Il Signore asceso al Cielo scompare in una nuvola alla vista carnale dei suoi apostoli, ma è vivo in loro e li accompagna con segni e prodigi sino agli estremi confini della terra dove li invia ad annunciare il Vangelo, come già aveva sperimentato il popolo d'Israele nel deserto, guidato proprio dalla nuvola della presenza di Dio.
Così, compiendo la propria missione "nei giorni in cui lo Sposo è tolto" dalla visione dei loro occhi, i discepoli digiunano della vista carnale del Signore, seguendo nella fede i moti dello Spirito Santo riversato in loro; e non è cosa da poco: lo sanno bene i missionari che spesso si trovano nella completa solitudine ad annunciare il Vangelo in terra ostile e indifferente; come lo sanno i genitori alle prese con la crescita spesso costellata di ribellioni e dolore dei propri figli; lo sanno i ragazzi cristiani chiamati ogni giorno ad affrontare il mondo della scuola e dell'università pronto a sedurli con sofismi e insinuazioni perverse di facili e false soddisfazioni degli ardori giovanili; lo sanno gli anziani lasciati soli in una società che di loro non ha più bisogno; lo sanno i malati chiamati al combattimento più arduo sul fronte della fede messa a dura prova dalla debolezza e dalle sofferenze che minano il fisico. Lo sa chiunque è stato afferrato dall'amore dello Sposo e freme della stessa compassione dinanzi al mondo che non lo conosce. Il digiuno che si tinge di zelo e crocifigge i discepoli nella storia d'amore che Dio intesse con ogni uomo, è la forma più autentica di rispondere alla chiamata di Gesù: "massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v'è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l'evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana" (Benedetto XVI, ibid). I discepoli digiunano sui sentieri della missione per amore di ogni uomo, perché il mondo possa sfamarsi con il pane della Parola da loro annunciata. Essi digiunano dai propri schemi, dai progetti e dalle stesse aspettative, per quanto nobili siano, per abbandonarsi all'Opera divina che guida e provvede alla missione. San Paolo descrive più volte la vita dell'apostolo, ed essa appare immersa in un digiuno continuo, di fama, onore, considerazione; gli apostoli vanno erranti, perseguitati, affamati, rifiutati. Ma proprio questo digiuno è il segreto dell'autentico successo della missione, perché, come lo Sposo che li ha inviati, "mentre essi muoiono, il mondo riceve la vita". Per questo il digiuno cristiano è racchiuso nell'immagine della Pietà: il digiuno della Vergine Maria che, con l'anima trafitta dal dolore, contempla colma d'amore e speranza il corpo senza vita del suo Figlio. Lo guarda e vede oltre i sensi il suo ritorno vittorioso, senza che ciò le risparmi il dolore. Il digiuno a cui siamo chiamati in questa Quaresima è l’aiuto che la Chiesa ci offre per combattere con la carne che non sa aspettare, che vuole cambiare le pietre in pane perché di tutto deve saziarsi. E’ l’amore a Cristo e alle persone che si fa digiuno, un cuore in attesa dello Sposo che ne annuncia a tutti il ritorno.
Il digiuno manifesta così quella sorta di santa tristezza che giace spesso nascosta nel cuore. Sfuggirla significa chiudersi alla verità e consegnare la vita ad un fallimento certo. Il digiuno ci aiuta a riconoscere la tristezza secondo Dio, quella per i nostri peccati e per non poter vedere già il trionfo del Signore nel mondo, "come strumento significativo del disegno di Dio, per cui la vita sia sempre, in qualsiasi caso soggetta alla percezione di qualcosa che manca. Ed è provvidenziale che la vita sia triste è l’argomento più affascinante per farci capire che il nostro destino è qualcosa di più grande, è il mistero più grande. E quando questo mistero ci viene incontro diventando un Uomo, allora questo fascino diventa cento volte più grande. Non ti toglie la tristezza, perché il modo con cui Dio diventa uomo è tale che l’hai senza averlo, l’hai già e non l’hai ancora" (Don Giussani). "Muoio perché non muoio" diceva Santa Teresa d'Avila, e non era disprezzo della vita. Anzi, più si vive intensamente la vita più si desidera di addormentarsi per risvegliarsi in Cielo. Più la vita è perduta per amore, più forte è l'ansia d'un amore perfetto e definitivo. E' il mistero della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo, che esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma che digiuna nell'attesa del compimento. La Chiesa che vive dell'eucarestia, il memoriale del suo Signore, presenza viva del suo Sposo amatissimo. In essa erompe in un grido di nostalgia e speranza: maranathà, vieni, ritorna Signore Gesù. Il digiuno è il nostro maranathà, le lacrime appassionate della Maddalena presso la tomba del suo Signore; il digiuno è l'attesa fatta preghiera, perché lo Sposo torni presto per portarci con Lui, al posto che ha preparato per noi. Presentando il calice nell’ultima cena, Gesù ha detto: «In verità vi dico, non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14,25). Dopo quella cena lo Sposo sarà tolto e i discepoli dovranno digiunare nell’attesa del suo ritorno, dell’eterno «banchetto delle nozze dell’Agnello»(Ap 19,9). Il nostro digiuno partecipa così a quello di Gesù. Un digiuno che è una promessa, un appuntamento d'amore, l'attesa di bere con Lui il vino nuovo del Regno di Dio. Le sofferenze, la precarietà, le malattie, i fallimenti, le proprie debolezze sono il digiuno d'ogni giorno vissuto come una missione, perché la Croce è il digiuno più autentico, sigillato nella libertà di chi consegna la sua carne senza sperare nessun altro guadagno che Cristo. Quando siamo incastrati sul legno della Croce il digiuno si fa naturale: non mangiare, non fumare, non parlare, digiunare da qualsiasi cosa che ci separi da Cristo, è un'esigenza. Sulla Croce, infatti, muoversi anche solo un pochino produceva dolori lancinanti; per questo sulla Croce si digiuna da tutto, per essere in tutto uniti a Cristo che ha portato nella sua carne i dolori che sarebbero spettati a noi: niente giudizi, niente mormorazioni, nessuna invidia, nessun peccato di morte, nessun movimento innaturale della carne (questo è, in definitiva, il peccato), solo un infinito e totale abbandono a Cristo, che il digiuno ci aiuta a compiere. Esso, dunque, è come un grido dalla Croce, l'eco stesso delle parole del Signore Crocifisso: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". E' questa l'ascesi, l'ascesa al trono di misericordia che sappiamo non deludere mai. Essa comporta, paradossalmente, un cammino in discesa, simile a quello percorso dai catecumeni della Chiesa primitiva per arrivare a immergersi nelle acque del battesimo: digiunare significa, infatti, spogliarci dell'uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni e le esigenze della carne, per immergerci nella misericordia di Dio che perdona ogni peccato, e rivestirci dell'uomo nuovo, creato a immagine dello Sposo, a Lui vincolato in un amore incorruttibile. Digiunare in Quaresima è lasciare che la verità prenda il posto delle menzogne, delle fughe e delle alienazioni, mentre la fame che il digiuno suscita ci fa consapevoli della nostra realtà, nella quale il Corpo benedetto e risorto del Signore è l'unico vero cibo capace di saziarci. Digiunare è crocifiggere la carne perché sia strappata alla menzogna e messa al servizio della giustizia; per questo proprio il digiuno è la condizione naturale della carne, in contraddizione con la mentalità del mondo che invece la vuole strumento e veicolo di ogni soddisfazione dei sensi. Digiunando si vive secondo la volontà di Dio, quali creature bisognose del suo Spirito Santo, nel quale offrire a Lui carne, mente e cuore perché compiano le opere buone preparate per noi. Digiunare come una vergine appena accolta dallo Sposo, in attesa d'essere una sola carne redenta con Cristo, nell'ansia del santo e castissimo amplesso, il non ancora che ci attira e colma di speranza e allegria, perché il Signore ci ha assicurato e detto "Io vengo presto, tieni fermamente quello che hai, affinché nessuno ti tolga la tua corona” (Ap. 3,11).

giovedì 18 febbraio 2021

 


RINNEGARE SE STESSI PER AFFERMARE LA SIGNORIA DI CRISTO IN NOI
Il nostro cammino quotidiano è guidato da un imperativo categorico, un'irrefrenabile esigenza di auto-affermazione, di essere, per qualcuno, per sé stessi. Ma, alla fine di "ogni giorno", è sempre solitudine e tristezza, il destino di chi, per "salvare la propria vita", "segue" solo se stesso e le proprie concupiscenze, perché la sua autoaffermazione entra in collisione con le autoaffermazione degli altri. Il Figlio dell'Uomo, invece, ha un'altro imperativo: "deve" essere "riprovato" per "essere messo a morte" e così "risorgere". E' la sua missione, per ogni uomo. Nell'originale greco il verbo "riprovare", apodokimazo, deriva da dokimos, che significa fidato, attendibile, provato, e, come termine tecnico, indica una moneta autentica, circolabile; è riferito anche a persone cui è tributato comune riconoscimento. Nella traduzione della Bibbia greca della LXX il termine era usato esclusivamente per qualificare le monete valide. Il verbo che ne deriva, dokimazo traduce l'ebraico bakhan = provare con il crogiuolo. Gesù dunque è dovuto passare per il crogiuolo del Sinedrio, ed è stato a-podokimazo, ri-provato.
Lui non era la moneta di cui "gli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi" avevano bisogno. Essi "rappresentano l'avere, il potere e il sapere. La ricchezza, la vanagloria e la superbia, strette parenti delle tre concupiscenze di 1 Gv. 2,16, sono le tre maschere del nemico, e le tre apparenze del frutto di Gen. 3,6: buono, bello e desiderabile" (S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di Luca). Il demonio, mascherato subdolamente da uomo religioso, ha rigettato Gesù. Come accaduto già quando era stato tentato nel deserto, ora nel crogiuolo del Sinedrio Gesù smaschera ogni ipocrisia religiosa: quando la religione è nemica della Croce, quando l'interpretazione della Parola di Dio ci induce a sfuggire la storia, allora è opera del nemico. Proprio per questo era necessario che satana gettasse fuori il Figlio dell'uomo: quella moneta era autentica, non gli apparteneva. Gesù è, invece, la moneta del Padre suo, gettata nel mondo per pagare il riscatto di ogni uomo imprigionato nel peccato.
Così, mentre satana rigettava Cristo, il Padre accoglieva noi, monete da Lui coniate con amore che però avevano perduto bellezza e identità. Il sangue e l'acqua colati sul legno della Croce hanno riportato alla luce l'immagine e l'iscrizione di nostro Padre che portiamo impresse. Ci ha creato per essere monete autentiche, immagini fedeli del suo amore. Per questo oggi Gesù ci chiede "se vogliamo andare dietro Lui" nel mondo a pagare il riscatto per i peccatori. Se vogliamo essere una moneta autentica. Lo desideriamo sinceramente? Ecco allora per noi la Quaresima porci dinanzi lo stesso cammino di Gesù: ad ogni passo la storia ci chiede di rinnegare noi stessi. Dire no a satana e alla parte di noi che gli appartiene e fa di noi monete false.
Questo significa, concretamente, rinnegare la giustizia umana che reclama i propri diritti dimenticando il perdono, la pazienza, la tenerezza nei confronti di chi ci è accanto; rinnegare la concupiscenza che brucia la carne, facendo un passo indietro per lasciare l'altro libero; rinnegare l'accidia che ci distoglie dalla fedeltà alle piccole responsabilità di ogni giorno; rinnegare l'avarizia che ci fa arpionare cose e persone per chiuderle nella cassaforte del possesso; rinnegare ideali e idoli che invadono la nostra volontà per distoglierla dall'adeguarsi a quella di Dio. E, soprattutto, "prendere la croce ogni giorno".
Qual'è oggi la tua croce? Forse neanche la vediamo, forse quella che pensiamo non è una croce. Guarda Cristo e capirai. Contempliamolo mentre cammina sulla via del Calvario. Che cosa oggi ci assomiglia a Lui? Che cosa ci inchioda e ci umilia impedendoci di fare quello che vorremmo? Che cosa ci pesa tanto sulle spalle da farci cadere obbligandoci a chiedere aiuto? Quale sete ci stringe la gola lasciandoci senza parole? Chi oggi ci allarga le braccia e ci strappa il respiro? Forse proprio la persona che ami di più ti umilia e ti assedia esigendo da te tutta la vita, sino all'ultimo respiro. Ecco, questa è la nostra croce, dove sperimentiamo di non poter andare oltre e amare sino a tanto; di cadere sotto il peso di quella malattia; di soffocare senza lavoro e stipendio; di perdere sangue dal cuore per la morte di tuo padre.
Ecco, le grandi e piccole croci sono i fatti e le persone dove Cristo ci attende per accoglierci così come siamo, perdonarci e farci sperimentare il potere della sua risurrezione. La Croce non è una condanna, è "il letto d'amore dove ci sposa il Signore" (Inno del IV secolo). Su di essa si consuma l'unione intima e indissolubile con Cristo, sostanza del nostro essere suoi, nella fecondità che ne attesta il compimento. Sulla Croce si ama come si è amati, è impossibile autoaffermarsi. "A che giova", infatti, "guadagnare il mondo intero" se l'anima sperimenta la "perdizione", l'infelicità di chi ha perduto l'amore di Cristo? "A che giova" affermare le nostre ragioni contro moglie, marito, colleghi e amici, giudicando, mentendo, adirandoci e mancando di carità se il salario del peccato è la morte? Per entrare nel Cielo "giova" solo "seguire" il Signore nella vita di ogni giorno: così "perderemo la vita" che ci ha condotto alla morte, per ricevere in cambio la sua Vita, che non si esaurisce mai e trasforma in gioia anche il dolore più grande.

mercoledì 17 febbraio 2021

 


Omelia di Benedetto XVI nel Mercoledì delle Ceneri

Cari fratelli e sorelle!

Se l'Avvento è per eccellenza il tempo che ci invita a sperare nel Dio-che-viene, la Quaresima ci rinnova nella speranza in Colui-che-ci-ha-fatti-passare-dalla-morte-alla-vita. Entrambi sono tempi di purificazione - lo dice anche il colore liturgico che hanno in comune - ma in modo speciale la Quaresima, tutta orientata al mistero della Redenzione, è definita "cammino di vera conversione" (Orazione colletta). All'inizio di quest'itinerario penitenziale, vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sulla preghiera e sulla sofferenza quali aspetti qualificanti del tempo liturgico quaresimale, mentre alla pratica dell'elemosina ho dedicato il Messaggio per la Quaresima, pubblicato la scorsa settimana. Nell'Enciclica Spe salvi, ho indicato la preghiera e il soffrire, insieme all'agire e al giudizio, come "luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza". Potremmo quindi affermare che il periodo quaresimale, proprio perché invita alla preghiera, alla penitenza e al digiuno, costituisce una occasione provvidenziale per rendere più viva e salda la nostra speranza.

La preghiera alimenta la speranza, perché nulla più del pregare con fede esprime la realtà di Dio nella nostra vita. Anche nella solitudine della prova più dura, niente e nessuno possono impedirmi di rivolgermi al Padre, "nel segreto" del mio cuore, dove Lui solo "vede", come dice Gesù nel Vangelo (cfr Mt 6,4.6.18). Vengono in mente due momenti dell'esistenza terrena di Gesù che si collocano uno all'inizio e l'altro quasi al termine della sua vita pubblica: i quaranta giorni nel deserto, sui quali è ricalcato il tempo quaresimale, e l'agonia nel Getsemani - entrambi sono essenzialmente momenti di preghiera. Preghiera con il Padre solitaria a tu per tu nel deserto, preghiera colma di "angoscia mortale" nell'Orto degli Ulivi. Ma sia nell'una che nell'altra circostanza, è pregando che Cristo smaschera gli inganni del tentatore e lo sconfigge. La preghiera si dimostra così la prima e principale "arma" per "affrontare vittoriosamente il combattimento contro lo spirito del male" (Orazione colletta).

La preghiera di Cristo raggiunge il suo culmine sulla croce, esprimendosi in quelle ultime parole che gli evangelisti hanno raccolto. Laddove sembra lanciare un grido di disperazione: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mt 27,46; Mc 15,34; cfr Sal 21,1), in realtà Cristo fa sua l'invocazione di chi, assediato senza scampo dai nemici, non ha altri che Dio a cui votarsi e, al di là di ogni umana possibilità, ne sperimenta la grazia e la salvezza. Con queste parole del Salmo, prima di un uomo nella sofferenza, poi del Popolo di Dio nelle sue sofferenze per l'apparente assenza di Dio, Gesù ha fatto suo questo grido dell'umanità che soffre dell'apparente assenza di Dio e porta questo grido al cuore del Padre. Così, pregando in questa ultima solitudine insieme con tutta l'umanità, Egli ci apre il cuore di Dio. Non vi è dunque contraddizione tra queste parole del Salmo 21 e le parole piene di fiducia filiale: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito" (Lc 23,46; cfr Sal 30,6). Anche queste sono prese da un Salmo, il 30, implorazione drammatica di una persona che, abbandonata da tutti, si affida sicura a Dio. La preghiera di supplica colma di speranza è, pertanto, il leit motiv della Quaresima, e ci fa sperimentare Dio quale unica àncora di salvezza. Pur quando è collettiva, la preghiera del popolo di Dio è voce di un cuore solo e di un'anima sola, è dialogo "a tu per tu", come la commovente implorazione della regina Ester quando il suo popolo sta per essere sterminato: "Mio Signore, nostro re, tu sei l'unico! Vieni in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso se non te, perché un grande pericolo mi sovrasta" (Est 4,17l). Di fronte a un "grande pericolo" ci vuole una più grande speranza, e questa è solo la speranza che può contare su Dio.

La preghiera è un crogiuolo in cui le nostre attese e aspirazioni vengono esposte alla luce della Parola di Dio, vengono immerse nel dialogo con Colui che è la verità, ed escono liberate da menzogne nascoste e compromessi con diverse forme di egoismo (cfr Spe salvi, 33). Senza la dimensione della preghiera, l'io umano finisce per chiudersi in se stesso, e la coscienza, che dovrebbe essere eco della voce di Dio, rischia di ridursi a specchio dell'io, così che il colloquio interiore diventa un monologo dando adito a mille autogiustificazioni. La preghiera, perciò, è garanzia di apertura agli altri: chi si fa libero per Dio e le sue esigenze, si apre contemporaneamente all'altro, al fratello che bussa alla porta del suo cuore e chiede ascolto, attenzione, perdono, talvolta correzione ma sempre nella carità fraterna. La vera preghiera non è mai egocentrica, ma sempre centrata sull'altro. Come tale essa esercita l'orante all'"estasi" della carità, alla capacità di uscire da sé per farsi prossimo all'altro nel servizio umile e disinteressato. La vera preghiera è il motore del mondo, perché lo tiene aperto a Dio. Per questo senza preghiera non c'è speranza, ma solo illusione. Non è infatti la presenza di Dio ad alienare l'uomo, ma la sua assenza: senza il vero Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, le speranze diventano illusioni che inducono ad evadere dalla realtà. Parlare con Dio, rimanere alla sua presenza, lasciarsi illuminare e purificare dalla sua Parola, ci introduce invece nel cuore della realtà, nell'intimo Motore del divenire cosmico, ci introduce per così dire nel cuore pulsante dell'universo.

In armonica connessione con la preghiera, anche il digiuno e l'elemosina possono essere considerati luoghi di apprendimento ed esercizio della speranza cristiana. I Padri e gli scrittori antichi amano sottolineare che queste tre dimensioni della vita evangelica sono inseparabili, si fecondano reciprocamente e portano tanto maggior frutto quanto più si corroborano a vicenda. Grazie all'azione congiunta della preghiera, del digiuno e dell'elemosina, la Quaresima nel suo insieme forma i cristiani ad essere uomini e donne di speranza, sull'esempio dei santi.

Vorrei ora soffermarmi brevemente anche sulla sofferenza poiché, come ho scritto nell'Enciclica Spe salvi "la misura dell'umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società" (Spe salvi, 38). La Pasqua, verso cui la Quaresima è protesa, è il mistero che dà senso alla sofferenza umana, a partire dalla sovrabbondanza della com-passione di Dio, realizzata in Gesù Cristo. Il cammino quaresimale, pertanto, essendo tutto irradiato dalla luce pasquale, ci fa rivivere quanto avvenne nel cuore divino-umano di Cristo mentre saliva a Gerusalemme per l'ultima volta, per offrire se stesso in espiazione (cfr Is 53,10). La sofferenza e la morte sono calate come tenebre via via che Egli si avvicinava alla croce, ma viva si è fatta anche la fiamma dell'amore. La sofferenza di Cristo è in effetti tutta permeata dalla luce dell'amore (cfr Spe salvi, 38): l'amore del Padre che permette al Figlio di andare incontro con fiducia al suo ultimo "battesimo", come Lui stesso definisce il culmine della sua missione (cfr Lc 12,50). Quel battesimo di dolore e d'amore, Gesù lo ha ricevuto per noi, per tutta l'umanità. Ha sofferto per la verità e la giustizia, portando nella storia degli uomini il vangelo della sofferenza, che è l'altra faccia del vangelo dell'amore. Dio non può patire, ma può e vuole com-patire. Dalla passione di Cristo può entrare in ogni sofferenza umana la con-solatio, "la consolazione dell'amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza" (Spe salvi, 39).

Come per la preghiera, così per la sofferenza la storia della Chiesa è ricchissima di testimoni che si sono spesi per gli altri senza risparmio, a costo di duri patimenti. Più è grande la speranza che ci anima, tanto maggiore è anche in noi la capacità di soffrire per amore della verità e del bene, offrendo con gioia le piccole e grandi fatiche di ogni giorno e inserendole nel grande com-patire di Cristo (cfr ivi, 40). Ci aiuti in questo cammino di perfezione evangelica Maria, che, insieme con quello del Figlio, ebbe il suo Cuore immacolato trafitto dalla spada del dolore. Proprio in questi giorni, ricordando il 150° anniversario delle apparizioni della Vergine a Lourdes, siamo condotti a meditare sul mistero della condivisione di Maria con i dolori dell'umanità; al tempo stesso siamo incoraggiati ad attingere consolazione dal "tesoro di compassione" (ibid.) della Chiesa, a cui Ella ha contribuito più di ogni altra creatura. Iniziamo pertanto la Quaresima in spirituale unione con Maria, che "ha avanzato nel cammino della fede" dietro il suo Figlio (cfr Lumen gentium, 58) e sempre precede i discepoli nell'itinerario verso la luce pasquale. Amen


 


E' QUARESIMA

Silenzio, è Quaresima. E' tempo di chiudere la porta del cuore e cercare nostro Padre. Viviamo, infatti, come orfani, che fanno tutto per essere notati e amati, ammirati e lodati. E così anche “le preghiere, le elemosine e i digiuni” si riducono a sentimenti ostentati, mai segreti; strumentalizziamo tutto, onnivori di carne e spirito, Dio e mondo. Tutto in un boccone a saziarci, a messa e al Centro commerciale, ogni cosa ce la offriamo senza misura. Per questo oggi inizia la Quaresima, a raccogliere la carne sgonfiata dei mascherati esausti dopo una vita di carnevale. Arriva la Quaresima come un seno di misericordia, amore gratuito e senza condizione preparato dal Padre per i figli perduti. La Quaresima è una buona notizia: c'è speranza, possiamo convertirci, ritornare a casa, da nostro Padre. La conversione, infatti, è il figlio prodigo: è la fitta che gli percuote il petto, la percezione chiara d'aver buttato la vita credendo di saziarsi. Ma, proprio al termine della discesa nell'abisso, in quel vuoto di parole, sguardi e affetti, può risuonare la voce della verità. Proprio quando tutto è svanito, può affiorare in lui la memoria del Padre, sepolta ma mai cancellata; la solitudine, il frutto amaro del peccato, lo spinge a rientrare in se stesso, dove non aveva mai smesso d'essere figlio. Rientrato “nel segreto” del cuore incontra lo sguardo dell'Unico che può vederlo sin lì, guardandolo come nessun altro; riconosce suo figlio, anche se non gli assomiglia più. Comprende allora quello che aveva smarrito: "Mi alzerò e tornerò da mio Padre". E inizia così un cammino serio di conversione che leviga in lui innanzitutto l'umiltà, la terra buona dove può crescere l'uomo nuovo. Figli smemorati come lui ci ritroviamo con una vita in cenere: senza il perdono, non è polvere il rapporto con tua moglie o tuo marito? Un giorno di lavoro speso tra mormorazioni e invidie, non è polvere che il vento porta via? Per questo siamo insoddisfatti e tristi. Per questo, il digiuno, l'elemosina, la preghiera, sono innanzi tutto segni della nostra realtà che il mondo e il demonio ci occultano, la memoria di un'assenza e, quindi, di un bisogno insopprimibile. Il digiuno per ricordare la fame mai saziata di Dio; l'elemosina, per ricordare il nostro mendicare senso e sostanza alla vita; la preghiera, per ricordare la solitudine degli orfani. Il segno che oggi riceveremo ci aiuta a rientrare in noi stessi, a fare verità e consegnarci così come siamo all'amore di nostro Padre, il solo che può trasformare la polvere in oro. Lui è alla finestra, e freme nell'attesa di correrci intorno. La sua "ricompensa" è il suo abbraccio di misericordia. Ci attende un cammino serio per discendere nella verità e riconoscere i nostri peccati; non sarà senza sacrificio, il "telaio" sul quale Dio costruisce l'amore. Per questo, saranno quaranta giorni da vivere come un fidanzamento, il cammino della sposa appoggiata al Padre che va incontro allo Sposo a celebrare le nozze nella notte delle notti, la notte di Pasqua, la notte dei figli nel Figlio


martedì 16 febbraio 2021

 



SULLA BARCA DELLA CHIESA PER COMPRENDERE L'AMORE DI DIO E ABBANDONARE L'IPOCRISIA
Nella barca, immagine della Chiesa, basta "un solo pane". Possiamo salirvi con le nostre "dimenticanze", con le disattenzioni e le incoerenze, senza essere adeguati. Nella barca c'è Gesù, ed è tutto. Lui ha preso la debolezza dell'uomo, l'incapacità di sfamare che tutti ci accomuna, e ne ha fatto un prodigio. Ha attinto dai nostri peccati per donare vita in abbondanza! Questo è il mistero della Chiesa, la Pasqua di Gesù che si rinnova in essa perché i suoi araldi possano attingere dalle ceste e dalle sporte colme di pani avanzati, immagine della vita che ha sconfitto la morte e non si esaurisce. Non è la nostra esperienza? Non è per essere stati amati, perdonati, curati e rigenerati che oggi siamo sacerdoti, suore, mariti, mogli, e padri e madri? Non è perché Gesù ha chiamato e toccato la nostra insufficienza trasformandola in pane capace di sfamare chi ci è accanto che lo stiamo seguendo sulla barca? Quante volte il Signore ha moltiplicato il nostro pochissimo desiderio di perdonare marito o moglie accompagnandoci ad umiliarci risuscitando così un matrimonio ormai spacciato... Quante volte non solo ci ha salvati da adulteri, furti, divisioni, peccati spesso gravi ma ha anche tratto proprio dalle situazioni più difficili un'effervescenza e abbondanza di vita impensabili... Eppure lo dimentichiamo facilmente, incalzati dalla paura. Ecco, la Chiesa è anche questo manipolo di uomini e donne che "dimenticano" il pane, con una "trascuratezza" disarmante; è un popolo del tutto simile a quello di Israele, con il "cuore indurito". Di fronte alla storia che ci accoglie ogni giorno "abbiamo occhi ma non vediamo" oltre la superficie; abbiamo "orecchie ma non udiamo" quello che, proprio attraverso fatti e persone, Dio ci sta dicendo. Nonostante le esperienze fatte accanto a Gesù, "ancora non comprendiamo" chi Egli sia e come agisca nella storia. Come Israele vorremmo tutto e subito, dimenticando da dove il Signore ci ha tratto...
Partiti con Lui non abbiamo apaerto gli occhi sulle insidie dell'ipocrisia figlia dell'idolatria, il "lievito dei Farisei e di Erode". Abbiamo tenuto nascosti i nostri idoli, i criteri e le passioni, gli affetti malsani e l'attaccamento al denaro; il clericalismo soprattutto, l'idolatria più subdola, capace di mimetizzarsi tra salmi e incensi. E' il cortocircuito tra i Farisei ed Erode, tra la purezza religiosa e l'avidità della carne: preghiere e potere, sacrifici e prestigio, digiuni e successo, per svelare che se la carne ha soffocato lo Spirito la religiosità diventa solo l'altra faccia della stessa medaglia. Ipocrisia e narcisismo, entrambi figli della paura. Non siamo anche noi fermentati da questo lievito? Non è l'ipocrisia a vestirci anche oggi, in una schizofrenia tra fede e vita che ci dilania? Siamo clericali e narcisisti, perché abbiamo posto noi stessi al centro della "barca": siamo i chierici della nostra vita, officiamo e presidiamo, sostituendoci a Dio in nome di Dio, e non "vediamo" più Gesù, l'unico pane di cui abbiamo bisogno, l'unico capace di darci vita autentica perchè sovrabbondante ed eterna. Abbiamo "trascurato" il suo amore che ci ha tratti dalla sponda del peccato, e dimenticato la debolezza che ci impediva la felicità. Per questo passiamo gran parte del nostro tempo a "discutere" sul pane! Ecco gli apostoli nei consigli pastorali a discutere del pane: i soldi, il successo dell'evangelizzazione, strumenti e metodi per riempire la Chiesa, idee e strategie per rendere più accattivante la liturgia, marketing spirituale perché la gente acorra e partecipi e dia una mano. La Chiesa come una holding, la parrocchia come un condominio, e il pane a catturare anuma e mente... Rivoluzioni ed elezioni, ideologie e filosofie, piani pastorali e criteri sulla famiglia, tutto figlio della cupidigia e della concupiscenza di chi ha dimenticato Dio. Non è Lui che celebriamo e ascoltiamo? No, non è Cristo, siamo noi il vero dio che regge la Chiesa... e la famiglia e la società.... Ma, nonostante la durezza del nostro cuore, siamo sulla "barca" dove il Signore ci ha chiamati per condurci nella precarietà di ogni giorno e insegnarci a non appoggiarci al nostro clericalismo, alla nostra intelligenza e a vivere di ogni sua Parola. Ci sta insegnando a nutrirci del suo stesso Pane, che è compiere la volontà del Padre. Gesù ci "ammonisce" oggi a non preoccuparci della nostra debolezza, e ad abbandonarci alla sua misericordia: a restare nella Barca con Lui in una traversata che è immagine della Pasqua e dell'iniziazione cristiana, il camino di fede che ci conduce al discernimento; un cristiano adulto, infatti, "comprende" quello che gli accade e lo "vede" profeticamente come una storia d'amore che lo strappa all'ipocrisia per conoscere profondamente il suo Signore. E così per la storia della sua famiglia, dei suoi figli, sino alla storia politica ed economica. Tutto è ai suoi occhi un povero pane pronto ad essere moltiplicato dall'amore di Dio. Proprio il poco scampato alla dimenticanza è quanto di più prezioso abbiamo. E' sulla barca, con Gesù. Che cos'è questo pane oggi per noi? Il desiderio di perdonare? La speranza di non cadere più in quel peccato? Che così quest'unico pane che abbiamo con noi? Forse il matrimonio, i figli, la fidanzata, il ministero, il lavoro... E' solo un pane, ma è proprio l'azzimo che Gesù desidera, per trasfigurarlo e farne il pane con cui celebrare la Pasqua e passare, insieme a chi ci è affidato, dalla morte alla vita, dal peccato all'amore.

domenica 14 febbraio 2021

 


SALVATI E PURIFICATI DALLA SUPERBIA IN CRISTO POSSIAMO CAMMINARE NELLA VITA NUOVA DELL'OBBEDIENZA E DELL'AMORE
Parole, guarigioni ed esorcismi avevano esteso la fama di Gesù “al punto non poteva più entrare pubblicamente in una città”. La fama che sgorgava dalla sua compassione. Questa parola traduce in italiano il greco splanxnisthèis (avente viscere che fremono) che traduce a sua volta l’ebraico rahamin, che rimanda all’amore viscerale di una madre (rehem = utero, seno materno). La compassione svela dunque il cuore materno di Gesù, da cui scaturisce un amore capace di accogliere, concepire e generare, dare alla luce, creare e ricreare: la compassione che ha abbracciato il lebbroso. Reietto, impuro e impossibilitato ad avvicinarsi a chiunque, aveva molto camminato nelle umiliazioni, nei fallimenti e nel dolore. Non aveva nessuno, e quando non si ha nessuno ci si aggrappa all’unico ricordo che non tradisce mai, quello della propria madre. Anche quando si muore sale prepotente sulle labbra la parola “mamma”, perché la morte è molto simile alla nascita.
Per questo la sofferenza spinge, fosse pure inconsapevolmente, verso la propria origine, dove la carne e il cuore si sono sentiti accolti, nutriti, amati. Verso il grembo dove nascevano, intatte, le speranze, e tutto poteva ancora essere. Il dolore, fisico e spirituale che in un lebbroso sono così uniti, è attratto da ciò che potrebbe innescare una rigenerazione nella purezza perduta. Perché, misteriosamente, Cristo attrae tutti nel suo passaggio vittorioso attraverso la morte, per trasformare ogni dolore in una nuova nascita. In qualche modo, dunque, la “fama” di Gesù era per il lebbroso il segno che in quell’Uomo che stava passando vicino a lui si celava un cuore di madre, e per questo poteva infrangere le regole che lo volevano segregato. In un momento s’era di nuovo accesa la speranza bambina, innocente e audace. E sgorgava proprio dal suo dolore e dalla sua solitudine, che avevano plasmato in lui un cuore umile, l’unico capace di mettersi in cammino verso Cristo.
Per incontrarlo, infatti, il lebbroso ha dovuto percorrere un catecumenato nel quale a poco a poco uscire dall’isolamento e avvicinarsi “accampamento”. Quanto cammino, e che umiliazioni per uscire da se stesso, dal suo passato di schiavitù. Non poteva dissimulare chi fosse, doveva “portare vesti strappate e il capo scoperto”, e ad ogni passo gridare “immondo, immondo”. Sì, senza la consapevolezza della propria realtà non si arriva a Cristo. E’ necessario accettare di essere peccatori, perché al posto di quel “immondo, immondo” si possa gridare “purificato, perdonato, rinato”. Perché ogni incontro autentico con Gesù si realizza in virtù di un cammino in discesa per immergersi nella sua compassione, che per noi sono le viscere di misericordia della Chiesa, ovvero il fonte battesimale e ogni sacramento che rinnova in noi la Grazia. Solo l’umiltà, infatti, ci schiude gli occhi nella fede, per riconoscere in Gesù il volto di Dio. Come il lebbroso che “venuto a Lui”, sapeva di potersi fidare, perché proprio in Lui era stato creato; la pelle straziata, le membra squassate, non potevano cancellare la verità: nessuno al mondo gli aveva provocato gli stessi sentimenti e ispirato le stesse certezze.
Lui assomigliava a Gesù, perché Gesù si era fatto simile a lui. Sulla via del Calvario e sulla Croce avrebbe infatti perso le apparenze di un uomo, disprezzato, rifiuto degli uomini, diventando come uno davanti al quale ci si copre il volto (Cfr. Is. 53). Per questo, nella fede, il lebbroso aveva visto Gesù come un altro se stesso. Non aveva dubbi, si trovava dinanzi all’uomo dei dolori, che conosce bene il patire, il suo. Così è sgorgata dal suo cuore l’invocazione come una sincera professione di fede: “Se vuoi puoi guarirmi”. Mi hai amato, pensato e creato Tu, sono tuo, se vuoi puoi ancora avere misericordia; tu conosci le mie sofferenze, come solo una madre può conoscere. Sono carne della tua carne, e Tu hai il potere di distruggere la morte. Ti prego, distruggila ora in me, tu puoi, se vuoi. E qui le viscere di Gesù si commuovono, come per un figlio, per un fratello amato più di se stesso, spingendo le sue mani per toccare quelle carni straziate e guarirle. Nell’incontro con Cristo, il Tempio, il culto, la vita del Popolo Santo, tutto quanto era stato interdetto al lebbroso secondo la Legge, era di nuovo lì per lui, incarnato in Gesù. Poteva rientrare nella comunione, nella lode, nella vita piena, secondo la vocazione del suo popolo. Poteva cioè “fare tutto per la gloria di Dio, sia che mangiasse, sia che bevesse, sia che facesse qualsiasi altra cosa”. Era guarito, non viveva più per se stesso. Ecco, proprio dal frutto del miracolo di Gesù, comprendiamo quanto abbiamo bisogno di Lui. Noi, che viviamo per saziare la nostra carne, e ci ritroviamo soli come i lebbrosi, in questa Domenica siamo chiamati dalla Chiesa a metterci in cammino come il lebbroso, per inginocchiarsi dinanzi alla compassione di Gesù.
E come accadde a Lui, così anche a noi la “compassione” giocherà un bello scherzetto. Ci getterà nella mischia, nella grande arena dell’evangelizzazione. Ricreati in Cristo, infatti, diventeremo come il lebbroso un Vangelo vivente. Non potremo più nasconderci, perché quello che prima ci separava dagli altri nell’egoismo, sarà trasformato dalla Grazia. Le membra offerte al peccato saranno strumenti offerti all’amore. Perché quando Gesù guarisce qualcuno è sempre per guarirne moltissimi altri attraverso di lui. Coraggio allora, ci aspetta un lungo cammino di conversione, perché la messe di lebbrosi da mietere nella misericordia è davvero grande.

venerdì 12 febbraio 2021

 


CON LA SUA PAROLA GESU' APRE LE NOSTRE ORECCHIE PERCHE', ACCOLTA NELLA FEDE, FACCIA BELLA TUTTA LA NOSTRA VITA
La bellezza è ascoltare e parlare, la bellezza è comunicare, comunione, accogliere e dare, amare. Gesù ha fatto bene ogni cosa, ma la traduzione più fedele del greco originale rimanda alla bellezza per cui sarebbe meglio tradurre con "Ha fatto bella ogni cosa...". La bellezza appare così legata al miracolo che oggi contempliamo nel Vangelo. Un uomo guarito, capace di ascoltare e parlare. Erano soli, in disparte lontano dalla folla, Gesù e il sordomuto. La prima voce che questi ha potuto ascoltare è stata quella di Gesù. "Effatà", "Apriti", la prima parola udita. Una parola creatrice, la Parola di Dio. Una parola subito incarnata nell'esperienza della sua autenticità. Contenuto, parola ed effetto indissolubilmente legati. Dio parla così, creando. Che è come dire perdonando. "Attraverso le dita di carne il sordomuto ha sentito che gli si toccavano la lingua. Attraverso le dita palpabili, ha percepito la divinità intoccabile quando il nodo della sua lingua venne sciolto. Infatti l’architetto e l’artigiano del corpo è venuto fino a lui e, con una parola dolce, ha creato senza dolore, delle aperture nei suoi orecchi sordi; allora, anche questa bocca chiusa, finora incapace di dare alla luce la parola, ha messo al mondo la lode di colui che ha fatto portare frutto alla sua sterilità" (Sant’Efrem Siro, Discorso «Sul Signore», 10-11). La Parola di Dio è la sua stessa misericordia, le sue stesse viscere capaci di generare la vita laddove non ve n'è traccia. La stessa parola di Gesù "apriti!" evoca il seno di una donna dinanzi all'ultimo dolore del parto. La Parola di Dio partorisce quel che annunzia. E ciò che il dito di Dio disegna è tutto bello, perchè tutto gli assomiglia. Le dita di Gesù si avvicinano agli orecchi e alla lingua del sordomuto e fanno di organi inservibili un prodigio capace di ascoltare e comunicare. Non basta avere orecchie e lingua, occorre che il dito di Dio, vi tracci il segno "bello" del Suo amore. "Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: “L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”. La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza" (Benedetto XVI agli artisti, 21 novembre 2009). Senza la bellezza di Cristo, il più bello tra i figli di Adamo, senza questa sua bellezza che ferisce per sanare, non si può vivere, non vi è parola, non vi è relazione, non vi è amore, l'unica cosa da fare al mondo. L'amore del Signore infatti rompe il muro di menzogna che ci impedisce di ascoltare, lo stesso dito che ha scritto sulla sabbia il cumulo di peccati della peccatrice perchè il vento se li portasse via, con un tocco di misericordia cancella inganni e peccati dalle nostre orecchie. La sua carne trafitta trafigge la corazza d'orgoglio che ci fa sordi al suo amore. E la Sua saliva, che reca impresse le parole della Sua stessa bocca, scioglie la nostra lingua come rugiada del mattino. Quasi come in un bacio il Signore ci trasmette se stesso, e depone con tenerezza sulla nostra lingua le sue parole, la sua stessa Vita, e scioglie quel nodo che ci ha legati ad un mutismo fatto di mormorazioni, insulti, improperi, giudizi e lamenti. Gesù anche oggi scioglie Il nodo che il demonio ha stretto sui sentieri delle nostre esistenze, inchiodandoci alla tristezza diluita in parole vuote, scomposte, ovvie. Il mutismo figlio di orecchie sorde alla Verità, all'amore infinito di Dio.S. Agostino scriveva: "Ciascuno è ciò che ama. Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Che cosa devo dire? Che tu sarai Dio? Io non oso dirlo per conto mio. Ascoltiamo piuttosto le Scritture: Io ho detto: "voi siete dèi, e figli tutti dell'Altissimo". Se, dunque, volete essere dèi e figli dell'Altissimo, non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo". La bellezza perduta, la Grazia del Paradiso, l'ascolto docile e obbediente e il parlare correttamente, la comunione innocente, nuda e indifesa di Adamo ed Eva, l'intimità con Dio nella quale conoscevano solo il bene, tutto fu strappato per una parola di menzogna, per aver ascoltato e accolto una menzogna. Adamo ed Eva avevano amato la terra, e terra sono ritornati ad essere, sordi e muti, nudi e impauriti, isolati e soli. Avevano ascoltato la menzogna, vi avevano creduto e hanno conosciuto il male nel loro intimo, erano diventati come Dio senza essere Dio. E il male li ha schiacciati, e le orecchie si sono chiuse, e la lingua è stata stretta in un nodo di paura. La bellezza del Paradiso era ormai perduta, rimaneva solo la tragica realtà di un mondo ostile, della concupiscenza accovacciata accanto a loro, e quell'incapacità di comunicare, di ascoltarsi e parlarsi, di amare, che faceva brutta la loro vita. Brutta come appare la nostra quando I fatti divengono occasioni di mormorazioni, nervosismi, depressioni. Fatti brutti ai nostri occhi perchè avvelenati dalla menzogna. Brutti per un'esistenza brutta, cioè sorda e muta. La nostra vita perduta nella Decapoli, territorio pagano come le nostre giornate scivolate senza senso, graffiate dal destino sempre avverso, anche una fila di troppo sulla strada che ci conduce ogni mattina al lavoro.... Come Adamo ed Eva, come il sordomuto del Vangelo, anche ciascuno di noi ha bisogno di ascoltare un'altra parola, perchè solo l'ascolto della Verità può salvare. E passa il Signore, anche oggi, come sempre, mosso dal suo invincibile amore per ciascuno di noi. La Chiesa, la nostra Madre ci conduce anche oggi, misteriosamente, a Lui. Forse attraverso un fratello, una parola, la preghiera nascosta di qualche vedova, di qualche suora sepolta in un monastero, i dolori lancinanti di qualche malato che, solo in un letto d'ospedale, li offre quotidianamente per noi. La preghiera feconda dei nostri cari che ci hanno preceduto, dei Santi che intercedono senza sosta. E Maria, mediatrice d'ogni Grazia, sollecita per ogni Suo figlio. E ci troviamo, inaspettatamente, gratuitamente, dinanzi al Signore. E' il suo amore chino su di noi a farci belli, a fare bella la nostra vita. Non ne cambia una virgola, solo ci apre orecchi e lingua, per ascoltare e parlare. Le Sue parole, la Sua vita, Lui stesso Parola del Padre incarnata per noi, Parola d'amore di Dio preparata per noi. E Lui fa tutto perchè possiamo ascoltarne la voce. L'ascolto di Lui ci fa come Lui. "Ciò fa l'amore, rende l'amante simile all'amato" (Sant'Alfonso Maria de' Liguori, Pratica di amar Gesù Cristo). Effatà, apriti! Ecco la Parola, ecco la bellezza: apriti, ama, vieni fuori Lazzaro, esci da te stesso, ascolta e parla, lasciati amare e donati nello stesso amore. Perchè, come accade nella natura, si parla ciò che si è ascoltato. Se si ascolta amore si parlerà con amore, se si ascolta Cristo si parlerà come Cristo.Scriveva uno psicologo che “Per far si ché un bambino gitano diventi musicista, si è stabilito che durante le ultime sei settimane prima della nascita e le prime sei settimane di vita, ogni giorno, il miglior musicista di un determinato strumento vada a suonare per lui presso la madre incinta, mentre partorisce e durante l’allattamento: e sembra che il bambino, più tardi, manifesterà il desiderio di suonare proprio quello strumento, eccellendovi "(Dolto, 1985). Per questo ascoltare Gesù, dopo tanti frastuoni e menzogne, ci fa come Lui. Ascoltare le Sue Parole ci fa desiderare di "suonare" il suo stesso amore. Eccellendovi... Che miracolo! A noi che balbettiamo suoni senza contenuti, parole vuote di senso come cembali che tintinnano, segno dell'ipocrisia del dire e del non fare perchè non si è, Dio dona la sua Parola, il suo Figlio, consistenza e contenuto per le nostre vite, e per le nostre parole. E' per noi dunque quest'opera "bella" di Gesù; nell'intimità dell'incontro con Lui sui passi di questo giorno, le sue mani ci cercano, per farci belli, uomini veri, dentro una vita bella, piena, dove tutto è Grazia. Perchè in tutto v'è la traccia del Suo dito pieno d'amore che ci fa belli. Ci salva, ci ridona parola e udito, e, contemplando la sua opera bella in noi, non può che esclamare con le parole dell'amato di fronte all'amata nel Cantico dei Cantici: «Tutta bella sei, compagna mia, difetto non c'è in te!» (Ct. 4, 7). Le sue dita hanno purificato ogni difetto, ai suoi occhi siamo belli come lui. "Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l'amore non è mai «concluso» e completato; si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso. Idem velle atque idem nolle — volere la stessa cosa e rifiutare la stessa cosa, è quanto gli antichi hanno riconosciuto come autentico contenuto dell'amore: il diventare l'uno simile all'altro, che conduce alla comunanza del volere e del pensare (...) in base all'esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me di quanto lo sia io stesso" (Benedetto XVI, Deus caritas est, n.17). Belli come Lui, pensieri, desideri e volontà, tutto bello come in Lui. Belli per ascoltarlo. Belli per annunciarlo. Belli per amarlo. In tutto. In tutti.