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giovedì 31 agosto 2017

Ideologia del dialogo: divinità indù venerata in chiesa













   
di Marco Tosatti                                  31-08-2017 
Idolatria in chiesa

Se avessi meno anni, più energia e più neuroni mi divertirei forse a scrivere un bestiario ecclesiale, elencando alcune – tutte è impossibile – delle scemenze commesse in buona fede da quelli che dovrebbero essere le guide del povero gregge che siamo. A cominciare dal parroco iper-progressista Biancalani che parla di “nemici” (fascisti e razzisti) in un post. Un prete che parla di “nemici” e non di persone da convertire? Ma che prete è? E che vescovo è quello che non lo corregge? Per non parlare del vicario di Ceuta e parroco della cattedrale della città spagnola.
Qualche giorno fa – precisamente domenica scorsa - la cattedrale di Ceuta ha infatti aperto le sue porte per onorare un dio indù, Ganesh. La chiesa, conosciuta anche come santuario della Vergine d'Africa, è stata attraversata da una processione della comunità indù dopo aver percorso le strade della città portando un palanchino su cui era seduto Ganesh. Così, sempre sul palanchino, la statua è entrata in cattedrale ed è stata deposta davanti all’altare. Dopodiché il vicario generale di Ceuta ha tenuto un breve discorso. Ganesh, un dio con il corpo di bambino e la testa di elefante, è una divinità popolarissima che si invoca come buon auspicio, come protezione del commercio, per aprire le strade chiuse, libersi dagli ostacoli e per riuscire in molte altre cose. Di recente, anche in Occidente, c’è stato un forte revival del suo culto.
Ma la presenza di un Dio indù, accolto con canti e fiori in cattedrale, ha provocato sconcerto. Tanto che il vescovo di Cadice e Ceuta, Rafael Zornoza, si è mosso rapidamente. In un comunicato ha definito come negativo il fatto di accogliere all’interno della cattedrale i membri della comunità indù che portavano immagini di una divinità da loro venerata: “Un fatto riprovevole che non doveva essere consentito”. Il vescovo ha espresso il suo profondo dolore per “questo fatto lamentevole che ha potuto causare danno, confusione e scandalo nella comunità cristiana e chiede perdono a tutti quelli che per questa situazione sono stati scandalizzati o confusi”.
Ribadisce rispetto e amore per le varie comunità religiose, che però "fanno sì che siamo sempre più obbligati ad essere fedeli alla nostra tradizione cristiana...Il vicario di Ceuta, debitamente rimproverato per aver permesso queste azioni, si è detto triste per i fatti, riconoscendo che è stato un errore permettere l’ingresso di quest’immagine". E "ha dichiarato che non voleva in nessun momento venerare niente che non fosse nostro unico e vero Dio, ma che la sua intenzione era solo quella di accogliere in segno di rispetto ciò che la comunità indù voleva offrire alla comunità cristiana e alla patrona con un dono floreale all’esterno del tempio senza celebrare nessun tipo di atto religioso. Il vicario ha riconosciuto il danno che ha potuto causare ai fedeli e accetta la sua totale responsabilità presentando le sue dimissioni che sono state accettate”.
Ma non è finita qui. Infatti gli indù hanno deciso di rivolgersi a papa Francesco chiedendogli di riamettere al posto di vicario il sacerdote dimissionario. In un comunicato si scrive che “è sconcertante sapere che invece di premiare il vicario generale di Ceuta, Juan José Mateo Castro, per la sua promozione della fratellanza e della convivenza, la diocesi di Cadice e Ceuta ha deciso di punirlo”. Il comunicato dà anche una lezioncina al vescovo: “C’è bisogno di una comprensione più ampia e inclusiva della religione, nessuna religione è un’isola. Dobbiamo imparare a vedere interconnessioni e interdipendenze fra le religioni. Dio non aveva agenti esclusivi, come molti potrebbero sostenere”.

mercoledì 30 agosto 2017

Un cattolicesimo integrale, fondato sulla tradizione della Chiesa. Così rinasce una parrocchia



Tratto da un articolo apparso il 20 agosto sul sito Cruz, scritto da Valerie Schmalz, giornalista del settimanale dell’arcidiocesi di San Francisco. (Nel video a fianco, padre Joseph Illo, il parroco protagonista dell'articolo, parla dell'importanza della celebrazione ad Orientem. Qui il sito della parrocchia).

Nella solennità dell'Annunciazione, la scorsa primavera, l'arcivescovo di San Francisco Salvatore Cordileone ha dedicato la rinnovata Cappella dell'Adorazione della chiesa Stella del Mare, parlando di «un momento cruciale nella storia di questa parrocchia». «Vogliamo fondare il rinnovamento della nostra parrocchia sulla Santa Eucaristia» ha detto padre Joseph Illo, «il nostro proposito è evangelizzare iniziando dal dono della Santa Eucaristia. Questo significa mettere molta energia nella cura della Messa domenicale, compresa la musica e la predicazione».

Nominato parroco tre anni fa, nell’agosto 2014, padre Illo ha riportato l’attenzione - in una città ultra “progressista” come San Francisco - su aspetti tradizionali del culto. E il risultato è che la frequenza alla Messa e il numero dei parrocchiani sono cresciuti del 10% ogni anno.

«Per la prima volta nella mia vita sento di appartenere a una parrocchia, di appartenervi veramente» dice Eva Muntean, copresidente della Marcia per la Vita della West Coast e che due volte al mese organizza un’attività evangelizzazione di strada, nei pressi di un mercato agricolo non lontano dalla chiesa.

Una delle prime cose padre Illo ha fatto è stato riaprire la bella chiesa in stile romanico dalle 6:30 di mattina alle 5:30 di pomeriggio, ogni giorno, migliorandone l'illuminazione e il riscaldamento. «Ora la gente può fermarsi e accendere una candela» racconta il sacerdote.

Quando è arrivato, la parrocchia fondata nel 1887 nel quartiere di Richmond era in difficoltà. Nonostante la collocazione in una via molto frequentata, le sue porte erano chiuse per la maggior parte della giornata, a parte gli orari delle Messe.

In poco tempo le offerte sono raddoppiate e la parrocchia è stata una delle prime a raggiungere il target proposto ogni anno dall’arcidiocesi, una cifra che serve per contribuire al mantenimento di servizi e apostolati nelle comunità diocesane più in sofferenza. C’è una nuova sezione di Cavalieri di Colombo, un potenziato servizio per i senzatetto, è attivo il Progetto Gabriele per le donne incinte in difficoltà, c’è un gruppo di giovani adulti, un cineforum, un gruppo parrocchiale di filippini e uno di cinesi. Le Messe, in inglese e in latino, sono accompagnate dal canto gregoriano o da musica polifonica.

L’ossatura della parrocchia restano «i buoni e fedeli parrocchiani di lungo corso» dice padre Illo.

«Abbiamo avuto esperienza di diversi pastori, molto diversi fra loro. E abbiamo visto la parrocchia passare per diverse fasi, di crescita, di declino e di rinascita» commenta Lorna Feria, un’amministratrice che è anche responsabile del settore formazione. Lei e suo marito Bud, che hanno cinque figli, sono entrati a far parte della parrocchia 26 anni fa. «Questa che stiamo vivendo è una rinascita».

Le confessioni sono disponibili prima di ogni Messa. «Ciò ha attirato molta gente» ritiene  padre Illo. Dopo la maggior parte delle Messe domenicali ci si ritrova insieme per prendere un caffé e assaggiare dolci fatti da messicani, cinesi e filippini.

«Offriamo uno stile di adorazione più tradizionale, più classico e la risposta del vicinato è molto buona» continua il parroco. «Investiamo in musicisti professionisti», aggiunge, indicando anche l’impegno per la formazione del coro parrocchiale fatto di volontari.

I sacerdoti alla chiesa Stella del Mare distribuiscono la comunione alla balaustra. In Quaresima padre Illo ha iniziato un periodo sperimentale di celebrazione “ad Orientem”, che significa che il sacerdote è rivolto all'altare e al crocifisso durante le parti della Messa dove ministro e popolo si indirizzano a Dio. La Messa nella forma straordinaria del rito romano era iniziata prima dell’arrivo di pare Illo, ora ce ne sono due alla domenica e una quotidiana, in aggiunta alle Messe secondo il rito ordinario, in inglese.

Subito dopo la sua nomina padre Illo ha fatto discutere per la decisione di voler formare solo ragazzi e maschi adulti per il servizio all'altare come ministranti: «Il servizio all’altare è un’esperienza di formazione e di avviamento al sacerdozio, oltre che utile per formare il senso di leadership nei ragazzi, così come lo sono i programmi per sole ragazze in tante delle nostre scuole». Oggi la polemica è svanita.

Tre adulti della parrocchia sono da poco entrati in Seminario e un altro, lo scorso 15 agosto, nel noviziato dei domenicani. Un altro giovane che serviva regolarmente la Messa è entrato in Seminario l’estate in cui padre Illo è arrivato.

«Ho comprato casa nel quartiere di Richmond e uno dei fattori determinanti per la mia scelta è stato il poter accedere facilmente alla parrocchia Stella del Mare» dice Marcus Quintanilla, un avvocato che si è trasferito dal sud della California e spende il suo mercoledì sera facendo adorazione eucaristica insieme alla fidanzata.

In un party che è durato fino alle 2 di mattina, con musica arrosto e sangria fatta in casa, i parrocchiani hanno hanno dato il benvenuto a 13 nuovi cattolici, la maggior parte adulti, che sono stati battezzati la scorsa vigilia di Pasqua.

«Mi stavo allontanando dalla fede e ora sono qui» sorride Mariella Zevallos, artista e insegnante che è stata assunta come coordinatrice a tempo pieno per le attività parrocchiali.

Siracusa 1953, la Madonna piange su un letto nuziale. Pochi anni dopo si scatena l'attacco alla famiglia






In questi giorni ricorre l’anniversario delle lacrimazioni della Madonna di Siracusa.
Il fenomeno iniziò il 29 agosto del 1953 e si protrasse per quattro giorni.
Dal volto di una madonnina di gesso iniziarono a sgorgare delle vere lacrime umane. Le analisi scientifiche ne confermarono la natura.
L’immagine si trovava sul letto nuziale di una giovane coppia di sposi.
Ed è proprio questa collocazione che ci permette di fare qualche riflessione.
La Madonna non dà segni a caso. Né relativamente al segno in sé né relativamente al luogo dove il segno si manifesta.
In questo caso il segno in sé è il pianto; il luogo, un letto matrimoniale, ovvero il segno concreto dell’unione coniugale e quindi della generazione della vita.
Molte volte la Madonna dà dei segni che hanno un valore circoscritto, cioè legato a singole persone e così tutto rimane nel silenzio. Ma se certi fenomeni sono manifesti, cioè hanno una ripercussione pubblica (l’immagine della Madonnina di Siracusa ha pianto per quattro giorni dinanzi a tantissime persone), allora vuol dire che è nella volontà della Provvidenza che sia da molti conosciuto e che abbia un significato che serva per molti.
Dunque, la Madonna di Siracusa ha pianto su un letto matrimoniale e - dicevamo - questo può attenere alla questione della vita.
Infatti sarà a partire soprattutto dagli anni ’60 che inizierà sistematicamente un attacco alla generazione della vita. Un attacco costituito dalla contraccezione chimica, dalle tecniche abortive e dalle conseguenti leggi che ne hanno permesso la legalizzazione, fino ad arrivare ai cosiddetti matrimoni omosessuali con possibile adozioni di bambini.
Ma solo un attacco esterno? Pensiamo di no.
Quando il nemico attacca è perché si è accorto che le difese iniziano ad indebolirsi. Altrimenti aspetterebbe altri momenti.
Qual è la difesa che è venuta meno? Nel periodo postconciliare, pur confermandosi l’illegittimità di separare volontariamente il fine procreativo da quello unitivo,  si è dimenticato che il fine primario di questo atto è quello procreativo.
Un indebolimento che - a nostro parere - ha in un certo qual modo permesso ciò che è avvenuto. Ha permesso cioè di sdoganare nell’immaginario di molti la contraccezione, ma anche altre turpi conseguenze. Infatti, se è possibile unirsi senza procreare, perché non è possibile procreare senza unirsi?
La Madonna Siracusa ha pianto per ciò che sapeva sarebbe avvenuto: la contraccezione, l’aborto, la profanazione e la relativizzazione del matrimonio… fino al figlio su ordinazione per soddisfare capricci e trastulli individuali.

Avanza la fissazione eugenetica dell'Islanda: diventare il primo paese down-free

Avanza la fissazione eugenetica dell'Islanda: diventare il primo paese down-free



L’Islanda mira a diventare il primo paese europeo senza persone affette dalla sindrome di down. Già ora il paese è vicino al raggiungimento del tasso del 100 per cento di popolazione “sana”. Ma a prezzo della vita di molti bambini, che vengono abortiti se affetti dalla Trisomia 21. L’emittente radiotelevisiva statunitense Cbs ha recentemente pubblicato un servizio in cui racconta che le nuove tecnologie e la semplicità dei nuovi test diagnostici prenatali, sempre meno invasivi, permettono di sapere se il feto presenta la sindrome di down. Ad oggi, secondo uno studio del Landspitali University Hospital di Reykjavik, vi fanno ricorso circa l’80-85 per cento delle donne incinte. La tendenza preponderante è quella, una volta ricevuta risposta positiva dal test, di porre fine alla gravidanza. L’Islanda è un paese di circa 400 mila abitanti e il numero di bambini nati con la Trisomia 21 non supera i due all’anno. Hulda Hjartardottir, alla guida dell’Unità Diagnosi prenatale del Landspitali University Hospital (dove nasce circa il 70 per cento degli islandesi) spiega che se nel paese nascono ancora bambini down è perché, per errore, «non vengono segnalati negli screening». In Islanda l’aborto è legale, anche alla sedicesima settimana in caso di anomalie del feto. Ovviamente la madre di un bimbo down non ha l’obbligo di abortire e le diagnosi prenatali sono opzionali, ma in Islanda il governo ha stabilito l’obbligo di informare le mamme in dolce attesa sulla possibilità di effettuare i test.
DOWN SINDROME FREELo statistico Roberto Volpi, che nel 2016 ha scritto il libro La sparizione dei bambini down, denuncia, numeri alla mano, una generale tendenza in tutta Europa (non solo nei paesi nordici, ma anche in Spagna, Grecia, Francia e anche Italia) a evitare quanto più possibile che vengano messi al mondo bambini con la Trisomia 21. L’obiettivo ultimo è quello di rendere il mondo Down Sindrome free. «Innanzitutto dovremmo chiederci se questo sia un traguardo auspicabile» dice Volpi a tempi.it. «Mi sembra che sotto questa ricerca si nasconda, come dice il sottotitolo del mio libro, “un sottile sentimento eugenetico” che non ha ragioni così solide e comprensibili». La scomparsa dei down, scrive Volpi nel suo libro, è segno di una lotta dei servizi sanitari dei paesi più avanzati contro le malformazioni cromosomiche, ma la sindrome di down non è neppure la peggiore. Semplicemente, è più frequente delle altre e per questo è maggiormente al centro dell’attenzione.
UN POSTO NEL MONDO
Bisogna considerare che la qualità della vita di molti ragazzi down è infatti nettamente migliorata rispetto al passato: grazie anche alle iniziative di Stato e a una maggiore sensibilizzazione pubblica, queste persone lavorano, intrecciano relazioni anche sentimentali, godono di maggior autonomia e vivono una quotidianità simile alle cosiddette persone normali. Hanno un deficit intellettivo di circa il 50 per cento della normalità e la loro vita media arriva a 60 anni. «Ora anche i down possono trovare il loro posto nel mondo. È paradossale il fatto che, mentre le prospettive di vita quantitative e qualitative aumentano a dismisura e lo Stato promuove ottimi provvedimenti a tutela dei down, si ha contemporaneamente la tendenza a sopprimere i feti con questa malformazione» dice Volpi.
TEST PRENATALITale tendenza, spiega lo statistico, è una conseguenza diretta delle diagnosi prenatali. «Da quando si riesce a individuare questo difetto genetico, il numero di interruzioni volontarie di gravidanza aumenta». Basta guardare i numeri: sulla base dei dati di Eurocat (un registro europeo tra i più attendibili), da quando sono stati introdotti questi test gratuiti, le nascite di bambini down sono crollate di circa il 60 per cento a livello europeo. Nei registri italiani, considerando il periodo tra il 2008 e il 2012, si riporta che per un totale di 781 casi down, di cui 581 diagnosticati, sono stati abortiti 526 feti con Trisomia 21. In Occidente, quindi, più aumenta il ricorso a questi test prenatali, più sale il numero di aborti.
ABORTO DI SANISecondo l’esperto però «per una questione statistica è impossibile, anche volendo, arrivare alla totale scomparsa dei down». Il fatto che in Islanda si sia arrivati vicino al 100 per cento di popolazione sana si spiega con il numero assai ridotto degli abitanti, ma su larga scala, spiega Volpi, un risultato del genere non è replicabile. Le condizioni necessarie per arrivare a questo obiettivo sono infatti due: che tutti i concepiti down vengano diagnosticati in fase prenatale; che tutti questi feti vengano abortiti. Innanzitutto, sottolinea Volpi, diversi casi sfuggono agli esami non invasivi, che hanno margini di errore molto elevati. D’altra parte, gli esami invasivi (che comprendono la maggior parte dei test prenatali) prevedono, allo stato attuale, il perforamento della placenta, e presentano pertanto il rischio di provocare un aborto spontaneo (si stima 1 caso su 200 nell’amniocentesi e 1 su 100 nella villocentesi). «In pratica, se la diagnosi prenatale è concessa senza nessun criterio selettivo, si rischia di sopprimere feti sani nel tentativo di eliminare i down. Sui grandi numeri, il rischio di aborto è tre volte superiore a quello di avere un bambino down». Tradotto, significa che in media per un bambino down diagnosticato (e conseguentemente abortito) vengono abortiti tre feti sani.
SOGNO EUGENETICO MOSTRUOSOIl rimedio posto dai servizi sanitari a questo quadro è quello di consigliare il ricorso ai test prenatali solo alle donne di età avanzata (generalmente dai 35 anni in su), in quanto più esposte alla procreazione di figli con difetti genetici. Secondo Volpi la soglia dovrebbe essere alzata a 40 anni perché in questo caso il rischio di un concepimento down eguaglia il rischio di aborto connesso agli esami di diagnosi prenatale. Ad ogni modo, le donne al di sotto dei 35 anni, correndo un livello di rischio bassissimo di generare un figlio down, tendenzialmente non ricorrono alle diagnosi prenatali (pur avendone il diritto). Ragionando sempre su grandi numeri però, è inevitabile per ragioni statistiche che prima o poi anche una donna molto giovane che non si è sottoposta ai test partorisca un certo numero di bambini con la Trisomia 21. Se anche è in aumento la tendenza delle under 30 a sottoporsi a questi test, ci sarà comunque sempre una fascia di donne che se ne asterrà. Per questo motivo e per l’inevitabile margine di errore connesso agli esami, conclude Volpi, non si arriverà mai alla totale Down Sindrome freedom. «Ma se anche in futuro si riuscisse a diagnosticare tutti i casi, significherebbe comunque correre il rischio di sacrificare molti bambini sani. Da sogno eugenetico, questa pratica si rivela una mostruosità».

Le parole di san Giovanni Paolo II sui rapporti da tenere con l'islam e sull'immigrazione

Le parole di san Giovanni Paolo II sui rapporti da tenere con l'islam e sull'immigrazione



«In particolare, è importante un corretto rapporto con l’Islam. Esso, come è più volte emerso in questi anni nella coscienza dei Vescovi europei, « deve essere condotto con prudenza, con chiarezza di idee circa le sue possibilità e i suoi limiti, e con fiducia nel progetto di salvezza di Dio nei confronti di tutti i suoi figli ». È necessario, tra l’altro, avere coscienza del notevole divario tra la cultura europea, che ha profonde radici cristiane, e il pensiero musulmano» (n. 57).

«100. Tra le sfide che si pongono oggi al servizio al Vangelo della speranza va annoverato il crescente fenomeno delle immigrazioni, che interpella la capacità della Chiesa di accogliere ogni persona, a qualunque popolo o nazione e sa appartenga. Esso stimola anche l’intera società europea e le sue istituzioni alla ricerca di un giusto ordine e di modi di convivenza rispettosi di tutti, come pure della legalità, in un processo d’una integrazione possibile.
Considerando lo stato di miseria, di sottosviluppo o anche di insufficiente libertà, che purtroppo caratterizza ancora diversi Paesi, tra le cause che spingono molti a lasciare la propria terra, c’è bisogno di un impegno coraggioso da parte di tutti per la realizzazione di un ordine economico internazionale più giusto, in grado di promuovere l’autentico sviluppo di tutti i popoli e di tutti i Paesi.

101. Di fronte al fenomeno migratorio, è in gioco la capacità, per l’Europa, di dare spazio a forme di intelligente accoglienza e ospitalità. È la visione «universalistica» del bene comune ad esigerlo: occorre dilatare lo sguardo sino ad abbracciare le esigenze dell’intera famiglia umana. Lo stesso fenomeno della globalizzazione reclama apertura e condivisione, se non vuole essere radice di esclusione e di emarginazione, ma piuttosto di partecipazione solidale di tutti alla produzione e allo scambio dei beni.

Ciascuno si deve adoperare per la crescita di una matura cultura dell’accoglienza, che tenendo conto della pari dignità di ogni persona e della doverosa solidarietà verso i più deboli, richiede che ad ogni migrante siano riconosciuti i diritti fondamentali. È responsabilità delle autorità pubbliche esercitare il controllo dei flussi migratori in considerazione delle esigenze del bene comune. L’accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi.

102. Occorre pure impegnarsi per individuare forme possibili di genuina integrazione degli immigrati legittimamente accolti nel tessuto sociale e culturale delle diverse nazioni europee. Essa esige che non si abbia a cedere all’indifferentismo circa i valori umani universali e che si abbia a salvaguardare il patrimonio culturale proprio di ogni nazione» (nn. 100-102).

martedì 29 agosto 2017

Centrafrica, la finta pace della Sant'Egidio






 






di Anna Bono                28-08-2017 
Repubblica Centrafricana

Disinteresse per le guerre africane: è una delle accuse spesso rivolte all’Italia, all’Europa, all’Occidente. L’accusa è palesemente ingiusta perché dappertutto dove si combatte ci sono missioni militari di pace e interventi umanitari finanziati in gran parte o del tutto dall’Occidente. Neanche il silenzio che si rimprovera ai mass media è vero. Magari frammentarie e non di rado imprecise, ma in Italia si pubblicano notizie sull’Africa e sulle sue crisi più che su altri continenti.
Di una crisi in effetti, quella della RCA, Repubblica Centrafricana, si parla poco, ma perché molti credono che ormai sia stata risolta. In questo piccolo paese ricco di diamanti è scoppiata una guerra nel 2012 quando la minoranza islamica (15% della popolazione) si è armata creando una milizia chiamata Seleka, rafforzata da migliaia di combattenti stranieri. Nel 2013 Seleka ha preso il potere con un colpo di stato ed è iniziata la persecuzione dei cristiani, con chiese profanate, saccheggi e distruzione di edifici religiosi, massacri, stupri, torture.

Per difendersi i cristiani allora si sono organizzati in gruppi armati anti-Balaka (anti-machete), che però ben presto, oltre a proteggere le comunità cristiane minacciate, hanno iniziato una caccia ai musulmani. Alla fine del 2013 il paese era in una situazione definita dall’Onu di “pre-genocidio”, i cristiani in fuga dai territori in mano ai ribelli, i musulmani da quelli a maggioranza cristiana. I combattenti non hanno deposto le armi nemmeno quando nel 2014, su pressione internazionale, il leader Seleka Michel Djotodia ha lasciato la carica conquistata con la forza. Gli scontri sono continuati con conseguenze drammatiche mentre Seleka e anti-Balaka si frantumavano in decine di gruppi: oltre alle numerose vittime, oggi si contano più di un milione tra sfollati e rifugiati, su 4,5 milioni di abitanti.
Il 19 giugno scorso il governo centrafricano e 13 gruppi armati hanno firmato un cessate il fuoco con effetto immediato e un’intesa su varie questioni di carattere economico, politico, umanitario e sociale. L’annuncio è stato dato dalla Comunità di Sant’Egidio nella cui sede romana si sono svolti i colloqui e alla quale va il merito dell’accordo raggiunto, che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha definito “un importante passo avanti per la pace e la stabilità del paese”.
Ma in realtà il cessate il fuoco non è mai entrato in vigore. Nei due giorni successivi alla firma scontri violentissimi hanno fatto 100 morti. Da allora ogni giorno ci sono stati combattimenti, razzie, violenze. Come in passato, le milizie islamiche antigovernative, che ormai controllano più del 70% del paese, non risparmiano nessuno e gli anti-Balaka non sono da meno.

Uno degli episodi più cruenti, con decine di morti, si è verificato ad agosto. Tra il 3 e il 4 agosto gli anti-Balaka hanno liberato Gambo, una cittadina del sud est, dai Seleka che la occupavano da quattro anni. Qualche giorno dopo però un anti-Balaka per qualche motivo ha sparato a dei caschi blu della Minusca, la missione Onu di peacekeeping. La reazione dei militari Onu, racconta monsignor Juan Jose Aguirre Munoz, vescovo della diocesi di Bangassou, “è stata fortissima, micidiale: hanno sparato contro tutto quello che si muoveva”, inclusi i civili. Informati che i caschi blu avevano messo in fuga gli anti-Balaka – prosegue il racconto monsignor Munoz in una intervista rilasciata a Radio Vaticana – i Seleka sono tornati a Gambo ed è stato un altro massacro. I miliziani sono entrati anche nell’ospedale dove hanno ucciso sei dipendenti della Croce Rossa e molti pazienti: “hanno preso queste persone, le hanno sgozzate. Anche i bambini malati hanno subito la stessa sorte. È stato un disastro”.
Il motivo per cui l’accordo è sostanzialmente fallito è che i gruppi armati sono decine, quelli convenuti a Roma rappresentano se stessi e non sono neanche tutti centrafricani, il governo conta poco. “Per discutere – sostiene padre Aurelio Gazzera da decenni missionario a Bozoum, 400 chilometri a nord ovest della capitale Bangui – le parti devono essere a un livello di forza simile. Qui abbiamo i potenti, che sono i gruppi armati, e dall’altra parte delle nullità come il governo e l’Onu. Per questo la grande soddisfazione espressa dal Consiglio di sicurezza per l’accordo di Roma è fuori luogo”.

I vescovi centrafricani hanno criticato sia la scelta degli interlocutori che l’atteggiamento dei mediatori, “troppo remissivo nei confronti dei gruppi ribelli che si sono macchiati di crimini indicibili”. “Lo stato ha cessato di esistere – spiega il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo della capitale – i signori della guerra regnano con il terrore, hanno diritto di vita e di morte sulle persone” e poiché detengono il controllo di gran parte del territorio nazionale, prosperano sul commercio di armi, diamanti, legno, oro e altre risorse minerarie.
Il cardinale Nzapalainga ha più di un motivo di criticare l’accordo. A sua insaputa, un esponente politico centrafricano lo ha firmato a suo nome. Venutone a conoscenza, monsignor Nzapalainga ha ufficialmente smentito di ave mandato qualcuno a Roma né per proprio conto né per conto della Conferenza episcopale.
In RCA nessuno si era illuso che l’accordo servisse a qualcosa. “Se esistesse un premio mondiale degli accordi senza futuro – commentava RCAnews all’indomani della firma – il Centrafrica lo avrebbe già vinto più volte. L’ultimo (quello di Sant’Egidio) consacra il primato dell’impunità sulla giustizia dal momento che in base all’accordo “il governo si impegna a  garantire che i gruppi militari siano rappresentati a tutti i livelli e partecipino alla ricostruzione”. 

lunedì 28 agosto 2017

Negri: ideologico è il relativismo e il dialogo non la battaglia per la libertà di educazione










   
di Riccardo Cascioli                             28-08-2017 
Negri con don Giussani

30 ottobre 1999, Piazza san Pietro: decine di migliaia di studenti, insegnanti e genitori delle scuole cattoliche si ritrovano per una grande manifestazione. E al grido di “Li-ber-tà, li-ber-tà”, accompagnano le parole del Papa san Giovanni Paolo II che, a loro nome, chiede «con forza ai responsabili politici e istituzionali che sia rispettato concretamente il diritto delle famiglie e dei giovani ad una piena libertà di scelta educativa».
Diciotto anni, ma sembra passato un secolo. Non per la disparità tra scuole statali e scuole paritarie, che è sostanzialmente rimasta la stessa, ma perché oggi appare completamente mutato il clima culturale in casa cattolica. E alla battaglia per la libertà gradualmente si stanno sostituendo nuove istanze.

Ne sono un esempio le ultime edizioni del Meeting di Rimini, espressione del movimento di Comunione e Liberazione, dove ai temi della scuola è sempre dedicato un ampio spazio. Fece scalpore nel 2015 il titolo di un incontro (“Statale o paritaria, l’importante è che sia migliore”), una notevole virata rispetto al passato; nell’edizione appena conclusa ha invece scandalizzato molti un intervento del professor Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e organizzatore degli incontri sulla scuola, teso a dipingere come ideologiche le battaglie del passato sulla libertà educativa. «Basta ideologie – ha tuonato Vittadini – è finito quel mondo. Adesso il mondo è il dialogo». E per esplicitare il concetto, ha anche aggiunto che nel dialogo è bene che si perda la certezza dell’identità e si cambi idea: «La scuola deve essere un cambiamento di teoria: alla fine dell’anno non si capisce più chi è il professore comunista, cattolico o agnostico; c’è stato un ripensamento, perché un uomo intelligente cambia idea e i ragazzi sono contenti».
Per capire lo sconcerto che hanno creato le affermazioni di Vittadini bisogna ricordare che negli ultimi decenni CL è stata l’anima delle battaglie per la libertà di educazione e centinaia sono state le scuole paritarie nate dal comune impegno di genitori e insegnanti del movimento. Già nel 1960, don Luigi Giussani, il fondatore di CL, nella difesa della scuola libera scriveva su “Vita e Pensiero” che una «educazione intensa e profonda» può essere offerta solo da una scuola «che proponga una definita visione delle cose come sviluppo della tradizione originale dell’allievo», ovvero una scuola «il più possibile in connessione con l’ambiente in cui il ragazzo è sorto». La preoccupazione educativa è al cuore dell’esperienza di don Giussani, e non per niente per il suo genio educatore don Giussani è accostato a san Giovanni Bosco.
Abbiamo perciò chiesto di intervenire nel dibattito a monsignor Luigi Negri, arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio, che per decenni è stato strettissimo collaboratore di don Giussani nella responsabilità degli insegnanti e degli studenti delle scuole superiori.
Monsignor Negri, davvero le battaglie degli scorsi decenni per la libertà di educazione sono state ideologiche?Credo che si tratti di affermazioni molto gravi. Nessuno può avere l’autorità di definire ideologiche, insensate, inutili queste battaglie come se si trattasse semplicemente di opinioni che si possono cambiare quando lo si ritenga opportuno. Bisogna peraltro ricordare che il mondo cattolico ha sempre posto il problema di una autentica possibilità di educazione articolata e quindi pluralistica. Ma CL ha dato forza e nuovi argomenti a questa richiesta costruendo realtà educative coerenti con il tema della libertà di educazione agitato da don Giussani fin dai primi giorni della storia del movimento. Ricordo una frase tra tutte, quella rimasta più famosa: “Mandateci in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educazione”.
Crede che certi interventi come quelli ascoltati al Meeting siano un incidente di percorso o possano costituire davvero un cambiamento profondo nella concezione educativa?Il ripetersi di certi interventi segnala che si tratta di una cosa ben più grave di un incidente di percorso. Nell’ambito di un movimento che incarna la proposta educativa di don Giussani è inconcepibile una immagine di scuola in cui prevale uno scambio di idee alla fine del quale ciascuno ha diminuito un po’ le proprie intenzioni e aumentato le intenzioni opposte. O una concezione di personalità dell’uomo e della sua identità morale e intellettuale che è espressa dalla sua capacità di cambiare opinione. Con buona pace del professor Vittadini, la personalità di un uomo è espressa dallo sviluppo organico delle condizioni proprie che nel dialogo, nel confronto con posizioni diverse matura e acquisisce una profondità sempre nuova. Così diventa capace di interloquire efficacemente con la realtà culturale e sociopolitica circostante.
Davanti a certi interventi, credo che coloro che guidano il movimento debbano dire con chiarezza se e in che misura c’è stato o c’è un distacco radicale dalla concezione di educazione e di scuola che il movimento ha fatto sua per decine di anni. Lo si deve alle migliaia di adulti che, in nome della libertà di educazione, all’inizio degli anni ‘80 si sono sacrificati per consentire al movimento di acquisire il complesso dell’Istituto Sacro Cuore a Milano pagando di propria tasca cifre che erano imponenti per il bilancio delle famiglie; né peraltro posso dimenticare il sacrificio di migliaia di famiglie che hanno a loro tempo fatto nascere scuole libere orientate cattolicamente o hanno rinunciato ai benefici di un certo benessere per sostenere l’ingresso nelle scuole cattoliche dei propri figli. Né posso dimenticare quegli insegnanti - e sono centinaia – che hanno per anni rinunciato molte volte al più comodo posto statale pur di sostenere questa trama di scuole libere cattolicamente qualificate, che rappresentavano per coloro che le frequentavano la possibilità di uno svolgimento critico e sistematico della posizione cattolica.
Parlando di educazione parliamo dei giovani, come si pone oggi il problema educativo?Quello che manca ai giovani è la possibilità di una autentica educazione. Come ho sottolineato più volte (vedi la tragedia di Manchester), i giovani vengono abbandonati nella vita senza una ipotesi adeguata di lavoro. E questa assenza li rende fragili culturalmente, psicologicamente e affettivamente, non in grado di affrontare tutte le sfide che la realtà pone loro. La realtà non è cattiva, è provocante ma per leggere la provocazione bisogna avere una concezione adeguata di sé e della realtà. E qui emerge il pericolo che si presenti una visione qualunquistica e relativistica come quella che ho sentito espressa in molte posizioni, non solo negli interventi del professor Vittadini. Oggi non è il momento di qualunquismi o di de-ideologizzazione forzata (e quindi violenta) della situazione. È importante invece che le culture presenti nel nostro paese vadano fino in fondo della loro identità, sappiano formulare le loro proposte in modo completo, organico, significativo, così da proporre delle ipotesi di lavoro.
E qui ritorna il tema delle scuole libere. Dopo tanti anni di battaglie è cambiato qualcosa?È cambiato molto poco. Le forze culturali e politiche laiciste hanno sempre teso a rimandare l’affronto di queste problematiche con l’osservazione che le cose andavano bene così. Ma andavano bene così solo a una parte. È venuto il momento di chiederci come mettere in atto un cammino di confronto, di dialogo che renda possibile il cambiamento della scuola in modo che corrisponda alle esigenze di tutti coloro che vivono nel nostro paese, che hanno in questo nostro paese il diritto a svolgere la propria personalità in piena libertà e con coerenza ideale e pratica. Finché non si ritorna a questo problema e lo si carica di tutta la forza della qualità, la democrazia – come scriveva Hanna Arendt – rischia di essere una pura procedura meccanica e quindi di non riuscire a superare la tentazione del totalitarismo. La democrazia procedurale e totalitaria è un pericolo non lontano dalla situazione sociale e politica del nostro paese.
Lei ha parlato di dialogo, e oggi ovunque si insiste sulla necessità del dialogo, è quasi un'ossessione. Ma si ha l’impressione che il dialogo da metodo sia diventato il contenuto stesso.Quello che domina oggi è l’ideologia del dialogo, rendendolo fine a se stesso. Ma il dialogo vero è l’espressione di una identità. Don Giussani diceva: «Siamo tanto più in grado di dialogare con tutti, quanto più abbiamo la coscienza della nostra identità, intellettuale e storica, l’abbiamo assimilata adeguatamente, e siamo in grado di proporla in modo ragionevole», “pronti a dare in ogni momento ragione della speranza che è in voi”, diceva san Pietro. Oggi si può sentir dire “siamo in dialogo”, ma questa espressione non ha alcun fondamento e soprattutto non ha alcun contenuto. Così diventa una enorme logomachia in cui tutti parlano ma l’assenza o l’equivoco sulle radici ideali, rende vaniloquente la questione. Quello che oggi domina è il ripetere in modo accanito che bisogna dialogare, “che bello dialogare”, senza riuscire a dare nessun contenuto esperienziale. Il dialogo è una esperienza, è l’esperienza di una identità che consapevole di sé si pone nel contesto della vita sociale, investe questo contesto di vita sociale di proposte chiare ed è in grado di confrontarsi con tutti coloro che sono interessati a questo confronto. Ma la diversità delle identità all’origine è assolutamente indiscutibile.

venerdì 18 agosto 2017

OMELIA NELLA SOLENNITA’ DI S. AGAPITO MARTIRE

parmeggianiSignor Sindaco, illustri autorità civili e militari dei Comuni del territorio diocesano, cari sacerdoti, diaconi, consacrati e consacrate, fratelli tutti nel Signore!


La Provvidenza ha voluto che il mio primo incontro liturgico con questa comunità prenestina - dopo la Santa Messa celebrata fuori programma dalla Clarisse nel giorno di Santa Chiara, cada nel giorno di Sant’Agapito. 

Un incontro liturgico sulla piazza. La piazza che è da sempre luogo di incontro tra persone diverse, luogo di scambi e relazioni reali e non virtuali. Relazioni che, nella verità, con spirito di leale corresponsabilità - pur nel rispetto dei ruoli e delle competenze di ciascuno -, è oggi quanto mai necessario tenere vive e possibilmente incrementare affinchè, insieme, perseguiamo quel bene comune tanto necessario non solo per la nostra città ed i Comuni della Diocesi ma anche per l’Italia, per la nostra Europa –sempre più stanca perché ha abbandonato le proprie radici cristiane -, per il bene del mondo intero sempre più minacciato da odi e fanatismi di varia matrice, da venti di guerra, da poco rispetto per la dignità della vita dal suo concepimento alla sua morte naturale. Il bene comune tanto necessario per la difesa e promozione della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna ed aperta alla vita e per il bene e la protezione di coloro che la cosiddetta cultura dello scarto ci vorrebbe indurre progressivamente a eliminare: i malati, gli anziani, i poveri, gli immigrati, i carcerati, coloro che non rendono più nulla…

Cari amici, sappiate che su questa piazza la Chiesa desidera esserci, vuole esserci per portare quel contributo tanto necessario all’uomo di oggi come lo è stato ieri e lo sarà sempre: Gesù Cristo ed il suo Vangelo! 

Non desidera esserci per lucrare favori, per curare i propri interessi economici o di altra natura ma perché tutti aprano le porte dei loro cuori a Cristo e Lui, con il Suo amore che dà fiducia a tutti coloro che lo cercano, possa attrarre a sé ancora tanti uomini e donne che non trovano il senso pieno da dare alla loro vita, la felicità che soltanto Cristo sa e può dare.

Un incontro liturgico, poi, - quello odierno – inserito nella massima forma di prenestinità: la festa di S.Agapito, giovane martire e patrono di questa Città e Diocesi. Festa che è espressione della pietà popolare di questo bel popolo. La pietà popolare la quale, scrive Papa Francesco nell’ Evangelii gaudium , ha in sé una forza evangelizzatrice da non banalizzare o sottovalutare con superficialità ma da considerare – egli dice – quale “autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio”. Se noi oggi siamo qui a rendere grazie al Padre, con Cristo, nello Spirito per la fede del giovane martire Agapito è perché la fede ricevuta dai nostri avi si è trasmessa fino a noi da una generazione all’altra tramite non soltanto una fede dotta ma con quella vera “spiritualità incarnata nella cultura dei semplici” che è “un modo legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa, e di essere missionari” (EG, 124).
Certamente la pietà popolare, nella nostra cultura neo-pagana, rischia spesso di rimanere priva di contenuto, di fondamento e anziché trasmettere la fede potrebbe essere di intralcio ad essa. Come insegna il Papa “Per capire questa realtà c’è bisogno di avvicinarsi ad essa con lo sguardo del Buon Pastore, che non cerca di giudicare ma di amare. Solamente a partire dalla connaturalità affettiva che l’amore dà possiamo apprezzare la vita teologale presente nella pietà dei popoli cristiani – scrive il Papa -, specialmente nei poveri…”. Le varie forme di pietà popolare con le sue espressioni, dice Papa Francesco, hanno molto da insegnarci e, per chi è in grado di leggerle, sono un luogo teologico a cui dobbiamo prestare attenzione, particolarmente nel momento in cui pensiamo alla nuova evangelizzazione.
Giunga dunque qui il mio grazie a chi, anche tramite la pietà popolare, ha trasmesso la fede cristiana fino ad oggi. Ora, senza nostalgie per un passato che non tornerà più, guardando alla grande fede del martire Agapito, testimoniata fino al martirio, impegnamoci a non sottovalutare la pietà popolare ma a innervarla con una maggiore “evangelicità”, “ecclesialità”, “missionarietà”. Senza ancoraggio nel Vangelo letto quotidianamente con la Chiesa e nella Chiesa; senza senso di appartenenza alla Chiesa – popolo di Dio guidato dal Vescovo quale successore degli Apostoli in mezzo a voi -; senza missionarietà ossia impegno per trasmettere la fede con la vita, la pietà popolare non regge come non regge nessuna altra forma che pur desiderosa di evangelizzare, mai potrà farlo veramente poichè mancante di queste dimensioni.
Chiedo pertanto a tutti, affinchè la trasmissione della fede nelle nostre terre sia la più incisiva possibile, che si intensifichino momenti di formazione alla vita cristiana, di incontro con la Parola di Dio, con i sacramenti – a partire da quelli dell’Eucaristia e della Confessione -, ci si senta Chiesa e non “chiesuole”, federazioni autonome dell’unica e sola Chiesa cattolica che qui, su questo territorio, deve vivere unita, in comunione, nell’amore e nella fraternità intorno al Vescovo e il proprio presbiterio per annunciare l’Unico che salva.

Questo incontro liturgico è poi segnato dalla memoria del giovane Martire Agapito. Figlio di questa terra che ha fecondato bagnandola con il suo sangue. Il grande Tertulliano diceva che “Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”. E questo è stato sicuramente vero per questa comunità prenestina che ha mantenuto viva nei secoli la fiamma della fede nel Risorto testimoniata da Agapito.
Ma ora tocca a noi!
Mentre sulla piazza celebriamo il Risorto che ancora oggi viene a noi nell’Eucaristia, percorrendo tra poco le vie della nostra città in una processione che sarà manifestazione della nostra fede, impegnamoci a vivere le parole del Risorto agli undici discepoli che abbiamo ascoltato nel Vangelo. Parole che valsero per loro ma che valgono anche per noi oggi: valgono per me, per i nostri sacerdoti, diaconi, consacrate ma anche per tutti i battezzati, per tutti coloro che tramite il Battesimo hanno ricevuto la forza dello Spirito Santo, frutto della Pasqua di morte e risurrezione del Signore.
Che tutti sentiamo forti e vere per noi le parole: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” con la certezza che non siamo soli ma come ha concluso Gesù e come si conclude il Vangelo di Matteo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.     

Si, cari amici, al termine della sua missione, Gesù chiede ai suoi discepoli di andare sul monte, luogo dell’incontro tra Dio e l’umanità, andare sul monte con anche i nostri dubbi, le nostre fatiche nel credere affinchè possiamo incontrare Gesù, adorarlo ossia respirando bocca a bocca con Lui riceviamo il suo Spirito, l’amore che c’è tra Lui e il Padre e conoscendo il Figlio, facendo una forte esperienza di comunione con Lui, tutti viviamo il suo stesso potere: quello di farsi fratello di tutti perché ogni uomo sia immerso nell’unico amore del Padre e del Figlio, amore che abilita a fare quanto Gesù ha ordinato.

Cari amici: il Crocifisso-risorto non ha esaurito il suo compito, né si assenta dal mondo. E’ presente come l’Emmanuele, il Dio-con-noi perché in ciascuno di noi si compia ciò che in Lui si è già compiuto e la Chiesa, nella fraternità, nell’amore, nella capacità di perdono, nella santità di vita dei suoi membri – a cominciare da quelli che il Signore ha chiamato a seguirlo più da vicino quali sacerdoti o consacrati – possa portare avanti nella storia ciò che Gesù ha detto e fatto, fino a che in ogni uomo rifulga la gloria di Dio.

Da un giovane, morto martire a soli 15 anni pur di rimanere fedele al Dio di Gesù Cristo, con umiltà impariamo a intessere tra noi relazioni buone accettando anche di morire a noi stessi; impariamo a trasmettere la fede donandola perché solo così essa si rafforza, impariamo la missionarietà che  non significa imporre il nostro Credo ma viverlo in comunione e amicizia affinchè chi ci vede si senta attratto dall’amore cristiano e desideri viverlo intensamente, anche fino al martirio se fosse necessario.

Il Signore, per intercessione di S.Agapito, ci doni quanto oggi, con fede e umiltà, in comunione gli chiediamo. Amen.

+ Mauro Parmeggiani