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martedì 14 novembre 2017

I martiri russi, testimonianza di fede sotto il regime ateo

  • 14-11-2017
L'icona dei Nuovi Martiri (dettaglio)
Sono 2000 i “nuovi martiri” riconosciuti dalla Chiesa ortodossa russa, all’indomani del crollo del regime comunista. Sono la testimonianza vivente di quanto la fede abbia resistito, fino alla morte, sotto l’ateismo di Stato. Li ha ricordati il metropolita Ilarion, sul canale televisivo Russia 24.
“Più grande sarà il numero di rappresentati del clero e della borghesia reazionaria che riusciremo a giustiziare meglio sarà”, scriveva Lenin durante la carestia del 1921, causata dalla sua politica di confische e collettivizzazione, ma imputata all’“egoismo” del clero e dei contadini proprietari. Mantenne alla lettera questa promessa di morte.  La Chiesa cattolica, minoritaria in Russia, ha i suoi martiri. Il primo è monsignor Konstantin Budkiewicz, polacco, fucilato la notte di Pasqua del 1923 (meno di un anno dopo la fondazione ufficiale dell’Unione Sovietica) nel sotterraneo della Lubjanka, la storica sede della Ceka, la prima polizia politica voluta da Lenin. Il processo di beatificazione è cominciato nel 2002. Attualmente i candidati sono 15 Servi di Dio. Monsignor Ropp, arcivescovo dei cattolici romani in Russia ai tempi della rivoluzione, arrestato nel 1919, venne poi risparmiato e rilasciato. Ma il suo successore Jan Cieplak, polacco, fu al centro di uno dei primi processi-farsa di massa. Fu in quell’occasione che venne fucilato monsignor Budkiewicz.
“Per la Chiesa stanno tornando i tempi di Diocleziano. Non è un’esagerazione, ma un dato di fatto – scriveva il beato Leonid Fëdorov, ucraino - Ringraziamo Dio di tutto! È la giusta punizione del clero per l’indolenza, l’egoismo, il poco amore verso il gregge affidatogli. I fedeli stanno a guardare apaticamente le chiese abbandonate da Dio e devastate (…) Non avrei mai pensato che ci sarebbe stato chiesto di portare una croce tanto grande”. Fëdorov trascorse dieci anni da un gulag all’altro, dal 1923 al 1933, finché non morì a Vjatka nel 1935. “Se si perde la fede, si perde se stessi e allo stesso tempo la propria moralità, trasformandosi in bestie. Tutti i violenti, senza eccezioni, al di là dei modi in cui definiscono se stessi, hanno la stessa filosofia: ‘Se Dio non esiste, tutto è permesso’”, scriveva padre Felix Lubicinski, morto in un campo di concentramento nel 1931. Eduard Profittlich, vescovo tedesco dell’Estonia, rimase nella capitale Tallinn anche dopo l’invasione sovietica del 1940. Scrisse come fosse normale rimanere accanto al proprio gregge, “Così, la mia vita e, se necessario, anche le mie sofferenze, saranno vita e sofferenze per Cristo”. Venne condannato a morte alla fine del 1941 e morì in carcere, a Kirov, il 22 febbraio 1942, prima che venisse eseguita la sentenza.
Ancor meno conosciuti, da noi, sono l’esempio e il martirio dei numerosi sacerdoti ortodossi, fucilati o condannati a lavori forzati fino alla morte. Sono gli oltre 2000 “nuovi santi martiri” ricordati dal metropolita Ilarion, capo del Dipartimento per i rapporti esterni del Patriarcato: “La Chiesa ha dato il suo giudizio sulla rivoluzione, canonizzando i martiri e i confessori nel sinodo del 2000. Allora sono stati proclamati circa 1000 santi, che ora sono già più di 2000. Erano semplici fedeli, monaci e monache, sacerdoti e vescovi, quasi tutti fucilati dalla polizia sovietica”. Fra questi i russi amano ricordare, per esempio, il metropolita Beniamino di San Pietroburgo. Quando i bolscevichi invasero la cattedrale dedicata ad Aleksandr Nevskij, profanandola con metodi non troppo diversi da quelli dell’Isis ai giorni nostri, il metropolita (che stava celebrando la Messa) pregò per loro: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”. Non faceva distinzioni politiche, era diventato un punto di riferimento per tutta la cittadinanza negli anni bui della guerra civile. Quando, nel 1922, Lenin decretò la nazionalizzazione dei beni della Chiesa per la loro redistribuzione, il metropolita Beniamino giunse a un accordo per distribuire i beni volontariamente, all’interno della diocesi. Tuttavia rifiutò i preti che venivano ordinati con la “benedizione” del Partito, come oggi avviene ancora regolarmente in Cina. E i comunisti trovarono tutti i pretesti per fargliela pagare: venne condannato per “resistenza alla confisca dei beni” e fucilato il 14 agosto 1922. Non abiurò mai la sua fede.
Sono tantissimi i martiri negli anni delle grandi purghe staliniane, in particolar modo nel terribile 1937, anno nero delle esecuzioni di massa. Furono persone semplici, quasi tutti contadini in origine, pope di campagna dalla fede fortissima e di grande spirito. Come Simeon Subbotin, accusato di sabotaggio e cospirazione. L’inquisitore del Nkvd (come veniva chiamata la polizia politica negli anni ’30) lo accusò perché le sue capre andavano a mangiare nelle terre collettivizzate. “Da un punto di vista politico, questo è chiaramente un caso di sabotaggio e non può essere interpretato altrimenti”, rispose il sacerdote, ormai ottuagenario, ridicolizzando i suoi aguzzini. Sparì nel nulla dopo quell’interrogatorio, nell’inverno del 1937. I suoi parenti poterono conoscere la sua sorte solo nel 1956, all’inizio della “destalinizzazione”: era morto nel campo di concentramento di Kargapol il 3 gennaio 1938. Padre Vasilievich Bakhmatov, ammise la sua “colpa”: viaggiare di villaggio in villaggio per battezzare, pur senza aver l’autorizzazione di Stato. Accusato di far parte di una inesistente “organizzazione controrivoluzionaria unificata”, non fece nomi, non rinnegò mai la fede e venne fucilato il 10 novembre 1937.
“Ho chiesto ai fedeli di non lasciar chiudere le chiese. Non importa quanto a lungo durino le autorità sovietiche, quanto a lungo possano umiliarci e imporre la blasfemia, verrà un giorno in cui torneremo a vivere una vita degna” – scriveva un altro martire delle grandi purghe staliniane, Yakov Noskov. Avvertito da un suo compaesano del suo arresto, aveva scelto deliberatamente la via del martirio: “Che mi fucilino, non ho paura – aveva risposto – Se dovessi soffrire per mano delle autorità sovietiche, riceverò un premio da Dio: il Paradiso”. I russi ortodossi ricordano le parole di uno dei martiri, il vescovo Serafino Chicagov, che nel 1910, sette anni prima della rivoluzione, scriveva profeticamente: “Tutto sta crollando. La società più istruita sta perdendo tutta la sua comprensione di cosa sia il Cristianesimo. Ogni giorno vedo coi miei occhi la corruzione del nostro clero (…) Cosa accadrà al nostro paese? Perirà assieme a noi. La nostra agonia, la nostra morte, sono vicine”. Nel 1937, arrestato per l’ennesima volta dalle autorità sovietiche, lasciò invece scritto: “La Chiesa ortodossa sta subendo processi molto gravi. Chiunque rimarrà fedele sarà salvato. Poiché a causa delle persecuzioni molti stanno lasciando la Chiesa, altri la stanno tradendo. Ci sono stati tanti altri periodi di persecuzione nella storia, ma tutti sono finiti con il trionfo di Cristo”.
Nel ricordare i martiri russi del comunismo, il metropolita Ilarion ha dichiato: “Si tratta degli avvenimenti più tragici della nostra storia, che oggi vengono valutati secondo diversi punti di vista, sia per gli stessi eventi rivoluzionari, sia per quanto riguarda le vicende successive. La Chiesa ha indicato con chiarezza chi erano le vittime, e chi i carnefici. Se il potere degli uomini si rivolge coscientemente e dimostrativamente contro Dio, significa che questo potere non viene da Dio e gli uomini che lo servono non compiono la volontà di Dio, ma la volontà di qualcun altro”.

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