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mercoledì 25 luglio 2018




Il suicidio della Femen e il tragico inganno del femminismo



«Sempre più donne vedono il femminismo come irrilevante, se non addirittura dannoso per gli interessi delle donne (e delle famiglie)». Così ha scritto Naomi Schaefer Riley sul New York Post. Il tema torna d’attualità dopo la tragica notizia del suicidio di Oksana Shachko (nella foto), 31 anni, co-fondatrice del movimento femminista Femen.
Un gruppo, quello delle Femen, che ha sfruttato la giusta battaglia culturale per l’equiparazione morale della donna all’uomo, trasformando il femminismo in fascismo rosa. Combattono l’immagine della donna oggetto ma lo fanno denudandosi per dare più forza al loro messaggio, confermando solamente il pregiudizio di chi non ritiene la donna capace di catturare l’attenzione senza scoprire le gambe. Proclamano l’emancipazione radicale dagli uomini, ma sono comandate a bacchetta da Viktor Svyatskiy, il padre-padrone che studia e finanzia i loro cinque minuti di notorietà.
Non si conosce ancora la causa del suicidio per impiccagione della giovane Oksana, a cui vanno le nostre preghiere. Al di là di ciò che l’ha portata a compiere tale terribile gesto ed indipendentemente da questo, la giovane donna  (come le compagne che lascia) è stata una delle tante vittime del femminismo. Ricordiamo l’opposta decisione di una sua collega, l’ex Femen Sara Fernanda Giromini, che ha abbandonato “la setta” delle Femen (come le definisce), denunciando che «il loro lo scopo è di infiammare l’odio contro la religione cristiana, l’odio contro gli uomini, l’odio contro la bellezza delle donne, l’odio contro l’equilibrio delle famiglie. Questo è ciò che il femminismo è, posso garantirlo perché io ci sono stata dentro. Oggi sono molto più felice e sono in grado di aiutare le donne». La stessa donna ha rivelato in queste ore che Oksana era in disaccordo con le leader di Femen, Inna e Sasha Shevchenko, perché usavano la causa femminista e il dolore delle donne ucraine (che soffrono per il turismo e lo sfruttamento sessuale), solo per arricchirsi e diventare famose.
Il «paradosso del declino della felicità femminile», hanno sottolineato le studiose Betsey Stevenson e Justin Wolfers dell’University of Michigan, aumenta all’allontanare l’attenzione dalla famiglia, favorendo l’emancipazione da essa in favore della carriera lavorativa. La sociologa Dana Hamplová, dal canto suo, ha pubblicato uno studio analizzando i dati di oltre 30 paesi europei, concludendo che le donne preferiscono accudire i figli e il lavoro domestico a tempo pieno. Le mamme casalinghe, si legge, sono più felici e più soddisfatte di quelle che lavorano. «Un altro colpo alla narrativa femminista», la conclusione.
Lungi da noi l’immagine stereotipata dell’uomo lavoratore e della donna che lo aspetta lavando, stirando e cucinando. Anzi, siamo più che convinti che in molti settori lavorativi il “genio femminile” merita ruoli di comando e di responsabilità. Ma, trasformare le donne in maschi, illudendole dell’inutilità dell’uomo, del padre e dei figli -come ha preteso fare violentemente il femminismo- è stato un tragico errore, uno snaturamento. Mettere contro la donna alla madre è quel che lo psicoanalista Massimo Recalcati ha chiamato «l’esaltazione narcisistica di se stesse». Il movimento femminista ha trasformato la battaglia culturale per il riscatto della donna in una guerra contro le donne stesse: «Se c’è stato un tempo — quello della cultura patriarcale — dove la madre tendeva ad uccidere la donna», ha continuato Recalcati, «adesso il rischio è l’opposto; è quello che la donna possa sopprimere la madre».
Il femminismo è stato un inganno, che ha individuato il nemico della donna nella famiglia e nella maternità. «Non capisco proprio il femminismo», ammise Alda Merini. «La donna che vuole diventare uomo sovverte tutta la cultura passata. La donna deve essere se stessa». Per la poetessa italiana, «il vero diritto di una donna è quello alla maternità: il figlio è il più grande atto d’amore e il suo mistero resta intatto. L’occasione che la madre dà al suo bambino è ogni volta un miracolo, ed è una bestemmia negare tutto questo in nome di un femminismo che è l’opposto dell’essere femmina, nel senso più alto del termine»

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