LA PRIMOGENITURA E L'IPOCRISIA
Con il battesimo la Chiesa ci ha recapitato l’«invito» del Signore alla «grande cena» preparata da sempre per noi. Ha rinnovato la «chiamata» a seguirlo svelandoci le ricchezze di quel «menù» nutrendoci alla mensa della Parola e dei sacramenti. Ma, allontanandoci stoltamente dalla «tenda» della comunità come Esaù, in caccia di affetti e denari, abbiamo dimenticato i tanti segni dell’amore di Dio disseminati nella nostra vita, perdendone il senso. «Ecco, sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?» (Gen 25,32): «esausti» e in preda alla fame, ci siamo così gettati avidamente sulle «lenticchie» del momento, rifiutando la «grande cena». Giorno dopo giorno, sguardo dopo sguardo, parola dopo parola, senza rendercene conto, la concupiscenza, il «moto dell'appetito sensibile che si oppone ai dettami della ragione umana e ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2515), ci ha strappato la gioia della primogenitura. Ormai schiavi della carne, dettiamo irragionevolmente i tempi della conversione, e organizziamo l’agenda delle priorità stabilendo disordinatamente cosa sia «bene» e «male» per noi, scambiando però l’«unica cosa buona e necessaria» per un impedimento alla felicità. Viviamo affannati per «comprare», ci consoliamo nel «vedere» e «provare» quello che crediamo di possedere, mentre ne diveniamo schiavi perché “la lenticchia è il cibo degli egiziani” (S. Agostino). Ma giunge «l’ora della cena», e allora si svelano i segreti del nostro cuore. Quando la moglie o il marito si avvicinano «invitandoci» ad amarli, ci «scusiamo» opponendo le ragioni della concupiscenza che, paradossalmente, proprio per «esserci sposati», ci impediscono di «gustare» la Grazia del matrimonio, come di qualunque altra relazione. Siamo ancora «uomini vecchi» corrotti nella ricerca del piacere. Per questo, non riconoscendo nel «servo» il volto di Cristo, «non possiamo» intuire la «beatitudine» promessa nella «chiamata» a donarsi, anticipo e profezia del banchetto celeste del quale «nessuno» schiavo «gusterà» le delizie. Ma, nonostante tutto, nella casa del Signore «c'è ancora posto», e nella sua infinita misericordia, ci «forza ad entrare». La versione greca della Bibbia traduce con questo verbo («anànkē - forzare») le tribolazioni e le sofferenze dovute a malattie, fallimenti e persecuzioni. Con esse, dunque, il Signore ci ammaestra cercandoci «per le piazze e per le vie della città», piantando la Croce «lungo le siepi» che ci imprigionano. Con essa distrugge orgoglio e stoltezza, per farci scoprire di essere «poveri, storpi, ciechi e zoppi», pagani nel cuore nonostante il battesimo. Come loro potremo allora desiderare la «grande cena» più delle lenticchie che non ci hanno sfamato. Solo chi non ha più nulla, chi «non vede» il senso della sua vita, chi vive «rattrappito» nella solitudine, chi «zoppica» incapace di tutto, si lascia «spingere» ad entrare al banchetto della misericordia. Costui è «Beato», come Giacobbe immagine dei pagani, un grumo di debolezza che ascolta e accoglie umilmente in ogni evento la «chiamata» gratuita del Signore a «prendere cibo nel Regno di Dio».
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