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lunedì 15 dicembre 2014

La crisi della Chiesa, il bisogno della santità

di Luigi Negri*                                       15-12-2014

La Chiesa si vive. Dobbiamo partire da questa certezza per comprendere il momento che la Chiesa e la società stanno vivendo. Della Chiesa non si parla come di un oggetto a partire dalle proprie presupposizioni di carattere ideologico, culturale, filosofico o altro. La Chiesa si vive. Per la Chiesa si soffre, per la Chiesa si gioisce, soprattutto si tenta di dare il nostro apporto significativo e creativo.
Piazza san PietroEbbene, lo scandalo della situazione della Chiesa oggi – e uso volutamente la parola “scandalo” - è che la Chiesa è stata buttata in pasto alla stampa. La Chiesa è uno strumento manipolabile e manipolato dalla stampa, da una stampa che in Italia è per il 90% di impostazione laicista e anticattolica. Quindi siamo al paradosso che la mentalità laicista la fa da padrona in casa nostra pretendendo di decidere chi sono i veri ortodossi e chi sono gli eterodossi, qual è la posizione corretta e qual è la posizione del Santo Padre, perché poi ciascuno di questi pretende o millanta un credito presso il Santo Padre. Per cui noi assistiamo impotenti a una manipolazione che è avvilente, cioè avvilisce la fede del nostro popolo. Perché il nostro popolo ha un’esperienza di fede reale e personale che non ha nulla da spartire con le pensate di Eugenio Scalfari e altri.
Questi possono essere strumenti che verificano una posizione, ma il dialogo – come più volte ha detto Benedetto XVI nel Sinodo sull’evangelizzazione - è l’espressione di una identità forte. Forte non di mezzi, ma forte di ragioni. Se c’è un’identità forte è inevitabile che questa identità ponendosi incontri uomini, situazioni, condizioni, problemi, fatiche; quindi entri in dialogo con chi ha un’altra impostazione. Ma se non c’è un’identità il dialogo è un illusione. Il dialogo è la conseguenza di un’identità, non può essere l’obiettivo. L’obiettivo è l’evangelizzazione.
È un momento ben definito da quell’affermazione di Paolo VI a Jean Guitton, pochi mesi prima di morire: «All'interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all'interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia». È un’affermazione che sollecita all’assunzione di un criterio di giudizio a cui consegue un comportamento.
Voglio ricordare questa splendida frase della lettera di san Giacomo: «Considerate perfetta letizia fratelli miei quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi perché siate perfetti ed integri senza mancare di nulla» (Gc 1, 2-4).
Questo è il tempo in cui viviamo. Dire che è un tempo di prova, non significa analizzare e programmare una soluzione di questa crisi. È per l’incremento della santità. Dio permette certe cose perché uno assumendo una posizione vera di fronte a Cristo e alla Chiesa, possa diventare "perfetto". Per meno di questo non vale la pena discutere della Chiesa, come non varrebbe la pena discutere di niente.
Ecco dunque una prima osservazione, che è anche uno dei nodi centrali del cammino conciliare che la Chiesa ha fatto su se
stessa, sulla sua identità, e che si è espressa nella Lumen Gentium, Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II  che poi ha trovato il suo approfondimento straordinario nel magistero di Giovanni Paolo II. La Chiesa è un evento di popolo. La Chiesa non è una struttura di mediazione fra un messaggio cristiano e il popolo. La Chiesa è il popolo di Dio, è il popolo generato dal suo Spirito, dallo Spirito del Signore crocifisso e risorto che, comunicandosi a coloro che il Signore sceglie, fa di loro un popolo. Un popolo che non nasce dalla carne e dal sangue, cioè dalle determinazioni naturali, ma nasce dallo Spirito, quindi è una realtà irriducibile a qualsiasi altra formulazione di popolo. È stata la grande esperienza dei primi secoli, perché il tentativo di appiattire la Chiesa sulla realtà ebraica, sulla realtà greca, sulla realtà dei popoli barbari è stata smentita: «Non c’è più né greco né giudeo, né schiavo né libero né uomo né donna perché voi siete un essere solo in Cristo Gesù».
Il cristianesimo è la Chiesa, e Cristo arriva fino a te incontrandoti nell’unità dei suoi. Che cosa rende presente il cristianesimo nel mondo? L’unità dei suoi, presente nell’ambiente, in connessione vitale con il vescovo e con il Papa. Sono pagine che ha scritto don Luigi Giussani precedendo la Lumen Gentium. Questo è qualcosa che si deve sempre di nuovo conquistare. Non può essere dato per scontato e non dipende dalle condizioni.
Che cosa avviene in questo incontro con Cristo nei suoi? Che cosa avviene nella persona? Avviene l’esperienza della novità. Ma cos’è la novità? La novità della vita è l’esperienza di una corrispondenza imprevedibile ma reale fra questo incontro e la mia umanità. Se la fede non genera questo è un’aggiunta posticcia alla vita. Perché la vita vuole l’eternità, tutta la vita chiede l’eternità. La vita vuole l’eternità, l’incontro con Cristo è la certezza qui ed ora – come spesso diceva papa Giovanni Paolo II –; qui ed ora avviene questo, cioè ti capita di sentirti rivelato nel tuo io più profondo.
Cristo incontra il mondo perché lo incontra in me anzitutto, perché la partecipazione alla stessa realtà umana e storica ci accomuna. Portare Cristo nell’ambiente, nel mondo, vuol dire investire la realtà umana del pezzo di società in cui siamo chiamati a vivere della novità della nostra comunità. L’esperienza che Cristo è la risposta alla vita deve diventare ogni giorno che passa più vera per noi, e attraverso di noi deve investire la vita dei nostri fratelli uomini.
Questo si chiama missione, la presenza della Chiesa come novità di vita che tende a comunicarsi agli uomini. E la missione assume necessariamente il volto del giudizio. Perché il giudizio è l’incontro fra la concezione della vita, la realtà di vita nuova che viviamo e la realtà umana, storica, in cui vivono gli uomini. La cultura è nata così. Investire il mondo con la serena baldanza di portare la verità di Cristo. Investirla di un giudizio che non è la nostra capacità, è un dovere di coscienza. Paragonare tutto ciò che si incontra con la novità di Cristo che abbiamo incontrato.
Questo è un punto fondamentale. Non c’è età della vita che esima da questo, non c’è responsabilità culturale, sociale, politica, economica, ecclesiastica, non c’è nessuna situazione che esima da questo incessante riproporre l’avvenimento di Cristo agli uomini perché io stesso lo comprenda sempre di più.
In questo deve essere ripresa quella intuizione di Giovanni Paolo II che definì la missione come l’autorealizzazione della Chiesa. Non una serie di iniziative che si pongono accanto a una Chiesa che ha già trovato la sua consistenza nella sua struttura organizzativa, nel suo pensiero. No, la missione è essenziale perché la Chiesa sia se stessa. La Chiesa non ha il problema di giudicare il mondo e di cambiare il mondo, ha il compito di giudicare il mondo perché i suoi figli e coloro che si convertono possano vivere loro la responsabilità di trasformare il mondo. Non è l’istituzione ecclesiale che trasforma il mondo, è il popolo cristiano che entrando nella società con una certa impostazione ultima dà il suo contributo al cambiamento in meglio della società.
Eccoci dunque alla seconda osservazione. Qual è la crisi attuale della cristianità (e per cristianità si deve intendere un’esperienza di popolo cristiano che gioca la sua identità in questo momento della storia)? Nel periodo che si estende ai due pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, la Chiesa era una realtà che giudicava, e agiva conseguentemente. E quindi dava un suo contributo, maggioritario o minoritario non interessa, dava il suo contributo a favorire una lettura della situazione e una linea di sviluppo adeguata, almeno quella che si poteva pensare come adeguata. Non era un giudizio astratto, ideologico, era il tentativo di investire la situazione di una certezza di giudizio che nasceva dalla certezza della fede.
Come ha detto George Weigel, a Giovanni Paolo II è stata data la ventura di cambiare il senso della storia. Giovanni Paolo II in forza solo della sua fede, e della sua straordinaria capacità di rivivere tutta la grande esperienza ecclesiale polacca e in essa la grande esperienza del cattolicesimo, ha dimostrato che il comunismo non era invincibile. Anche la cristianità si era mossa fino ai tempi di Giovanni Paolo II schiacciata da una ipotesi terribile: che comunque avrebbero vinto loro. Ed essendo già scritto che avrebbero vinto loro - per la potenza politica, economica, militare - si trattava di salvare il salvabile. Questa espressione tornò continuamente in certi ambiti della cristianità italiana e determinò alcune scelte di tipo ecclesiastico, come ad esempio cosiddetta Ostpolitik, condotta sul filo del “salvare il salvabile”. Il magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ridato alla cristianità il senso di una unità reale e di un giudizio, e di una doverosità del giudizio.
Su questo oggi c’è la crisi. Non è negabile, oggi la cristianità sembra non essere più in grado di dare dei giudizi pertinenti, ma direi di più. Certi settori della cristianità dicono che non è assolutamente necessario dare dei giudizi, anzi che la formulazione dei giudizi rappresenterebbe qualcosa di patologico perché metterebbe in crisi la radicalità e la purezza della fede sporcandola con quelle circostanze di carattere storico e quindi contingenti.
Ciò significa che l’ideale è una Chiesa senza capacità di giudizio, una Chiesa ridotta individualisticamente a certe pratiche spirituali, a certe emozioni individuali o a una certa pratica caritativo-sociale. Sono le cose da cui Benedetto XVI mette in guardia la Chiesa all’inizio della sua enciclica Deus caritas est, quando dice che il cristianesimo non è né una serie di pratiche spirituali né dei sentimenti né un progetto di carattere caritativo-sociale, ma è un incontro con una Persona, la sequela di Lui, il cambiamento della vita in Lui, la comunicazione di questa vita nuova agli uomini.
Ci sono degli aspetti gravissimi in questa resistenza al giudizio. La prima implicazione è l’avere alzato bandiera bianca sul problema della vita. Dopo aver combattuto per decenni perché la vita fosse al centro dell’esperienza della famiglia e della società, perché fosse considerata come è, indisponibile a tutti se non a Dio e quindi come un valore irriducibile a qualsiasi altra condizione, da riconoscere e da difendere in tutte le fasi dal concepimento fino alla fine della vita, noi abbiamo incominciato con il nostro silenzio a lasciare spazi larghi, spazi sempre più larghi a una manipolazione insieme intellettuale, morale e politica. Oggi è diventata maggioritaria l’idea che la vita sia una serie di procedure di carattere bio-fisiologico che possono essere conosciute scientificamente e manipolate tecnologicamente.
Questo silenzio sulla vita, viene poi ribadito da un silenzio pressoché assoluto su quella che è la follia del “gender”, cioè la soppressione della differenza sessuale da qualsiasi indicazione naturale, per una restituzione della sessualità alla pura istintualità, con anche la costruzione di progetti educativi in questo senso. Nelle scuole italiane circola un “progetto amore”, con i riconoscimenti da parte delle autorità scolastiche che devono garantire la buona scuola, progetti che sono demenziali: dove si definisce l’equivalenza maschio-femmina, la compresenza nella stessa realtà personale di due tendenze sessuali che devono essere favorite una dopo l’altra.

Aspetti di follia che però sono diventati diffusissimi. E nei confronti dei quali esiste una certa reattività delle famiglie. Le famiglie sono in posizione sanamente reattiva, ma quasi senza mezzi e senza strumenti. Senza strumenti di approfondimento, e senza una guida se non parziale, se non in alcuni posti. Ma siccome qui tutti dicono che sono amici del Papa e che portano avanti la posizione del Santo Padre, io vorrei ricordare che papa Francesco nell’incontro con i vescovi italiani il maggio scorso ha detto: “Siete stati investiti dallo tsunami del gender. E che cosa avete fatto? Nulla”. Francesco ha detto a 250 vescovi italiani “dovevate giudicare il gender e non l’avete fatto”, che significa anche che non si potrà continuare a rappresentare una Chiesa italiana che non affronti il tema del gender: perché è devastante, sta devastando la coscienza e il cuore del nostro popolo. Il silenzio su questo è espressione di una assoluta mancanza di fede.
Collegato a vita e gender è anche il tema dei cosiddetti “nuovi diritti”. Si tratta della riduzione dei diritti alla istintualità, ideologica o bio-fisiologica, per cui il diritto è quello che uno ritiene, che vuol provare a essere, con la perdita totale del senso della natura. La natura non è una serie di oggetti, la natura è una realtà vivente, subordinata all’uomo ma vivente. E nel dialogo fra l’uomo e la natura, l’uomo acquisisce valori, insegnamenti, che da solo non riuscirebbe a produrre con la sua sola intelligenza. Ecco perché la coscienza entra in rapporto con la natura, e soprattutto la coscienza umana è l’unico punto in cui questo dialogo con la natura acquisisce la fisionomia della legge legata alla natura. Per questo Benedetto XVI nell’ultimo periodo del suo pontificato ha richiamato continuamente la necessità di recuperare la verità della natura, del diritto naturale, perché i diritti non diventassero semplicemente una serie di opzioni di carattere individualistico nel senso deteriore.
Queste tre battaglie, che ho appena descritto, sono essenziali per la fede. Se si va avanti ancora un po’ di tempo senza una capacità di essere presenti a questo dibattito, senza dare un contributo significativo a questo dibattito, sarà il trionfo del pensiero unico dominante, che ha come caratteristica proprio la volontà di negare la presenza cristiana come una presenza autentica.
È necessario passare dalla fede alle opere, di non sottrarre nulla all’impatto con la fede. I vecchi padri della Chiesa dicevano che «quello che non è stato assunto dal Verbo non è stato salvato». Se c’è una cosa nell’esperienza umana, sociale, su cui la fede cristiana non dà un giudizio vuol dire che c’è una realtà del mondo che stando senza l’incontro con Cristo si salva ugualmente e così il Signore non è più il Redentore. Diceva invece l’Instrumentum laboris del primo Sinodo sull’evangelizzazione, allora redatto da Paolo VI, che «la fede è la salvezza dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini».
Allora c’è una osservazione conclusiva. Una certa cristianità che ha maturato un suo cammino di fede non deve accettare una rilettura parziale o falsificata della storia della cristianità italiana. Che non è la storia di gente che non voleva accettare di non avere più nessuna egemonia e che per avere questa egemonia ha fatto battaglie sul divorzio, sull’aborto e altre. Battaglie inutili – si dice - perché si sarebbero perse senz’altro. In realtà per più di una generazione furono battaglie fatte per la fede, per la maturità della fede. Sconfitta o vittoria sono state uguali, nel senso che hanno consentito a tutti la maturazione della fede.
La crisi della Chiesa non è una crisi puntuale, è una crisi ampia. Ma non serve un’analisi che tenda a stabilire le responsabilità. La Chiesa è di Dio, la Chiesa non viene meno, la modalità con cui Dio guida la sua Chiesa eccede le nostre capacità. Però noi abbiamo il compito di fare un’esperienza reale di Chiesa, nel cammino che la Provvidenza ci ha fatto incontrare. Facciamo quello che Dio ci ha chiesto di fare poi Dio prenderà quello che stiamo facendo e gli darà il peso. I modi e i tempi li sceglie Lui, a noi spetta la nettezza della nostra posizione, che viene dalla lealtà con la nostra coscienza, e la nostra storia, e da quella capacità di compagnia che se ce la facciamo nella concretezza delle nostre condizioni, rende meno arduo il cammino. Ricordandoci di quello che diceva il Metastasio: «L’aver compagno al duol, scema l’affanno».
* Arcivescovo di Ferrara-Comacchio

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