NASCOSTI NELLA MANO DEL BUON PASTORE
NASCOSTI NELLA MANO DEL BUON PASTORE
Volevano spingere Gesù a rivelarsi, lo affrontano con malizia e violenza perché svelasse finalmente se era Lui il liberatore atteso. Ma, in fondo, avevano già stabilito che non lo era, aveva violato il "sabato", chiamava Dio suo Padre, c'era in Lui qualcosa di pericoloso, di eretico. I Giudei non volevano "conoscerlo", ma solo smascherarlo per avere un capo d'accusa con cui poterlo fare fuori. Li aveva chiamati figli del demonio, come poteva essere accolto da chi era tanto cieco da non rendersi conto che, pur essendo discendenza di Abramo, pur stando al di qua del "recinto", nel cuore del Tempio, erano pagani esattamente come quelli che dovevano restarne al di là. Anzi, avevano un peccato più grande, perché, pur avendo a disposizione la Legge e le Profezie, non erano capaci di riconoscerlo, erano ciechi che non accettavano di esserlo. Aspettavano un nuovo Giuda Maccabeo, e avevano di fronte il figlio di Giuseppe il falegname, uno che veniva da Nazaret... Gesù lo sapeva, e per questo risponde sibillino: "Ve l'ho detto e non credete"; non potete credere perché ascoltate la voce del Padre vostro; "voi non credete perché non siete mie pecore", ascoltate, infatti, la voce di un altro pastore, uno come Giuda Maccabeo; al tempo c'erano, infatti, gli zeloti, e Giuda, un "ladro", era zelota, come Barabba, un "brigante". Anche noi aspettiamo un tipo ben preciso di Messia, il Cristo che ci siamo fabbricati; quello che, purtroppo, anche nella Chiesa, alcuni ci hanno predicato; il Cristo che l'educazione, ricevuta in famiglia e a scuola, o la mentalità mondana, in televisione, su internet, tra gli amici, hanno modellato in noi. Anche noi aspettiamo un messia come Giuda Maccabeo, cioè uno che lotti contro l'ingiustizia; e, come Giuda vendiamo Gesù, cioè lo vorremmo obbligare a manifestarsi come uno che ristabilisca ordine, l'ordine mondano, nella nostra vita. E, come Barabba, ci ribelliamo all'ingiustizia, manifestiamo, in piazza come a casa e in ufficio. Altro che "pecore" del "recinto" di Gesù, preparate per il sacrificio! Ma attenzione, non aspettiamo solo un Cristo che ci risolva i problemi, che ci dia un lavoro, che cambi il cuore di chi ci è accanto, che trasformi i figli in brave persone con una buona famiglia e un lavoro dignitoso, che guarisca le malattie etc. No, qui, nel contesto di questa festa, il discorso si fa più sottile. "Fino a quando ci toglierai la vita?", cioè fino a quando non ci risponderai su quanto più ci angoscia, ovvero la nostra felicità? Sappiamo che essere felici è amare, donarsi, perdere la vita. A volte cadiamo nella trappola e chiediamo la felicità agli idoli. Ma c'è un'idolatria più grande, la più grande, ed è subdola, sa nascondersi e camuffarsi bene. E' quella originale: la superbia di diventare come Dio. Non solo per quello che riguarda le relazioni e la storia, cioè diventare dio di tutto, di dirigere, di saziarsi, di avere potere e prestigio. Qui si tratta della superbia che ci vorrebbe come Dio in quanto a santità morale, a non dover più sottostare alle tentazioni, ad essere perfetti in senso legalistico. La superbia che non ci fa riconoscere d'essere sue pecore, ma che ci vorrebbe pastori capaci di giudare nel bene la propria vita. Aspettiamo cioè ogni giorno un Cristo che ci faccia puri, che ci liberi dal giogo esterno a noi, quello di Antioco Epifane, che, secondo noi, ci impedisce la fedeltà e la felicità. E invece Gesù dice qualcosa di completamente diverso: Io sono molto di più del Messia, del pastore che aspettate. "Io e il Padre siamo una cosa sola", cioè, "Io sono Dio". E Dio ha rivelato il suo Nome, la sua identità, con una "voce" da dentro il roveto ardente che non si consumava. Questo significa che la felicità, ovvero la vita eterna, piena, realizzata ci viene data da Lui in mezzo al fuoco delle tentazioni. È li che possiamo "ascoltare la voce" il Pastore, che è Dio, più potente della morte. Non basta rimuovere i dittatori del pensiero mondano, le leggi pagane e i professori atei; non ci salverebbe una vita senza tentazioni, anzi, perché non saremmo liberi, e quindi non potremmo amare davvero e "conoscere" il Signore. L'idolatria è nel nostro cuore, ed è lì che il Messia autentico deve arrivare. E' lì che il "Pastore vero e bello" depone se stesso e la sua vita che non ha limiti. E' lì che possiamo essere riconsegnati a una vita da figli di Dio, capace di celebrare nella storia la liturgia che renda onore e gloria al Padre, quella dell'Agnello immolato.
E il Pastore può giungere al cuore solo attraverso l'"ascolto". "Ascoltare" è il verbo della fede, è l'antidoto all'idolatria. "Idolo" in greco deriva da "vedere". Noi crediamo che l'intimità e la conoscenza si diano attraverso gli occhi; per questo la nostra società è fondata sul vedere. Ma la visione resta esterna, mentre le parole arrivano al cuore. Come è accaduto alla Vergine Maria. L'ascolto è l'apertura umile di una pecora che si affida al suo pastore, perché la conoscenza sorge e si compie ascoltando, che in ebraico è sinonimo di obbedire. Essere una cosa sola è ascoltare e quindi "seguire", come il Figlio ha fatto con il Padre: "Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono". Gesù rivela se stesso rivelando la nostra identità! Non importa se dentro o fuori dal "recinto", ogni uomo è immagine di Dio creato da Lui attraverso la sua Parola. Ascoltando possiamo essere ricreati ogni istante dalle mani di Gesù, che plasmano in noi l'agnello, mani che parlano potremmo dire; e, con la sua Parola, ci difendono dagli idoli. Nessun idolo "può strapparci dalla sua mano". Ciò significa che "Il Padre di Gesù, riguardo a ciò che mi ha dato, è più grande di tutti" gli idoli di questo mondo. Il Padre ha dato a Gesù ciascuno di noi come suoi fratelli, creati in Lui a immagine e somiglianza di Dio: per questo "nessuno può strappare" la nostra identità "dalla sua mano" crocifissa, che è la stessa mano creatrice del Padre. Basta ascoltare per rinascere! Basta ascoltare davvero la sua Parola, come già la festa di Hanukhah annunciava: alcuni rabbini, infatti, vedevano la forza della sapienza della Torah nel miracolo dell'ampolla che non si è consumata. Per Beit Hillel la lotta vera con la miracolosa vittoria, fu contro la falsa ideologia dell'ellenismo e le idee pagane, che possono essere combattute solo attraverso la luce della conoscenza della Torah. Nel mondo si vive "ascoltando" la "voce" di Dio che ci parla dal roveto, da questa ampolla che miracolosamente continua ad ardere senza consumarsi; ciò significa aprirsi alla sapienza della Croce che, pur essendo uno strumento di tortura e di morte, in Cristo è divenuta fonte di salvezza e di "vita eterna". Che bello, che consolazione! Siamo poveri e incoerenti, deboli e peccatori, eppure "Tu, nella Tua tanta misericordia, ti sei alzato in piedi per loro nel momento del loro dolore; Tu hai combattuto la loro battaglia... Hai dato i forti nelle mani dei deboli, i tanti nelle mani dei pochi" (Preghiera Al haNissim - letteralmente "per i miracoli"- che si recita durante la festa di Hanukkah). Gesù "conosce" la sua immagine in te e in me, in tuo figlio e in tua moglie o tuo marito, nella persona più difficile, che non ti capisce e si mette contro di te; conosce se stesso, il frutto della sua Parola nell'intimo di ciascuno, l'immagine divina incancellabile, nonostante i peccati. Il "Pastore vero e bello", il Messia autentico, viene e ci "chiama per portarci fuori": tira fuori da noi questa immagine di pecora che si offre che era sepolta dall'idolatria. E lo fa perché è il Servo sofferente, che arde nel sacrificio come il roveto ma non si consuma, si dona come "Shamash" ma moltiplica l'olio dello Spirito Santo per dare la luce della verità alle altre candele che siamo ciascuno di noi, affinché possiamo risplendere sul candelabro. Gesù è il Pastore che fa giustizia degli idoli per mezzo della sua Croce, perché "La croce è la distanza infinita che Dio ha posto tra se stesso e l’idolo” (D. Bonhoeffer). Sulla Croce è stato assalito da un "branco di cani": erano uniti, capi dei Giudei e Romani, in un solo "branco di pagani", perché in Israele questi erano chiamati dispregiativamente cani. Sulla Croce si era rotto il "muro di separazione", aperto il "recinto" laddove Gesù stava passeggiando, il suo sangue era offerto per Giudei e pagani, anche per ogni Antioco Epifane della storia, anche per chi ti insulta, per quelli che incarnano il demonio che ti tenta a ribellarti e separarti, divorziare, fare causa, chiuderti alla vita; tutti rinchiusi sotto il peccato, tutti, tu, io e ogni "altro", perché fosse fatta misericordia a ogni uomo. "Le opere che Gesù ha compiuto nel nome del Padre suo, queste gli hanno dato testimonianza", perché erano fatte in quel Nome rivelato tra le fiamme di un amore che brucia idoli e morte ma non si consuma. Erano profezia dell' "opera" decisiva compiuta sul Golgota. Sulla Croce Gesù era la "sola ampolla d'olio che era rimasta pura, perché ancora chiusa con il sigillo del Sommo sacerdote", del Padre. E "accadde un miracolo con quella ampolla, e così essi poterono accendere il lume per otto giorni": Gesù è risuscitato e ha "dato" alle "sue pecore", a ogni uomo che "ascolta la sua voce" la "vita eterna", della quale è simbolo proprio l'"ottavo giorno". Per questo "nessuno ha potuto strappare" alcun uomo dalla sua mano, che, stretta a quella del Padre, è scesa sino agli inferi per liberare tutti, Giudei o pagani che fossero. Non si consumerà l'amore nel tuo matrimoni, anche se mille problemi e tentaziini lo accerchiano ogni giorno; non si brucerà la vita di tuo figlio, il tuo ministero sacerdotale, la tua vocazione consacrata. E per questo "miracolo" che si rinnova istante dopo istante nella nostra vita, possiamo credere che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio che è "una cosa sola con il Padre".
Ci aiuta ancora, al proposito, la tradizione ebraica. Il Tempio sorgeva sul luogo del sacrificio di Isacco, immagine di quello di Gesù. Secondo il targum Neofiti, Isacco dice a suo padre Abramo "legami, legami forte, che io non resistae il sacrificio sia così invalido"; ed è quello che ha detto Gesù nel Getsemani: "sia fatta la tua e non la mia volontà", ovvero "legami" perché che io sia "una cosa sola con te", e, compia l'opera dell'Agnello di Dio che non resiste al male. Ed è quello che siamo chiamati a ripetere anche noi: "legami" Signore alla Croce, alle tue mani crocifisse, perchè oggi nessuno mi rapisca, mentre il demonio mi tenta a prostrami agli idoli, a casa, a scuola, al lavoro. Siamo, infatti, pecore scelte per vivere in mezzo al potere e alle leggi di Antioco Epifane, nella fornace ardente del mondo, e vincere il male offrendo la nostra vita. Per questo siamo pecore elette per "conoscere" il Pastore, cioè per avere una intimità tale che in noi sia vivo Lui: "sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo è vivo in me". Il Messia non è dunque Barabba, non è uno che rinnova le gesta di Giuda Maccabeo, ma è il Pastore che offre la vita per le pecore sino a diventare una cosa con loro come lo è con il Padre, perchè in Lui possano passare in mezzo a qualunque valle oscura. È il Pastore che le conduce fuori ad immolarsi per vincere la menzogna dei "lupi" con la forza dell'amore e del martirio: "il Buon Pastore che combatte contro le potenze del male, trionfa su di esse ed introduce le pecore nei pascoli paradisiaci, appare nel quadro della teologia della morte e del martirio. M. Quasten ha notato, infatti, che il Buon Pastore, al di fuori dei battisteri, appariva soprattutto sui sarcofagi. Questa duplicità di raffigurazione appariva anche nelle preghiere della liturgia dei morti. Cristo è il Pastore che strappa la pecora ai lupi che cercano di divorarla, lupi che sono i demoni che tentano di impedirne l'ingresso al cielo" (J. Danielou). Ripetiamo allora ogni giorno "Legami" Gesù alla volontà del Padre, stringimi nel tuo amore, perché nessuno mi strappi da Te, e così possa essere luce posta sul candelabro per chi mi è accanto, le "pecore che ancora devono diventare un solo gregge". E con loro possa finalmente "uscire" dal "recinto" dove, come la sposa, "me ne sono stato rinchiuso in me stesso". Sì, il Pastore é anche lo Sposo a cui le pecore, sue spose, appartengono. Lui le chiama con tenerezza: "alzati amica mia, alzati mia bella e vieni, perché l'inverno è passato". È la voce che "conosciamo" perché è l'unica che giunge fino ai dirupi, dietro alle grate delle nostre paure, per prenderci e camminare innanzi a noi, sino al pascolo, verso i prati d'erba fresca in cui riposare per l'eternità. È la voce che sorge dall'alba della Pasqua, è lo Sposo che viene a sposarci nella fedeltà e nell'amore, per "cogliere i fiori della Scrittura Divina", e gustare, anche tra le persecuzioni e nella debolezza, "le gioie spirituali della Grazia e i frutti dello Spirito".
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