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mercoledì 18 novembre 2020

 


TRAFFICANTI FOLLI PER FAR FRUTTIFICARE NEL MONDO IL FOLLE INVESTIMENTO DEL PADRE
Ci troviamo vicino a Gerusalemme, e speriamo che il Regno di Dio si manifesti "da un momento all'altro", immediatamente, secondo l'originale greco parachrēma, usato per esprimere l'istantaneità con cui si compiono i miracoli di Gesù. I discepoli credono, e noi con loro, che per l'instaurazione del Regno di Dio valga la dinamica e i tempi dei miracoli visti e sperimentati; non hanno compreso che essi sono i segni compiuti da Gesù per autenticare la sua missione e rivelare la sua identità messianica. Anche noi, con i discepoli, non andiamo oltre il segno, ci siamo saziati, e quello che davvero cerchiamo nel Signore è il miracolo definitivo già ora, immediatamente.
Abbiamo visto segni nella nostra vita, autentici miracoli, ma tentiamo di pervertirne il messaggio in essi racchiuso. Accogliamo e afferriamo nella carne quello che alla carne parla del Cielo: "In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi, non il cibo che non dura, ma quello che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo" (Gv. 6,26-27).
Procurarsi traduce il verbo greco ergazete, cioè "lavorate non per il cibo che perisce…": il segno dunque è dato perchè si lavori, si operi concretamente nella vita... "Gli dissero allora: "Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?". Gesù rispose: "Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato". L'opera - il lavoro fondamentale - è dunque credere in Gesù di Nazaret, il Messia. Qualunque lavoro è frutto della fede, l'opera madre. In questa luce si comprende il senso profondo della parabola del Vangelo: in ciascuna mina è donata la fede che attende solo d'essere incarnata, impegnata, trafficata, secondo il significato del termine pragmateoeuomai, che appare solo qui in tutto il Nuovo Testamento. Esso deriva da pragma, "una questione necessaria", di prammatica.... propriamente, è un termine mercantile antico per esprimere il commerciare scambiando e ottenere un guadagno. In senso più lato significa amministrare proficuamente un capitale. La fede è il capitale per eccellenza che informa di sé ogni mina, ogni Grazia; va "estratta e lavorata", perché non rimanga un diamante grezzo, affascinante ma inutilizzabile.
La fede, perché sia capace di "incidere", deve crescere sino ad una statura adulta, attraverso un processo di purificazione che necessita di investimenti sostanziosi, la vita stessa di Cristo. Trafficare le mine ricevute indica in primo luogo questo lungo e dispendioso processo che, nella Chiesa, si chiama "catecumenato". Non è qualcosa che si realizzi immediatamente. Si comincia ricevendo dalla Chiesa la fede che va trafficata, come le mine, che i Padri identificano non a caso con la Parola ricevuta. Essa "sporca" il seme della fede nella terra della storia e la compie moltiplicandola, facendola adulta, al punto che, come un diamante, nulla la possa scalfire.
Non sono un caso allora il luogo e il momento nel quale Gesù racconta la parabola. Con i discepoli, siamo vicini a Gerusalemme, al tradimento, al rifiuto, alla croce, al taglio decisivo e vorremmo che tutto passasse presto. Gesù stava per inaugurare quel cammino pasquale che avrebbe poi consegnato e affidato alla Chiesa; in lui si stavano per operare il taglio e la purificazione a beneficio di ogni uomo: la Chiesa avrebbe annunciato quegli eventi sino alla fine del mondo, offrendo a tutti il diamante più bello, Cristo Gesù risorto, l'unico nel quale vi è salvezza. Gesù aveva avvertito i discepoli che doveva andare a Gerusalemme, che lì sarebbe stato rifiutato, percosso e ucciso, e che il terzo giorno sarebbe risuscitato. Ma quel parlare era rimasto oscuro e duro.
Esattamente come quel giorno a Cafarnao, quando Gesù aveva presentato se stesso come il Pane della vita offerto per la vita del mondo. I Giudei "che avevano creduto in Lui" intuivano che la catechesi di Gesù, rivelando la sua identità e la sua missione, annunciava la Verità sulla loro stessa identità e la loro missione. Pane offerto al mondo, anche loro erano chiamati ad offrire la propria carne. Per questo hanno reagito impauriti: "Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?". E Gesù risponde: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima? E' lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma vi sono alcuni tra voi che non credono» (vv. 60-64).
Un linguaggio duro, come il servo "malvagio" della parabola vede e comprende il Re. Nel fondo, i discepoli, i Giudei, il servo malvagio cercavano la propria gloria, sedere alla destra e alla sinistra del Re Messia. Volevano unfast food messianico dove avere tutta e subito la soddisfazione della propria carne, dei desideri, dei progetti. Per questo, come ciascuno di noi, credevano che tutto si sarebbe risolto in brevissimo tempo: arrivo a Gerusalemme, manifestazione gloriosa e instaurazione del Regno. Questo desideravano e questo volevano credere, a dispetto proprio delle parole di Colui che sarebbe dovuto diventare Re.
Un futuro niente male era balenato nelle loro menti. Era stato bello stare con quel Rabbì, certo alle volte scomodo, ma i segni, - accidenti! - erano inequivocabili. E poi l'ambiente della Galilea, ormai saturo dei Romani e della loro arroganza, e l'attesa del Messia e del ristabilimento del Regno di Israele era così forte... Quel Nazareno era proprio l'uomo giusto; ci si erano affezionati, lo amavano certo, ma i sentimenti, i pensieri, anche l'amore, dovevano essere purificati, circoncisi nella carne, perché essa non giova a nulla. Lo seguivano, erano pronti a morire con Lui, ma per un regno che era di questo mondo, del loro mondo.
Ed è quello che sogniamo tutti; quello che, in fondo, crediamo, o vogliamo credere, sia il destino di chi segue Gesù. Siamo vicini a Gerusalemme nel matrimonio, nel lavoro, nelle relazioni; ci attende ogni giorno il mistero che ha accolto il Signore, un catecumenato di tagli e purificazioni. E vorremmo che così non fosse: che questo problema con il figlio si risolvesse; che le tensioni al lavoro finissero; che l'incomprensione con quella persona si convertisse in comprensione, una volta per tutte; che la sciatica ci desse un po' di tregua; che i mercati ci lasciassero respirare, almeno tanto da permetterci una breve vacanza sulla neve.
E non comprendiamo la verità che intesse il nostro essere, e dà senso e sostanza alla vita e alla storia:tutto ci accade perché abbiamo ricevuto le mine, la fede, e con essa la Parola, i sacramenti, la comunità, i fratelli; tutto ci accade perché siamo di Cristo, abbiamo Lui nelle nostre cellule, nel nostro spirito. Tutto ci accade per la primogenitura impressa in noi. Le mine ci sono state date per essere trafficate sulla croce, su quella pronta anche oggi nella giornata che ci attende. Ed è ovvio e naturale che l'ambiente sia ostile, che tutto sia terribilmente difficile. O forse ci siamo dimenticati che vogliono uccidere il nostro Signore?
Certo è difficile lavorare così... Vorremmo un po' di pace, fare le cose e vivere la vita tranquilli... Per questo il servo malvagio ripone la mina nel fazzoletto. E con essa la primogenitura, e la sua stessa vita secondo la natura di Dio preparata per compierne la volontà. In definitiva, rinchiude in un fazzoletto la possibilità di essere felice. Avrà pensato che se la gente odia il suo Signore un motivo ci dovrà pur essere... E così, ingannato dal tumulto invidioso della folla, del mondo e della carne, pensa male di Lui: "avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato".
La carne, senza la luce dello Spirito, pensa sempre male di Dio, gli fa guerra. Ogni pensiero malvagio nei confronti di Dio, e della storia e delle persone che da Lui ci sono date, è una freccia avvelenata del demonio. Mormorazioni e critiche, giudizi e ira, sono tutti figli legittimi dello stesso padre della menzogna. E così, nel servo malvagio, si fa certezza l'idea che il Signore sia duro: la prova è che non mette i servi nelle condizioni migliori per lavorare, li getta in un'arena insopportabile. Per questo è severo, e tutti lo vogliono far fuori. Prende quello che non ha messo in deposito, miete quello che non ha seminato: il che, fuor di metafora, significa che ruba quello che non è suo, ed esige quello per cui lui stesso non ha fatto nulla. E viene a reclamare i proventi senza avvisare, di notte, proprio come un ladro.
Questo servo ammalato, ovvero malvagio, teme perché aspetta un ladro, uno che viene a togliere quello che è suo. E non si rende conto che chi che sta rubando è proprio lui, che ha ricevuto in dono e in amministrazione un bene che non gli appartiene. Ed è anche il nostro atteggiamento profondo, quando cerchiamo il nostro interesse e non quello del padrone; quando facciamo le cose con lo scopo di gratificarci, e usiamo anche il ministero e la missione, pervertiamo anche l'essere madre o padre, offrendo tutto a noi stessi. Poi, quando le tragiche conseguenze si ritorcono contro di noi - perché chi semina nella carne dalla carne riceverà il suo salario - si scarica la colpa sul Signore; lo giudichiamo severo, mormoriamo che ci ha posto regole d'ingaggio esigenti con le quali è impossibile far nulla... E ci nascondiamo nel fazzoletto del nostro ego ferito, a cercare consolazione, ad ascoltare le sinistre parole di adulazione del demonio.
Siamo invece chiamati a fare tutto gratuitamente, lasciando che lo Spirito Santo operi in noi, dimenticando addirittura quello che abbiamo fatto, servi che non cercano utili per se stessi, lasciando i frutti per l'ultimo giorno, per il Cielo, per quando verrà il Padrone. I frutti che le sue mine avranno fruttificato; a noi è chiesto solo di trafficarle, usarle per la sua missione! Quante volte vorremmo che ci fossero riconosciuti i meriti: quante madri e mogli esibiscono lo scontrino delle cose fatte senza lo straccio di un grazie; quanti padri e mariti a mostrare la busta paga e il conteggio delle ore di lavoro; quanti preti a faticare tra una riunione e l'altra, una messa e un funerale, e poi sempre adirati, e nelle omelie ad esigere impegno e collaborazione, a sentenziare sui cristiani che lo lasciano solo.
E così, leghiamo le persone con ricatti perversi, e ne facciamo frutti nostri appropriandocene. Le stringiamo in un fazzoletto sino a soffocarle, nascoste e sterili insieme alle grazie (le mine) ricevute perché in loro diano frutto. Quante volte questo modo di fare provoca liti, divisioni, anche il divorzio ad esempio, o la disobbedienza ai superiori. Così anche nella scuola e nello studio: è vero, è difficile trovare qualcuno a cui piaccia studiare, ma il punto non è questo: è che non si sa perché farlo, non ci sono stimoli, non c'è letizia, interesse, se non quello mosso da un utile, sia esso di prestigio, di lavoro, sempre e comunque per se stessi.
Quando poi neanche questo stimolo perde forza, addio studio. Quando si hanno alternative - le ragazze o i ragazzi, i divertimenti, le feste, le discoteche, il muretto o il bar, i soldi facili di papà o di qualche lavoretto come magari spacciare un po' di droga, lo sport, lo stadio, la musica - quando ci sono altri interessi strettamente carnali, lo studio automaticamente decade, come tutto quello che provoca sofferenza e sacrificio, quello che obbliga a vivere le cose donandosi, gratuitamente. Ed è proprio allora che il Signore diviene severo, e ci si nasconde dai genitori, dai professori e da qualunque autorità. Così nel rapporto tra due fidanzati, dove il rispetto e la castità presuppongono un sacrificio che traffichi le mine di vita eterna, la croce dove donarsi; ma se il piacere e la concupiscenza hanno il sopravvento in una fretta che appaghi immediatamente le voglie, si finisce con l'offrire l'altro a se stesso, e di nuovo il Signore diviene severo, le vetuste regole della chiesa e i tabù da sfatare.
In fondo, come il servo, non vogliamo stare a servizio di questo Signore, neanche gli vogliamo dare gli interessi che gli spetterebbero, affidando ai banchieri la mina... Lo temiamo, e nel cuore abbiamo ormai gli stessi sentimenti di quelli che lo vogliono uccidere. Cristo è stato ucciso per invidia, per uno sguardo storto incapace di riconoscerlo, perché lo ritenevano un impostore, uno che voleva raccogliere quello che non era suo, pretendeva il diritto di essere re, di essere il Messia. Qui scopriamo un altro punto che emerge dalla parabola: Gesù non ha diritto di chiedere nulla perché non è il Messia.
E non può esserlo anche perché non mette in condizione di trafficare, non ama i suoi servi. Sono i sentimenti che emergono quando vediamo tutto nero, e pensiamo che sicuramente le cose andranno male; quando ci troviamo a dover obbedire a qualcosa che ci sembra assurdo, e che siamo sicuri che andrà a finir male. E così ci maceriamo, e anche se obbediamo, restiamo con il veleno del dubbio che ci fa guardare tutto e tutti con sospetto, nella paura che ci vengano a rubare quello che è nostro, i diritti, la giustizia dei nostri criteri...
Ed forse è anche vero: il Signore non mette in condizione di far successo secondo la carne, ci dà la mina della Croce, del mistero pasquale e non è quello che vorremmo. Ci dà dei BOT a lunghissima scadenza, molto più che trentennali. E durante questi lunghi anni non vediamo altro che fatica, dolore, problemi, persecuzioni... E' la storia della Chiesa e di ciascuno di noi. Ma invece, secondo il criterio di Dio, è proprio questo il tempo fecondo: sulla croce le mine fruttano altre dieci mine, perché alla croce corrisponde la vita. Dove la morte la vita, "così che quando noi moriamo il mondo riceve la vita". Perché esiste il peccato! E siamo tutti fuori dal Paradiso, e la condizione è quella di sudare, di faticare, di lottare con la concupiscenza.
Ma c'è un'Alleanza, un seme di Paradiso, come un Regno - una cosa come Andorra o San Marino - la Chiesa; un Regno deposto in questo mondo dove, attraverso le monete correnti in esso, le mine consegnate, si conquistano altre città, le anime, come in un risiko spirituale: è l'evangelizzazione, dove il cuore è l'amore. Le mine sono date per rivelare, - con l'annuncio e la testimonianza, il martirio che certifichi la sua verità - la riconciliazione, il destino vero di ogni uomo. Laddove si vivono le conseguenze del peccato, la condizione esterna al Paradiso, siamo chiamati a far vedere che il Paradiso non è perduto definitivamente, che c'è una possibilità, esiste la salvezza.
La libertà è data per tornare al Padre: la libertà non ha mai lasciato il figliol prodigo! In un primo momento lo ha allontanato dal padre, ma poi, la stessa libertà totale, lo ha fatto ritornare: ha potuto prendersi le sostanze e andarsene, e non è stato senza tragiche conseguenze; ma, finché viviamo su questa terra, la libertà non è sottratta, tanto che al fondo dell'inferno "terreno", il figlio riprende in mano la libertà già usata e "sporcata", e la può usare ancora, perché non si era contaminata! Essa infatti è la cifra di Dio che non perdiamo mai: anche se impaurito, anche se si sente indegno, questo figlio si sente comunque libero di tornare, magari come un garzone.
E il padre si sente libero di riaccoglierlo a casa, come figlio. Ecco, la missione della Chiesa è andare con le mine ricevute a cercare il figlio perduto e accendere in lui la coscienza, aiutarlo a riattivare la libertà perché senta la nostalgia, perché ritorni a casa e si converta. E' questo il mandato di Gesù, e per questo ha consegnato le mine: ecco io sono con voi tutti i giorni nelle mie mine... Cercare i figli che hanno sperperato per ricordare loro il cuore del Padre, mostrandolo nelle mine trafficate sulla croce. Far fruttare le mine è come conquistare spiritualmente le anime, direttamente con l'annuncio o indirettamente nell'offerta delle proprie sofferenze, per riconsegnarle al Signore quando tornerà e diventerà finalmente Re. In quel momento Egli distruggerà, smembrerà il demonio e le sue menzogne. Ci sarà il giudizio - da questo ti giudico... - e sarà una festa per chi ha crocifisso le sue mine su questa terra.
La parabola risponde alla domanda di Pietro: "Ecco noi abbiamo lasciato tutto che cosa ne riceveremo?". Il centuplo con persecuzioni, e la vita eterna e il governo delle città, delle comunità fondate dagli apostoli. Il governo, l'amore e l'intimità, il servizio eterno delle città, delle persone che hanno ricevuto la vita nella croce di Cristo, il suo giogo preso sopra di noi. Gli apostoli hanno lasciato la città terrena, chiamati a far parte, già oggi, della città del cielo, e a mostrarla. Sono stati liberati per mostrare la libertà.
Laddove il mondo pecca e non può far altrimenti, difendendosi e sperperando le sostanze, gli apostoli donano, lasciano, amano. Lasciano i rapporti nella carne - gli affetti, il lavoro, i beni, anche la propria vita - per non conoscere più nulla e nessuno nella carne, per essere creature nuove, per vivere il Cielo e mostrarlo dove il mondo, i parenti, gli amici, i colleghi non possono e non sanno; è questo il centuplo quaggiù, l'anticipo del Paradiso, la caparra nello Spirito Santo, la vita secondo le mine ricevute... Siamo "crociati", crocifissi nella sua croce, l'unica che può davvero conquistare il mondo a Cristo, strappare la Terra Santa di ogni uomo all'infedeltà. Le persecuzioni sono necessarie, l'ambiente ostile è "funzionale" perché rivela l'autenticità, la nostra appartenenza a Cristo, a Dio, al Paradiso, verità e destino di ogni uomo da trafficare per riportare tutti, sani e salvi, al Regno che li attende.

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