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martedì 28 febbraio 2017

SEGUE GESU' SOLO CHI NELLA SUA CHIAMATA HA SPERIMENTATO LA LIBERTA' AUTENTICA


Nelle parole di Pietro si percepisce la tensione che da sempre anima la Chiesa. E' vero che i suoi figli "hanno lasciato tutto per seguire il Signore", ma è ancor più vero che l'abbandono di ogni sicurezza mondana è proprio l'impossibile fatto possibile da Dio, perché è impossibile seguire Colui che non è la tua unica ricchezza. A nome della Chiesa Pietro professa l’amore a Cristo, ma è un balbettio, non è ancora fede adulta. Centrale, infatti, è l'enfasi su quel "noi abbiamo...." dove la carne cerca un premio. Seguire Gesù, invece, è innanzitutto una liberazione, l'incontro con la misericordia che strappa alla schiavitù del peccato per farti pregustare la pienezza del Cielo. La risposta di Gesù annuncia un nuovo modo di vivere sulla terra, un rapporto nuovo tra le persone, anticipo della vita beata che si incarna nella comunione dei santi. Ovunque i cristiani sono a casa propria. Ovunque per loro vi sono "fratelli, sorelle, madri, figli" perché ovunque la vita è feconda, piena e realizzata. L'amore soprannaturale che si estende oltre i confini di razza, lingua, cultura e condizione sociale, e si fa comunione anima la città che Dio ha innalzato sul monte. Per questo la Chiesa è chiamata ogni giorno a conversione, cioè a lottare contro la tentazione di spegnere questa luce, ritornare alla carne e frustrare la propria missione. Pietro e ogni cristiano saranno sempre insidiati dall'inganno di cercare e sperare "ricompense" visibili e mondane che certifichino l'esito della propria missione. Mentre il Signore annuncia che, già "al presente", la "ricompensa" dei suoi discepoli è una primizia della vita celeste, la sovrabbondanza espressa nel "centuplo". Come nella moltiplicazione dei pani, chi "segue" Gesù non "lascia tutto" astrattamente, ma lo consegna a Lui perché "case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi" diventino un "tutto" infinitamente più grande. "Tutto" quello che fa parte della nostra vita ci è dato per essere vissuto in Cristo, con Lui e per Lui; il lavoro, la casa, gli affetti, anche gli svaghi, e le malattie, i dolori e i fallimenti, nelle sue mani "tutto" è trasfigurato. Ogni cosa supera i limiti del tempo e dello spazio, non è più una tenaglia che ci stringe nel terrore di perderla senza averne gustato appieno. "Seguendo" il Signore tutto si dilata mentre l'istante "presente" risuona nell'eternità e ci accoglie per vivere con totale libertà, tipica di chi ama senza offrire nulla a se stesso. Per difendere la Grazia da appropriazioni indebite, Dio accompagna il "centuplo" con le "persecuzioni". Proprio il rifiuto del mondo che, geloso della sua, non accetta l'annuncio della vita nuova incarnata nella Chiesa, ne certifica la qualità. Se “perdendola” nel martirio la “ritroveranno”, se sapranno morire per amore conservando pace e gioia senza entrare in crisi, allora davvero i cristiani annunceranno il Cielo. Per la Chiesa le "persecuzioni" segnano il successo della sua missione. Se siamo rifiutati dal collega, se anche l'amico respinge al mittente il nostro annuncio, se il fidanzato scappa di fronte alla testimonianza di una relazione cristiana, se il cugino si scandalizza perché non abbiamo fatto causa a chi ci ha preso del nostro, significa che stiamo compiendo la nostra missione. Allora, altro che allori, le "persecuzioni" che oggi ti aspettano indicheranno che Cristo è vivo in te. Certo, vorremmo che gli altri lo accogliessero subito e cambiassero vita. Cerchiamo "ricompense" carnali, risultati immediatamente riscontrabili. E invece quasi sempre sono rifiuti, e solo la fede adulta sa discernere in essi l'opera di Dio. Desideri che tua figlia ascolti quando le parli di Lui, vero? E invece si chiude in camera irata, attratta dal mondo e ferita nella lotta con Dio. Ma proprio questo rifiuto è la soglia del suo cuore dischiuso sulla conversione; Dio non desidera altro che questo, e tu? Perché possa convertirsi e salvarsi il Padre le sta consegnando suo Figlio fatto carne in te: tu sei il Vangelo per lei, e forse sarà rifiutato, come tu hai rifiutato Cristo, e nel suo amore che non si è ribellato al tuo male, hai conosciuto il perdono e la salvezza. Allora, come non "lasciare" tutto, anche l'ideale di figlia che hai cullato, pur di annunciarle l'unica notizia di cui ha bisogno? Non sai quando l'ascolterà, è libera. Ma tu sei chiamato solo ad amarla gratuitamente come Cristo ha amato te: offrendo il Vangelo alla sua libertà e prendendo su di te i suoi peccati. Così si trasmette la fede, così si annuncia il Vangelo. Ma forse stiamo "seguendo" Gesù con qualche pretesa... Abbiamo sì "lasciato tutto", come preti, suore, missionari viviamo senza un euro; come genitori ci siamo aperti alla vita accogliendo un altro figlio; e va tutto bene, ma la nostra volontà, l’abbiamo sciolta in quella di Dio? E il cuore, che cosa desidera davvero? Abbiamo fatto l'esperienza che seguire Gesù è una liberazione, oppure, celate dietro a un'apparente dedizione, vi sono la mormorazione, l'attesa di una ricompensa, un'esigenza? Il cuore è colmo di gratitudine o di frustrazione? Comunque sia Gesù ci annuncia oggi di essere Lui la nostra ricompensa, Lui in noi per ogni uomo, perché tutti siano salvati. Coraggio, perché nella Chiesa puoi sperimentarlo diventando sempre più una cosa sola con Cristo, al punto che, "per causa sua e del Vangelo", saremo "ultimi" nel mondo perché perseguitati, ma "primi" nella carovana dell'umanità per aprire a tutti il cammino verso il Cielo. 

lunedì 27 febbraio 2017

Sulle traduzioni si gioca il futuro della liturgia

    
   
di Riccardo Barile                                       27-02-2017
Breviario Romano
Per quanto riguarda la liturgia, tale movimento si è andato intensificando sino a un livello critico e polemico, come la notizia dei giorni scorsi di una nuova commissione per rivedere l’Istruzione Liturgiam authenticam (del 28 marzo 2001), che regola i principi e i modi di tradurre i testi liturgici, mettendo da parte addirittura il prefetto del dicastero competente, cioè il cardinal Robert Sarah: un colpo di mano dell’ala progressista! Cerchiamo di capire.
Anzitutto il fedele italiano ignora che cosa sia Liturgiam authenticam, non avendone speri-mentato né i benefici né i (presunti) disastri. Infatti il Messale italiano in uso (del 1983 con alcune integrazioni) è stato tradotto dall’edizione tipica latina del 1975 e i criteri della traduzione erano regolati dalla precedente Istruzione Comme le prévoit (25.1.1969).
Dopo il Messale italiano del 1983, il Messale tipico latino ha avuto una terza edizione del 2000 con una ristampa emendata del 2008. Bisognava dunque rivedere il Messale italiano alla luce di questa terza edizione, che comportava testi aggiunti e altre modifiche. Ma la revisione era postulata anche dal fatto che nel frattempo Liturgiam authenticam, tenuto conto di certi difetti delle traduzioni, aveva riformulato i criteri per la traduzione dei testi liturgici.
Da parte della Chiesa italiana tale lavoro di revisione iniziò quasi subito, ma, trascorsi quasi 15 anni - e sono tanti -, il nuovo Messale non è ancora uscito, per cui viene da pensare che non sia uscito perché qualcuno ha manovrato perché non uscisse. E a questo punto è ipotizzabile che a tempi brevi non uscirà, in quanto la nuova traduzione dovrebbe vedere la luce più o meno in contemporanea all’uscita di un documento che riformula i criteri per le traduzioni, per cui il povero Messale, appena uscito, sarebbe da rivedere...
A questo punto il fedele cattolico si trova confuso ed estraniato. In realtà la questione tocca proprio lui senza che l’interessato se ne accorga. Perché? Perché ad oggi quando va a Messa è destinatario di una traduzione uscita nel 1983 ed elaborata fine anni ’70 e inizio anni ’80, sostanzialmente fedele ma abbastanza “liberale”; se poi, invece di una traduzione più fedele, è in arrivo una revisione con criteri più innovativi, immaginarsi il risultato. A questo punto la posta in gioco non è di letteratura, ma di sostanza, in quanto attraverso le parole viene comunicata l’immagine di Dio e viene plasmato l’atteggiamento dell’uomo che si rivolge a Lui (come stare davanti a Dio, come lodarlo, che cosa chiedergli ecc.).
Oggi si vuole rivedere Liturgiam authenticam perché i suoi criteri sarebbero troppo stretti, perché c’è bisogno di un linguaggio nuovo e - sostiene qualcuno - anche di gesti nuovi e poi perché... è espressione “anche” di un clima restaurazionista di san Giovanni Paolo II, aiutato in questo “anche” dall’allora card. Joseph Ratzinger e dal card. Jorge Medina Estévez, firmatario di Liturgiam authenticam. Quanti allora non digerirono l’Istruzione, oggi o sono nella stanza dei bottoni o ricevono benevola udienza da chi dimora in quella stanza. Ovvio il tentativo della rivincita, credendo onestamente di aver subìto un sopruso, di aver ragione e di far avanzare la Chiesa nella fedeltà all’uomo e a Gesù Cristo. È capitato tante volte nella storia, sia da destra che da sinistra. Però, senza negare questo fattore, bisognerebbe sforzarsi di guardare la realtà.
Ora un sano atteggiamento verso la realtà è di lasciar parlare Liturgiam authenticam, troppo spesso taciuta nel dibattito. Che cosa dice? Tante cose che non interessano l’Italia, ma anche tante altre sulla traduzione e dunque sul linguaggio liturgico che interessano tutti i cattolici e che qui condenso in 5 punti.
1. Esattezza formale della traduzione. La traduzione è un aspetto della «opera di inculturazione» (n. 5), però «non sia un’opera di innovazione creativa, quanto piuttosto la trasposizione fedele e accurata dei testi originali in lingua vernacola» (n. 20). E qui Liturgiam authenticam chiede una traduzione che rispetti il più possibile le parole e le frasi così come sono: questo è il metodo delle “equivalenze formali”, contrapposto al metodo delle “equivalenze dinamiche”, che invece tende a tradurre con parole e frasi di oggi ciò che con parole antiche recepì il destinatario di ieri. Tanto per fare un esempio, la traduzione biblica a equivalenze dinamiche rende il termine paolino “carne” con “egoismo”, certo facilitando, ma perdendo un mucchio di sfumature. Liturgiam authenticam, rispettando lo Spirito, la tradizione della Chiesa e il destinatario, mette in guardia dal seguire una strada così disinvolta.
2. Legittimità di una lingua liturgica e di uno stile liturgico. A quanto sopra si potrebbe obiettare che, pur usando termini comprensibili, il risultato sarebbe un linguaggio che si discosta dal modo abituale di comunicare. Ebbene, Liturgiam authenticam prende il toro per le corna e ricorda che espressioni poco consuete (ma comprensibili), possono essere ritenute più facilmente a memoria e anzi possono sviluppare nella lingua odierna uno «stile sacro» (n. 27), «dove i vocaboli, la sintassi, la grammatica siano propri del culto divino» (n. 47). Ecco un’altra presa di posizione: è normale ed è positivo per chi ascolta che esista un linguaggio del culto e uno stile sacro, che, pur comprensibili, non vanno ridotti al modo abituale di comunicare.
3. Traduzioni né ideologiche né soggettive. I libri liturgici devono essere «immuni da qualsiasi pregiudizio ideologico» (n. 3) e non sempre le attuali traduzioni lo sono. Ad esempio la Liturgia delle Ore rende “instaurare omnia in Christo” con “fare di Cristo il cuore del mondo”, espressione che trasuda di Teilhard de Chardin († 1955): con quale autorità si impone il pensiero di Teilhard a migliaia di oranti? Di più: i testi tradotti non sono funzionali ad essere «in primo luogo quasi lo specchio della disposizione interiore dei fedeli» (n. 129). Il che significa che non bisogna addolcire o aumentare i testi solo per venire incontro a ciò che si desidera oggi - ad esempio aggiungendo un “giustizia e pace” dove non c’è -, poiché il testo della preghiera della Chiesa è una proposta che va oltre le nostre attese e i nostri gusti e così facendo ci costringe a rettificarci e ad arricchirci. Di nuovo, i paletti di Liturgiam authenticam, prima di essere severi, sono promozionali per il popolo di Dio e lo preservano dalle dittature ideologiche e sentimentali.
4. Le parole giuste e varie. Alla varietà di vocaboli del testo originale «corrisponda, per quanto è possibile, una varietà nelle traduzioni» (n. 51). Qui si citano due casi: il primo è l’antropologia: “anima, animo, cuore, mente, spirito” andrebbero tradotti come sono, compresa “anima” che i traduttori aggiornati vorrebbero abolire o comunque limitare. L’altro esempio sono i modi di rivolgersi a Dio: Signore, Dio, Onnipotente ed eterno Dio, Padre ecc. La fedeltà della traduzione ci veicola un giusto concetto di Dio e aumenta il senso di rispetto e adorazione nel rivolgersi a Lui. Ciò che non sempre è capitato nelle traduzioni: ad esempio gli anni ’70 hanno prodotto in un ordine religioso delle orazioni che iniziavano con un “Tu o Dio”. Mi domando se ci si rivolgerebbe così a un impiegato al di là dello sportello.
5. Rispettare la sintassi originale. Questo è il punto più contestato e - si capisce - più decisivo: siano conservati, per quanto è possibile, la relazione delle frasi in «proposizioni subordinate e relative», la «disposizione delle parole», i «vari tipi di parallelismo» (n. 57a). Oggi tendiamo a parlare sparando delle frasi accostate: è il linguaggio della pubblicità e della comunicazione virtuale. La liturgia tende invece a collegare le frasi mettendole in ordine armonico tra di loro; soprattutto una richiesta non è generalmente formulata per prima, ma dipende da una precedente memoria delle meraviglie operate da Dio, che plasmano la richiesta stessa. Questo ordine e questa bellezza del linguaggio è ciò che il mondo classico ha prodotto e che la liturgia trasmette a tutti.
Ecco, è un poco tutto questo che si vuole rivedere e ripensare (accantonare? scartare?), creando un nuovo linguaggio più secondo l’uomo di oggi.
Quanto sopra richiederebbe ulteriori approfondimenti, ma il lettore che ha avuto il coraggio di arrivare fin qui, sarà stanco, per cui rimando a un prossimo intervento.
Il sant'uomo di Manhattan e il pretino "romano"

   
   
di Ettore Gotti Tedeschi                                       27-02-2017

«C'era una volta un santo  sacerdote che in una locuzione interiore aveva ricevuto l’invito dal Signore  di  occuparsi della conversione di quelle persone  che non avevano tempo per Dio. Persone che vivevano  in un luogo frequentato quasi esclusivamente da uomini d’affari, finanzieri, politici, intellettuali, e così via, cioè  persone considerate a priori non convertibili o persino i veri nemici di Dio perché ricchi e potenti.
Per identificare questo luogo come riferimento esemplificativo, propongo di pensare a Manhattan. Questo santo sacerdote, prima di iniziare la sua missione  fece tre cose. La prima cosa furono gli esercizi spirituali, intensi (quelli di un mese, in silenzio, tipo quelli di sant’Ignazio, per intenderci) in cui chiese al Signore grazie per detta missione. La seconda cosa che fece consistette nel cercare di comprendere l’ambiente in cui avrebbe dovuto cimentarsi, la tipologia persone, professioni, i loro interessi, le loro forze e debolezze, i loro vantaggi e svantaggi, le altre religioni o sette con cui avrebbe dovuto competere, etc...etc...
La terza  cosa che fece consistette nel prepararsi ad affrontare  queste persone in questi ambienti, con argomenti, stili, parole, adeguate e convincenti. Quando si sentì pronto, partì per la sua “Manhattan“ da convertire ed iniziò il suo processo di evangelizzazione. Scelse accuratamente i luoghi (chiese) ove annunciare il Vangelo. Lì conobbe i primi che dimostrarono sensibilità e così scelse le persone (i primi apostoli) con le quali creare gruppi ristretti che gli permettessero di inserirsi nel mondo ove doveva operare. Poco alla volta cominciò a celebrare sante messe che richiamavano tutti, cominciò a confessare come mai era successo, annunciò la parola di Dio come mai si era sentito, senza “rispetto umano”, come quegli uomini necessitavano ed in cuor loro auspicavano.
In tutta la sua Manhattan non si parlava che di lui, dei suoi carismi, del bene che faceva con il magistero, con la preghiera, facendo riscoprire i Sacramenti e le grazie conseguenti. Ma soprattutto celebrando la messa con una liturgia tradizionale che contagiò tutti, confessando come la gente non ricordava più. In questa Manhattan si tornò a scoprire Dio e a conciliarlo con il proprio lavoro, anzi a scoprire che dava senso al lavoro che veniva perfino fatto meglio.
Mentre “i clienti”  del santo sacerdote crescevano a vista d’occhio, crescevano anche le offerte, i contributi economici, dati con entusiasmo affinché la missione contunasse e si espandesse. Il sant’uomo dovette cominciare a cercare giovani, o vecchi, sacerdoti che seguissero i suoi carismi, affittò locali e case per fare formazione e catechesi. Il vescovo locale gli affidò più chiese inutilizzate e gli concesse l’apertura di un seminario. Sembrava un sogno, la fede vera quella fondata solo sulla Verità unica ed eterna era quello che cercavano le persone di Manhattan, quello che volevano perché volevano dare senso alla propria vita, ma nessuno glielo aveva proposto così intensamente finora.
Pensò il sant’uomo: ma perché in così pochi nella Chiesa in questo secolo ci hanno creduto e provato? Bene, dopo alcuni anni i seminari (che ormai erano cresciti di numero e di affluenza) erano ben 14 con più di mille seminaristi. Il sant’uomo decise di creare una struttura, una specie di casa generalizia, a Roma per avere sempre la vicinanza ed il conforto della Chiesa romana e del Papa. Non essendo esperto di ciò e neppure parlando italiano, decise di mandare un seminarista che parlasse italiano, il migliore nauturalmente, il più dotato.
Impiegò quasi un mese per intervistare i suoi e scegliere fra tutti. Poi organizzò per lui un soggiorno a Roma di tre anni, prevedendo per lui anche studi teologici alle univesristà più prestigiose della Chiesa, lo fece metter in contatto con tutti i prelati, vescovi e cardinali di curia, affinche raccontasse la loro storia di successo e potessero aiutarlo a compierla e perfezionarla.  Passarono tre anni, il seminarista, ormai consacrato sacerdote a Roma, dottore in teologia e filosofia, con master in bioetica, in sociologia e in economia,  tornò  finalmente a Manhattan. Era talmente bravo ed esperto, ed il sant’uomo talmente ormai vecchio, che venne deciso di nominarlo al vertice della struttura fondata dal santo sacerdote qualche decina di anni prima.
Il giovane appena nominato pensò di rinfrescarsi la visione di cosa era Manhattan in funzione delle sue esperienze romane e riformulare una strategia adatta ai tempi. Passò mesi a valutare, studiare, sperimentare, colloquiare, etc... Poi andò dal vecchio sacerdote e gli disse che aveva fatto una analisti strategica scientifica ed era arrivato a concludere che la sua fondazione era destinata a fallire. Sarebbe fallita presto perché non aveva inteso cosa è la “realtà” del mondo moderno, perché si fondava su ideali insostenibili nel moderno. L’opera concepita dal vecchio sant’uom, proponeva infatti una vita spirituale inconcepibile nell’era moderna, pratiche religiose vecchie, quando invece  il mondo aveva bisogno di esser compreso nelle sue esigenze.
Tutto doveva cambiare per non fallire: la liturgia  incomprensibile, le confessioni opprimenti, le penitenze insostenibili, i sacramenti misteriosi, un magistero vecchio, un modo di pregare rigido.  Spiegò  che il modo, finora attuato, di interpretare e far vivere la dottrina cristiana non era più competitivo, l’uomo di oggi non poteva sentirsi oppresso dalla religione, che deve invece solo incoraggiarlo, giustificarlo, consolarlo. Il giovane  sacerdote spiegò e  distribuì   le indagini di mercato fatte da “ faith today”  e riconfermò che  se non si fosse riformato tutto  , nel giro si pochi anni la fondazione del santo sacerdote avrebbe  chiuso bottega.
Il vecchio santo sacerdote cercò di obiettare balbettando che le sue chiese invece erano piene e le vocazioni in crescita. La risposta fu immediata: “Solo per ancora poco tempo, ho visto a Roma che è successo, è questione di poco tempo tempo, è indispensabile anticipare i prossimi problemi“. Il vecchio sacerdote non aveva forze per ribattere e gli argomenti erano imposti in modo talmente scientifico e determinato da sembrare forti e convincenti. In pochi mesi la liturgia della messa venne modernizzata, si passò progressivamente a confessioni brevi e comprensive per ogni peccato, si tralasciarono le penitenze, si cominciò a dare la comunione in mano a chiunque, l’omelia nella messa si orientò alla reinterpretazione ed attualizzazione dei Vangeli e si centrò sull’importanza della coscienza soggettiva e sulla comprensione di Dio Padre che per i meriti del Figlio non necessita i nostri meriti.
Ma  i fedeli  non  capirono e gradirono i cambiamenti, progressivamente le chiese che il vescovo gli aveva messo a disposizione si vuotarono, i seminaristi che erano entrati per diventare santi si convertirono a sette protestanti e i seminari si svuotarono, i contributi crollarono, si faticò persino ad arrivare a fine mese…

Si riuni allora la commissione con il fondatore per interrogare il giovane innovatore sui “successi” ottenuti. Lui cominciò ricordando l’incarico che aveva avuto dal fondatore, le analisi strategiche fatte, continuò spiegando la storia della Chiesa, il pensiero filosofico da Cartesio a Heiddeger, le complessità affrontate dal Vaticano II, le intuizioni di Carl Rahner. Illustrò la globalizzazione e spiegò che nel mondo globale, per evitare conflitti era necessario relativizzare le religioni troppo dogmatiche, cercando di laicizzarle come il luteranesimo, smettendo di evangelizzare per non mancare di rispetto alle altre culture religiose. Spiegò l’importanza della cura della terra , dono di Dio, dell’ambiente e del cattivo uso fatto dagli uomini, nonché azzardò persino ad anticipare, con prudenza, la necessità nel mondo globale, di una religione universale centrata su un bisogno dell’uomo identico per tutti che è la cura dell’ambiente, per poi spiegare all’uomo universale che poiché il creatore dell’ambiente è Dio, si sarebbe successivamente passati a riscoprire Dio, e questo sarebbe stato il nuovo modello di evangelizzazione nel mondo globale.
Parlò 4 ore davanti ai suoi confratelli che non capivano una H. Solo uno, giovane quanto lui, cercò di ribattere dicendo: “Ma noi a Manhattan abbiamo proprio dimostrato il contrario, l’uomo più impegnato, proprio quello che non ha tempo, vuole dar senso a tutto il suo tempo, proprio l’uomo di successo sta comprendendo che cosa è il vero successo nella vita, sta capendo che deve dare un senso alla sua vita e azioni. E sta capendo con noi che solo una fede forte, valori forti, possono dare questo senso. Sta capendo che la “realtà” è conseguenza della mancanza di fede vissuta e della dottrina non predicata. Sta capendo che se non si cura l’ambiente è semmai perché prima non si cura lo spirito.
E chi lo intende sono professionisti, banchieri, imprenditori, oltre a tutti gli altri, non sono poveri disgraziati alla ricerca di una fede consolante”.
Il  giovane nuovo responsabile della istituzione di Manhattan lo tacitò chiedendogli se non avesse mai pensato che quello che lui pensava non fosse invece opera del demonio e che quello che lui diceva non fosse una bestemmia. Poi disse solo una cosa per concludere: “Cosa vi dissi quando tornai da Roma? Che il nostro progetto non stava in piedi e così è successo! Ve lo avevo detto che questa fondazione, che ha sempre ignorato la realtà del mondo terreno era destinata al fallimento, no? Io ho cercato di salvarla, adattandola ai tempi, ma è stato impossibile, troppo tardi. Il mondo non ha più bisogno di noi, io l’ho ben capito, confrontandomi con le altre fedi, facendo analisi strategica, facendo studi teologici, filosofici, bioetici. Capendo tutto… Chi non ha capito va esorcizzato.”
DIO COMPIE IN NOI L'IMPOSSIBILE UMILTA' DI RICONOSCERCI FIGLI

Il giovane è immagine di ciascuno di noi che desideriamo avere la vita eterna, ovvero la certezza del Cielo per camminare sicuri sulla terra. Per questo era giunto sino a Cristo, ma, nel racconto, resta senza nome; "un tale" appunto, perché solo chi riemerge dalle acque del battesimo ed è colmato di Spirito Santo riceve un nome nuovo, segno della nuova natura ricevuta. Essere cristiani, infatti, significa essere "salvati" dal peccato e dalla morte, e avere "vita eterna" dentro, la vita di Cristo risuscitato che si fa carne in opere che superano la natura umana, "impossibili all'uomo ma non presso Dio". Un cristiano segue Cristo sulla via della Croce, pronto a donarsi senza riserve anche al nemico. Ma per diventare cristiani abbiamo bisogno di scoprire che di fronte all’occasione per amare, scappiamo impauriti, come il giovane che alle parole di Gesù se n’è tornato triste alla sua vita di sempre. Chiama buono Gesù, ma nel fondo non gli riconosce l'autorità riservata a Dio, il solo buono. E' ancora del mondo, schiavo delle ricchezze, immagine del proprio io superbo, che gli impediscono di ascoltare, credere, e seguire Gesù. Anche noi con la preghiera, la messa, il volontariato e il nostro gruppo diciamo a Gesù che è buono, ma nel fondo pensiamo il contrario, perché, ingannati dal demonio, pensiamo che con i suoi comandamenti irrealizzabili, Dio ci vuole limitare impedendoci la libertà e la felicità. Per questo Gesù, accanto alla Vita eterna che desideriamo, ci mostra i Dieci Comandamenti, iniziando però ad elencarli con quello di "non uccidere". Lo fa di proposito per nascondere la prima parte del Decalogo, che fonda e genera ogni comandamento: "Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dall'Egitto". Ci riporta cioè alla fonte di ogni comandamento che è l'iniziativa di Dio, il miracolo d'amore che ha liberato il Popolo dalla schiavitù. Solo dall'esperienza che solo Dio ha avuto il potere di salvare senza esigere nulla, sorge l'amore a Lui con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze che si realizza attraverso i comandamenti. Come amare mammona se mi ha dato solo sofferenza? Amerò chi mi ha amato davvero. Pensare di compiere la Legge e diventare cristiani senza aver conosciuto l'amore di Dio, il perdono e la liberazione dai peccati è pura illusione, quella che Gesù smaschera nel giovane ricco. Quando gli presenta la perfezione dell'amore il tale si spaventa e si rattrista, perché si rende conto che, in realtà, non aveva compiuto nessun comandamento. E' uno shock: quel giovane sbatte violentemente contro se stesso, e si scopre usurpatore, seduto nel posto riservato a Dio. Ha il cuore inceppato nei desideri della carne che lo riempiono di tristezza poiché aveva molti beni, molti dei che esigevano il suo cuore, la sua mente e le sue forze. Non era mai uscito dall'Egitto dove continuava a fare mattoni, opere di buona fattura, ma impiegate per costruire una piramide al faraone, immagine del demonio che seduce e schiavizza le persone. La stessa che sperimentiamo anche noi nel matrimonio, nel fidanzamento, nel lavoro, che il demonio ha trasformato in idoli tiranni che ci tengono al guinzaglio. Ma coraggio, perché Gesù ci sta fissando con amore. Ci conosce e non ci lascia nell'illusione. Non scandalizzarti di te stesso, è lo sguardo d'amore di Gesù che ti sta illuminando! Una sola cosa ci manca, ed è essere cristiani, cioè persone compiute a immagine e somiglianza del Padre che ci ha creati. Nella Chiesa possiamo diventare perfetti, cioè senza mancare di nulla. Come? Innanzitutto sperimentando l'amore di Dio che ci perdona e riscatta dalla schiavitù al peccato; Lui solo, dove tutti hanno fallito. Per avere questa certezza la Chiesa ci invita a vendere tutti i nostri beni per avere un tesoro in Cielo. Dallo stupore e dal terrore che provocano queste parole, possiamo comprendere quanto siamo lontani dalla fede, come gli apostoli. Ma capiamo anche che, senza questo passo decisivo, è impossibile diventare cristiani. Ma non a Dio. Non a chi, stanco della sterilità nella quale spende i suoi giorni, chiede a Lui di rivelarsi come un Padre buono che sa di cosa hanno bisogno i suoi figli. Hai bisogno di perdonare tuo marito o tua moglie perché altrimenti non vivi più? Vorresti aiutare tuo figlio senza nevrosi e isterismi per condurlo alla fonte della vita vera e non ai tuoi schemi? Vuoi entrare nel Regno di Dio e amare? Allora lasciati ammaestrare da Gesù e pensa a cosa possiedi oggi che, al solo pensare di darlo via, ti intristisci. Quel progetto? Quella relazione morbosa? Ecco, oggi è il giorno buono per venderli, e lo puoi fare attraverso un’elemosina seria, che faccia male al portafoglio e al cuore. Il denaro, infatti, è l’immagine di ogni idolo che ci impedisce di seguire Gesù. Cominciamo dal denaro allora. Non temere, Dio sa che sei troppo ricco di te stesso e di beni, anche se non ce la fai ad arrivare alla fine del mese; spesso succede che, come i ricchi, anche i poveri sono attaccati a quel poco che hanno illudendosi che possa dare loro la vita. Per questo ti offre la possibilità di sperimentare che Lui può compiere l'impossibile di cambiare il tuo cuore e renderti felice. Non ti ha già perdonato laddove né tu né nessuno vi era riuscito? Allora, una sola cosa ti manca per essere figlio del Regno, obbedire a questa Parola di Gesù, e sperimenterai quello che basta al tuo cuore, vedere il Padre che ti ama donandoti il centuplo insieme alla fede e allo Spirito Santo per mezzo dei quali potrai entrare nella vita da persona libera, anche quando ti presenterà le persecuzioni che ti chiameranno ad amare il nemico.

domenica 26 febbraio 2017

Templari e Gesuiti, storie di soppressioni

    
   
di Angela Pellicciari                         26-02-2017
Cavaliere Templare

La lettura del bel pezzo di mosnignor Livi sulla Bussola del 24 febbraio (clicca qui) mi ha fatto venire in mente qualche considerazione sulla soppressione degli ordini religiosi decisa dalla Chiesa nel corso dei suoi due millenni di storia.
Due sole volte il Papa ha soppresso ordini religiosi regolarmente costituiti: la prima nel 1312, la seconda nel 1773. Nel primo caso si trattava dei Cavalieri Templari, nel secondo dei Gesuiti. Quella dei Templari, ordine monastico la cui regola è stata scritta da Bernardo di Chiaravalle, è una storia per tanti versi drammatica su cui ancora oggi si discute e che negli ultimi secoli è stata ammantata di fantasiose leggende e racconti esoterici.

La soppressione dei Tempari è voluta da Filippo IV il Bello re di Francia che, oltre ad imporre con ricatti e minacce a Clemente V la permanenza del papato in Francia, è anche all’origine di una violenta quanto illegale congiura ai danni dei Cavalieri del Tempio. In una notte del 1307 Filippo fa arrestare e torturare tutti i Templari francesi accusati di eresia e tradimento, nonostante siano membri di un ordine religioso e quindi soggetti unicamente alla giurisdizione della Santa Sede. Numerosi cavalieri, compreso il gran maestro Jacques de Molay, ammettono sotto tortura come vere le colpe di cui sono accusati.

Successivamente trovano il coraggio di appellarsi al papa e, di fronte al tribunale pontificio, ritrattano le confessioni loro estorte: l’ordine è santo. A quel punto Filippo ha gioco facile a farli finire sul rogo come relapsi (spergiuri). I Templari sono soppressi al Concilio di Vienne del 1312 ma la vittoria del re di Francia non è completa perché Clemente V non gli consente di appropriarsi di tutti gli ingenti beni dei Cavalieri che finiscono ad un ordine affine, quello dei Cavalieri di Malta.
Qualche secolo più tardi, il 21 luglio 1773, un altro Clemente, il quattordicesimo, col breve Dominus ac redemptor sopprime in perpetuo – così vuole che avvenga - la Compagnia di Gesù e condanna il generale Lorenzo Ricci a carcere duro, cioè a pane e acqua, nella prigione di Castel Sant’Angelo. In questo caso a pretendere la soppressione della Compagnia sono praticamente tutti i re della cristianità.

L’influenza delle logge è capillarmente penetrata a corte e i sovrani, illuminati dal bagliore dei filosofi neopagani, vogliono farla finita con i gesuiti. Si comincia dal Portogallo dove il massone marchese di Pombal lancia una campagna diffamatoria contro la Compagnia accusata di aver cospirato contro la vita del re, e nel 1759 ottiene la loro soppressione, l’incameramento dei loro beni, la brutale espulsione dei gesuiti stranieri, il carcere duro per quelli portoghesi, uno dei quali, l’anziano Malagrida, ucciso. Seguono le corti di Francia, Spagna (dove un’insurrezione popolare è imputata ai gesuiti), Italia e Austria. Gli eserciti di Francia e Napoli invadono i territori pontifici di Avignone e Benevento, ma, mentre Clemente XIII resiste ai dictat, non altrettanto farà il suo successore.
Giuseppe La Farina, storico massone, così commenta la decisione di papa Ganganelli nella sua Storia d’Italia del 1863: “Colla soppressione dei Gesuiti si consumò la ribellione dei principi contro il Papato, e colla bolla del 21 di luglio si compì l’abbassamento del papa innanzi ai principi”, “giammai la libertà ha avuto nemici più terribili dei Gesuiti, giammai il Papato milizia più operosa e più intrepida: la bolla di papa Ganganelli non fu una riforma, ma una capitolazione imposta dal vincitore”. Bisognerà aspettare il 1814 perché Pio VII appena rientrato a Roma si affretti a ricostituire la Compagnia che, durante tutto l’Ottocento, sarà infaticabile baluardo delle ragioni cattoliche contro la libera-muratoria imperante. Nel Novecento le cose andranno progressivamente cambiando.
Chissà perché mi è venuto in mente di parlare di soppressioni a proposito delle considerazioni fatte da Livi. Forse perché ad esigere la soppressione di ordini scomodi sono sempre state le potenze di questo mondo. Ora invece è diverso. Ora il pensiero del mondo ha messo salde radici all’interno della Chiesa.

sabato 25 febbraio 2017

LA FINE PROSSIMA DELL'UOMO OCCIDENTALE
Sopravvivrà solo se riconoscerà di essere vulnerabile e di aver bisogno sia dell'infinito che dell'eterno

di Costanza Miriano



L'uomo occidentale è finito per carenza di stelle. L'uomo è fatto di desiderio, ha bisogno di alzare lo sguardo a cercare le stelle, de-sidera, ed è questa ricerca che lo tiene dritto in piedi, in vita. È questo lo spazio nel quale si infila la ricerca di infinito. Ma, prima ancora, è questo che lo muove nel desiderio di migliorarsi. Per millenni le narrazioni - da Omero in poi - sono stati racconti di come l'uomo, l'eroe, cercasse di superare se stesso, di trascendersi, di cercare fuori di sé qualcosa che lo eternasse.
A un certo punto l'uomo ha deciso che non aveva più bisogno di nessun cielo sopra la sua testa, ha smesso di costruire cattedrali, ha cominciato a pregare - i pochi che lo facevano ancora - in posti più simili a garage che a chiese, senza liturgia, senza guglie che portassero lo sguardo verso l'alto. Ed è nato l'uomo funzionale all'attuale modello di vita, di produzione di beni, di organizzazione della vita pubblica: è un uomo che vive immerso in una palude di soggettivismo assoluto - proprio così, viviamo in un ossimoro - in cui ogni desiderio non solo può, ma ha il diritto di essere soddisfatto, e ogni limite, anche quello biologico, è avvertito con fastidio come fosse una costruzione fittizia, e non lo spazio che ci è dato di abitare.

CHE FARE DELLA LIBERTÀ?
È un uomo talmente liberato che non sa più che fare della sua libertà: la liberazione sessuale, per esempio, ha abbattuto il desiderio. È un uomo solo, senza vincoli, senza legami, senza storia, con pochissimi o zero figli (i figli sono controindicati, ti costringono a risparmiare sui beni superflui, e se proprio devono nascere decidi tu quando e come). È un uomo che non ha lo sguardo verso il cielo, verso le stelle, ma su se stesso, sul suo inconscio, sulle paturnie o nevrosi, chiamiamolo come vogliamo (io e san Paolo preferiamo dire "l'uomo vecchio"). Un uomo che pensa di non avere bisogno di essere guarito, salvato, redento. Un uomo che pensava che senza obbedire a nessuno sarebbe stato meglio. E non basta la depressione generale a insinuargli dubbi in merito.
Prima l'arte era bella perché parlava della ricerca di Dio, adesso ritrae l'uomo che cerca se stesso, per questo è tendenzialmente brutta. Prima la letteratura mostrava il corpo a corpo dell'uomo col suo destino eterno, adesso si portano molto i racconti di piccole felicità trovate nelle piccole cose (si vincono anche i premi Strega così), adesso è l'epoca in cui un candidato al Nobel per la letteratura lancia l'idea di scrivere i dieci motivi per cui vale la pena vivere, e mette in testa la mozzarella. È evidente, quando si vive per sé bisogna trovare in sé le ragioni. Ma non è che reggano tanto. Il punto è che noi siamo nani coi trampoli, siamo creature di fango che il soffio di Dio ha reso poco meno degli angeli. Noi da soli non siamo capaci di infinito, perché veniamo dal cuore di Dio e a lì vogliamo tornare.

C'ERA UN CIELO SOPRA LE TESTE
Non che prima di questa idea di uomo la gente fosse tutta mistica, protesa all'infinito. Ma c'era un cielo sopra le teste, questo è sicuro, e la vita aveva una sua pedagogia. Era il tempo in cui il problema era come fare a vivere, non trovare una ragione per farlo. Quando si teme per la propria sopravvivenza è più facile prendere atto del fatto che non dipende da noi. Quanto al tema di soddisfare tutti i desideri, il problema non si poneva proprio (e il fatto di non soddisfarli li teneva vivi). Anche quando non è stata in questione la sua sussistenza, l'uomo viveva contenuto in una sorta di esoscheletro che lo teneva dritto, norme e convenzioni definivano il recinto dei suoi limiti.
Aperto e scoperchiato tutto, l'unico antidoto alla morte per estinzione dell'uomo occidentale è innanzitutto riconoscere e dichiarare il proprio bisogno, dichiarare la propria vulnerabilità. E può essere quella la ferita aperta, divenuta feritoia, che fa passare Dio, l'unico che può soddisfare il nostro infinito desiderio, quello per cui è fatto il nostro cuore. L'uomo secondo Cristo è un uomo meraviglioso, che fa figli e migliora il mondo e lo feconda e lo costruisce per loro, che salva il seme delle cose belle per i figli suoi e degli altri, che protegge i deboli, che cura i malati, visita i carcerati. L'uomo secondo Cristo fa le cose bene, non è un cialtrone: il buon samaritano, che Gesù stesso prende a esempio di amore per il prossimo, è uno che cura i suoi affari, e grazie a questo ha i soldi per pagare un albergatore che si prenda cura del ferito. È un uomo che costruisce per domani perché sa che qui non è che l'inizio della sua vita, che è eterna. È un uomo che si sa amato teneramente dal Dio che ha inventato gli atomi e i ghiacciai, e il figlio del Re è padrone di tutto e libero, non ha nemici perché ha già vinto, e sa che l'unica battaglia che gli rimane è quella contro l'uomo vecchio, quella che gli impedisce di dire sì a Dio, e riconoscersi veramente figlio. E felice.
 
Titolo originale: L'uomo occidentale non guarda più l'infinito e l'eterno, ma solo se stesso


LA PROVVIDENZA DEL PADRE RISPLENDE NELLE FERITE SULLE PALME DELLE MANI DI CRISTO NELLE QUALI SONO SCRITTI I NOSTRI NOMI PER L'ETERNITA'
Il Vangelo di questa domenica non è una romantica e commovente pagina edificante; non racconta di figli dei fiori alla ricerca di se stessi. Non è nemmeno un trattato di economia, niente pauperismo buonista. E’ in gioco il rapporto che ciascuno di noi ha con Dio. Quindi la felicità e la salvezza.
Per capire il posto che riserviamo a Dio, Gesù ci conduce a scoprire quello di mammona. E’ la via più semplice.
Eccola in trono, nelle piazze, nei parlamenti, in Tv, alla radio e al cinema, sui giornali e internet, e nei cuori, nel tuo e nel mio. E’ mammona  l’assoluta protagonista, ci chiede tutto. Per questo “non possiamo servire due padroni, Dio e il denaro”. O rivoluzioni o Croce, niente compromessi.
“Non possiamo” perché uno dei due padroni è un tiranno feroce, mentre l’Altro ci ha chiamato amici, e si è donato a noi con amore infinito. “Non possiamo servire” chi ci strappa dalla realtà in nome di una ipotetica da costruirci e, contemporaneamente, mettere la nostra vita nelle mani di Chi, con la sua, è entrato nella storia concreta di ogni peccatore.
“Non possiamo” amare il denaro che ci spinge a “pre-occuparci” e, nello stesso tempo, “non affannarci di quello che mangeremo o berremo, di come vestiremo”. Per i beni, infatti, siamo sempre occupati previamente. La chiamiamo previdenza e oculatezza, è solo incredulità.
Ci abbiamo mai pensato? Occupiamo il tempo, le energie, il cuore e la mente per un futuro che non ci appartiene. Eppure viviamo come fosse vero il contrario, arbitri del nostro destino. Se anziani, siamo preoccupati per l’eventuale necessità di un ospizio prima e del funerale più certo poi.
Se giovani, abbiamo messo in un cantuccio il pensiero di sposarci perché poi come faremo ad andare avanti? Se sposati, l’ansia per il denaro ci ha chiusi alla vita; un figlio è più che sufficiente, due poi, di più neanche parlarne. E la settimana bianca, e le scarpe, lo studio, come faremo con uno stipendio da fame e un lavoro a tempo determinato?
Ma la vita, crediamo davvero che ci appartenga? Il futuro, siamo così sicuri di poterlo gestire come fosse il gioco di una consolle? “Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?”.
Dovremmo rispondere, con la cultura nella quale siamo immersi, che tutti noi possono aggiungere o togliere un’ora alla propria vita…
La menzogna che sedusse Adamo ed Eva è proprio questa. Oggi si insinua nei Parlamenti che credono di poter decidere perfino della vita e della morte dei bambini. Ma ha sedotto anche noi: “non morireste affatto”. Capito? Altro che Dio e la sua gelosia.
E abbiamo creduto che allungare la mano e mangiare di quell’albero ci avrebbe dato saggezza e potere e che saremmo diventati come Dio… Come accumulare denaro, feticcio di ogni superbia, amuleto per ottenere potere e prestigio, riempire la pancia e saziare gli appetiti.
Il denaro per non morire, insomma, esattamente come abbiamo pensato stamattina: un altro paio di scarpe? Siamo matti? Se continuiamo cosi moriremo di fame…
Ma, invece, ci ritroviamo sempre più poveri e nudi, impauriti e tristi, come Adamo ed Eva; finalmente autodeterminati, come si dice oggi, crediamo orgogliosamente in noi stessi, ma ci ritroviamo soli. Liti e giudizi senza fine, la famiglia sfregiata dall’avarizia, un morbo maligno che si espande e infetta tutti.
L’attaccamento al denaro, infatti, è la radice di tutti i mali. Attraverso di esso il demonio ci manovra a suo piacimento. E chi ama il denaro “odia” Dio: troppo duro Signore… No invece, è la verità. Chiediamoci oggi se per caso non odiamo Dio, pur andando a messa e frequentando la parrocchia, pur impegnandoci per i poveri e lottando contro le ingiustizie.
Vediamo se, per amore al denaro, magari camuffato da parsimonia, non stia per caso crescendo in  noi e attorno a noi l’antagonismo, il rancore e la mormorazione, il giudizio, l’invidia, la gelosia e infine l’odio. Da quanto tempo non parliamo con quel cugino che sospettiamo ci abbia sottratto venti euro?
Chi ama il denaro ha consegnato il cuore a un patrigno, il demonio, e vive seguendone i desideri. Per questo chi serve mammona è un orfano; non ha conosciuto suo Padre, è come se avesse vissuto sempre per strada, costretto a cercarsi il pane, a lottare per conquistarne un tozzo.
E il mondo è pieno di orfani che si affannano e angosciano perché hanno tagliato con il Padre e non sanno che, comunque sia, Egli “sa di cosa hanno bisogno”. Anche di preti e suore, catechisti e cristiani “di poca fede” che si affannano e preoccupano come i “pagani.  
Ma Dio si è fatto carne proprio per i suoi figli dispersi, per ciascuno di noi impigliato nelle maglie della schiavitù al denaro. E viene con questa parte del Discorso della Montagna che ci mostra il cuore del Figlio. Gesù ha odiato mammona perché amava il Padre.
Gesù non ha vissuto un’ora sola per se stesso, ma in ogni istante si è donato senza affannarsi e preoccuparsi; Non aveva dove reclinare il capo perché lo ha deposto sul legno della Croce.
Libero come un “uccello del cielo” non ha lavorato per “ammassare nei granai” ma ha perduto la vita per annunciare il Vangelo. Per questo suo Padre lo ha nutrito di vita eterna.
Come un “giglio del campo” non ha tessuto e filato per vestirsi e farsi bello, ma ha lasciato che, nudo sulla Croce, il Padre lo rivestisse della sua santità.
Ha sempre “cercato prima il Regno di Dio e la sua Giustizia”, seguendone le orme sino alla morte. Per questo il Padre gli ha “dato in aggiunta” la risurrezione e la vittoria sul peccato, e tutti i beni incorruttibili perché li doni a ogni uomo.
Accogliamo allora oggi questo Vangelo di verità e libertà. Lasciamoci illuminare sul nostro attaccamento ai beni e convertiamoci per vivere in Cristo. Consegniamogli noi stessi e le nostre famiglie, la missione, le parrocchie, le attività, la vecchiaia e la gioventù: “la sua vita in noi vale più del cibo, e il corpo suo tempio vale più del vestito”.  
Il Regno di Dio che abbiamo spesso scambiato con un sofà e una televisione al plasma è invece pienezza, gioia e pace nello Spirito Santo. E’ l’antipasto del Cielo, è già un pezzo di Paradiso qui in terra. Non è lontano, è nascosto nella nostra storia: “cerchiamolo prima” del vestito, del cibo e del denaro, della salute e del lavoro.
I beni arriveranno come e quando Dio vorrà, perché è nel deserto che si impara che l’uomo non vive di solo pane ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio .  
“Cerchiamolo” e ascoltiamolo allora in ogni evento, soprattutto in quelli che ci fanno paura, nella precarietà e nelle “pene” di oggi. “A ciascun giorno”, infatti, “basta” la Croce dove Cristo si dona a noi senza riserve per colmarci e darci pace alle inquietudini, e dove anche noi potremo donarci.
LA NOSTRA PICCOLEZZA ACCOLTA NELLA BENEDIZIONE DALLE BRACCIA CROCIFISSE DEL SIGNORE



I discepoli di Gesù sono un mistero. Il Signore li ha chiamati, eletti, amati, proprio perché piccoli, bambini, mostrando così chi è un discepolo. Ma essi sgridano chi presenta a Gesù dei bambini perché li benedica. Davvero non avevano capito nulla. Una distanza siderale separava i loro pensieri mondani da quelli di Gesù: Lui gli annunciava che stavano andando a Gerusalemme dove avrebbe sofferto e dato la vita per salvare i peccatori, e loro a discutere su chi fosse il più grande, secondo la misura mondana con la quale anche noi siamo abituati a vivere ogni cosa, compreso il rapporto con Dio e i fratelli. Per questo pensavano fosse giusto impedire che la piccolezza e la sofferenza intralciassero il cammino di Gesù, mentre erano le loro pretese di grandezza ad essere di scandalo per la sua missione. Nell'Israele del primo secolo, infatti, il bambino era privo di stato sociale e diritti legali. Come purtroppo anche oggi, nonostante tanti proclami, nella società pagana un bambino non era neanche considerato persona; era manodopera, per questo, un bambino nato con malformazioni o malattie, costituiva un peso di cui il padre, secondo lo "ius exponendi", poteva disfarsi abbandonandolo appena nato in un luogo pubblico, condannandolo così alla morte o al recupero da parte di altri. Ciò era frequente nell'Impero Romano, nella Grecia antica ed ellenistica e presso molte altre popolazioni nel corso della storia. Insomma, un bambino era poco più che nulla. Ma San Paolo ci rivela il pensiero opposto di Dio: "Considerate bene la vostra chiamata fratelli. Non esistono molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti di nobili natali. Ma quel che esiste di folle nel mondo, proprio questo Dio ha scelto per confondere i sapienti; quello che esiste di debole nel mondo, ecco che Dio lo ha scelto per confondere la forza; quello che nel mondo è di ignobili natali (i figli di nessuno), e quello che viene disprezzato, ecco quello che Dio ha scelto: quello che non è per annientare quello che è, affinché nessuna carne abbia a gloriarsi davanti a Dio" (1Cor. 1,26-29). Dio è andato cioè per orfanotrofi a cercarsi i discepoli. E' sceso nei luoghi senza amore, senza dignità, nelle "dark room" di ogni generazione, nei postriboli, nelle celle di isolamento. Così ha chiamato Abramo, così il suo popolo, così i profeti, così Davide, unto re quando era ancora un bambino. Così ciascuno di noi, creature del tutto dipendenti. Bambini capricciosi, spesso egoisti, ancor più spesso orgogliosi. Bambini che si sono creduti adulti, ricchi, potenti, autonomi. Bambini buttati via; come un aborto dirà San Paolo parlando della sua chiamata, uno che agli occhi superbi del mondo non esiste, proprio come un bimbo ancora nascosto nel grembo di sua madre e scartato perché malato o solo perché di troppo. Sin qui è giunto l'amore di Dio. In questo abisso è sceso il Signore, negli inferi dove ci ha spinto la superbia con cui abbiamo rifiutato il non essere quello che avremmo voluto. Qui ci ha voluto abbracciare e benedire. Il suo amore che si fa carne nelle sue mani benedicenti e crocifisse stana l'orgoglio perché il veleno che portiamo dentro si ribella e sgrida chiunque ci voglia condurre al Signore. Lo spirito malvagio che s'è impossessato di noi vuole infatti impedirci di lasciarci amare per quello che siamo. E' l'amara conseguenza del peccato che ci ha strappato al Paradiso dove si vive nella Grazia, abbandonati alla volontà provvidente e gratuita del Padre; per questo, anche se siamo nella Chiesa, continuiamo a pensare che l'amore di Dio ce lo dobbiamo guadagnare con lo stesso sudore della fronte con cui siamo obbligati a coltivare la terra; sperimentando però l'identica frustrazione: spine e cardi produce la terra, aridità e solitudine genera il rapporto con Dio centrato moralisticamente su noi stessi. Come accade alla donna il cui istinto la spinge verso il marito nel quale però incontra un abbraccio egoista con cui la vuole dominare, anche noi nella nostalgia del Paradiso vorremmo donarci allo Sposo, ma basandoci sui nostri sforzi, sperimentiamo ogni volta di più la lontananza da Lui. Ma più forte della superbia è l'indignazione di Gesù dinanzi alla malizia del demonio che ci ha sedotto. La sua voce che risuona nella predicazione è un balsamo che guarisce dalla superbia: "Lasciate che i bambini vengano a me". Sì, Gesù ci vuole a sé ora, così come siamo, bambini; per questo, nella Chiesa viene a riscattarci per farci suoi con il potere di vanificare ogni tentativo del demonio di impedire che la nostra debolezza sia accolta dal suo abbraccio di misericordia. L'amore che possiamo sperimentare nella comunità, infatti, ci accompagna a comprendere che, a differenza di quello che il mondo insegna, proprio l'essere bambini, l'essere cioè quello che siamo, non ci impedisce di essere suoi. E' vero, con il carico di peccati che ci portiamo dentro, siamo un peso sulle spalle del Buon Pastore; il virus satanico ci ha resi malformati nel cuore e nella mente, poverissimi nello spirito. Ma il Regno dei Cieli appartiene a questi bambini che siamo tutti, perché Cristo si è fatto bambino per entrare in esso con la nostra carne. Ha portato il peso della Croce, ha lasciato che lo sfigurassero al punto di non avere più apparenza d'uomo, come te e come me, per entrare così nel Paradiso che abbiamo perduto. Per questo è nostro oggi, e domani, e ogni giorno; lo è perché siamo così, come Gesù, la cui "soavità ha reso esigua la sua grandezza, si è fatto peccato perché i nostri peccati non ci allontanassero da Lui" (Ode VII di Salomone). Accogliere il Regno come un bambino significa dunque lasciarci abbracciare da Gesù abbandonando ogni pretesa giustizia e riconoscendo umilmente di essere peccatori. Il suo abbraccio che ci accoglie così come siamo stringendoci a sé gratuitamente, senza esigere nulla, giunge a noi attraverso la Parola, i sacramenti e l'esperienza della comunione con i fratelli, ci riconcilia con Dio e ci apre ai fratelli guarendoci dalla superbia. Solo nell'abbraccio con cui Cristo "dice bene" di noi nonostante i nostri peccati possiamo imparare ad accettare noi stessi e sperimentare la libertà dal dover essere e dal dover fare per guadagnare la salvezza e la gioia nell'affetto e nella stima degli altri. Coraggio, Gesù ci chiama a sé, e non si tratta di fare o sentire qualcosa di speciale, ma semplicemente di andare a Lui camminando nella Chiesa che è il suo corpo vivo nel quale ci accoglie senza condizioni. 

venerdì 24 febbraio 2017

Pontificia Accademia della Morte

    
   
di Riccardo Cascioli                              24-02-2017
Marco Pannella e Vincenzo Paglia

Sapere che un uomo che nella sua vita e fino alla fine ha fatto tanto male, come Marco Pannella, abbia però goduto dell’amicizia di un sacerdote, è in qualche modo consolante. Si può sperare che quel filo con Dio che non si è mai spezzato possa aver provocato almeno alla fine un ravvedimento, un pentimento, per salvare la sua anima. Ma la speranza si fa amarezza sapendo che quel sacerdote è monsignor Vincenzo Paglia, ex vescovo di Terni (diocesi da lui ridotta sull’orlo della bancarotta), disastroso ex presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, da pochi mesi presidente della Pontificia Accademia per la Vita nonché cancelliere dell’Istituto Giovanni Paolo II per la Famiglia, istituti dove ha iniziato una sistematica opera di demolizione di quanto voluto da san Giovanni Paolo II.
Ma non è da queste “medaglie” che nasce l’amarezza: per capirne il motivo invece basta ascoltare il video che da due giorni rimbalza da un sito all’altro scandalizzando migliaia e migliaia di semplici cattolici. Si tratta dell’intervento che il presidente della Pontificia Accademia per la Vita ha fatto lo scorso 17 febbraio in un evento organizzato dal Partito Radicale per presentare l’autobiografia (postuma) di Marco Pannella (clicca qui per il video).
Ovvio che chi ha condiviso un’amicizia vera con una persona, anche se proveniente da esperienze diverse e perfino opposte, cerca di valorizzarne l’umano, ma nelle parole di monsignor Paglia non c’è l’affetto dell’amico che ha condiviso un dialogo sincero sulla verità della vita; c’è invece l’entusiastica adesione all’ideologia che ha mosso Pannella e che oggi continua a muovere i suoi seguaci. Un’ideologia figlia e amplificatrice di quella che san Giovanni Paolo II definiva "cultura della morte": Pannella è direttamente responsabile degli oltre sei milioni di bambini uccisi con l’aborto volontario, è stato uno dei più tenaci distruttori della famiglia, è all’origine delle campagne per l’eutanasia che stanno dando il colpo di grazia al nostro popolo. E poi la droga, la prostituzione, le coppie gay, il controllo delle nascite: tutto ciò che  è il rovesciamento del piano creatore di Dio ha trovato in quest’uomo e nei suoi seguaci dei fanatici missionari dediti al proselitismo.
Un uomo con un fardello così pesante sulla sua coscienza avrebbe avuto bisogno di un uomo di Dio capace di richiamarlo alla sua verità; è stato invece “punito” con un sacerdote che l’ha giustificato ed esaltato nella sua perversione e ora sente anche il bisogno di annunciarlo al mondo: «Marco era un uomo di grande spiritualità», «la sua è una grande perdita per questo nostro paese», «un uomo spirituale che ha combattuto e sperato contro ogni speranza, come dice San Paolo», «una storia per la difesa della dignità di tutti», «ha speso la vita per gli ultimi», «un tesoro prezioso da conservare», «un uomo che sa scendere nella profondità e sa aiutarci a sperare», «ispiratore di una vita più bella per il mondo che ha bisogno di uomini che sappiano parlare come lui». Non bastasse, ci arriva anche la lezioncina, perché Pannella – dice ammiccante Paglia - «rimproverava noi cattolici perché lasciamo da parte il Vangelo». Ah, sarà per questo allora che si è dato tanto da fare per cancellare ogni traccia di cattolicesimo.
Nessuno più di Pannella in Italia ha lavorato contro la vita e contro la famiglia, e a tesserne le lodi è colui che è presidente della Pontificia Accademia per la Vita ed è stato a capo del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Non ci sono parole sufficienti per esprimere lo sdegno e il disgusto per questa esibizione.
Ma, se possibile, non è questa la cosa più grave. Perché l’elogio di Pannella fatto da monsignor Paglia svela anche la prospettiva culturale che muove – con Paglia - una parte influente della Chiesa. Ha detto il monsignore: «Oggi è indispensabile trovare una prossimità che unisce i diversi per edificare una unità di disegno o una unità che abbracci tutti»; e ancora: «Contro i muri, Marco è figura che parla di universalità, libertà per la costruzione», «speranza in un mondo che si ricomponga».

La prosa non è fluida ma il concetto è chiaro: la prospettiva è l’unità del genere umano guardando a ciò che unisce; popoli, culture e religioni che devono fondersi, rinunciando alle proprie identità, per poter diventare una cosa sola. E la Chiesa al servizio di questa utopìa che, peraltro, ha all’Onu i suoi teorici. Non si annuncia più Cristo ma i valori umani comuni; si parla di Gesù ma in funzione di un non meglio chiarito servizio all’umanità; non si lavora per portare tutte le genti a Cristo, ma Cristo è il pretesto per perdersi nel pensiero unico dominante. Insomma, quello che si persegue è la fine della Chiesa.
Gesù (non) dixit Il gesuita che offende Cristo
    
   
di Antonio Livi                           24-02-2017                   
Sosa

L’intervista del generale dei gesuiti Padre Sosa, per il quale le parole di Gesù andrebbero contestualizzate perché gli evangelisti non avevano con sè un registratore, per la sua assoluta incoerenza logica, non meriterebbe alcun commento teologico ma solo una risata. Ma, trattandosi di un intervento dell’attuale generale dei Gesuiti nel dibattito sull’interpretazione di un documento pontificio così problematico come l’Amoris laetitia, si rende necessario, per responsabilità pastorale nei confronti dei fedeli ai quali l’intervista è giunta attraverso i media internazionali, un richiamo al corretto rapporto del Magistero e/o della sacra teologia con la verità rivelata, quella con la quale Dio «ha voluto farci conoscere la sua vita intima e i suoi disegni di salvezza per il mondo» (Vaticano I, costituzione dogmatica Dei Filius, 1870).
I fedeli cattolici (sia Pastori che fedeli) sanno che la verità che Dio ha rivelato agli uomini parlando per mezzo dei Profeti dell’Antico Testamento e poi con il proprio figlio, Gesù  (cfr Lettera agli Ebrei, 1, 1), è custodita, interpretata e annunciata infallibilmente dagli Apostoli, ai quali Cristo ha conferito la potestà di magistero autentico per l’evangelizzazione e la catechesi. Agli Apostoli Cristo ha detto: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me. E chi disprezza me, disprezza Colui che mi ha mandato» (Vangelo secondo Luca, 10, 16). Il valore di verità della dottrina degli Apostoli e dei loro successori (i vescovi con a capo il Papa) dipende quindi interamente dal valore di verità della dottrina di Cristo stesso, l’unico che conosce il mistero del Padre: «La mia dottrina non è mia ma di Colui che mi ha inviato» (Vangelo secondo Giovanni, 7, 16). Padre Sosa, prigioniero com’è dell’ideologia irrazionalistica (pastoralismo, prassismo, storicismo) è allergico alla parola “dottrina”, ma non si rende conto che con questa sua stolta polemica offende non solo la Chiesa di Cristo ma Cristo stesso.
Tanto è essenziale la potestà di magistero (munus docendi), che Cristo ha conferito agli Apostoli unitamente alla potestà di amministrare i sacramenti della grazia (munus sanctificandi), con i quali gli uomini possono essere santificati, cioè uniti ontologicamente (non solo moralmente) a Cristo, e in Lui, nell’unità dello Spirito,  a Dio che è il solo Santo. Dice infatti Gesù agli Apostoli: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Vangelo secondo Matteo, 28, 20).
E per provvedere alle necessità spirituali dei fedeli, con la costituzione gerarchica della Chiesa, Cristo ha conferito agli Apostoli anche la missione pastorale (munsu regendi). Si capisce allora che non si può pensare a riforme “pastorali” della Chiesa in contrasto con la dottrina dogmatica e morale, come vorrebbe padre Sosa, con l’alibi delle presunte ispirazioni di un fantomatico “Spirito”, che certamente non è lo Spirito di Gesù (quello che «ex Patre Filioque procedit») perché contraddice frontalmente la sua dottrina e i sui comandamenti, anche lì dove Gesù ha parlato in modo definitivo e inequivocabile, com’è il caso del matrimonio naturale, che è indissolubile perché Dio così lo ha istituito «fin dal principio».
Non serve a niente – tanto meno all’edificazione della fede dei cattolici di oggi – sostenere con argomenti pseudo-teologici,  ossia con la propaganda rivoluzionaria, le riforme dottrinali di una immaginaria “Chiesa di Bergoglio”: i fedeli sanno benissimo  che la “Chiesa di Bergoglio” non esiste e non può esistere, perché Dio ha voluto solo la Chiesa del Figlio suo,  la Chiesa di Cristo, Verbo Incarnato  e Capo del Corpo Mistico, sempre presente per essere l’unico Maestro, Sacerdote e Re per ogni generazione, fino alla fine dei tempi (si vedano il classico trattato teologico del cardinale Charles Journet, L’Eglise du Verbe Incarné, Desclée, Paris-Bruges 1962, e  il recentissimo saggio del Prefetto della Congregazione della Fede, il cardinale Gerhrard Ludwig Müller, intitolato Der Papst – Sendung und Auftrag, Herder Verlag, Frankfurt 2017).
Non serve a niente parlare di una “Chiesa del popolo”, immaginata secondo gli schemi  ideologici della sudamericana “teologia del pueblo”, dove è “la base”, “coscientizzata” dagli intellettuali organici (i teologi), quella che decide quale dottrina e quale prassi rispondono alle necessità politiche di quel momento storico e il Papa non è più l’interprete infallibile della verità rivelata e l’amministratore dei misteri salvifici ma l’interprete della volontà popolare e l’amministratore della rivoluzione permanente. Sono le aberrazioni pseudo-teologiche che si ritrovano già nella Teologia de la revolución del peruviano Gustavo Gutiérrez e che traggono origine dalla «nuova teologia politica» del tedesco Johann Baptist Metz. Il venezuelano padre Sosa, da sempre legato a questa corrente ideologica, ripropone oggi, nell’intento di sostenere servilmente le presunte intenzioni rivoluzionarie di papa Bergoglio, teorie che già quarant’anni fa, sotto papa Wojtyla, sono state condannate dal Magistero come contrarie al dogma ecclesiologico.
Nemmeno serve l’alibi pseudo-teologico di una nova e “aggiornata” interpretazione della Scrittura, capace di contraddire perfino le «ipsissima verba Christi» e capace poi di squalificare come “fondamentalisti” quanti nella Chiesa (non solo i teologi come Carlo Caffarra ma anche i Papi come san Giovanni Paolo II) stanno al significato ovvio e vincolante degli insegnamenti biblici. Questi sofismi possono far presa sull’opinione pubblica cattolica meno fornita di criteri di discernimento: ma sono stati già da tempo decostruiti e smentiti punto per punto dai documenti del Magistero recente e dalla critica teologica (vedi il mio trattato su Vera e falsa teologia, Leonardo da Vinci, Roma 2012).
Noi cattolici sappiamo di dover leggere l’Antico e il Nuovo Testamento alla luce della dottrina della Chiesa, perché è proprio della Chiesa che ci ha dato la Sacra Scrittura, garantendone l’ispirazione divina, ed è essa che ne fornisce l’interpretazione autentica, ogni qual volta un’interpretazione è necessaria per renderne comprensibile il messaggio salvifico agli uomini di un determinato contesto storico-culturale.
Noi cattolici, a differenza di Lutero e di tutti quei protestanti che ne hanno seguito la metodologia teologica (radicalmente eretica), non ci basiamo sull’illogico principio della «sola Scriptura» e del «libero esame», e non vediamo alcun motivo logico di opporre la Bibbia al Magistero e il Magistero alla Bibbia. Noi cattolici abbiamo motivo di credere, al di là di ogni ragionevole dubbio, all’autorità dottrinale della Chiesa che ci ha consegnato la Sacra Scrittura, assicurandoci del fatto che essa è veramente la «parola di Dio», in quanto Dio stesso ne è l’autore principale e gli agiografi, che hanno scritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ne sono gli autori secondari o strumentali.
Ciò significa, contro il relativismo professato da padre Sosa, che ciò che si legge nella Sacra Scrittura è assolutamente vero, è la verità dei misteri soprannaturali che Dio ci ha rivelato gradualmente, per mezzo dei profeti, e poi definitivamente nella persona stessa di Dio Figlio. Si deve tener sempre presente che i testi scritturistici, pur contenendo la rivelazione dei misteri soprannaturali, di per sé ineffabili, forniscono ai credenti quel tanto di conoscenza (analogica) del divino che permetta loro di trovare in Cristo «la via, la verità e la vita».
Per questo loro essenziale scopo salvifico i testi scritturistici non sono “aperti” a ogni possibile interpretazione, anche in contraddizione con  il loro significato testuale, che di norma è chiaro ed inequivocabile (lo stesso significato chiaro ed inequivocabile che hanno le formule dogmatiche che nei secoli la Chiesa è andata definendo). Non è vero quello che sosteneva alcuni decenni or sono il protestante svizzero Karl Jaspers, ossia che «nella Bibbia, dal punto di vista dottrinale, si può trovare tutto e il contrario di tutto».
Quando avviene che il significato testuale di un passo scritturistico sia suscettibile di diverse interpretazioni, è la Chiesa stessa che provvede a fornirne un’interpretazione “autentica”, ossia conforme all’insieme organico di tutta la dottrina rivelata (analogia fidei). Qualora poi la Chiesa non sia intervenuta a fornirne un’interpretazione “autentica”, i teologi sono liberi di proporre le loro personali ipotesi di interpretazione, tutte legittime purché compatibili con il dogma.
Il generale dei Gesuiti si riferisce irresponsabilmente a pericopi evangeliche, nelle quali è testualmente contenuta la dottrina rivelata sul matrimonio, dicendo che si tratta di parole di uomini (gli agiografi), trasmesse da altri uomini (gli Apostoli e i loro successori) e interpretata da altri uomini ancora (i teologi). Insomma, per lui non è mai la Parola di Dio! In un sol colpo padre Sosa riesce a rinnegare tutti i dogmi fondamentali della Chiesa cattolica, a cominciare da quello della divina ispirazione della Scrittura, da cui derivano le proprietà di “santità” e di “inerranza” degli insegnamenti biblici (richiamati da Pio XII nel 1943 con l’enciclica Divino afflante Spiritu e poi riproposto dal Vaticano II nel 1965 con la costituzione dogmatica Dei Verbum), per finire con quello dell’infallibilità del magistero ecclesiastico quando definisce formalmente le verità che Dio ha rivelato per la salvezza degli uomini (definito nel 1870 dal Vaticano I con la costituzione dogmatica Pastor Aeternus e riproposti anche dal Vaticano II con le costituzioni dogmatiche Lumen gentium e Dei Verbum).
Riducendo la Scrittura a «espressione della coscienza della comunità credente di altri tempi», a padre Sosa sembra logico di dover sostenere la necessità di una nuova interpretazione del messaggio biblico alla luce della «espressione della coscienza della comunità credente» di oggi. Ma questo è logico solo se si professa l’«anarchia ermeneutica», quella che ha portato un teologo luterano come Rudolf Bultmann a proporre la «de-mitologizzazione» del Nuovo Testamento. Invece, per la fede cattolica (che fino a prova contraria dovrebbe essere quella del generale dei Gesuiti), è del tutto illogico suppore che la Scrittura non insegni sempre e soprattutto delle verità divine indispensabili per la salvezza degli uomini di ogni luogo e di ogni tempo. Solo chi accetta in toto l’eresia luterana può supporre che non esista quello che io chiamo il «limite ermeneutico invalicabile», ossia l’individuazione (immediata, accessibile a tutti) di un ben preciso contenuto dottrinale, che nessuna interpretazione può negare o mettere in ombra. Questo è il caso, per l’appunto, della dottrina evangelica sul matrimonio e l’adulterio.
Capisco (anche se la depreco) l’intenzione di padre Sosa di sostenere la (presunta) rivoluzione pastorale di papa Bergoglio relativizzando il dogma, per poter contraddire nella prassi quanto la Chiesa ha stabilito ormai definitivamente con la dottrina sui sacramenti del Matrimonio, della Penitenza e dell’Eucaristia. Ma ragioniamo: eliminando il dogma, su quale base si dovrebbe dar ascolto a un Papa, il quale – secondo l’interpretazione ufficiosa di Sosa e di tanti altri teologi ossequiosi – ha messo il dogma da parte?
Se non è assolutamente (non relativamente) vero – oggi come ieri e come domani – che Cristo ha dato al Papa la suprema potestà nella Chiesa, per quale motivo dovemmo ascoltarlo e obbedirgli? E noi sappiamo proprio dalla Sacra Scrittura (sulla quale si basano i dogmi enunciati dal Magistero, dai primi secoli fino al Vaticano I) che Cristo ha dato al Papa la suprema potestà nella Chiesa; ora, se si applicasse a questa volontà espressa di Cristo il criterio relativista di Sosa, allora ci sarebbero cattolici che venerano e rispettano il Papa e altri che lo ignorano o lo combattono. Gli uni e gli altri per motivi non teologici, ma ideologici, cioè politici. Fedeli a papa Bergoglio sarebbero solo quelli che lo seguono come si segue in politica un leader “carismatico” e non si tratterebbe certamente del carisma divino dell’infallibilità nella dottrina, ma del carisma umano del capopopolo che con le sue parole e i sui gesti ottiene consenso nelle masse.