Gli angeli della ‘dolce morte’
Si aggirano per la città di Amsterdam pronti a dispensare morte su richiesta. Si tratta di unità sanitarie mobili composte da medici e infermieri – tutti volontari – disposti a praticare l’eutanasia a domicilio. La controversa iniziativa denominata Levenseinde (Fine Vita) è stata introdotta in Olanda dalla NVVE, Nederlandse Vereniging voor een Vrijwillig Levenseinde, che tradotto significa associazione per una volontaria fine della vita, sodalizio che con i suoi 165.000 membri e 150 volontari vanta il macabro primato di organizzazione eutanasica più grande del mondo.
Questi angeli della dolce morte intervengono quando i medici di famiglia non sono in grado o si rifiutano di applicare l’eutanasia ai propri pazienti. Basta una telefonata o una email, ed entro quarantotto ore parte il servizio a domicilio. Con questo sistema, peraltro, si è provveduto ad aggirare “l’ostacolo” derivante dall’obiezione di coscienza. Pur essendo, infatti, la legislazione olandese in materia di eutanasia una delle più liberali al mondo (i Paesi Bassi sono stati la prima nazione a legalizzarla nel 2002), i medici possono comunque rifiutarsi di praticare la dolce morte, per motivi di carattere etico, filosofico o religioso.
Walburg de Jong, portavoce del NVVE, spiega come viene fornito il servizio: prima si pratica una iniezione sedativa che induce il paziente ad un sonno profondo, e successivamente, attraverso una seconda iniezione letale, si arresta il battito cardiaco e la respirazione. Da quando sono operativi – ovvero dai primi di marzo – i volontari della morte hanno ricevuto una settantina di chiamate. Non si sa molto di queste unità mobili del NVVE, tranne il fatto che uno dei coordinatori è un medico sessantasettenne attualmente in pensione, che ha all’attivo della sua carriera una ventina di morti per eutanasia da lui personalmente praticata. Ogni anno in Olanda vengono effettuati tra i duemila e i tremila suicidi assistiti, anche se pare che le cifre siano molto superiori se si considerano i casi non registrati.
L’Ordine nazionale dei medici olandesi (KNMG), pur riconoscendo la legittimità dell’eutanasia, non è parso molto convinto dall’iniziativa della NVVE. Da un punto di vista deontologico, infatti, l’Ordine ricorda che l’eutanasia costituisce pur sempre «un procedimento complicato», e che i medici “volanti” «non possono avere il tempo di instaurare una relazione sufficientemente profonda con i loro pazienti in modo da valutare con equilibrio la loro richiesta». Inoltre, lo stesso Ordine nutre serie perplessità anche sul nome dell’iniziativa (Fine Vita), in quanto può indurre l’idea che il servizio non sia destinato esclusivamente ai malati terminali, ma anche a chi sia semplicemente «stanco di vivere».
Questa vicenda olandese del Levenseinde dimostra ancora una volta come la legittimazione dell’eutanasia rappresenti una slippery slope, un pericoloso piano inclinato che porta dritto verso la banalizzazione del momento terminale dell’esistenza umana. Del resto, nel 2009, lo ha riconosciuto, in un certo senso, persino la stessa dottoressa Els Borst, ex Ministro della Sanità e Vice Premier del governo olandese, considerata l’artefice della legislazione sull’eutanasia nei Paesi Bassi, che ha avuto il coraggio di una pubblica autocritica.
Dell’iniziativa introdotta dalla NVVE mi ha colpito un particolare. Ogni singola unità di medici e infermieri viene fatta intervenire solo una volta a settimana e non di più. Il motivo di questa scelta organizzativa risiede nell’esigenza di ridurre al minimo gli effetti psicologici sugli operatori. In fondo, anche se ammantato da buoni propositi e da motivazioni pietistiche, si tratta pur sempre di un omicidio.
Il macabro servizio a domicilio della NVVE rischia di diventare ancora più angosciante se si pensa che nel laicissimo Benelux ora l’eutanasia la si può somministrare anche per «insopportabili sofferenze psicologiche». Basta essere depressi e aver voglia di farla finita. Ho sempre in mente due episodi tristissimi e altamente sintomatici. Il primo è quello di Nancy Verhelst, una donna che dopo essersi sottoposta a un’operazione chirurgica per cambiare sesso, e divenuta Nathan per l’anagrafe, ha poi scoperto di non potersi accettare nella nuova veste di uomo, al punto di decidere di togliersi la vita attraverso l’eutanasia, motivata proprio da «insopportabili sofferenze psicologiche».
Il secondo caso è quello dei gemelli Marc and Eddy Verbessem, i quali hanno deciso di ricorrere all’eutanasia dopo aver scoperto di essere inesorabilmente destinati a diventare ciechi. Potremmo continuare, ma il punto è un altro. Lo ha centrato il professor Chris Gastmans, docente di etica medica all’Università di Lovanio: «Davvero – si è chiesto – l’eutanasia è l’unica risposta umana che sappiamo offrire in simili situazioni?». Di fronte a un’umanità così drammaticamente ferita, davvero la sola opzione che lo Stato è in grado di prospettare è quella di farla finita? La scorciatoia della morte di fronte alla sofferenza, in realtà, è una sconfitta per tutti. Sempre.
L’uomo, ricorda sant’Agostino, è immagine di Dio anche quando si trova «nell’abisso di questo mondo, sbattuto dai continui marosi». Ma senza quel Dio che «ha scolpito l’immagine nell’uomo al momento della creazione, esso rimarrà per sempre nell’abisso». Sant’Agostino già nel IV secolo dopo Cristo aveva avuto parole chiare sull’eutanasia. Lo dimostra l’attualissimo giudizio lasciatoci nella sua Epistula 204: «Non è mai lecito uccidere un altro, anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l’anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere».
È vero che per mostrare l’inaccettabilità dell’eutanasia è più che sufficiente ricorrere alla ragione, ma di fronte a casi come quelli che affiorano dal Belgio (e ora drammaticamente anche in Olanda e Francia) occorre andare alle fonti della nostra civiltà europea. E qui la realtà appare in tutta la sua evidenza. Ogni tentativo volto a eliminare Dio dall’orizzonte culturale corrisponde a un drammatico imbarbarimento.
Non si può davvero considerare progresso il fatto che l’uomo arrivi a privarsi di una dimensione trascendente e accetti di ridursi a “res”, a mero materiale biologico. L’Europa che decide di disconoscere le proprie radici cristiane è un’Europa rassegnata alla disperazione dello scetticismo nichilista di chi non è più in grado di dare un senso alla propria vita e che arriva a trovare nella morte una facile via di fuga. Una via che insieme al corpo uccide la speranza. Si torna a Seneca, il principe dello stoicismo, quello che nelle lettere a Lucilio, dopo aver precisato che «c’è un solo modo per entrare nella vita, ma molte possibilità di uscirne», si domandava: «Perché dovrei aspettare la crudeltà di una malattia o di un uomo, quando posso andarmene sfuggendo ai tormenti e alle avversità?».
Si vuole tornare all’ideale dell’antico precettore di Nerone, per cui «si sceglie la morte come si sceglie la nave quando ci si accinge a un viaggio, o si sceglie una casa quando si intende prendere una residenza». Si vuole fare un salto indietro di duemila anni, come se venti secoli di cristianesimo fossero passati invano. Un salto nel tempo che rischia di diventare un salto nell’abisso.
Questi angeli della dolce morte intervengono quando i medici di famiglia non sono in grado o si rifiutano di applicare l’eutanasia ai propri pazienti. Basta una telefonata o una email, ed entro quarantotto ore parte il servizio a domicilio. Con questo sistema, peraltro, si è provveduto ad aggirare “l’ostacolo” derivante dall’obiezione di coscienza. Pur essendo, infatti, la legislazione olandese in materia di eutanasia una delle più liberali al mondo (i Paesi Bassi sono stati la prima nazione a legalizzarla nel 2002), i medici possono comunque rifiutarsi di praticare la dolce morte, per motivi di carattere etico, filosofico o religioso.
Walburg de Jong, portavoce del NVVE, spiega come viene fornito il servizio: prima si pratica una iniezione sedativa che induce il paziente ad un sonno profondo, e successivamente, attraverso una seconda iniezione letale, si arresta il battito cardiaco e la respirazione. Da quando sono operativi – ovvero dai primi di marzo – i volontari della morte hanno ricevuto una settantina di chiamate. Non si sa molto di queste unità mobili del NVVE, tranne il fatto che uno dei coordinatori è un medico sessantasettenne attualmente in pensione, che ha all’attivo della sua carriera una ventina di morti per eutanasia da lui personalmente praticata. Ogni anno in Olanda vengono effettuati tra i duemila e i tremila suicidi assistiti, anche se pare che le cifre siano molto superiori se si considerano i casi non registrati.
L’Ordine nazionale dei medici olandesi (KNMG), pur riconoscendo la legittimità dell’eutanasia, non è parso molto convinto dall’iniziativa della NVVE. Da un punto di vista deontologico, infatti, l’Ordine ricorda che l’eutanasia costituisce pur sempre «un procedimento complicato», e che i medici “volanti” «non possono avere il tempo di instaurare una relazione sufficientemente profonda con i loro pazienti in modo da valutare con equilibrio la loro richiesta». Inoltre, lo stesso Ordine nutre serie perplessità anche sul nome dell’iniziativa (Fine Vita), in quanto può indurre l’idea che il servizio non sia destinato esclusivamente ai malati terminali, ma anche a chi sia semplicemente «stanco di vivere».
Questa vicenda olandese del Levenseinde dimostra ancora una volta come la legittimazione dell’eutanasia rappresenti una slippery slope, un pericoloso piano inclinato che porta dritto verso la banalizzazione del momento terminale dell’esistenza umana. Del resto, nel 2009, lo ha riconosciuto, in un certo senso, persino la stessa dottoressa Els Borst, ex Ministro della Sanità e Vice Premier del governo olandese, considerata l’artefice della legislazione sull’eutanasia nei Paesi Bassi, che ha avuto il coraggio di una pubblica autocritica.
Dell’iniziativa introdotta dalla NVVE mi ha colpito un particolare. Ogni singola unità di medici e infermieri viene fatta intervenire solo una volta a settimana e non di più. Il motivo di questa scelta organizzativa risiede nell’esigenza di ridurre al minimo gli effetti psicologici sugli operatori. In fondo, anche se ammantato da buoni propositi e da motivazioni pietistiche, si tratta pur sempre di un omicidio.
Il macabro servizio a domicilio della NVVE rischia di diventare ancora più angosciante se si pensa che nel laicissimo Benelux ora l’eutanasia la si può somministrare anche per «insopportabili sofferenze psicologiche». Basta essere depressi e aver voglia di farla finita. Ho sempre in mente due episodi tristissimi e altamente sintomatici. Il primo è quello di Nancy Verhelst, una donna che dopo essersi sottoposta a un’operazione chirurgica per cambiare sesso, e divenuta Nathan per l’anagrafe, ha poi scoperto di non potersi accettare nella nuova veste di uomo, al punto di decidere di togliersi la vita attraverso l’eutanasia, motivata proprio da «insopportabili sofferenze psicologiche».
Il secondo caso è quello dei gemelli Marc and Eddy Verbessem, i quali hanno deciso di ricorrere all’eutanasia dopo aver scoperto di essere inesorabilmente destinati a diventare ciechi. Potremmo continuare, ma il punto è un altro. Lo ha centrato il professor Chris Gastmans, docente di etica medica all’Università di Lovanio: «Davvero – si è chiesto – l’eutanasia è l’unica risposta umana che sappiamo offrire in simili situazioni?». Di fronte a un’umanità così drammaticamente ferita, davvero la sola opzione che lo Stato è in grado di prospettare è quella di farla finita? La scorciatoia della morte di fronte alla sofferenza, in realtà, è una sconfitta per tutti. Sempre.
L’uomo, ricorda sant’Agostino, è immagine di Dio anche quando si trova «nell’abisso di questo mondo, sbattuto dai continui marosi». Ma senza quel Dio che «ha scolpito l’immagine nell’uomo al momento della creazione, esso rimarrà per sempre nell’abisso». Sant’Agostino già nel IV secolo dopo Cristo aveva avuto parole chiare sull’eutanasia. Lo dimostra l’attualissimo giudizio lasciatoci nella sua Epistula 204: «Non è mai lecito uccidere un altro, anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l’anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere».
È vero che per mostrare l’inaccettabilità dell’eutanasia è più che sufficiente ricorrere alla ragione, ma di fronte a casi come quelli che affiorano dal Belgio (e ora drammaticamente anche in Olanda e Francia) occorre andare alle fonti della nostra civiltà europea. E qui la realtà appare in tutta la sua evidenza. Ogni tentativo volto a eliminare Dio dall’orizzonte culturale corrisponde a un drammatico imbarbarimento.
Non si può davvero considerare progresso il fatto che l’uomo arrivi a privarsi di una dimensione trascendente e accetti di ridursi a “res”, a mero materiale biologico. L’Europa che decide di disconoscere le proprie radici cristiane è un’Europa rassegnata alla disperazione dello scetticismo nichilista di chi non è più in grado di dare un senso alla propria vita e che arriva a trovare nella morte una facile via di fuga. Una via che insieme al corpo uccide la speranza. Si torna a Seneca, il principe dello stoicismo, quello che nelle lettere a Lucilio, dopo aver precisato che «c’è un solo modo per entrare nella vita, ma molte possibilità di uscirne», si domandava: «Perché dovrei aspettare la crudeltà di una malattia o di un uomo, quando posso andarmene sfuggendo ai tormenti e alle avversità?».
Si vuole tornare all’ideale dell’antico precettore di Nerone, per cui «si sceglie la morte come si sceglie la nave quando ci si accinge a un viaggio, o si sceglie una casa quando si intende prendere una residenza». Si vuole fare un salto indietro di duemila anni, come se venti secoli di cristianesimo fossero passati invano. Un salto nel tempo che rischia di diventare un salto nell’abisso.
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