Unico era il nutrimento più sacro: tale  pure il destino che ne discendeva nelle vicende concrete della storia di  un popolo. Questo convergere nella solidarietà del medesimo cibo più  che materialmente terrestre trovava il suo culmine nella festa del  Corpus Domini, dieci giorni dopo la Pentecoste, all'indomani della  chiusura del grande ciclo pasquale. E il vertice della festa era la  processione che mobilitava la comunità urbana fino alle sue più minute  ramificazioni interne. Nella scia dell'ostia portata in trionfo dai  sacerdoti lussuosamente addobbati, il corteo religioso era il gesto  corale a cui in pratica nessuno pensava di potersi sottrarre.
La città come tale si metteva in mostra  facendo camminare insieme lungo le strade trasformate nel 
teatro sontuoso di un giardino fiorito: nello scenario del rito, squadernava davanti a sé stessa la coscienza degli ideali più alti a cui legava la sua pur sempre precaria esistenza. La processione era un tripudio gioioso spinto al massimo grado compatibile con la pretesa di verità della fede proclamata: musica continua, luci, colori, stendardi e croci innalzati, masse di uomini in movimento, una preghiera coinvolgente, dagli accenti solenni, sempre sopra le righe, robusta e potente come il sole dell'estate che cominciava a scaldare i quartieri della città e le campagne brulicanti di contadini indaffarati nel loro penoso lavoro. L'intensità delle cerimonie si scioglieva poi nel folklore dei banchetti e delle bevute auguranti, nella convivialità esuberante, nei giochi e negli spettacoli di contorno, nelle rappresentazioni a sfondo più o meno edificante che invadevano le piazze. Era stato così nelle terre tedesche dell'ultimo Medioevo, prima che le investisse l'ondata rigorista della Riforma protestante. Così continuò a essere, fino al Seicento e ancora oltre, nell'Italia del papismo cattolico tanto quanto nella Spagna allenata a gustare gli autos sacramentales portati a perfezione da Calderón de la Barca.
teatro sontuoso di un giardino fiorito: nello scenario del rito, squadernava davanti a sé stessa la coscienza degli ideali più alti a cui legava la sua pur sempre precaria esistenza. La processione era un tripudio gioioso spinto al massimo grado compatibile con la pretesa di verità della fede proclamata: musica continua, luci, colori, stendardi e croci innalzati, masse di uomini in movimento, una preghiera coinvolgente, dagli accenti solenni, sempre sopra le righe, robusta e potente come il sole dell'estate che cominciava a scaldare i quartieri della città e le campagne brulicanti di contadini indaffarati nel loro penoso lavoro. L'intensità delle cerimonie si scioglieva poi nel folklore dei banchetti e delle bevute auguranti, nella convivialità esuberante, nei giochi e negli spettacoli di contorno, nelle rappresentazioni a sfondo più o meno edificante che invadevano le piazze. Era stato così nelle terre tedesche dell'ultimo Medioevo, prima che le investisse l'ondata rigorista della Riforma protestante. Così continuò a essere, fino al Seicento e ancora oltre, nell'Italia del papismo cattolico tanto quanto nella Spagna allenata a gustare gli autos sacramentales portati a perfezione da Calderón de la Barca.
Da allora, le cose sono enormemente  cambiate. Ma spesso ci dimentichiamo che anche questa florida tradizione  collettiva edificata sopra il fondamento del sacramento eucaristico,  oggi quasi dovunque evaporata e in larga parte dissolta, è stata a sua  volta il frutto di un processo di sviluppo che si è disegnato nel tempo.  Se ne possono certamente registrare una nascita antica e una lenta  incubazione. Ma questa forma essenziale di pietà è arrivata a piena  maturazione, con tutta la sua architettura di simboli e di richiami,  solo nel corso del XIII secolo, quando presero a moltiplicarsi i  miracoli eucaristici e nel calendario liturgico fu introdotta, a livello  universale con papa Urbano IV, nel 1264, la festa solenne del  Santissimo Corpo di Cristo. 
 
 
Nessun commento:
Posta un commento